Registro sulla Titolarità Effettiva delle persone giuridiche (art. 23quater Legge 92/2008)

6 Agosto 2024

L’ Agenzia di Informazione Finanziaria (AIF) con  Prot. n. 241287 – 23/0192 del 29/07/2024 ha indirizzato a tutte le persone giuridiche una comunicazione avente ad oggetto il Registro sulla Titolarità Effettiva di cui all’art. 23 quater della Legge n. 92/2008.

Si segnala che, seppur gli adempimenti di comunicazione siano rimasti invariati,  è stato introdotto  l’OBBLIGO DI CONFERMA ANNUALE del dato trasmesso.

Come indicato al paragrafo 7.5 della  Circolare AIF che si allega, il SOGGETTO OBBLIGATO deve eseguire annualmente una COMUNICAZIONE DI CONFERMA  nell’arco temporale intercorrente tra il 1°ottobre ed il 31 ottobre di ciascun anno  consistente nel confermare che i dati comunicati  siano attuali.

L’accesso a tale Registro è ora disponibile sul Portale PA con un nuovo servizio denominato “RegTE (Registro sulla Titolarità Effettiva delle Persone Giuridiche)” e l’AIF rende disponibile sul proprio portale (https://www.aif.sm/site/home/registro-sulla-titolarita-effettiva.html)

a) La Circolare AIF n. 001 del 29 luglio 2024 in materia di disciplina del registro sulla titolarità effettiva, che illustra gli adempimenti circa gli obblighi di comunicazione e di consultazione;

b) Il Manuale Operativo del registro sulla Titolarità Effettiva che illustra le procedure di accesso al registro in parola e dettaglia le pratiche collegate allo stesso.

Si allegano di seguito entrambi i documenti e se ne raccomanda un’attenta lettura considerato l’ammontare delle  sanzioni (sia penali che amministrative) previste al paragrafo 10.1 sempre della Circolare AIF.

Manuale RegistroTE

Circolare AIF 29 07 24

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Residenza delle società su direzione effettiva e gestione ordinaria

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 31 Luglio 2024 di Alessandro Germani

La circolare Assonime n. 15 del 30 luglio ripercorre le novità normative della legge delega che hanno modificato il concetto di residenza delle società e degli enti (articolo 2 del Dlgs 209/2023). Di fatto il nuovo comma 3 dell’articolo 73 del Tuir prevede, accanto alla sede legale (che resta invariata), la sede di direzione effettiva e la gestione ordinaria che servono a chiarire meglio i criteri di residenza delle società. I due criteri si ricollegano al place of effective management (Poem), che dal 2017 non costituisce più una tie breaker rule ma solo uno dei fattori che serve a definire la residenza delle società. Nella tradizione anglosassone esso coincide con la punta più alta del governo societario, rappresentata dal board of directors. Invece la tradizione dell’Europa continentale ha puntato di più sul concetto del day to day management (place of central management and control), ovvero laddove è collocato l’head office (Ceo, Cfo, prima linea di management). Per il Regno Unito vi è sempre stata la preminenza del board of directors, anche nei casi in cui poi l’head office governasse la società presso un altro paese differente dal Regno Unito. Con gli anni 2000 a seguito dello sviluppo tecnologico, delle molteplici residenze dei membri del board e della globalizzazione delle funzioni aziendali, è sempre stato più difficile utilizzare il Poem per la risoluzione dei conflitti di residenza. Con il Commentario Ocse del 2017 il Poem è stato sostituito da un approccio case by case per la risoluzione dei conflitti.

Storicamente l’Italia ha fatto riferimento al concetto della sede dell’amministrazione, che in chiave civilistica è la sede effettiva e che poi fiscalmente è stato inquadrato nella sede di direzione effettiva che faceva riferimento al Poem. Adesso il nuovo comma 3 dell’articolo 73 inquadra specificatamente:

la sede di direzione effettiva;

la gestione ordinaria.

Il primo concetto richiama di fatto i componenti del consiglio di amministrazione, compresi il presidente, il vicepresidente e il Ceo (highest ranking persons). Da tale livello restano esclusi i soci, anche di controllo, nonché sia le attività di monitoraggio e supervisione svolte dal board della controllante sia la direzione e coordinamento. Non sono queste ad integrare la residenza della società. Il secondo concetto è quello proprio del day to day management ovvero della gestione intermedia. Questi due criteri finiscono per sorreggersi e completarsi a vicenda.

Viene abbandonato il criterio dell’oggetto principale come criterio di collegamento con il territorio dello Stato in aderenza alla disciplina societaria (articolo 2505 del Codice civile). Ciò in quanto tale criterio ha dato origine a notevoli incertezze interpretative e, in ogni caso, rivive soprattutto nella “gestione ordinaria in via principale”. In tal modo si evita che una holding estera, per il solo fatto di avere partecipazioni in Italia, ricondotte all’oggetto principale, sia considerata residente in Italia.

L’Associazione poi riconduce la tematica dell’esterovestizione, intesa come residenza fittizia in paesi che potrebbero consentire una tassazione conveniente (rispetto a quella nazionale) con il regime Cfc, laddove in base alla giurisprudenza unionale si ravvisi una costruzione di mero artificio. Da qui derivano una serie di sentenze, quali la Cassazione penale n. 43809 del 2015 relativa ad una controllata estera IP company titolare di marchi famosi e la n. 23225 del 2022 relativa ad una società operativa cinese low risk. Le novità introdotte nell’articolo 73 del Tuir dovrebbero aiutare a concludere che la sede di direzione effettiva di una controllata estera, parte di un gruppo, non possa identificarsi sic et simpliciter con la sede della controllante da cui provengono gli impulsi volitivi o l’esercizio di attività di direzione e coordinamento. A meno che (Cassazione 1544 del 2023) l’attività di direzione e coordinamento abbia usurpato l’impulso imprenditoriale divenendo un vero e proprio amministratore indiretto della controllata.

Come tema de iure condendo si propone di ripensare al fatto se per le società, ai fini della fissazione della residenza nel territorio dello Stato, i criteri di collegamento soggettivo all’imposizione devono risultare integrati «per la maggior parte del periodo di imposta», al pari di quanto avviene per le persone fisiche.

Viene ribadito come la riforma abbia inteso uniformare i criteri di individuazione della residenza delle società noti a livello internazionale e utilizzati negli altri ordinamenti, andando così ad operare una sorta di reset.

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Perdite, la deducibilità scatta per elementi certi e precisi

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 15 luglio 2024 di Cristina Odorizzi

Il quadro RS del modello Redditi SC chiede di indicare al rigo RS65 le perdite di esercizio: a colonna 1 le perdite rilevate a bilancio e a colonna 2 le perdite fiscali ex articolo 101, comma 5, del Tuir. Queste perdite comprendono anche le perdite imputate in esercizi precedenti la cui deducibilità è stata rinviata per assenza dei presupposti fiscali.

Perdite deducibili

In base all’articolo 101, comma 5, del Tuir, le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi. Si prevedono poi alcune situazioni in cui gli elementi certi e precisi sussistono ex lege e in particolare:

quando il debitore è interessato da procedure concorsuali o da una ristrutturazione dei debiti o da un piano attestato;

quando il credito è di modesta entità ed è decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento. Sussiste la modesta entità se l’importo è fino a 5.000 euro per le imprese più rilevanti, e fino a 2.500 euro per le altre;

quando il diritto alla riscossione del credito è prescritto.

In tutti le altre ipotesi, il generico riferimento agli elementi certi e precisi implica la necessità di una valutazione caso per caso. La circolare 26/E/2013 ha chiarito che possono considerarsi come sufficienti elementi di prova tutti i documenti attestanti l’esito negativo di azioni esecutive attivate dal creditore (ad esempio, il verbale di pignoramento negativo), sempre che l’infruttuosità delle stesse risulti anche sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e definitiva.

La circolare 26/E cita come altro utile elemento di prova, a corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, la documentazione idonea a dimostrare che il debitore si trovi nell’impossibilità di adempiere per un’oggettiva situazione di illiquidità finanziaria e incapienza patrimoniale e che, pertanto, è sconsigliata l’instaurazione di procedure esecutive.

Individuazione dei mini-crediti

I “mini-crediti” sono una fattispecie in cui, ex lege, ricorrono gli elementi certi e precisi per la deducibilità delle perdite. Per quanto riguarda le modalità di calcolo, l’importo del credito si individua considerando il relativo valore nominale, comprensivo di Iva e con esclusione di interessi di mora e oneri accessori addebitati per inadempimento, al netto di eventuali incassi parziali e prescindendo da eventuali svalutazioni effettuate in sede contabile e fiscale (circolare 26/E/2013).

Molto importante, poi, è ricordare che il limite quantitativo va verificato in relazione al singolo credito, se rappresentativo della singola obbligazione in essere; quindi, non è rilevante che, in relazione al medesimo debitore, sussistano più posizioni creditorie. Nel caso in cui, invece, le partite creditorie si riferiscano al medesimo rapporto contrattuale, la modesta entità va valutata sul saldo complessivo dei crediti, riconducibili al medesimo rapporto. Sempre la circolare 26/E/2013 ha chiarito che in presenza di crediti scaduti da almeno sei mesi e di crediti non scaduti, si assumono solo i crediti scaduti.

I crediti prescritti

Un’ulteriore ipotesi di sussistenza ex lege degli elementi di certezza e precisione è quella della prescrizione del diritto di credito. È una casistica di non semplice applicazione, posto che ai fini della prescrizione è necessaria l’assenza di attivi interruttivi da parte del creditore. Sul punto la circolare 26/E/13 ha dimostrato una certa rigidità, affermando che «resta salvo il potere dell’Amministrazione di contestare che l’inattività del creditore abbia corrisposto ad una effettiva volontà liberale».

Tuttavia, con la pubblicazione del principio di diritto n. 16 del 29 dicembre 2021, l’agenzia delle Entrate ha precisato che la prescrizione del credito costituisce sempre «elemento certo e preciso a cui collegare la deduzione della relativa perdita e la rilevazione del periodo d’imposta in cui operarla».

Svalutazione dei crediti, deduzione circoscritta

La deduzione delle perdite e degli accantonamenti inerenti ai crediti commerciali richiede la corretta gestione e compilazione del modello Redditi SC 2024 (anno d’imposta 2023).

Va innanzitutto distinto il concetto di perdita su crediti da quello di svalutazione: si ha perdita del credito quando esso è divenuto definitivamente inesigibile, mentre si ha svalutazione quando il credito è solo temporaneamente non realizzabile (Cassazione, ordinanza 10686/2018).

Le perdite su crediti trovano disciplina fiscale nell’articolo 101, comma 5, del Tuir, che delinea le condizioni in base a cui una perdita su crediti diviene deducibile. Il tema delle svalutazioni crediti è regolato invece dall’articolo 106, commi 1 e 2, del Tuir.

La svalutazione dei crediti

Ai fini civilistici il principio Oic 15, al paragrafo 59, dispone che la svalutazione del credito deve essere operata «nell’esercizio in cui si ritiene probabile che il credito abbia perso valore». Il valore del credito va rettificato per tenere conto della perdita di valore stimata, mediante un apposito fondo di svalutazione. Dunque, i crediti sono rappresentati in bilancio al netto del fondo svalutazione crediti. Fondo che «è utilizzato negli esercizi successivi a copertura di perdite realizzate sui crediti» (Oic 15, paragrafo 65).

Ai fini fiscali la deducibilità della svalutazione crediti è legata a parametri quantitativi e quindi a prescindere dalla presenza di crediti effettivamente di dubbia esigibilità. L’articolo 106, comma 1, del Tuir consente la deducibilità della svalutazione dei crediti non assicurati nel limite dello 0,50% annuo del valore nominale dei crediti; fino però a un totale massimo del 5% del valore nominale dei crediti. L’eventuale superamento del limite del 5% (ad esempio per drastica riduzione dell’importo dei crediti a bilancio) impone la tassazione immediata dell’intero importo eccedente. In pratica, la norma fiscale consente la deducibilità della svalutazione in modo massivo senza alcuna indagine sulle caratteristiche dei crediti, ma ponendo uno sbarramento massimo rispetto all’importo della svalutazione.

Per quanto attiene ai crediti assicurati da escludere dalla base di calcolo dello 0,5%, la risposta a interpello 340/2023 ha chiarito che tale importo si determina con riferimento ai «massimali» delle polizze assicurative. Pertanto, devono ritenersi esclusi dal plafond di calcolo delle svalutazioni deducibili ai fini Ires i crediti commerciali coperti dai massimali di polizza, senza tener conto delle relative franchigie, che concorreranno a determinare le perdite su crediti nei periodi d’imposta in cui saranno soddisfatti i requisiti ex articolo 101, comma 5, del Tuir.

La compilazione del Redditi SC

La svalutazione dei crediti commerciali richiede la compilazione in primo luogo del quadro RS destinato ai crediti, sezione II, righi da RS64 a RS69 (per soggetti diversi da enti creditizi e finanziari), dedicato al coordinamento tra dati di bilancio e dichiarazione dei redditi. Il rigo RS64 va compilato inserendo il valore complessivo delle svalutazioni risultanti a fine 2022, distinguendo importo di bilancio (colonna 1) e importo fiscale (colonna 2). Nel rigo RS65 vanno indicate le perdite dell’esercizio: a colonna 1 le perdite da bilancio e a colonna 2 le perdite fiscalmente deducibili. Il rigo RS66 (solo ai fini fiscali) determina la differenza fra questi due importi, quale accantonamento residuo.

Nel rigo RS67 vanno inserite le svalutazioni dell’esercizio, nell’importo da bilancio e fiscale, conducendo quindi all’importo complessivo delle svalutazioni a fine 2023 (RS68), da rapportare al valore dei crediti a bilancio esposti ai fini fiscali al lordo del fondo svalutazione crediti (RS69, colonna 2).

Se in esito ai dati del quadro RS l’accantonamento operato nell’esercizio risultasse superiore allo 0,5% del valore di bilancio dei crediti, si determinerebbe una svalutazione in tutto o in parte fiscalmente deducibile da esporre a rigo RF31 (altre variazioni in aumento) utilizzando il codice 41 (eccedenza delle svalutazioni su crediti rispetto all’importo fiscalmente deducibile). Stesso meccanismo opera in caso di superamento della soglia assoluta del 5% per eccesso di accantonamenti complessivamente operati (si veda l’esempio a lato).

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Spa detenuta da una holding: chi è il «titolare effettivo»

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 8 Luglio 2024 di Luigi Ferrajoli e Francesco Ferrajoli

Diritto societario

Una holding detiene il 100% del capitale sociale di una società per azioni (Spa). Soci della holding sono cinque persone fisiche, legate tra loro da vincoli familiari. Tre soci hanno, ciascuno, una quota pari al 26,5 per cento, il quarto socio ha il 4,65% e il quinto ha il 15,85 per cento.

Alla luce delle faq (risposte a domande frequenti) del ministero dell’Economia e finanze (Mef) di novembre 2023, come si individua il titolare effettivo della società per azioni? È corretto identificarlo nel rappresentante legale della Spa?

Nel caso in cui una società di capitali sia partecipata da un’altra società di capitali e quest’ultima possegga una percentuale di partecipazione superiore al 25 per cento, ai fini dell’individuazione del titolare effettivo della società partecipata, è necessario applicare l’articolo 20, comma 2, lettera b, del Dlgs 231/2007, secondo cui «costituisce indicazione di proprietà indiretta la titolarità di una percentuale di partecipazioni superiore al 25 per cento del capitale del cliente, posseduto per il tramite di società controllate, società fiduciarie o per interposta persona». In tali circostanze è, pertanto, essenziale individuare la persona fisica indirettamente proprietaria della partecipazione rilevante, risalendo nella catena partecipativa attraverso il criterio del “controllo”.

Qualora la società socia non sia una società fiduciaria, il titolare effettivo va, quindi, identificato nella persona fisica (o nelle persone fisiche) che “controlla” (o che “controllano”) la società socia.

La nozione di “controllo” ha nel tempo posto problemi interpretativi, risolti dal Mef, il quale, nelle proprie faq, ha chiarito che, «per l’ipotesi di proprietà indiretta, per il tramite di società controllate, la soglia del 25% +1 va considerata esclusivamente in relazione al capitale della società cliente, al quale si fa espressamente riferimento, risalendo poi la catena partecipativa per individuare la persona fisica o le persone fisiche che esercitano il controllo ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del Codice civile».

Pertanto, l’identificazione del titolare effettivo va realizzata partendo dall’individuazione delle società titolari di una partecipazione superiore al 25% nel capitale della società partecipata, e qualificando come titolari effettivi tutte le persone fisiche che le controllano.Nel caso prospettato, va rilevato che, essendovi una holding che detiene il 100% delle partecipazioni della Spa, i titolari effettivi di quest’ultima saranno dunque tutte le persone fisiche che controllano la holding.

In tal senso, sembra quindi possibile escludere dal processo di individuazione i soci di minoranza della holding (il quarto e il quinto socio), mentre, in presenza di tre soci di maggioranza della holding con identiche percentuali di partecipazione, appare ragionevole affermare che tutti loro vadano individuati quali titolari effettivi della Spa.

 

La faq del ministero dell’Economia e finanze n. 8 di novembre 2023, secondo cui, in applicazione del criterio residuale di cui all’articolo 20, comma 5, del Dlgs 231/2007, «il titolare effettivo va individuato nella figura del soggetto titolare di poteri di rappresentanza legale, amministrazione o direzione quali, esemplificativamente, il rappresentante legale, gli amministratori esecutivi o i direttori generali della società o del cliente comunque diverso dalla persona fisica», non sembra utile a fornire compiuta risposta al caso di specie, poiché non sussiste, stando a quanto argomentato, l’impossibilità di procedere alla individuazione univoca del titolare effettivo della società holding posta al vertice della catena partecipativa in questione.

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Brani musicali, le regole d’uso nei prodotti audiovisivi

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 8 Luglio 2024 di Giulia Casamento e Andrea Rinaldi

Marchi, brevetti, diritto d’autore

Una piccola casa di produzione, che si occupa della creazione di documentari e serie televisive, ha sviluppato un progetto che prevede l’uso – come sottofondo nelle scene – di brani musicali di noti artisti.

Quali sono le implicazioni legali associate al diritto di sincronizzazione per l’uso di tali brani musicali nei lavori della casa di produzione?

La sincronizzazione è un’attività ampiamente diffusa nell’ambito del settore cinematografico e pubblicitario. Essa consiste nell’associazione tra un’opera musicale e un’immagine finalizzata a realizzare un’opera di carattere audiovisivo (per esempio film, medio-cortometraggi, reclame, spot pubblicitari).

In quanto forma di sfruttamento dell’opera, il diritto di sincronizzazione rientra nell’ambito dei diritti esclusivi riconosciuti all’autore. La normativa in tema di diritto d’autore stabilisce, infatti, che l’autore è l’unico soggetto legittimato a utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo, originale e/o derivato (articolo 12 della legge 633/1941), nonché ad adattare e registrare l’opera su qualunque supporto (con qualunque tecnologia), riprodurla, distribuirla, noleggiarla e darla in prestito, eseguirla e comunicarla al pubblico (con qualunque supporto), in base all’articolo 61 della legge 633/1941.

La sincronizzazione di un’opera musicale necessita, pertanto, dell’autorizzazione specifica dell’autore (o dell’editore) titolare dei diritti sull’opera.

Unitamente a tale autorizzazione, è necessario ottenere il consenso da parte del produttore fonografico, o del soggetto (persona fisica o giuridica) che assume l’iniziativa e la responsabilità della prima fissazione dei suoni provenienti da una interpretazione e/o esecuzione, e che, in quanto tale, detiene i diritti sul fonogramma, o sulla registrazione e/o fissazione dell’opera (articolo 78 della legge 633/1941 ).

Opera musicale e fonogramma sono, infatti, entrambi tutelati dalla legge sul diritto d’autore, che riconosce ai rispettivi titolari determinati diritti. I diritti riconosciuti al produttore fonografico ricalcano sostanzialmente i diritti riconosciuti all’autore e consistono, in particolare, nel diritto di riproduzione, distribuzione, noleggio, prestito, esecuzione e comunicazione al pubblico (articolo 72 della legge 633/1941).

In aggiunta a tali diritti, al produttore di fonogrammi è riconosciuto il diritto a un compenso per l’utilizzazione a scopo di lucro di ciascun fonogramma a mezzo della cinematografia, della diffusione radiofonica e televisiva, compresa la comunicazione al pubblico via satellite, nelle pubbliche feste danzanti, nei pubblici esercizi e in occasione di qualsiasi altra pubblica utilizzazione dei fonogrammi stessi (articolo 73 della legge 633/1941).

Al fine di poter procedere con l’attività di sincronizzazione è, pertanto, necessario individuare i titolari effettivi dell’opera musicale e del fonogramma. Tendenzialmente, il produttore fonografico e l’editore corrispondono a due entità giuridiche distinte, ma, tuttavia, possono anche fare capo a un’unica entità giuridica (circostanza che semplifica il processo di individuazione e di negoziazione dei diritti).

Nel caso prospettato dal quesito, l’uso di brani musicali ai fini della realizzazione di un progetto audiovisivo implica la necessità di ottenere licenze di sincronizzazione dell’opera musicale da parte dell’autore (o dell’editore) titolare dei diritti di sfruttamento sull’opera, nonché di un’autorizzazione da parte del produttore fonografico detentore dei diritti sul fonogramma.

Si segnala che, in aggiunta alla licenza per la sincronizzazione dell’opera musicale, in funzione degli sfruttamenti prefissati dal licenziatario (colui che richiede la concessione di una licenza), è opportuno considerare la necessità di ottenere un’ulteriore licenza, avente a oggetto i successivi utilizzi dell’opera sincronizzata – quali riproduzione, distribuzione, noleggio e prestito, esecuzione e comunicazione al pubblico – in assenza della quale l’opera non potrebbe essere compiutamente utilizzata

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Diritti, sostenibilità e clima: la direttiva Ue entra in azienda

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 6 luglio 2024 di Marina Castellaneta

Pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea di ieri (serie L) la direttiva 2024/1760 sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità che modifica la 2019/1937 e il regolamento 2023/2859.

La direttiva Csdd (Corporate sustainability due diligence directive) dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 26 luglio 2026. Tempi brevi, quindi, che impongono alle società di grandi dimensioni, con specifiche caratteristiche di fatturato e numero di dipendenti, di partire subito con l’attivazione delle procedure richieste per garantire il rispetto dei diritti umani e l’ambiente. Questo anche perché l’ambito di applicazione è ad ampio raggio in quanto coinvolge l’intera catena dell’attività, obbligando al rispetto della due diligence nella supply chain e nella gestione del rischio. Le società dovranno essere pronte anche coi piani di transizione climatica, in linea con l’accordo di Parigi.

Ci sono voluti due anni per arrivare a un’intesa tra il Parlamento Ue e il Consiglio, intervenuti in parte annacquando la proposta presentata dalla Commissione europea nel 2022.

Nessun dubbio, però, sulla rilevanza della direttiva che permette l’ingresso in un atto vincolante del contenuto di codici di condotta e atti di soft law indirizzati alla sostenibilità e alla tutela dei diritti umani e dei lavoratori e, in particolare, dei principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.

Col nuovo sistema, le imprese di grandi dimensioni, con inizio temporalmente diversificato, dovranno rispettare nuovi obblighi per limitare gli impatti negativi in questi settori. In caso di violazione scatteranno misure per accertare la responsabilità delle imprese, incluse le attività delle filiazioni e dei partner commerciali parte della catena di attività della società.

Ambito di applicazione

Riguardo all’ambito di applicazione, la direttiva è rivolta alle società costituite secondo la normativa di uno Stato membro (e anche di Stati terzi con fatturato generato nell’Ue) che abbiano, in media, più di mille dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale superiore a 450.000.000 euro nell’ultimo esercizio di adozione del bilancio d’esercizio.

È stato possibile ampliare l’ambito di applicazione, seppur in modo più limitato rispetto agli obiettivi di partenza, anche alle società che non raggiungono i criteri previsti dall’articolo 2, lettera a, se si tratta di società capogruppo di un gruppo che ha raggiunto i limiti previsti o accordi di franchising o licenza nell’Unione «in cambio di diritti di licenza con società terze indipendenti se gli accordi garantiscano un’identità comune».

Processo in sei fasi

Le società destinatarie degli obblighi dovranno rispettare il processo di attuazione del dovere di diligenza in sei fasi: integrazione della due diligence nelle politiche e nei sistemi di gestione, individuazione e valutazione degli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente, la prevenzione, l’arresto o la minimizzazione degli impatti negativi effettivi o potenziali, il monitoraggio e la valutazione delle misure, la comunicazione e la riparazione. Inoltre, è previsto un sistema per azioni di risarcimento danni a vantaggio di persone fisiche e giuridiche, con l’obbligo per gli Stati di prevedere termini di prescrizione non inferiori ai cinque anni.

Sistema di controllo

È stato attivato un sistema ramificato di controllo: la Commissione dovrà istituire un help desk unico che lavorerà con autorità nazionali e Stati membri, i quali dovranno prevedere le autorità di controllo competenti a vigilare sul rispetto degli obblighi.

Tra i poteri delle autorità di controllo, la possibilità di avviare indagini di propria iniziativa o dopo segnalazione e di effettuare ispezioni, anche transfrontaliere, coordinandosi con gli altri Stati.

Dovranno poi essere predisposti meccanismi di notifica e procedure di reclamo, attivabili da persone fisiche o giuridiche colpite da un impatto negativo o che hanno motivo di ritenere che saranno colpite, da sindacati, altri rappresentanti dei lavoratori e organizzazioni della società civile.

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Residenza fiscale, nuove norme senza retroattività

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 19 luglio 2024 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Le nuove regole sulla residenza fiscale introdotte valgono dal 1° gennaio 2024 e non possono essere applicate retroattivamente, in quanto non si tratta di norme interpretative. Ad affermarlo è la sentenza 19843/2024 della Cassazione, depositata il 18 luglio.

La vicenda trae origine dal ricorso proposto da un contribuente residente nel Principato di Monaco avverso un avviso di accertamento con il quale l’Ufficio contestava la residenza fiscale in Italia, dal momento che aveva mantenuto sul territorio nazionale il centro dei propri interessi vitali. Il giudice di primo grado accoglieva il ricorso, ma la sentenza veniva riformata in appello. Il contribuente ricorreva così in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, l’errata applicazione delle norme in materia di residenza previste dal Tuir.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che l’articolo 2 del Dpr 917/1986 è stato di recente modificato, introducendo un concetto di domicilio valevole ai fini fiscali.

Più precisamente, prima della novella, la norma mutuava la nozione di residenza e domicilio dal Codice civile, secondo il quale per residenza si intende il luogo in cui la persona ha la dimora abituale e, per domicilio, il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi.

Con la modifica, solo la residenza è rimasta legata al Codice civile, mentre per il domicilio è stata introdotta una specifica nozione. Ora, infatti, per domicilio deve intendersi il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona.

Tuttavia, la Cassazione ha rilevato che la decorrenza di tale modifica è stata individuata nel 1° gennaio 2024 ed il testo non fornisce alcun elemento idoneo a qualificare questa disposizione di interpretazione autentica.

Tanto più che di fatto la definizione di domicilio incide sulle condizioni fattuali che determinano la soggettività passiva e, quindi, sull’onere della prova, con l’evidente conseguenza che non può avere alcuna efficacia antecedente al 1° gennaio 2024. Solo da tale data, per l’individuazione del domicilio avranno rilevanza le relazioni personali in via principale.

Per il passato, secondo la Suprema Corte, in base ad alcuni orientamenti giurisprudenziali sia nazionali sia unionali, le relazioni affettive e familiari del contribuente non rivestono un ruolo prioritario, ma rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo con il quale il soggetto ha il più stretto collegamento riconoscibile dai terzi.

È stato così affermato il principio secondo cui il concetto di domicilio, nella versione applicabile fino al 1° gennaio 2024, coincide con il centro degli affari e degli interessi vitali della persona, dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi, non rivestendo priorità le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri.

Alla luce di questo principio, è stato rigettato il ricorso del contribuente: i giudici di appello, infatti, ritenevano che in Italia sussistessero interessi patrimoniali riconoscibili a terzi, individuati nell’esercizio fattivo di cariche sociali in diverse imprese, oltre che proprietà immobiliari gestite da terzi e comunque anche interessi personali e familiari.

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Influencer e content creator, braccio di ferro sui contributi Enasarco

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 21 luglio 2024 di Mauro Pizzin

Previdenza. Forte della sentenza del Tribunale di Roma che ne ha imposto il versamento l’ente spinge sul governo per allargare la base contributiva

La sentenza 2615/2024 del 4 marzo con cui il Tribunale di Roma, in seguito a un accertamento ispettivo di Enasarco, ha deciso che l’influencer il quale promuova stabilmente e con continuità in rete i prodotti di un’azienda è inquadrabile come agente di commercio ha posto sotto i riflettori la questione dell’inquadramento nella cassa di questa nuova categoria professionale (si veda il Sole 24 Ore del 24 maggio scorso).

L’ente di previdenza integrativa obbligatoria dei professionisti dell’intermediazione commerciale e finanziaria con contratto di agenzia o rappresentanza da tempo vorrebbe, infatti, portare gli influencer entro il suo perimetro contributivo. «Fondazione Enasarco – conferma il presidente Alfonsino Mei – ha la necessità di aumentare la propria base contributiva per la stabilità su una prospettiva di 50 anni, come imposto dai ministeri vigilanti, così da riequilibrare il rapporto tra contributori e pensionati. Ora come ora, perdiamo migliaia di agenti ogni anno anche per la crescita delle piattaforme commerciali. In questo contesto vorremmo coinvolgere anche gli influencer nella nostra base contributiva per includere anche i giovani e per fare ciò abbiamo bisogno di un intervento del Governo, con cui stiamo interloquendo».

All’ingresso in Enasarco sono contrarie sia Aicdc, l’Associazione italiana content & digital creators fondata nel 2023 e che conta oltre 700 membri, sia Assoinfluencer, costituita nel 2019 e inserita nell’elenco delle associazioni professionali di cui alla legge 4/2013, nonché nella rete nazionale di Confcommercio professioni. Si tratta di due importanti realtà associative attive in quel comparto della creator economy che si stima coinvolga 350mila professionisti, per un giro d’affari potenziale di 2,55 miliardi.

Molte le motivazioni sul no alla cassa previdenziale, «a partire – sottolinea la presidente di Aicdc, Sara Zanotelli – da una differenza sostanziale data dal fatto che l’attività degli agenti di commercio è orientata alla vendita, mentre quella del content creator a una rosa di obiettivi di cui la promozione commerciale è solo una parte. Gli agenti, inoltre, guadagnano sulla base di quanto vendono, mentre i creator non sono legati per il loro compenso a un raggiungimento preciso di un obiettivo di vendita, quanto alla promozione del prodotto presso la propria comunità di followers».

Secondo Aicdc esistono poi altre differenze più tecniche: «L’agente di commercio – continua Zanotelli – è un soggetto che deve possedere, in fase di apertura dell’attività, un certo numero di requisiti professionali che vanno preventivamente verificati e non è detto che gli influencer ne siano in possesso. L’agente, poi, viene insignito di un pacchetto clienti, ha un mandato all’incasso, può concludere operazioni per conto del committente e gode di un’indennità meritocratica: tutti parametri ritenuti inapplicabili per gli influencer, che non “gestiscono” alcun pacchetto clienti».

In attesa di un pronunciamento ministeriale (la situazione attuale, secondo quanto risulta al Sole 24 Ore, è di stallo) la partita sul pagamento di Enasarco si giocherà nei tribunali, in seguito agli accertamenti ispettivi della Fondazione, come è già successo nel caso del Tribunale di Roma, in un contesto in cui le imprese e gli stessi influencer hanno cominciato a richiedere assistenza legale per rivedere i contratti ed evitare sanzioni e ulteriori costi e a valutare se sia davvero necessaria l’iscrizione alla Cassa (si veda l’articolo pubblicato su Nt+Diritto il 24 giugno scorso).

Sul fronte giudiziario, la premessa di Aicdc è che la sentenza romana è formalmente corretta: se l’agente di commercio svolge la professione anche sui social è corretto che versi i contributi Enasarco. Ciò che l’associazione mette in discussione è l’interpretazione della sentenza, perché un agente di commercio può lavorare anche sui social, ma non è detto che un content creator che lavori sui social sia inquadrabile come agente di commercio.

Poco preoccupato della portata della decisione del tribunale romano si dice il presidente di Assoinfluencer, Jacopo Ierussi, secondo cui «una sentenza trova il tempo che trova. A mio avviso questo orientamento è figlio di una mancata o non completa comprensione del fenomeno. Peraltro, secondo la Cassazione l’attività di promozione della conclusione di contratti per conto del preponente, che costituisce l’obbligazione tipica dell’agente, non può consistere in una mera attività di propaganda, da cui possa solo indirettamente derivare un incremento delle vendite, ma deve consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente a effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente, atteso che è proprio con riguardo a questo risultato che viene attribuito all’agente il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi per suo tramite e andati a buon fine. Basandoci su questo presupposto di partenza, naturalmente confliggente con le dinamiche tipiche della content creation economy, è facile comprendere come far rientrare gli influencer nell’area Enasarco appaia una forzatura».

Doing business in San Marino

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