Scambio dati anche sulle attività finanziarie in trust

17 Gennaio 2017

Il Sole 24 Ore 31 Dicembre 2016 di Marco Piazza

Fisco internazionale. Analisi del gruppo di studio dell’Ordine dei commercialisti di Milano sugli obblighi di reportistica

Il ruolo dei trust nello scambio automatico di informazioni è un tema dal quale non si può ormai più prescindere per verificare la tenuta delle strutture estere di cui direttamente o indirettamente siano detentori persone fisiche residenti in Italia.
Da un comunicato stampa dell’Ocse del 22 dicembre risulta che 110 giurisdizioni hanno dato disponibilità ad aderire alla procedura di Common reporting standard; che entro marzo del 2017 saranno stipulati 1.459 accordi bilaterali che prevedono lo scambio entro settembre del 2017, con riferimento a dati relativi al 2016 (di questi 1.133 sono già stati stipulati); e che entro questa data dovrebbero essere anche perfezionati gli accordi bilaterali con gli Stati che si sono impegnati a scambiare le informazioni dal 2018 per il 2017.
Anche le informazioni sulle attività finanziarie detenute in trust saranno oggetto di scambio. I titolari effettivi residenti in Italia devono quindi dare per scontato che presto non potranno più confidare sull’anonimato e quindi devono chiedersi se il trust sia o meno interposto, se sia effettivamente residente all’estero e se l’interessato stia o meno applicando correttamente le disposizioni italiane sulla compilazione del quadro RW (che impongono ai titolari effettivi di indicare le attività detenute all’estero per mezzo di trust (approccio look through).
È quindi particolarmente tempestiva e utile l’analisi compiuta dal Gruppo di studio trust e common reporting standard presso l’Ordine dei dottori commercialisti di Milano (estensori Paolo Ludovici, Marco Salvatore, Andrea Tavecchio, Stefania Tomasini) sugli obblighi di reportistica dei trust e dei trustee secondo le linee guida Ocse sul Crs.
Il trust può essere coinvolto nella proceduradi scambio:
sia come «istituzione finanziaria», direttamente soggetta agli obblighi di reportistica;
sia come «entità non finanziaria passiva»; in questo caso le attività finanziarie del trust depositate, amministrate o gestite da altre istituzioni finanziarie sono oggetto di comunicazione da parte di queste ultime.
In entrambi i casi, la comunicazione è trasmessa allo Stato di residenza dei soggetti che siano i disponenti, i protettori, i trustee, i beneficiari e gli altri soggetti che esercitano un controllo effettivo sul trust. Si considerano sempre beneficiari i soggetti che hanno diritto di ricevere una distribuzione obbligatoria; i beneficiari che hanno diritto di ricevere una distribuzione discrezionale sono “comunicati” solo nell’anno in cui la distribuzione viene effettuata o è effettuabile nel caso in cui il trust sia una istituzione finanziaria, mentre nel caso in cui il trust sia una entità non finanziaria passiva solo qualora la legislazione domestica del segnalante abbia esercitato una specifica opzione.
Sebbene i soggetti da segnalare in entrambe i casi coincidano sostanzialmente, la qualificazione del trust come istituzione finanziaria o come entità non finanziaria passiva incide sulle informazioni che verranno comunicate, come evidenziato nelle tabelle riepilogative dello studio.
Il trust è un’«istituzione finanziaria» quando, congiuntamente:
il reddito del trust è prevalentemente attribuibile ad attività finanziarie, nei tre anni precedenti;
gli attivi del trust sono gestiti da una istituzione finanziaria (a questo proposito è il caso di ricordare che l’elenco delle istituzioni finanziarie è stabilito dalla legislazione attuativa di ciascun Paese e quindi può comprendere anche soggetti diversi dagli intermediari finanziari tipici, come le banche e le le società di investimento; per esempio, la legislazione di Singapore considera istituzione finanziaria qualsiasi trust company autorizzata).
Il trust è invece una «entità non finanziaria passiva» quando:
il suo reddito sia costituito per almeno il 50% da «passive income» (dividendi, interessi, affitti, canoni, plusvalenze derivanti da attività «passive») e
le attività detenute al termine dell’anno solare o di rendicontazione precedente sia costituito per almeno il 50% da attività «passive».
I cosiddetti «trust holding» non sono considerati entità non finanziarie passive quando detengono essenzialmente società controllate impegnate nell’esercizio di un’attività economica o commerciale a cui forniscono finanziamenti e servizi, salvo che non si tratti di veicoli di investimento la cui finalità sia di acquisire o finanziare società detenute come capitale fisso ai fini di investimento (un concetto che pare simile a quello di holding “passiva”, di mera detenzione di partecipazioni).

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Corte di San Marino: lecito violare il segreto

17 Gennaio 2017

Il Sole 24 Ore 7 Dicembre 2016 di Alessandro Galimberti.

Evasione internazionale. I giudici respingono la domanda di risarcimento di un investitore italiano «costretto» allo scudo 2009

Violare il segreto bancario per collaborare con l’autorità giudiziaria straniera non è un illecito né sotto il profilo della privacy e neppure sotto l’aspetto del danno patrimoniale provocato al cliente, “costretto” ad aderire alla sanatoria fiscale.
Lo ha deciso – e in parte è questa la notizia – la Corte per il Trust e i rapporti fiduciari della Serenissima Repubblica di San Marino – causa 2/2014 – dando pienamente torto a un investitore italiano che aveva citato davanti alla corte specializzata del Titano (presidente Maurizio Lupoi, giudice Antonio Gambaro) una fiduciaria e la banca italiana utilizzate per l’operazione. Operazione iniziata nel 2005 con il conferimento di “doppio mandato” (alla fiduciaria sanmarinese e a una fiduciaria italiana: scopo, bloccare l’identificazione del titolare effettivo dello spostamento di denaro tra i due Paesi) per il rimpatrio di 2,5 milioni di euro sul conto di una Cassa di risparmio emiliana, operazione conclusa, tra l’altro, con l’applicazione di una commissione del 20 per cento.
Tre anni dopo, il (mancato) contribuente italiano dedice di ritornare sotto la giurisdizione (e le banche) del Titano, proprio alla vigilia di un’indagine della magistratura italiana a carico delle fiduciarie del doppio mandato, Amphora in Italia, Smi a San Marino. A quel punto, e viste anche le notizie di stampa. il cliente decide di aderire in patria allo Scudo fiscale del 2009, proprio mentre l’autorità giudiziaria sanmarinese accoglie la richiesta di rogatoria della Procura della Repubblica di Roma – che indagava all’epoca per le ipotesi di riciclaggio, esercizio abusivo di servizi di investimento e appropriazione indebita. Tra i nomi trasmessi in Italia provenienti dalla banca dati della Sim sanmarinese, si scoprirà, figurava anche quello dell’investitore che poi la citò, proprio per questo, a giudizio.
Secondo la Corte dei Trust, però, l’investitore non ha alcun diritto di contestare la condotta della Smi sotto il profilo della tutela della riservatezza: non solo perché la fiduciaria era tenuta a collaborare con le autorità italiane (e prima ancora con la giustizia della Serenissima Repubblica), in secondo luogo perché i rischi sulla privacy riguardavano «solo coloro che avessero intrattenuto con Smi rapporti da non rendere noti al di là delle ordinarie esigenze di riservatezza, per esempio per aver tenuto all’estero disponibilità finanziarie non dichiarate». Men che meno, scrive infine la Corte dei Trust, si può contestare alla Smi una mancanza di diligenza per non aver eccepito un vizio procedurale della rogatoria che non poteva conoscere, e che anche se avesse conosciuto non può certo essere individuato come “causa” dello Scudo del cliente.

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