Legge 21 Dicembre 2017 nr 147 Bilancio di Previsione dello Stato e degli Enti Pubblici per l’esercizio finanziario 2018 e bilanci pluriennali 2018/2020

16 Gennaio 2018

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Il Fisco estero prevale sulle presunzioni italiane

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 12 Dicembre 2017 di Massimo Romeo

Ctp di Milano. Se le informazioni fornite scagionano il contribuente

Le informazioni fornite dall’autorità fiscale straniera prevalgono sulle presunzioni del fisco italiano. L’intento elusivo deve essere provato in capo al contribuente accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi, tanto più laddove, nell’ambito dello scambio automatico di informazioni, l’autorità fiscale straniera abbia dichiarato il soggetto quale beneficiaria effettiva delle operazioni. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp di Milano 67292017 (presidente e relatore Ortolani).
Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici riguarda l’impugnazione da parte di una Spa di un avviso di accertamento per omesso versamento di ritenute su interessi corrisposti alla consociata (società veicolo), intermediaria di pagamenti aventi quali beneficiari effettivi soggetti domiciliati in Paesi black list e pertanto senza diritto all’esenzione da ritenuta prevista dal trattato contro le doppie imposizioni. La ricorrente, fra i vari motivi opposti, ha eccepito la mancata allegazione di documenti richiamati dal fisco nella motivazione dell’atto impositivo, l’infondatezza dell’avviso per aver dimostrato l’esistenza dei presupposti richiesti, nonché la mancata prova che non fosse beneficiaria effettiva.
L’ufficio ha difeso l’atto emesso focalizzando l’attenzione sulla società percipiente, qualificandola quale soggetto strumentale interposto per veicolare gli interessi corrisposti verso gli effettivi beneficiari residenti in Paesi a tassazione privilegiata o esente. La condotta elusiva è stata rilevata guardando sia ai flussi finanziari di raccolta e impiego tra loro correlati nel tempo e nelle dimensioni quanto alla provenienza, sia all’erogazione alla ricorrente quale beneficiaria dei finanziamenti, nonché per l’assenza di struttura e mezzi propri idonei in capo alla consociata tali da giustificare in via autonoma tale attività finanziaria.
Il collegio lombardo da un lato riconosce che l’attività di contrasto all’elusione è un principio immanente nelle leggi e nei trattati comunitari, per cui non è necessario che tale principio trovi una specifica ricezione nell’ordinamento interno; dall’altro che l’intento elusivo deve essere provato in capo al soggetto accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi.
Sulla base di questi principi i giudici milanesi risolvono la controversia a favore della parte privata in tema dell’onere della prova. In sostanza, avendo il fisco italiano richiesto e ricevuto dall’autorità straniera informazioni circa la reale attività finanziaria con raccolta di fondi e impieghi svolta dalla consociata, e avendo chiarito che la società ungherese era il beneficiario effettivo delle attività di finanziamento italiano, sarebbe spettato all’ufficio fornire elementi diversi e ulteriori rispetto a quanto richiesto e risultante dalle indagini , in forma ufficiale e formale, svolte e comunicate dall’autorità fiscale estera.

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Web tax all’italiana con una platea ampia

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 13 Dicembre 2017 di Marco Mobili e Marco Rogari

Il fronte interno. Il principio della stabile organizzazione è il cardine della norma in legge di Bilancio

Roma
La territorializzazione di Facebook ai fini fiscali non spiazza la nuova web tax spinta dal Parlamento italiano con la legge di Bilancio. Proprio il principio della stabile organizzazione è il cardine dell’emendamento “Mucchetti” che è stato approvato al Senato e che ora la Camera punta a rendere ancora più efficace.
Stabile organizzazione che nel testo licenziato da Palazzo Madama è in linea con quanto deciderà l’Ocse e con il progetto Beps che ha visto tra i suoi promotori proprio l’amministrazione finanziaria e il governo italiano. Già la scorsa primavera, poi, il Parlamento aveva introdotto nella manovrina correttiva una sorta di web tax transitoria che poggiava tutta sul riconoscimento per opzione della stabile organizzazione in Italia. Era però il momento in cui la procura di Milano aveva acceso i riflettori sui big della digital economy come Google, Apple e Amazon. Per Sergio Boccadutri (Pd) è «corretto affrontare la questione sotto il profilo della stabile organizzazione, diversamente ogni formula di digital tax che discrimini tra on line e off line ha il solo effetto di penalizzare utenti e imprese».
Con l’emendamento che la maggioranza, e in particolare il relatore della legge di Bilancio e presidente della Commissione, Francesco Boccia (Pd), potrebbe depositare nelle prossime ore alla Camera, è da rivedere soprattutto la platea dei soggetti che, privi di una territorializzazione nel nostro Paese, saranno chiamati comunque a versare nelle casse dell’Erario italiano la cedolare 6% sui ricavi. L’obiettivo dichiarato è quello di estendere la web tax made in Italy a tutte le prestazioni: da quelle di servizi alle cessioni di beni, e-commerce incluso. Un ampliamento della base imponibile che potrebbe far lievitare gli incassi per lo Stato anche tagliando drasticamente l’aliquota del prelievo. Dalle simulazioni effettuate su una estensione anche alle transazioni di beni e all’e-commerce, una web tax all’1% garantirebbe oltre 600 milioni di euro contro i 114 milioni stimati dalla Ragioneria con l’attuale versione di web tax uscita dal Senato.
L’estensione all’e-commerce, inoltre, sarebbe in linea con le nuove regole su cui i 27 Paesi dell’Europa sarebbero pronti a sottoscrivere un’intesa in materia di Iva e del suo adeguamento alle evoluzioni del commercio elettronico, così come sull’estensione dell’utilizzo dello sportello unico e sull’esonero mirato per start-up e micro-imprese. Il tutto secondo un filo conduttore: tagliare gli spazi di elusione e le frodi.
Il vero nodo da sciogliere resta la decorrenza della nuova web tax. Il Senato ha fissato la data di decollo dal 1° gennaio 2019. Boccia dal canto suo non ha mai nascosto di voler anticipare il debutto della cedolare sul web quanto meno a partire dal secondo semestre del 2018. Il Governo dal canto suo, però, frena e non solo per adeguare e organizzare la macchina amministrativa chiamata a gestire un’imposta su centinaia di milioni di transazioni, ma anche perché tra indicazioni Ocse e decisione dell’Europa la data di partenza dovrebbe essere fissata al 2020. Un anno di anticipo è ritenuto più che sufficiente .

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La Svizzera rilancia il segreto bancario

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 14 Dicembre 2017 di Alessandro Galimberti

Un filtro alle richieste di dati – Sono 37 i Paesi che possono ancora opporre un veto totale

Milano. Non sarà ancora un vento di restaurazione, ma il raffreddamento di sensibilità sulla trasparenza fiscale internazionale – mantra degli ultimi 5 anni – è ormai un dato di fatto difficile da ignorare.
Dopo l’allerta dell’Ocse, che nel suo Implementation report di novembre segnalava il ritardo di decine di Paesi nell’adeguamento agli standard per il futuro scambio di informazioni (si veda il Sole 24 Ore del 6 dicembre scorso), ora la cronaca porta dritto in Svizzera. Domani il plenum dei due rami del Parlamento di Berna voterà un’interpretazione molto restrittiva del rilascio delle informazioni riguardanti cittadini stranieri con conti e investimenti nei suoi istituti finanziari, tornando in sostanza a rilanciare lo storico brand di cassaforte alpina di “segreti&riservatezza”. Le banche e gli altri intermediari dovranno avvisare in anticipo i correntisti/risparmiatori/investitori stranieri circa i dati che si accingono a inviare automaticamente alle loro autorità fiscali. Non a caso avvocati e professionisti stanno già mettendo a punto la strategia di rallentamento per via giudiziaria (ricorsi e opposizioni) del rilascio delle info, soprattutto in direzione Sud.
L’inversione di orientamento sul tema “trasparenza” non è comunque un’esclusiva d’oltralpe. Come si vede nella cartina mappamondo pubblicata a lato, dall’incrocio dei 148 Paesi che hanno siglato accordi multilaterali o bilaterali per lo scambio di informazioni fiscali, ben più della metà (90) mantengono una forma più o meno intensa di segreto bancario, e 37 di questi addirittura conservano il totale segreto bancario. Ancora più esplicita la posizione di altri 22 Paesi che non hanno siglato alcun tipo di accordo per lo scambio di informazioni fiscali.
Questa fotografia spiega meglio di ogni altra considerazione l’ultimo rapporto dell’Ocse (Implementation report on automatic exchange of information) secondo cui tra l’essere compliant nella legislazione e l’attivare gli scambi con le altre giurisdizioni c’è un saltum non da poco. L’atteggiamento temporeggiante è variegato, tra Paesi che non stanno raccogliendo i dati che poi dovrebbero trasmettere ai 100 e più partner «in quanto non interessati a ricevere informazioni», e altre giurisdizioni che stanno impiegando «tempi eccessivamente lunghi per mettere in opera le basi legali per il funzionamento dello scambio automatico e per gli accordi multilaterali» necessari a far “scorrere” le informazioni. Il 15 % della platea degli Stati, narra il rapporto, non ha neppure terminato l’allineamento con la legislazione internazionale, tra questi un buon numero dei paesi del Golfo (a cominciare da Quatar, Emirati, Kuwait, Brunei) e la Turchia che per varie ragioni non hanno ancora ratificato la Convenzione per lo scambio automatico. Altri paesi caraibici e “oceanici” sono ancora più indietro nei processi di risalita verso l’emersione, tanto che il Report conclude che «un certo numero di giurisdizioni ha mancato pietre miliari» sul percorso e ora ha timeline sfidanti, per usare un eufemismo.
Intanto però l’Europa, molto attiva in queste settimane sul piano del rilancio della fiscalità, ha approvato ieri le raccomandazioni sui reati fiscali. Si tratta di misure ispirate dai 211 suggerimenti formulati dalla Commissione speciale d’inchiesta del Parlamento europeo sul riciclaggio di denaro, l’elusione fiscale e l’evasione fiscale, che i deputati hanno approvato con 492 voti in favore, 50 contrari e 136 astensioni. Tra i piani d’azione spicca la creazione di registri pubblici dei titolari effettivi delle aziende, le sanzioni contro gli intermediari che favoriscono la pianificazione fiscale aggressiva e la richiesta di costituire una commissione permanente per indagare sulla fiscalità.

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L’ufficio non può sindacare l’utilità delle sponsorizzazioni

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 18 Dicembre 2017 di Saverio Cinieri

Terzo settore. La deduzione delle somme versate allo sport dilettantistico

Sono sempre inerenti le spese di sponsorizzazione a favore di associazioni sportive dilettantistiche che svolgono attività riconosciute dalle federazioni sportive nazionali, se è rispettato il limite di spesa annuo di 200mila euro e se l’attività promozionale è svolta realmente. Si tratta di costi inerenti per presunzione legale assoluta. Ad affermare il principio è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 310/2/2017 depositata il 5 dicembre 2017 (presidente e relatore Montanari).
Il ricorso traeva origine da due avvisi di accertamento ai fini Ires, Irap e Iva emessi dalle Entrate per il 2012 e 2013, con i quali era stata contestata a una società la deduzione dei costi relativi ai contratti di sponsorizzazione stipulati tra la stessa e due associazioni.
I contratti puntavano a divulgare il marchio e i prodotti della società durante lo svolgimento dei campionati giovanili di calcio. L’ufficio aveva ritenuto mancante – nel caso concreto – il requisito dell’inerenza poiché, mentre la clientela della società era di tipo internazionale e di “anzianità” anteriore alla stipula dei contratti, la sponsorizzazione era avvenuta in occasione di eventi (le partite di calcio) a carattere locale senza, quindi, alcun reale vantaggio economico.
Nel ricorso in Ctp, il contribuente, oltre a confermare che le associazioni erano entrambe iscritte al Coni e svolgevano attività nei settori giovanili riconosciuti dalle federazioni sportive nazionali (l’ufficio aveva erroneamente affermato la mancanza di tale requisito per una di esse), ribadiva che le spese rientravano nei limiti di 200mila euro l’anno e i soggetti sponsorizzati avevano effettivamente posto in essere l’attività promozionale. Inoltre, i corrispettivi pagati alle associazioni erano congrui con il volume d’affari e l’attività di sponsorizzazione aveva favorito l’entrata della società nei mercati locali.
La Ctp ha ritenuto fondato il ricorso. Seguendo il consolidato principio di diritto della Cassazione, il collegio ha rilevato che la norma in questione (articolo 90, comma 8, della legge 289/2002) ha introdotto una presunzione legale assoluta di qualificazione, nei limiti di 200mila euro, come spese di pubblicità (inerenti e, quindi, deducibili) di quelle volte alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante il corrispettivo (Cassazione, 7202/17 e 5720/16). La presunzione sussiste al verificarsi di quattro condizioni:
il soggetto sponsorizzato deve essere una associazione sportiva dilettantistica;
l’ammontare massimo di spesa annuale deve rispettare il limite di 200mila euro;
la sponsorizzazione deve promuovere l’immagine e i prodotti dello sponsor;
il soggetto sponsorizzato deve effettivamente porre in essere una specifica attività promozionale (ad esempio, apponendo il marchio sulle divise, esibendo striscioni in campo da gioco eccetera; Cassazione, 8981/17 e 7202/2017).
Tutte condizioni che ricorrono nel caso oggetto della controversia rendendolo, pertanto, meritevole di accoglimento.

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Verifica preventiva sugli acquisti da San Marino

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 19 Dicembre 2017 di Giampaolo Giuliani

L’applicazione. Il rappresentante fiscale deve indicare in fattura se l’operazione è soggetta a scissione dei pagamenti

L’allargamento della platea degli operatori soggetti alla procedura della scissione dei pagamenti (split payment) determina come naturale conseguenza un coinvolgimento di un maggiore numero di aziende; è dunque facilmente ipotizzabile che si presenterà agli operatori un vasto numero di casistiche a volte di difficile soluzione. Tra queste vi sono certamente anche gli acquisti presso operatori sammarinesi per i quali devono essere adottate soluzioni differenziate a seconda delle modalità con cui viene effettuata l’operazione. Al riguardo, una prima riflessione deve essere fatta relativamente alla circostanza che, normalmente, le cessioni di beni provenienti da San Marino costituiscono importazioni, che, come tali, sono escluse dalla applicazione del sistema dello split payment, atteso il disposto dell’articolo 17-ter del Dpr 633 del 1972, il quale prevede che la scissione dei pagamenti debba essere applicata soltanto alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi. Questa limitazione oggettiva esclude, perciò, gli acquisti in cui l’imposta è assolta dall’acquirente italiano mediante l’inversione contabile o con la procedura dell’Iva prepagata. Diverso è il caso in cui l’operatore sammarinese si avvale di un proprio rappresentante fiscale in Italia. Si tratta di una procedura che non è disciplinata dal decreto del 24 dicembre del 1993 che regola il rapporto tra i due Stati, ma che è stata, comunque, avallata dall’amministrazione finanziaria italiana con nota 1998/68727/D dell’8 settembre 1988. In questo caso la cessione in Italia avviene in due fasi.
La prima riguarda la materiale introduzione in Italia dei beni, operazione che viene realizzata dal rappresentante fiscale mediante la procedura dell’inversione contabile prevista dall’articolo 16 del decreto del 24 dicembre 1993.
La successiva cessione al cliente italiano costituisce un’operazione interna, anche se il bene acquistato proviene direttamente dal fornitore sammarinese.
Questo significa che si dovrà operare una distinzione tra i soggetti acquirenti, perché se questi sono operatori economici o soggetti ad essi assimilati l’imposta viene assolta da questi ultimi mediante il meccanismo del reverse charge che per esplicita previsione normativa impedisce l’applicazione dello split payment. Diversamente se l’acquirente nazionale è un privato, il rappresentante deve emettere fattura indicando l’Iva connessa all’operazione effettuata. Lo stesso accade anche nell’ipotesi in cui il cliente sia un ente o un soggetto ad esso assimilato, rientrante tra quelli indicati dall’articolo 17-ter, privo di soggettività Iva. In tal caso, infatti, il rappresentante fiscale, all’atto dell’emissione della fattura, dovrà assoggettare l’operazione a Iva, ma dovrà anche indicare che l’operazione è interessata dalla scissione dei pagamenti.

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Tassazione dividendi, non conta la delibera

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore di Primo Ceppellini e Roberto Lugano
Società. Le novità della manovra e l’impatto dell’equiparazione delle partecipazioni qualificate e non
Le nuove regole sui dividendi percepiti dalle persone fisiche, che derivano dalla totale equiparazione delle partecipazioni qualificate a quelle non qualificate, si applicheranno alle somme percepite a partire dal 1° gennaio 2018. Tuttavia, le novità previste dal disegno di legge di bilancio 2018 prevedono un regime transitorio destinato a rimanere in vita parecchi anni.
Vengono infatti dichiarate applicabili tutte le regole del decreto ministeriale del 26 maggio 2017, e questo comporta il fatto che il regime di tassazione dei dividendi non dipende dalla data in cui viene deliberata la distribuzione, ma piuttosto dal periodo nel corso del quale si sono formati gli utili che vengono distribuiti.
Nel corso degli anni, infatti, abbiamo assistito alla progressiva riduzione dell’aliquota dell’Ires, accompagnata di volta in volta da un corrispondente aumento della quota di dividendi che concorre a formare il reddito imponibile dei percettori.
L’applicazione del regime transitorio comporta adempimenti per le società e regole di tassazione differenziata per i soci. Possiamo sintetizzare le regole per le società di capitali nel seguente modo:
le società devono mantenere separata memoria delle riserve di utili, distinguendole in base al periodo in cui si sono formate;
quando vengono deliberate distribuzioni di riserve si applica il criterio Fifo, ovvero si considerano distribuiti per primi gli utili formati in periodi più lontani.
La persona fisica che detiene partecipazioni qualificate e che beneficia della distribuzione di utili deve tassarli ai fini Irpef nel seguente modo:
utili formati fino al 2007: concorrono al reddito imponibile per il 40% del loro ammontare;
utili formati dal 2008 al 2016: concorrono al reddito imponibile per il 49,72% del loro ammontare;
utili formati nel 2017: concorrono al reddito imponibile per il 58,14% del loro ammontare;
utili formati a partire dal 2018: sono soggetti alla ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento e quindi non devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi.
In base alle norme proposte dal disegno di legge di bilancio, queste disposizioni transitorie si applicheranno a tutte le distribuzioni di utili deliberate fino al 31 dicembre 2022. Fino a quella data, quindi, le società di capitali non hanno nessuna urgenza di distribuire utili formati in vecchi esercizi solo con il fine di mantenere il regime di tassazione più favorevole in capo ai soci: questo effetto si consegue automaticamente con la regola FIFO che abbiamo sopra ricordato.
A partire dal 2023, invece, tutte le riserve rimaste in capo alle società saranno accorpate in un’unica categoria, e la loro distribuzione sarà soggetta a un unico regime fiscale, ovvero all’applicazione della ritenuta del 26% a titolo di imposta. Sarà in prossimità della fine dell’anno 2022, quindi, che andranno fatte valutazioni sulla convenienza (in capo ai soci) di effettuare distribuzioni per evitare l’applicazione della cedolare secca del 26 per cento, che comporta una tassazione più elevata.

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La clausola russian roulette evita lo stallo della società

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 28 Dicembre 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. L’accordo è valido – Tutelate entrambe le parti

Non è nullo il patto parasociale che contiene una clausola del tipo russian roulette; cioè una clausola diretta, per il caso di stallo gestionale (dead-lock), alla risoluzione del rapporto sociale con l’uscita forzata di uno dei due soci e l’acquisizione dell’intero capitale sociale da parte dell’altro. È questa la conclusione a cui è giunto il Tribunale di Roma (presidente Cardinali, relatore Romano) nella sentenza 19708 del 19 ottobre.
La vicenda ha visto contrapposte una Srl e una Spa, socie di una terza società. In base a un patto parasociale stipulato dalle parti in lite nel 2006, il rapporto sociale si sarebbe risolto in caso di inattività degli organi sociali o di mancato rinnovo dello stesso patto dopo cinque anni. In particolare, ricorrendo una di queste situazioni, la Spa avrebbe potuto determinare il prezzo del 50% del capitale sociale, mentre la Srl avrebbe dovuto acquisire la partecipazione della Spa a quel prezzo o, in alternativa, vendere alla socia la propria quota per lo stesso importo.
Nel 2011 la Spa, rilevato che non le era pervenuta la dichiarazione di rinnovo del patto, aveva stimato in 40milioni di euro il 50% del capitale sociale e aveva invitato la Srl a scegliere se acquistare o cedere le azioni secondo l’accordo. La Srl ha, allora, chiesto al giudice di dichiarare la nullità del patto del 2006; la Spa ha domandato il rigetto della pretesa della Srl, sostenendo che il contratto era stato concluso in condizioni di parità tra i contraenti.
Il giudice, a conclusione di un articolato ragionamento, ha respinto la domanda, ritenendo che la clausola russian roulette sia «diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (articolo 1322, comma 2, del Codice civile). Infatti, durante la vita della società si possono presentare situazioni di stallo (dovute a conflitto insanabile tra i soci o a disinteresse di alcuni di essi), che rischiano di portare «alla dissoluzione dell’impresa economica».
In questi casi, la russian roulette «consente, da un lato, di salvaguardare il progetto imprenditoriale e, dall’altro, di evitare i costi e le lungaggini della procedura di liquidazione».
Né, comunque, la clausola è nulla perché è rimessa a una delle parti la determinazione del valore delle partecipazioni sociali. Ciò perché l’equilibrio negoziale è garantito dal fatto che «la scelta tra l’acquisto e la vendita spetta alla parte che non ha operato la determinazione del prezzo». Così come non è violato il divieto di patto leonino, che non consente gli accordi in base ai quali «uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite» (articolo 2265 del Codice civile). Infatti, le clausole antistallo non sono idonee a escludere un socio dalla responsabilità della gestione né a consentire a uno di essi «di approfittare di una determinata situazione per escludere l’altro».
Per questi motivi, il tribunale ha rigettato la domanda della Srl. Le spese di lite sono state compensate tra le parti, non essendo stati rinvenuti precedenti giurisprudenziali sulla questione.

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L’erede risponde anche con beneficio d’inventario

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 3 Gennaio 2018 di Saverio Cinieri

Tributi. Sentenza della Ctp di Reggio Emilia

L’erede risponde dei debiti tributari del de cuius. Quindi, può ricevere cartelle di pagamento, anche se ha accettato l’eredità con beneficio d’inventario. E si creano due distinte masse patrimoniali (una per i beni propri e una per quelli provenienti dall’eredità) ma resta all’erede la responsabilità per i debiti ereditari non oltre i beni lasciati dal de cuius. Lo afferma Ctp di Reggio Emilia, con la sentenza 318/01/17 depositata il 13 dicembre, sul caso di due cartelle per omesso versamento dell’addizionale comunale (modello Unico, periodi d’imposta 2011 e 2012) notificate ad un soggetto in qualità di erede legittimo che però aveva accettato con beneficio d’inventario.
Questi si riteneva estraneo alle pretese tributarie eccedenti il valore dei beni ricevuti in eredità. L’agenzia delle Entrate, nella costituzione in giudizio, ribadiva che l’aver accettato con beneficio d’inventario, ai sensi dell’articolo 490 del Codice civile, non fa venir meno la qualità di erede, ma incide esclusivamente su un aspetto procedurale e cioè quello connesso all’individuazione del patrimonio aggredibile dall’agente della riscossione.
Ed è su questa posizione che si attestano i giudici di merito, che perciò rigettano il ricorso del contribuente e danno ragione all’ufficio.
La Ctp richiama la posizione espressa dalla Cassazione nella sentenza n. 6488/2007, secondo cui colui che accetta l’eredità con beneficio d’inventario è, comunque, qualificato come erede.
L’unica differenza con il caso, più usuale, di accettazione pura e semplice dell’eredità, è che il patrimonio del defunto (accettato con beneficio d’inventario) viene tenuto distinto da quello dell’erede (articolo 490, comma 1, del Codice civile). Si verificano, però, tutti gli effetti previsti dall’articolo 490, comma 2, tra cui quello secondo cui «l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti» (principio dell’ultra vires hereditatis).
In definitiva, l’erede che ha accettato con beneficio d’inventario è responsabile per i debiti (anche tributari) del de cuius ma entro il limite dei beni ereditati.
Tale limitazione di responsabilità può essere fatta valere in sede di riscossione.
Seguendo questo filone giurisprudenziale (peraltro citato anche dal ricorrente), se si accetta una eredità con beneficio d’inventario, si diventa ugualmente erede a tutti gli effetti di legge e, quindi, destinatario degli atti di riscossione del de cuius.
Resta l’esclusione per le sanzioni tributarie (altro aspetto contestato dal ricorrente anche se, in realtà, gli atti impugnati non contenevano alcuna sanzione), principio che vale, comunque, non solo in caso di accettazione con beneficio d’inventario, ma anche se l’eredità viene semplicemente accettata così com’è.

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C’è stabile organizzazione solo con rappresentanza diretta

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore  4 Gennaio 2018 di Enrico Holzmiller

Accertamento. Per la Ctr Lombardia non bastano le limitazioni alla società italiana da parte di quella estera

Ai fini della presunzione dell’esistenza in Italia di una stabile organizzazione personale non basta che la casa madre imponga all’agente direttive stringenti sulla propria capacità operativa. È la conclusione della commissione tributaria regionale della Lombardia con la sentenza 4871/2017, depositata il 23 novembre 2017 (presidente D’Agostino, relatore Colavolpe).
La sentenza ha il pregio di affrontare, in modo puntuale e sistematico, molte tra le “classiche” presunzioni richiamate dall’amministrazione finanziaria in questo tipo di accertamenti fiscali, facendo emergere ancora una volta il ruolo determinante che assume il rapporto contrattuale tra le parti.
La vicenda trae origine dal rapporto tra una società di diritto inglese ed una srl italiana, contrattualmente formalizzato, avente ad oggetto la fornitura – in Italia – di servizi di gestione e di vendita di software prodotti dalla referente straniera. Dalla lettura della sentenza, le due società risulterebbero non avere alcun collegamento partecipativo.
L’agenzia delle Entrate, sulla base di una serie di presunzioni asseritamente qualificate, ha identificato nella Srl italiana l’esistenza di una stabile organizzazione straniera. Si tratterebbe, in particolare, di una «stabile organizzazione personale», identificando la persona in predicato in uno specifico dipendente della stessa srl italiana.
In particolare, i rilievi mossi dalle Entrate possono essere così riassunti:
da dichiarazioni di soggetti terzi, risulterebbe che il dipendente della Srl italiana si sia “venduto”, nell’ambito dei rapporti commerciali, come sales manager Italy e distribution manager della società inglese;
il contratto in essere tra la società inglese e quella italiana conterrebbe clausole e previsioni fortemente limitanti della libertà operativa di quest’ultima, nonché un obbligo di reporting mensile sull’andamento delle prestazioni rese dalla srl nei confronti della società straniera;
il riferimento alla giurisdizione inglese, quale legge applicabile in caso di divergenze tra le parti, sarebbe un’ulteriore prova dell’esistenza di una direzione vincolante da parte della società inglese su quella italiana.
Preso atto di tali presunzioni e delle controdeduzioni della società di diritto inglese, la Ctr Lombardia inizia la sua analisi esaminando le disposizioni contenute nell’articolo 162 Tuir, comma 7, in tema di stabile organizzazione personale. I giudici richiamano quindi alcune sentenze della Cassazione (in particolare, la n. 8488/2010) secondo cui l’ipotesi di stabile organizzazione personale ricorre solo laddove all’agente siano stati conferiti formalmente poteri di rappresentanza diretta (come la possibilità di spendere il nome del preponente, al momento della conclusione del contratto) oppure laddove lo stesso agente abbia un ruolo essenziale nelle trattative prodromi che alla conclusione del contratto.
La Ctr, applicando tale assunto al caso di specie, osserva come il contratto in essere tra le parti non preveda formalmente alcuna rappresentanza diretta, ed anzi sussisterebbe un espresso divieto, a carico della srl italiana, di concludere contratti in nome e per conto della referente inglese. Il fatto quindi che il dipendente della srl, nell’ambito dei rapporti commerciali, facesse diretto riferimento alla società straniera, non è stato ritenuto elemento degno di nota.
Circa le asserite forti limitazioni contrattuali a carico della società-agente italiana, la Ctr, richiamando ancora i requisiti formali del contratto, rileva che c’è una previsione specifica secondo cui la srl può agire in piena discrezione per quanto riguarda modalità e mezzi con i quali eseguire i servizi.
In merito all’obbligo di reporting, la Ctr ha convenuto con la tesi della contribuente, secondo cui l’obbligo in questione risulterebbe del tutto usuale nei rapporti di questo tipo, trattandosi di un normale adempimento da parte di un prestatore di servizi che ritrae, dalla corretta esecuzione di questi ultimi, i compensi per la propria attività.
Neppure il riferimento contrattuale alla legislazione inglese, quale normativa applicabile tra le parti ha trovato consenso nella Ctr: tale genere di previsioni – è stato fatto osservare – vengono normalmente imposte dal contraente più forte (nel caso specifico, la società inglese), senza che da ciò possa derivarsi l’esistenza di una “stabile” in capo al soggetto (italiano) più debole.

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