Mese: Febbraio 2023
Decreto Delegato 26 gennaio 2023 nr 12 – Modifiche e coordinamento alla Legge 22 dicembre 1972 nr 40 e successive modifiche
8 Febbraio 2023
Il Decreto Delegato nr 12 interviene sulla Riforma Previdenziale del 29 novembre 2022 a riguardo principalmente di:
- part-time pensionistico,
- lavoro dei pensionati,
- amministratori e soci
- solidarietà familiare per i titolari di pensione ordinaria.
All’art. 7 viene riportato che “è consentito lo svolgimento di Solidarietà Familiare da parte di titolari di pensione ordinaria di anzianità, anche prima del raggiungimento del requisito anagrafico della pensione di vecchiaia, per chi abbia acceduto al trattamento di pensione ordinaria di anzianità prima dell’1 gennaio 2023 ovvero che vi abbia avuto diritto prima di tale data. I titolari di pensione ordinaria di anzianità o di vecchiaia che svolgono Solidarietà Familiare sono sottoposti al contributo di solidarietà forfettario di cui all’articolo 26, comma 3, della Legge n.164/2022″.
In merito alla parte relativa agli amministratori e soci sono possibili alcune eventuali modifiche da parte della Segreteria di Stato per il Lavoro delle quali Vi terremo aggiornati.
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Decreto Delegato 26 gennaio 2023 nr 6 – Modifiche al quadro delle aliquote dell’imposta sulle importazioni di cui alla Legge 22 dicembre 1972 nr 40 e successive modifiche
8 Febbraio 2023
Si rende noto che il Decreto Delegato nr 6 del 26 gennaio 2023 riduce l’aliquota monofase al 2% per i seguenti alimenti e prodotti relativi alla prima infanzia
“latte in polvere o liquido per l’alimentazione dei lattanti o dei bambini nella prima infanzia, condizionato per la vendita al minuto; preparazioni alimentari di farine, semole, semolini, amidi, fecole o estratti di malto per l’alimentazione dei lattanti o dei bambini nella prima infanzia o dei fanciulli condizionate per la vendita al minuto; pannolini per bambini; seggiolini per bambini da installare negli autoveicoli;”
Viene inoltre riscritto Il numero 58) della Tabella B allegata al Decreto 2 ottobre 1997 n. 108 che viene così sostituito:
“58) estratti di malto; preparazioni per usi dietetici o di cucina, a base di farine, semole, semolini, amidi, fecole o estratti di malto, anche addizionate di cacao in misura inferiore al 50% in peso;”
Le disposizioni del presente decreto delegato si applicano sulle importazioni poste in essere dall’1 febbraio 2023.
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Proprietà industriale, condannati importatori paralleli e distributori
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2023 di Alessandro Galimberti
Il Tribunale di Roma condanna l’intera rete di vendita di un marchio Usa
Respinta l’eccezione di «esaurimento»: smercio mai autorizzato né tollerato
MILANO
Importatori e venditori al dettaglio condannati in solido per importazione parallela di un noto marchio di abbigliamento. Il Tribunale delle imprese di Roma (sentenza 18090/22) ha risolto in questo modo il contenzioso tra Ralph Lauren e una «articolata struttura» per l’importazione non autorizzata nello spazio economico europeo (See) di decine di migliaia di articoli di abbigliamento con il celebre marchio raffigurante un’azione di polo. Secondo l’azienda – rappresentata a giudizio dai legali Gian Paolo Di Santo e Gabriele Girardello – la merce venne acquistata negli outlet degli Usa tra il 2013 e il 2018 all’insaputa del titolare del marchio, importata poi in Europa grazie a una struttura commerciale che verteva su società americane compiacenti e, in Italia, terminali societari che smistavano a distributori regionali, basati a loro volta nel Lazio ma con diffusione in tutt’Italia. Prodotti originali e non contraffatti quelli oggetto di disputa, quindi, con la contestazione dell’illecito relativa solo all’importazione parallela.
Nella loro difesa, le due principali convenute avevano fatto riferimento al principio dell’«esaurimento comunitario», nello specifico la possibilità di rivendere prodotti già messi in commercio in un paese Ue dal titolare dei marchi. Tuttavia, ha sottolineato il Tribunale capitolino, l’esaurimento comunitario (articoli 7 della Direttiva 2008/95/Ce, 15 del Regolamento Ue 1001/2017 e articolo 5 del Codice della proprietà industriale) opera solo se il titolare del marchio mette in commercio direttamente o presta il consenso all’importazione/immissione nello spazio europeo, dovendo l’autorizzazione essere espressamente rilasciata dal titolare o, se tacita, desumibile da elementi incontrovertibili e verificabili (sentenza nella causa C-337/95). L’istruttoria ha portato i giudici ad escludere il coinvolgimento nelle asserite trattative di soggetti apicali di RL «idonei ad esprimere un valido consenso all’esportazioni di prodotti al di fuori dei normali circuiti di distribuzione selettiva», e ha rilevato che un ulteriore «elemento di sicura riconoscibilità da parte dei terzi rivenditori della provenienza illecita dei beni è dato dal prezzo di acquisto»: i distributori vendevano alla propria rete parallela una t-shirt Ralph Lauren con il 30% di ribasso rispetto ai rivenditori accreditati, con il prezzo finale al dettaglio che sfiorava il 50% di (illecito) sconto per il consumatore.
Nel dispositivo i giudici hanno inflitto alle due importatrici la condanna a complessivi 3 milioni di euro di risarcimento e di oltre 600mila euro totali ai 12 dettaglianti, che non potevano non sapere: il marchio Usa è diverso da quello presente in Europa.
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La cessione estero su estero è fuori campo dell’Iva italiana
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2023 di Raffaele Rizzardi
MERCI
Un quesito di interesse generalizzato per le imprese italiane che hanno merce in deposito all’estero è stato presentato in occasione della giornata di Telefisco e ha ricevuto una risposta dettagliata.
Non si tratta del call-off stock, in cui il cliente deve essere individuato sin dal momento in cui la merce esce dall’Italia, con particolari procedure nel caso in cui i beni dovessero poi andare ad un successivo diverso soggetto.
La questione riguarda invece chi ha merce all’estero, destinata alla vendita a una possibile pluralità di clienti del Paese di deposito.
Questa modalità di consegna è particolarmente interessante in termini commerciali, in quanto la cessione al cliente finale non è più una cessione intracomunitaria, con tutti i relativi adempimenti, ma una cessione interna con l’imposta di quel Paese. Se poi lo Stato membro, come l’Italia (articolo 17, secondo comma, della legge sull’Iva) ha recepito la facoltà dell’articolo 194 della vigente direttiva 2006/112/Ce, il cliente non deve nemmeno finanziare l’Iva da pagare al fornitore, in quanto l’assolvimento del tributo avviene in regime di reverse charge.
La cessione intracomunitaria è solo quella che l’impresa fa a se stessa, dalla partita Iva italiana a quella di cui deve dotarsi nello Stato di deposito (in alcuni si può utilizzare l’identificazione del depositario), come previsto dall’articolo 41, comma 2, lettera c).
Per questa operazione viene emessa una fattura, che quindi è caricata nello SdI, con la natura N3.2, non imponibili – cessioni intracomunitarie – con partita Iva estera e codice destinazione dell’emittente, e che quindi confluirà nella dichiarazione annuale al codice VE30-3, concorrente al volume d’affari.
La cessione estero su estero è fuori campo dell’Iva italiana. La risposta dell’agenzia delle Entrate ipotizza la fatturazione ex articolo 21, comma 6-bis, lettera a), legge Iva, che peraltro riguarda solo clienti domiciliati nella Unione e solo se quel Paese ha recepito la facoltà – non obbligo – dell’articolo 194 della direttiva.
Il tema deve essere approfondito se lo Stato estero non ha recepito la norma sopra ricordata, e quindi la fatturazione è in questo caso imponibile solo nell’Iva locale. Per la merce depositata in territorio extra-unionale, il riferimento è sempre al comma 6-bis, ma nella lettera b).
A questo punto si aggancia il tema dell’esterometro – articolo 1, comma 3-bis, del decreto legislativo 127/2015 – che obbliga a comunicare tutte le operazioni con una controparte non residente.
La risposta riconosce l’inesistenza di obblighi di fatturazione secondo le disposizioni della legge Iva, ma occorre emettere la fattura solo per poter caricare l’importo nello SdI con mera funzione di esterometro.
L’emissione di questa fattura – anche se “fuori campo” – trasferisce l’importo nel quadro VE della dichiarazione – nella specie VE34 – e quindi raddoppia lo stesso volume d’affari già esposto in VE30. Questo anomalo incremento deve essere corretto, ed al riguardo c’è una strada molto semplice, che va ovviamente convalidata dall’agenzia delle Entrate.
Cos è la fatturazione a se stessi per il rifornimento del deposito estero? Evidentemente quella di un passaggio interno. Queste operazioni devono essere espunte dal volume d’affari, come dispone l’articolo 20 della legge Iva, che al momento fa esplicito riferimento a queste operazioni solo nel caso di contabilità separata (articolo 36 legge Iva).
Al riguardo si potrebbe utilizzare la voce VE40, che porta in sottrazione i passaggi interni. Un’interpretazione sistematica, in attesa di una modifica normativa sul punto, dovrebbe essere considerata possibile.
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Reato in concorso del Cda se mancano le deleghe e se nessuno dissente
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2023 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Illeciti tributari. La Gdf applica l’orientamento severo della Cassazione La presunzione s’interrompe solo con una dichiarazione specifica sul punto
Del reato tributario, in assenza di specifiche deleghe, rispondono tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salva l’ipotesi in cui qualcuno abbia espressamente esternato il proprio dissenso. Se invece sussistono specifiche deleghe ad uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri delegati. A fornire questa interpretazione, in completa adesione con i principi della Suprema Corte, è la Guardia di Finanza in risposta a una domanda proposta in occasione di Telefisco 2023.
Più in particolare, è stato richiesto in che misura siano responsabili per le violazioni tributarie penalmente rilevanti i membri del cda, in assenza di deleghe. La Gdf ha, innanzitutto, ricordato che secondo il criterio seguito dal legislatore le condotte delittuose devono essere ascritte in capo ai soggetti ritenuti responsabili dell’illecito. In ambito societario, occorre a tal fine un attento esame delle funzioni svolte in aderenza al modello organizzativo adottato o dei poteri esercitati onde individuare i responsabili delle violazioni. Ne consegue che per i delitti dichiarativi, la verifica deve considerare l’esistenza di persone fisiche munite dei relativi poteri di rappresentanza in base agli statuti o alla legge.
La Gdf ha richiamato una sentenza della Suprema corte (Cassazione 11087/2022) secondo la quale per gli illeciti tributari posti in essere da un consiglio di amministrazione privo di specifiche deleghe, la responsabilità grava solidalmente su tutti i suoi componenti. Fa tuttavia eccezione, l’ipotesi in cui uno o più componenti espressamente esternino il proprio dissenso al compimento di una determinata operazione.
Qualora, invece, specifiche materie siano attribuite a uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri ad esse delegati. La Gdf ha tuttavia precisato che resta comunque ferma l’applicabilità dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato.
In tale contesto, la Guardia di Finanza (rispondendo ad altro quesito) ha fornito chiarimenti sulla responsabilità del legale rappresentante nell’ipotesi in cui esista una delega ad un terzo amministratore per la sottoscrizione della dichiarazione.
Secondo la Gdf in capo al delegato è ascrivibile, in prima battuta, l’eventuale reato dichiarativo, fermo restando che altri soggetti diversi dal materiale sottoscrittore della dichiarazione possano concorrere nel reato (Cassazione 50201/2015).
Infatti, laddove venga accertato che il delegato abbia tenuto la condotta penalmente rilevante perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni dal rappresentante legale ovvero in attuazione di un accordo con lo stesso, quest’ultimo risponderà del reato tributario a titolo di concorso (Cassazione 18827/2019).
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Amministratore di fatto, serve la prova rafforzata
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 24 gennaio 2023 di Dario Deotto Luigi Lovecchio
Va dimostrato che la società svolge una funzione servente al dominus
Nel mirino emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
Ai fini dell’irrogazione della sanzione tributaria all’amministratore di fatto di una società di capitali non basta la circostanza che la società abbia utilizzato fatture per operazioni inesistenti. Occorre invece la prova che la società svolga una funzione passiva, meramente servente all’utilità ricavata dall’amministratore. Il principio di diritto è stato affermato dalla Corte di cassazione, nella sentenza n. 1946, depositata ieri.
La questione involgeva una contestazione di emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. In particolare, si era in presenza di una società cartiera, a monte, che aveva emesso delle fatture soggettivamente inesistenti utilizzate a valle da una società, della quale era stato ritenuto amministratore di fatto il signor XY, ricorrente in Cassazione. L’ufficio dell’agenzia delle Entrate, sulla base delle circostanze rappresentate, per un verso, dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti da parte della società rappresentata, e, sotto altro profilo, dalla qualificazione come amministratore di fatto del signor XY, ha ritenuto di potere irrogare la sanzione tributaria, in solido, tanto alla società che all’amministratore di fatto.
La Corte di cassazione ha al riguardo ricordato che, ai sensi dell’articolo 7 del Dl 269/2003, per le violazioni imputabili a enti dotati di personalità giuridica, quali le società di capitali, la sanzione è irrogabile unicamente all’ente. Questo in espressa deroga al principio di personalità dell’autore della violazione, sancito nell’articolo 11 del Dlgs 472/1997. Tale criterio, ricorda sempre la Corte, perde tuttavia efficacia ogni qualvolta l’amministratore di società abbia agito per perseguire i propri personali interessi, di modo che la violazione commessa abbia prodotto benefici o utilità a suo favore, e non a favore dell’ente rappresentato. Ciò accade, normalmente, nelle ipotesi degli amministratori di società cartiere, nelle quali non è ravvisabile una effettiva sostanza economica. Tali società, infatti, si risolvono in un mero strumento fittizio attraverso il quale il dominus o amministratore di fatto consegue dei profitti illeciti.
Lo stesso però non vale di fronte a una società che utilizza fatture per operazioni inesistenti che ben potrebbe avere una sua vitalità. Né può ritenersi sufficiente il fatto che attraverso le fatture contestate la società acquirente abbia conseguito, secondo la Corte, degli indebiti risparmi d’imposta, atteso che questa è una connotazione inevitabile dell’illecito in questione che, di per sé, tuttavia non prova la fittizietà della società. Tutt’al contrario, il vantaggio fiscale eventualmente ottenuto dal soggetto partecipato potrebbe dimostrare che l’amministratore di fatto abbia agito a beneficio della società, e non personale. La Cassazione rileva pertanto che l’amministrazione finanziaria deve provare, anche attraverso presunzioni, che la società non sia «vera» o che rappresenti uno strumento artificioso costruito al solo scopo di dissimulare i reali interessi del dominus.
Osserva da ultimo la Cassazione come la condotta dell’Ufficio appaia altresì insanabilmente contraddittoria, rispetto alla tesi sostenuta, nella parte in cui esso irroga la sanzione, in via solidale, tanto alla società che all’amministratore di fatto. Ed invero, delle due l’una: o la società è fittizia, poiché l’unico contribuente è l’amministratore, ed allora la stessa non può essere sanzionata, oppure la società è “viva” ma allora non si può sanzionare l’amministratore di fatto.
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Bancarotta documentale se l’hard disk si rompe
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 23 gennaio 2023 di Sandro Guerra
Per la Cassazione non è una scusante: necessario fare backup e stampe
I libri, i repertori, le scritture e la documentazione la cui tenuta è obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento, o che siano richiesti dalla natura o dalle dimensioni dell’impresa, possono essere formati e tenuti con strumenti informatici (articolo 2215-bis del Codice civile), ma l’eventuale crash del sistema può costare caro all’imprenditore.
Lo ha ribadito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 45044, depositata il 25 novembre 2022, dichiarando inammissibile – in questa parte – il ricorso relativo ad una condanna per bancarotta semplice documentale.
Nel caso in esame i libri contabili di cui la curatela non era entrata in possesso erano conservati su supporto informatico, divenuto tuttavia inaccessibile per un malfunzionamento del dispositivo
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Frontalieri, l’accordo fiscale arriva al Senato
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2023 di Marco Alfieri
Oggi prima ratifica dell’intesa che entro maggio avrà l’ok definitivo della Camera
Sul confine Italia-Svizzera. Negli ultimi vent’anni i frontalieri italiani in Canton Ticino (nella foto la dogana di Ponte Chiasso) sono passati da 32mila a 77.700
Al sabato, fino a metà anni Novanta, arrivavano a Ponte Tresa i pullman dalla Svizzera interna. Al mercato dietro la chiesa si trovava cibo per tutti i gusti, abbigliamento, articoli per la casa. Grazie al franco, moneta forte per eccellenza, sembrava di non spendere mai. Oggi la tradizione del mercato si è un po’ persa (in compenso hanno aperto supermercati vicini alla dogana, tutti frequentati da svizzeri), quel che resiste e prospera è invece l’approdo del lavoro oltreconfine, dove si guadagna bene e si pagano poche tasse.
Negli ultimi vent’anni i frontalieri italiani in Canton Ticino sono passati da 32mila a 77.700. Il boom è cominciato negli anni Cinquanta quando molte aziende s’insediavano grazie allo statuto del frontaliere che consentiva di procurarsi manodopera a costi ridotti in settori non concorrenziali con i lavoratori residenti: edilizia, ristorazione, tessile, turismo e metalmeccanica.
Insieme al boom nascono i problemi. Da un lato il rischio di una doppia imposizione fiscale, dall’altro l’arrivo nei comuni di frontiera di molti migranti dal sud Italia, alla ricerca di una occupazione in Svizzera. «L’Accordo del 1974 tra Roma e Berna è la risposta efficace a queste tensioni», ragiona Cecilia Sanna, docente di Diritto dell’Unione europea alla Statale di Milano e figlia di Antonio Sanna, storico sindaco di Ponte Tresa, che di quell’accordo fu l’inspiratore. «La Svizzera aveva bisogno di manodopera ma non voleva stranieri residenti sul territorio; i comuni di frontiera avevano bisogno di soldi per finanziare i servizi di base e far fronte alla ondata migratoria. Nascono così i ristorni sulle remunerazioni dei frontalieri residenti nei comuni di confine».
Ristorno è la parola magica che si accompagna alla figura del frontaliere, basti dire che nel 2021 i rimborsi fiscali ammontano a 97,2 milioni di franchi svizzeri.
A fine anni Novanta lo scenario cambia un’altra volta. «Fino al 1999 la Svizzera faceva selezione in entrata, proteggendo il “suo” mercato del lavoro. Siglando gli accordi europei di libera circolazione, in vigore dal 2002, questo non è stato più possibile», spiega Andrea Puglia, responsabile ufficio frontalieri dell’Ocst, il sindacato cristiano-sociale ticinese. L’effetto è duplice: il boom di assunzioni frontaliere anche nel terziario avanzato e l’insediamento di molte aziende italiane, attirate da incentivi fiscali e burocrazia leggera, nel campo dell’informatica, dei servizi digitali, della moda, della chimica e della farmaceutica. «Nel terziario si passa da 14mila a 52mila assunti in 20 anni». Più di un terzo dei posti di lavoro totali nel cantone (77mila su circa 210mila) oggi è coperto da frontalieri.
I ticinesi cominciano a soffrire la nuova concorrenza, temono l’afflusso dei “padroncini” lombardi che svolgono le loro attività a costi inferiori e denunciano il dumping salariale. In questo clima politico, Italia e Svizzera firmano un nuovo accordo fiscale nel dicembre 2015. Il bilaterale non vedrà la luce perché mai ratificato dai due parlamenti nazionali. Bisogna aspettare altri 4 anni prima che Roma e Berna tornino a negoziare.
Il nuovo accordo italo-svizzero viene firmato nel dicembre 2020, contestualmente a un memorandum sulla fiscalità interna che coinvolge finalmente i territori interessati. Oggi il Testo Unico verrà ratificato dal Senato italiano e poi, entro maggio, dalla Camera. Per entrare in vigore il 1° gennaio 2024.
Cosa cambierà? Per gli attuali frontalieri residenti nei comuni di fascia 20 chilometri nulla fino alla pensione. Continueranno a pagare le tasse in Svizzera. Per i frontalieri residenti nei comuni fuori fascia e per tutti i nuovi frontalieri assunti a partire dal prossimo anno, vigerà una tassazione concorrente Svizzera-Italia ma con una franchigia fiscale alzata a 10mila euro.
«I ristorni resteranno invece attivi fino al 2033, per venire poi sostituiti da trasferimenti statali di pari importo cui si aggiungerà un fondo per il finanziamento di progetti di sviluppo territoriale», spiega Massimo Mastromarino, sindaco di Ponte Tresa e presidente dell’associazione che riunisce i comuni italiani di frontiera.
L’economia di confine è da sempre un microcosmo fragile. Per esempio: «Come impatteranno le nuove forme di lavoro a distanza?». È l’emergenza di questi giorni: la fine del periodo di sospensione causa Covid dell’obbligo di presenza giornaliera in Svizzera. Dal 1° febbraio 2023, se un frontaliere residente nei comuni di confine farà un solo giorno di telelavoro diventa tassabile anche in Italia. «La situazione va risolta attraverso un accordo amichevole con la Svizzera», spiega Puglia. «Dopo la pandemia le aziende si sono adeguate. Anche i frontalieri devono poterlo fare senza incorrere in implicazioni fiscali».
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Il consulente di parte non è esonerato dai controlli antiriciclaggio
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 Gennaio 2023 di Antonio Iorio e Laura Ambrosi
Il consulente tecnico di parte di un imputato per reati economici e/o riciclaggio non è esonerato dagli adempimenti antiriciclaggio di adeguata verifica. A fornire questa interpretazione è la guardia di finanza nel corso di Telefisco.
Di sovente, nei procedimenti penali per reati economici e di riciclaggio viene nominato dalla difesa un consulente tecnico. È stato chiesto se, per queste ipotesi, in capo al professionista incaricato della consulenza, incombano adempimenti antiriciclaggio tenendo presente che un’eventuale segnalazione di operazione sospetta (all’esito dell’adeguata verifica) non avrebbe senso quanto meno per la compromissione del diritto di difesa del cliente nel procedimento penale.
La GdF ha premesso che secondo il parere reso nel mese di giugno 2006 dall’allora Uic, l’attività svolta dal consulente tecnico a seguito di un incarico dell’autorità giudiziaria (ad esempio, curatore fallimentare o consulente tecnico d’ufficio) era esclusa dall’applicazione delle disposizioni antiriciclaggio.
Successivamente, le regole tecniche del Cndcec del gennaio 2019, nel caso di incarichi derivanti da nomine giudiziali, hanno previsto per l’adempimento degli obblighi di adeguata verifica l’acquisizione e la conservazione di copia della nomina da parte del giudice, così considerandosi assolti gli obblighi degli articoli 17 e seguenti dlgs 231/2007.
Analogamente, per la GdF, il consulente tecnico della difesa in un procedimento penale per reati economici e di riciclaggio. non è esonerato dagli obblighi antiriciclaggio.
Viene nella circostanza evidenziato che il Comitato di Sicurezza Finanziaria (parere 6/12/2018 relativo alle regole tecniche del Cndcec di giugno 2018), ha escluso la possibilità di individuare in via automatica e preventiva fattispecie rispetto a cui operano sostanziali presunzioni di assenza di rischio di riciclaggio.
Premesso che l’adesione alla tesi del Cndcec da parte della GdF esaurirebbe gli adempimenti in questione con la conservazione da parte del professionista della nomina a consulente (e quindi alla fine si tratta di un adempimento non oneroso), la risposta lascia comunque perplessi.
Mal si comprende il senso di tale adempimento. I citati adempimenti antiriciclaggio dovrebbero essere finalizzati a prevenire (e nel caso a segnalare) eventuali manifestazioni illecite (in genere riciclaggio) da parte del cliente.
Nella specie la sospetta commissione di un reato economico o addirittura del riciclaggio è già “superata” perché nota a tutti, tanto da essere stato avviato un procedimento penale sulla vicenda.
È del tutto inconferente quindi, nella specifica vicenda, il timore della GdF (segnalato al tempo dal citato Comitato per altre circostanze) di individuare fattispecie «rispetto a cui operano sostanziali presunzioni di assenza di rischio di riciclaggio», in quanto già esiste una formale incriminazione del cliente per tali illeciti penali, per cui mal si comprende il motivo (ed il fine) di obbligare il professionista ad eseguire l’adeguata verifica, se non di sanzionarlo per l’eventuale inadempimento.
Si spera in una presa di posizione del Consiglio nazionale (a favore dei commercialisti).
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Dividendi da società italiana a Uk, ritenuta al 5%
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 21 gennaio 2023 di Alessandro Germani
A chi ha partecipazioni del 10% o più non si applica l’aliquota ridotta all’1,2%
In caso di dividendi distribuiti da una società italiana a una società Uk che non si può considerare né Ue né appartenente allo Spazio economico europeo (See), si applica la ritenuta convenzionale del 5% se si dispone di una partecipazione nell’italiana di almeno il 10% dei diritti di voto.
Il chiarimento è contenuto nelle risposte a interpello 117 e 128 dell’agenzia delle Entrate di ieri.
Non è infatti applicabile la ritenuta ridotta del 1,20% a titolo d’imposta ex articolo 27 comma 3 ter del Dpr 600/73, perché la società Uk non è residente né nell’Unione europea né in uno Stato del See. Né vale la disapplicazione ex articolo 27-bis del Dpr 600/73, vigente solo per i Paesi Ue. Questi dunque gli effetti post Brexit.
La risposta 116 fornisce indicazioni per la ritenuta da operare per la concessione in uso del software da parte di fornitori Ue ed extra Ue. La stabile organizzazione in Italia di una società estera opera nella raccolta scommesse ed ha contratti con fornitori esteri per lo sfruttamento del software e servizi annessi.
L’ambito di tassazione è quello della ritenuta del 30% ex articolo 25 del Dpr 600/73 (utilizzazione di opere dell’ingegno) e dell’articolo 12 del modello Ocse (royalties). In presenza di Convenzioni fra l’Italia e lo Stato estero, se prevedono una potestà impositiva concorrente (Uk, Svizzera) allora si applica la ritenuta italiana, nei limiti della convenzione, sui canoni corrisposti ai non residenti. Se le convenzioni invece attribuiscono potestà impositiva esclusiva allo Stato di residenza (Cipro), vi sarà esenzione da ritenuta. Infine nei casi di potestà impositiva sia esclusiva che concorrente (Malta), se il software è coperto dal diritto d’autore vige l’esenzione, sennò si applica il 10 per cento. In assenza di convenzione poi si applica il 30 per cento. Nessuna ritenuta per i servizi di installazione, manutenzione e aggiornamento. Per la risposta n. 118 una società italiana si occupa dell’ammodernamento di una raffineria in Tunisia, senza stabile organizzazione e la committente le applica una ritenuta del 12%, in base all’articolo 12 (canoni) della Convenzione fra i due Paesi, che ricomprende anche gli studi tecnici.
Sulla ritenuta operata dal committente tunisino la società italiana ha diritto al credito d’imposta estero (articolo 22 della Convenzione e 165 del Tuir), in base alla circolare 9/E/15.
Per la risposta n. 129 una società cinematografica italiana si avvale di un regista statunitense che opera con una società trasparente, simile ad una società di persone. Ci si domanda se configuri reddito di lavoro autonomo (articolo 23, comma 1, lettera d del Tuir) con tassazione al 30% (articolo 25, comma 2, del Dpr 600/73) o si applichi la Convenzione (articolo 14) per cui se non c’è base fissa in Italia la tassazione è tutta negli Usa. Per le Entrate la soluzione è quest’ultima, in quanto la società di persone riconduce la tassazione sul regista.