Mese: Marzo 2025
Circolare nr 3/2025 del 28 02 2025 Ufficio Prevenzione Ambiente e Vigilanza del Territorio – Informativa trasporto rifiuti in territorio sammarinese
6 Marzo 2025
La Circolare nr 3/2025 del Dipartimento Territorio e Ambiente ricorda le norme in vigore per il trasporto di rifiuti all’interno della Repubblica elencando obblighi, esenzioni e le sanzioni relative ad infrazioni su rifiuti pericolosi e non pericolosi. Data l’entità di queste ultime se ne raccomanda un’attenta lettura.
Circolare 3 2025 trasporto rifiuti
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Rappresentanti fiscali con requisiti più stringenti e garanzie proporzionali
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2025 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Operatori esteri
Il Dm attuativo richiede di avere le stesse caratteristiche che sono già obbligatorie per i componenti di Cda e collegi dei sindaci
Le operazioni effettuate da soggetti esteri tramite rappresentante fiscale italiano diventano più sicure, sotto i profili fiscali. Stanno infatti per diventare operativi requisiti soggettivi più stringenti e il rilascio di un’idonea garanzia.
In particolare, con il decreto del 9 dicembre scorso del ministero dell’Economia e delle finanze, è stata data attuazione all’articolo 17, comma 3, ultimo periodo, del Dpr 633/1972, in tema di nuovi e più rigidi requisiti richiesti in capo al rappresentante fiscale del soggetto estero.
La norma è stata introdotta dal Dlgs 13/2024 (il cosiddetto decreto Accertamento), per rafforzare la tutela fiscale contro le frodi Iva.
Le condizioni
In tale ottica è richiesto che il rappresentante fiscale in Italia di un soggetto estero può assumere tale ruolo solo a condizione che:
sul piano soggettivo, presenti determinati requisiti di onorabilità, quali assenza di condanne o procedimenti penali pendenti per reati finanziari, violazioni gravi e ripetute in materia tributaria/contributiva eccetera;
sul piano oggettivo, rilasci una garanzia.
Il decreto attuativo
Con il decreto attuativo, il viceministro delle Finanze declina, in quattro articoli, i criteri di accesso al ruolo del rappresentante, l’oggetto e le caratteristiche della garanzia, la durata di quest’ultima e la previsione di un regime transitorio.
I requisiti
Andando con ordine, sul piano operativo, si segnala che chi intende assumere l’incarico di rappresentante fiscale deve attestare l’esistenza dei requisiti soggettivi (ex articolo 8, comma 1, lettere a, b, c e d del decreto del ministero dell’Economia e Finanze n. 164/1999) in autodichiarazione da presentarsi alla direzione provinciale delle Entrate competente in base al domicilio fiscale.
Nello specifico, si tratta degli stessi requisiti richiesti ai componenti del consiglio di amministrazione e del collegio dei sindaci, per cui questi devono:
non aver riportato condanne, anche non definitive, o sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444 del Codice di procedura civile per reati finanziari;
non aver procedimenti penali pendenti nella fase del giudizio per reati finanziari;
non aver commesso violazioni gravi e ripetute, per loro natura ed entità, alle disposizioni in materia contributiva e tributaria;
non trovarsi in una delle condizioni previste dall’articolo 15, comma 1, legge 55/1990 (come sostituito dall’articolo 1, legge 16/1992).
I riferimenti dei rappresentanti fiscali in possesso dei requisiti richiesti dalla norma e che hanno prestato idonea garanzia sono pubblici e possono essere consultati sul sito internet dell’agenzia delle Entrate.
La garanzia
Quanto alla garanzia, è chiarito che, in sostanza, essa va prestata, sotto forma di cauzione in titoli di Stato, garantiti dallo Stato o di fideiussione/polizza fideiussoria bancaria, rilasciata in favore del direttore pro tempore della direzione provinciale dell’agenzia delle Entrate competente e va consegnata di persona.
L’importo della garanzia segue un criterio di progressione che vede il valore massimale richiesto crescere all’aumentare del numero dei soggetti rappresentanti.
Per cui, il massimale minimo garantito è pari a:
30.000 euro per il rappresentante che rappresenta da 2 a 9 soggetti;
100.000 euro per il rappresentante che rappresenta da 10 a 50 soggetti;
300.000 euro per chi rappresenta da 51 a 100 soggetti;
1 milione di euro, per chi rappresenta da 101 a 1.000 soggetti;
2 milioni di euro per i rappresentanti di più di mille soggetti.
Si osserva, dunque, che il valore della garanzia richiesto è commisurato al numero dei soggetti rappresentati, essendo indifferente le dimensioni della loro impresa o, meglio, il volume d’affari realizzato attraverso la figura del rappresentante. Cosicché, potrebbe essere che il valore della garanzia richiesta resti basso se tale è il numero di soggetti esteri rappresentati, sebbene le operazioni effettuate siano di importo considerevole; viceversa, che il valore della garanzia sia particolarmente alto all’aumentare del numero di soggetti rappresentati, pur effettuando costoro, tramite rappresentante, operazioni di valore ridotto.
Inoltre, secondo quanto disposto dal legislatore nazionale, la garanzia va integrata con il conseguente passaggio da una fascia inferiore ad una superiore, in caso di aumento del numero dei soggetti rappresentanti. In tal caso, il rappresentante fiscale deve prestare la garanzia con il nuovo valore massimale minimo, presentando la relativa documentazione alla direzione provinciale dell’agenzia delle Entrate competente in ragione del proprio domicilio fiscale.
Il soggetto che assume la rappresentanza di un solo soggetto non residente non è tenuto a prestare la garanzia, ma rimane obbligato a presentare l’autodichiarazione circa la sussistenza dei requisiti soggettivi.
Per quanto riguarda poi la durata, la garanzia deve essere prestata per un periodo minimo di 48 mesi, che decorrono dalla data di assunzione del ruolo di rappresentante fiscale, ruolo che si intende assunto dal momento della presentazione della garanzia stessa alla Direzione provinciale competente.
Nel caso di aumento del numero di soggetti rappresentati, che determina il passaggio da una fascia inferiore ad una superiore della garanzia, la nuova garanzia va prestata per un periodo minimo di 48 mesi a partire dal nuovo momento di consegna della stessa.
Spirato il termine di copertura della garanzia prestata, il rappresentante non è tenuto a rinnovarla o a presentarne un’altra, a meno che non siano aumentati, nel frattempo, il numero dei soggetti rappresentati.
Le modalità operative
Con provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate, saranno individuate le modalità operative necessarie a dare attuazione a tali disposizioni entro 120 giorni dalla data di pubblicazione del Dm del 9 dicembre sulla Gazzetta Ufficiale (scadenza che dovrebbe coincidere con l’8 aprile 2025).
Il periodo transitorio
Il legislatore ha previsto poi un regime transitorio.
Alla data di pubblicazione del provvedimento (cioè l’8 aprile), i soggetti che già operano quali rappresentanti fiscali ai sensi dell’articolo 17, comma 3, Dpr 633/1972 sono tenuti, entro 60 giorni, a presentare l’autodichiarazione accertante l’esistenza dei requisiti soggettivi e a prestare la garanzia secondo le nuove modalità.
Qualora il rappresentante in questione non provveda ad adeguarsi alle nuove prescrizioni – ovvero non provvede a presentare l’autodichiarazione attestante il possesso dei requisiti soggettivi di onorabilità e/o non presenta la garanzia agli uffici competenti – l’agenzia delle Entrate comunica allo stesso, a mezzo pec o raccomandata A/R, l’avvio di una procedura di cessazione d’ufficio delle partite Iva nei confronti dei soggetti rappresentati.
Decorsi 60 giorni dalla data di ricezione di tale comunicazione, l’agenzia delle Entrate provvede alla chiusura d’ufficio delle partite Iva dei soggetti rappresentati.
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Messaggi WhatsApp con efficacia probatoria nel processo civile
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 6 Febbraio 2025 di Fulvio Pironti
Cassazione. Confermato l’orientamento dei giudici di merito: scambi in chat utilizzabili purché sia possibile verificarne la provenienza e l’affidabilità
Con l’ordinanza 1254/2025, la Cassazione ha confermato l’orientamento di merito riconoscendo valenza probatoria alla messaggistica digitale WhatsApp nei giudizi civili.
Il caso ha avuto origine dalla opposizione contro un decreto monitorio ottenuto da una società per il pagamento di serramenti. Il Tribunale, ritenendo insufficiente la prova del credito, ha accolto l’opposizione. La Corte d’appello, invece, ha riformato l’esito del primo grado poiché ha ritenuto provato con un messaggio WhatsApp il debito relativo alla fattura a sostegno del monitorio. L’ingiunto ha presentato ricorso alla Suprema corte, contestando l’uso della copia fotografica del messaggio WhatsApp e sostenendo che non era stata garantita la certezza sulla provenienza e autenticità dell’autore.
Il ricorso è stato rigettato con conferma della valenza probatoria dei messaggi conservati nella memoria del telefono cellulare. L’articolo 633 del Codice procedura civile, nel disciplinare le condizioni di ammissibilità della tutela monitoria, prevede che su istanza del creditore di una somma di denaro il giudice emette l’ingiunzione di pagamento «se del diritto fatto valere si dà prova scritta» (non specificando se debba essere cartacea o anche digitale). La Cassazione ha evidenziato che i messaggi WhatsApp sono considerati prove documentali, legittimamente acquisibili anche tramite riproduzione fotografica (come, ad esempio, gli screenshot delle chat). La validità dipende dalla possibilità di verificare la provenienza e l’affidabilità del contenuto.
I messaggi WhatsApp sono documenti elettronici che rappresentano atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e, pur non essendo firmati, rientrano nel novero delle riproduzioni informatiche previste dall’articolo 2712 del Codice civile. Ne consegue che hanno piena efficacia probatoria sempreché la parte contro cui vengono prodotti non disconosca la conformità ai fatti rappresentati.
Tali messaggi sono annoverati tra le prove documentali conosciute dal nostro ordinamento tramite una qualificazione nei termini di riproduzione informatica. L’uso di WhatsApp è ormai largamente diffuso nelle interlocuzioni personali e, grazie all’utilizzo su Pc e cellulari, sta diventando più frequente anche nei contesti lavorativi e commerciali. I messaggi salvati sulla memoria di un telefono cellulare sono da considerarsi prove documentali e possono essere legittimamente acquisiti tramite riproduzione fotografica. Ciò significa che i messaggi estratti da una chat sono utilizzabili come prova digitale sempreché sia possibile verificarne la provenienza e l’affidabilità.
Il creditore può recuperare le somme con un decreto ingiuntivo basato sulle trascrizioni dei messaggi di WhatsApp che attestino il riconoscimento del debito. La copia stampata attraverso screenshot delle conversazioni contenute nelle chat è una «riproduzione meccanica». Per l’utilizzabilità in un giudizio si richiede, in caso di specifica e circostanziata contestazione, l’acquisizione del supporto telematico dove è avvenuta la comunicazione o una relazione tecnica che attesti la metodologia e la strumentazione utilizzata per la copia in quanto va dimostrata la provenienza dal suo autore.
Il messaggio inviato in una chat di WhatsApp con cui si afferma di avere un debito nei confronti del destinatario equivale al riconoscimento dello stesso. Configura una vera e propria promessa di pagamento.
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Criptovalute, il boom dei 30mila token spazzatura
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 23 Febbraio 2025 di Vito Lops
Asset digitali. Ogni giorno vengono emesse sulla piattaforma Solana decine di migliaia di nuove memecoin il cui valore nel tempo tende a zero
«Houston abbiamo un problema. La creazione di token è ormai andata fuori controllo». Se l’Apollo 13 stesse oggi sorvolando il pianeta delle criptovalute con ogni probabilità lancerebbe questo messaggio d’allarme. Perché in effetti, la situazione sembra sfuggita di mano. Ogni giorno, solo sulla blockchain di Solana, vengono create 30mila memecoin. O forse più. Uno sviluppo frenetico che solleva interrogativi critici sulla sostenibilità del mercato e sulle implicazioni per gli investitori. Censirle sta diventando materia assai complessa: il sito Coinmarketcap stima che ad oggi siano in circolazione più di 11 milioni di criptovalute/token. Nella maggior parte di casi si tratta di memecoin, la vera moda di questo ciclo di mercato. Se il crypto bull market del 2016-2017 fu caratterizzato dall’esplosione delle Ico (Initial coin offering, token creati emulando il processo di quotazione di una società in Borsa laddove c’è in effetti una Initial public offering) e quello del 2021 dal boom dei token legati al metaverso, questo nuovo giro della storia vede invece assolute protagoniste le memecoin. In qualunque modo li si chiami il minimo comune denominatore è lo stesso: nella stragrande maggioranza dei casi nel medio-lungo termine questi progetti scompaiono o sopravvivono languenti con un prezzo di mercato che tende asintoticamente allo zero. Lasciando agli investitori (posto che sia corretto chiamarli tali) il cerino acceso in mano.
Facciamo però un passo indietro. Cosa è una memecoin? È una criptovaluta in senso stretto (se gira su una sua blockchain come ad esempio la Dogecoin tanta cara a Elon Musk) o un token (se invece si appoggia a un’altra blockchain come ad esempio quelle che nascono su Solana o Ethereum) ispirata a meme di Internet, personaggi virali o tendenze popolari. A differenza delle criptovalute tradizionali come Bitcoin o Ethereum, che hanno una tecnologia e un’utilità ben definite, le memecoin basano il valore della loro spesso breve vita esclusivamente sull’hype del momento e sull’effetto community. Il punto (e allo stesso tempo il problema per la tutela dei risparmiatori) è che creare una memecoin è oggi facilissimo: la piattaforma Solana è talmente semplice che chiunque, anche senza conoscenze informatiche, in 5-10 minuti può creare la propria memecoin, stabilendo poi la distribuzione dei token che la rappresentano. Ad esempio si può decidere di tenere una fetta importante per sé e destinare al mercato la parte restante. Dopodiché viene la fase più difficile: bisogna sponsorizzare il token utilizzando le leve del marketing e della viralità in modo tale da attirare compratori. Solitamente abboccano giovani (decisamente più abili a destreggiarsi nei crypto-wallet rispetto a chi è nato quando gli smartphone non erano stati neppure immaginati) ingolositi dall’idea di diventare ricchi rapidamente.
Dal lato dei compratori, difatti, è come acquistare un biglietto di una lotteria (truccata) con il rischio reale di pagarlo, in preda all’avidità, molto di più. E magari di comprarne troppi. Dal lato dei venditori, lo sviluppo tecnologico consente a chiunque di creare una nuova lotteria (memecoin) e di mettersi dalla parte del banco, quello che vince sempre. Perché se ho creato un token di cui decido in partenza di possederne una gran quantità, una volta che va a mercato e viene venduto a un determinato prezzo, che magari sale rapidamente nella fase iniziale creando una bolla speculativa, posso poi vendere la mia fetta. Attuando così in modo magistrale la strategia del “pump and dump”.
Se fino a qualche tempo fa le memecoin si ispiravano solo a dei meme inventati che diventano virali (un cane come nel caso di Dogecoin o una rana come per Pepe) ora il meme si sta confondendo con il personaggio pubblico. Un fenomeno particolarmente preoccupante è infatti l’uso delle memecoin come strumento di auto-promozione da parte di personaggi noti. Recenti esempi includono token associati a al presidente degli Usa Donald Trump, la consorte Melania e il presidente dell’Argentina Javier Milei, che hanno attirato enormi volumi di trading ma si sono rivelati altamente speculativi. Il 17 gennaio, tre giorni prima della sua seconda inaugurazione presidenziale, il tycoon ha annunciato il lancio della memecoin $TRUMP. Inizialmente, il valore del token è aumentato rapidamente, raggiungendo una capitalizzazione di mercato di 27 miliardi di dollari. Tuttavia, nelle settimane successive, il valore è diminuito dell’80% rispetto ai massimi vicini a 80 dollari. La società di analisi blockchain Chainalysis ha calcolato che mentre le aziende di Trump e i loro partner avrebbero guadagnato circa 100 milioni di dollari in commissioni di trading, oltre 813mila portafogli hanno registrato perdite cumulative di 2 miliardi. Due giorni dopo, il 19 gennaio, Melania Trump ha lanciato la sua memecoin, $MELANIA, poco prima dell’inaugurazione presidenziale di suo marito. Simile a $TRUMP, la “moneta” ha visto un’impennata iniziale del valore, seguita da un crollo del 70%. Seguendo questa onda il 14 febbraio il presidente argentino Javier Milei ha promosso la criptovaluta $LIBRA attraverso il suo account X. Dai massimi a 0,8 centesimi è ora in rosso dell’80% a 0,18. Sempre Chainalysis ha rilevato che otto portafogli di criptovaluta collegati ai creatori del token hanno prelevato circa 99 milioni di dollari dalla liquidità del token, mentre ovviamente chi ha acquistato sui massimi in preda alla fomo (fear of missing out, paura di perdere l’occasione della vita) ora si sta leccando le ferite. L’opposizione politica ha accusato Milei di coinvolgimento in una presunta frode finanziaria e ha presentato diverse denunce penali, oltre a sollecitare l’avvio di un processo di impeachment. Una sorta di “Cryptogate”.
Dove si andrà a parare di questo passo non lo sa nessuno. Né Apollo 13, neppure Satoshi Nakamoto, colui che ha inventato 15 anni fa il protocollo informatico Bitcoin, l’unica criptovaluta che in tutto questo caos ha mantenuto la sua integrità. Bitcoin non è solo il primo asset digitale decentralizzato, ma è anche l’unico che ha introdotto il concetto di scarsità nel mondo digitale. E forse, se Nakamoto starà osservando l’evoluzione del mercato crypto, starà pensando che i migliaia di cloni fraudolenti nati dalla sua invenzione non erano esattamente parte del piano.
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Imposta nello Stato del committente
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2025 di Alessandro Caputo
Eventi online
Abolito il criterio del Paese di svolgimento
Nuove regole per gli eventi trasmessi via streaming o resi virtualmente disponibili. Il Dlgs 180/2024 recepisce la direttiva (UE) 2022/542 e prevede, in sintesi, che per tali eventi l’Iva va applicata nello Stato del committente e non più nello Stato in cui la manifestazione si svolge.
La regola generale Iva delle prestazioni di servizi è contenuta nell’articolo 7-ter del Dpr 633/1972 e dispone che le prestazioni di servizi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato o quando sono rese a committenti non soggetti passivi da soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato.
Il successivo articolo 7-quinquies, al comma 1, lettera a),prevede una deroga alla regola generale per le prestazioni di servizi culturali, artistici, sportivi, scientifici, educativi, ricreativi e simili.
In particolare, la norma dispone che le prestazioni di servizi relativi ad attività culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, comprese le fiere ed esposizioni, le prestazioni di servizi degli organizzatori di dette attività, nonché le prestazioni di servizi accessorie alle precedenti si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando le medesime attività sono ivi materialmente svolte.
La norma prevede che la disposizione si applica anche alle prestazioni di servizi per l’accesso alle manifestazioni culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, nonché alle relative prestazioni accessorie
A decorrere dal 2025, l’articolo 3 del Dlgs 180/2024 modifica l’articolo 7-quinquies, comma 1, lettera a) del Tuir, prevedendo che, se i servizi e i servizi accessori si riferiscono ad attività che sono trasmesse in streaming o altrimenti rese virtualmente disponibili, le prestazioni si considerano effettuate nel territorio dello Stato se il committente è domiciliato nel territorio dello Stato o è ivi residente senza domicilio all’estero.
Il Dlgs 180/2024, inoltre, modifica anche la lettera b) dell’articolo 7-quinquies, il quale – nella sua versione originaria – dispone che le prestazioni di servizi per l’accesso a manifestazioni culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, ivi comprese fiere ed esposizioni, nonché le prestazioni di servizi accessorie connesse con l’accesso, rese a committenti soggetti passivi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando ivi si svolgono le manifestazioni stesse.
Adesso, la novità è che questa disposizione non si applica all’ammissione agli eventi se la presenza è virtuale.
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Nuovo regime transfrontaliero di franchigia per le Pmi sotto soglia
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2025 di Alessandra Caputo
Piccole attività
Il volume d’affari Ue nell’anno civile in corso e in quello precedente la comunicazione di ingresso non può superare i 100mila euro
Dal 2025 entra in vigore il regime di franchigia Iva transfrontaliero. Con il Dlgs 180/2024 è stata, infatti, recepita la direttiva (UE) 2020/285 del Consiglioc, che introduce un regime speciale con cui si estende l’esonero dall’Iva alle piccole e medie imprese (Pmi) che compiono cessioni di beni e/o prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in altri Stati Ue a condizione che il volume di affari sia al di sotto di determinate soglie.
Le novità sono contenute nel titolo V-ter del Dpr 633/1972 e le ipotesi disciplinate (in maniera quasi speculare) sono due:
1 l’applicazione del regime di franchigia Iva nazionale ai soggetti stabiliti in altri Stati membri dell’Unione europea;
2 l’applicazione del regime di franchigia in altri Stati membri, da parte dei soggetti stabiliti in Italia.
La modifica è rilevante, perché consente di superare l’impatto negativo che sulla concorrenza produceva la limitazione dell’accesso all’esenzione per i soggetti non stabiliti; in sostanza, consente a soggetti non stabiliti di beneficiare del regime di franchigia in uno Stato Ue (che lo ha introdotto) alle medesime condizioni previste per i soggetti residenti nello Stato.
Soggetti stabiliti all’estero
Per quanto riguarda i soggetti passivi persone fisiche stabiliti in un altro Stato membro dell’Unione europea, questi possono applicare il regime di franchigia in Italia se ricorrono alcune condizioni. In particolare, per accedere è necessario: non superare determinate soglie di ricavi; trasmettere una apposita comunicazione; essere identificati dal numero di identificazione EX esclusivamente nello Stato membro di stabilimento.
Per quanto riguarda le soglie da non superare, è necessario che:
nell’anno civile precedente, il volume d’affari annuo dell’Unione europea (cioè il valore totale annuo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, al netto dell’Iva, effettuate nel territorio dell’Unione europea) non deve essere stato superiore a 100mila euro;
nell’anno civile precedente, il volume d’affari annuo realizzato nel territorio dello Stato non deve aver superato la soglia di 85mila euro stabilita dal comma 54 della legge 190/2014 per l’accesso al regime forfettario;
nel periodo dell’anno civile in corso precedente a quello in cui viene comunicato al proprio Stato di stabilimento l’intenzione di avvalersi del regime di franchigia nel territorio dello Stato, e comporta che il volume d’affari nell’Unione europea non deve essere superiore a 100milaeuro.
Soggetti stabiliti in Italia
Anche il soggetto stabilito nel territorio italiano può essere ammesso al regime di franchigia di un altro Stato (sempre che quest’ultimo lo abbia adottato), comunicando preventivamente all’agenzia delle Entrate l’intenzione di avvalersi del regime e se rispetta alcuni specifici requisiti.
In particolare:
nell’anno civile precedente alla comunicazione, il volume d’affari annuo dell’Unione europea non è stato superiore a 100mila euro;
nel periodo dell’anno civile in corso precedente alla comunicazione, il volume d’affari annuo dell’Unione europea non è stato superiore a 100mila euro;
il volume d’affari annuo realizzato nel territorio dello Stato di esenzione non è superiore a quello previsto da tale Stato per l’applicazione del regime di franchigia;
è identificato ai fini dell’applicazione della franchigia nel solo territorio dello Stato.
L’agenzia delle Entrate assegna al soggetto passivo il suffisso EX, aggiungendolo al numero di partita Iva, in relazione agli Stati di esenzione che hanno ammesso tale soggetto passivo al regime di franchigia, non oltre 35 giorni lavorativi dalla ricezione della comunicazione. Dal momento di attribuzione del suffisso EX, si applica il regime di franchigia nello Stato di esenzione.
Dati da trasmettere
Le informazioni che i soggetti che intendono avvalersi del regime di franchigia in uno Stato di esenzione sono tenuti a trasmettere all’agenzia delle Entrate, nonché le modalità e i termini per effettuare la comunicazione preventiva contenente le predette informazioni, sono oggetto del Provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate 460166 del 2024.
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Transfer pricing, ecco sette motivi che giustificano il prestito infruttifero
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 24 Febbraio 2025 di Massimo Bellini e Enrico Ceriana
È conforme alla normativa sui prezzi di trasferimento un finanziamento infruttifero per cui il contribuente sia in grado di giustificare le valide ragioni economiche sottostanti la mancata applicazione di un tasso di interesse. Questo è il principio espresso dalla Corte di giustizia tributaria della Lombardia con la sentenza n. 1633/4/2024 (presidente e relatore Servetti). La pronuncia merita attenzione non tanto per la conclusione, che conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, quanto perché evidenzia con chiarezza alcune argomentazioni che si possono utilizzare per supportare la congruità con il principio di libera concorrenza di finanziamenti non onerosi.
La controversia nasce da una contestazione dell’ufficio per omessa contabilizzazione di interessi attivi maturati su finanziamenti erogati a due società collegate in violazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir, che venivano rideterminati in sede di verifica sulla base del bollettino statistico della Banca d’Italia.
La Cgt di secondo grado accoglieva l’appello del contribuente che aveva fornito le «ragioni commerciali interne al gruppo, connesse al ruolo assunto dalla controllante a sostegno delle consociate» sottese alla gratuità del finanziamento. Sono sette i punti che hanno formato il convincimento dei giudici:
1 in virtù del rapporto di partecipazione la controllante aveva interesse a fornire sostegno finanziario non remunerato, avendo come obiettivo lo sviluppo ed il successo commerciale della partecipata da cui potrà avere un ritorno economico;
2 i finanziamenti erano a tempo indeterminato, caratteristica che di per sé esclude la possibilità che un istituto di credito possa erogare somme senza contestuale previsione di loro restituzione;
3 il trend dei saldi creditori sempre crescente, unitamente all’ indeterminatezza del termine di restituzione, assimilava le erogazioni a versamenti in conto capitale;
4 le controllate avevano avuto ricorrenti perdite per cui sarebbe stato del tutto irragionevole l’aggravamento dei risultati che sarebbe derivato dalla pretesa onerosità dei finanziamenti;
5 le due controllate beneficiarie del finanziamento non godevano di merito creditizio, atteso che i rispettivi elevati gradi di indebitamento comportavano l’oggettiva incapacità di ottenere credito da terzi per cui l’unica possibile fonte di supporto finanziario era la controllante;
6 il gruppo si trovava in situazione finanziaria precaria, tanto da giungere a un accordo di ristrutturazione del debito ex articolo 67 della legge fallimentare, comportante la postergazione ex lege dei finanziamenti in oggetto e il congelamento dei finanziamenti bancari;
7 infine per una delle due consociate il contratto si inseriva in un più ampio accordo finanziario in cui vi erano anche istituti di credito terzi da cui si poteva desumere che l’infruttuosità del finanziamento fosse la reale, e unica, condizione di mercato perseguibile.
Si ricorda che, secondo la Cassazione (7361/2024), la dimostrazione delle ragioni commerciali interne al gruppo rappresenta elemento rilevante ai fini della verifica della conformità al principio di libera concorrenza.
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Se si abbandona il posto di lavoro rapporto chiuso senza convalida
5 Marzo 2025
I Focus di Norme e Tributi 20 Febbraio 2025 di Giampiero Falasca
Dimissioni di fatto
Recesso per assenza ingiustificata oltre il termine del Ccnl o dopo 15 giorni con comunicazione del datore all’Ispettorato
Il dipendente che abbandona il posto di lavoro va considerato un “dimissionario di fatto” e il rapporto si estingue senza la necessità della convalida telematica: questa la novità introdotta dal collegato lavoro (legge 203/2024), nata per colmare una vistosa lacuna della precedente disciplina.
Secondo le regole vigenti prima di questo intervento (articolo 26 del Dlgs 151/2015) non era possibile considerare dimissionario un lavoratore che non aveva completato la procedura telematica di convalida di dimissioni, neanche in presenza di fatti concludenti (assenza prolungata senza motivo, eccetera), come aveva confermato anche la giurisprudenza di merito. Con la nuova disciplina, se il lavoratore risulta assente ingiustificato per un periodo superiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale (in mancanza di previsione collettiva, si applica un termine di 15 giorni) il datore può considerare dimissionario il dipendente, senza pagare il ticket, senza dover licenziare e senza accesso alla Naspi.
Una norma di buon senso, che semplifica il percorso di gestione delle dimissioni e previene comportamenti opportunistici, come quello di chi “provoca” il proprio licenziamento per accedere alla Naspi.
La procedura
Per poter applicare questa disciplina, il datore di lavoro deve seguire una procedura che inizia con una comunicazione del datore di lavoro all’Ispettorato territoriale del lavoro (Itl).
L’Ispettorato, con una nota del 22 gennaio scorso, ha chiarito il contenuto minimo di tale comunicazione e la procedura da seguire. La comunicazione va mandata alla sede territoriale afferente al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro, ragion per cui l’Itl ha elaborato un modello con tutte le informazioni da inviare. Tale modello dovrà essere inviato in via preferenziale a mezzo Pec all’indirizzo istituzionale di ciascuna sede, ma non sono escluse forme differenti di invio (e-mail ordinaria, raccomandata, eccetera).
Le verifiche ispettive
Una volta inviata la comunicazione all’Ispettorato, il datore può comunicare – usando il modello Unilav – la cessazione del rapporto per dimissioni.
Il rapporto si interrompe per dimissioni di fatto, ma la procedura prosegue con una fase fondamentale, quella della verifica. Gli organi territoriali possono contattare il lavoratore, altro personale impiegato presso il medesimo datore di lavoro e ogni altro soggetto che possa fornire elementi utili per verificare che sussista davvero un’assenza ingiustificata. La verifica degli ispettori, secondo Itl, può estendersi anche ai motivi alla base dell’assenza: gli ispettori dovranno informare il lavoratore dei diritti scaturenti da eventuali situazioni di questo tipo. È prevedibile che su questo punto sorgeranno diverse contestazioni, non essendo chiaro il perimetro dell’indagine da svolgere.
Questa fase ha una durata massima di 30 giorni dalla ricezione della comunicazione trasmessa dal datore di lavoro, e può avere due esiti differenti.
Se viene accertata la falsità della comunicazione, l’Ispettorato comunica l’inefficacia della risoluzione sia al lavoratore – il quale avrà diritto alla ricostituzione del rapporto, ove il datore abbia già fatto la comunicazione di cessazione – sia al datore di lavoro. Se la verifica conferma la veridicità dell’assenze, le dimissioni di fatto già comunicate dal datore a inizio procedura restano valide, senza necessità di ulteriori adempimenti.
L’onere della prova
La legge assegna, infine, al lavoratore la possibilità di evitare l’effetto risolutivo, laddove i dimostri l’impossibilità di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore. L’oggetto della prova sembra riguardare, quindi, l’impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza al datore (ad esempio, perché ricoverato in ospedale) o comunque la circostanza di averli comunicati. Non è chiaro se la contestazione possa estendersi anche al merito dei motivi dell’assenza.
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La cessione dei brevetti va tassata come reddito diverso
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 1 Marzo 2025 di Daniele Gro e Gabriele Sepio
La cessione dei brevetti va tassata come reddito diverso
Enti non commerciali: la cessione di un brevetto è tassata come reddito diverso in quanto la persona giuridica non può qualificarsi come inventore. Così la risposta 51/2025 delle Entrate sulla cessione delle risultanze «brevettate» delle attività di ricerca svolte dai dipendenti di un ente non commerciale.
Una fondazione avente come finalità lo svolgimento di ricerche scientifiche ha chiesto di valutare la possibilità di considerare non imponibili i redditi derivanti dalla cessione/conferimento di un brevetto sviluppato nell’ambito della propria attività. Secondo l’ente, tali somme costituirebbero redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, che non figurano tra quelli che concorrono alla formazione del reddito complessivo degli enti non commerciali ai sensi dell’articolo 143 del Tuir.
Nel respingere la soluzione prospettata, l’Agenzia ha affermato che i proventi derivanti dallo sfruttamento economico di un brevetto possono qualificarsi come redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo solo se «direttamente» percepiti dal soggetto inventore (articolo 53, comma 2, lettera b), del Tuir). Da ciò discende che, in assenza di tale status, il reddito derivante dalla cessione o conferimento del brevetto deve essere ricondotto tra quelli «diversi» ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera g), del Tuir.
Il condivisibile ragionamento dell’Amministrazione ruota attorno alla circostanza che il diritto di sfruttamento economico delle ricerche è attribuito a una persona giuridica – la Fondazione – e non ai soggetti inventori, ossia i ricercatori dell’ente (titolari, nel caso di specie, della sola paternità morale dell’opera). Sul punto, l’Agenzia richiama l’articolo 64 del Codice della proprietà industriale, che attribuisce al datore di lavoro i diritti derivanti dalle invenzioni realizzate dal dipendente, salvo il diritto di quest’ultimo di esserne riconosciuto autore. Tale circostanza non è priva di conseguenze fiscali: anche se l’ente ha investito risorse nella ricerca e ha sopportato gli oneri connessi alla brevettazione, i proventi derivanti dalla cessione del brevetto non generano redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, proprio perché l’ente non può essere autore materiale dell’opera.
Pertanto, la cessione sarà generativa di un reddito diverso in capo alla Fondazione, detentrice dei diritti economici connessi all’attività di ricerca. La stessa logica vale anche nel caso in cui il brevetto sia conferito in una società. Ciò in quanto il conferimento è fiscalmente equiparato alla cessione ai sensi dell’articolo 9, comma 5, del Tuir, con determinazione dell’imponibile da effettuarsi sulla base del valore normale del brevetto (articolo 9, comma 2, del Tuir).
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Prodotti difettosi, risponde il fornitore se coincide con il marchio
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 7 Febbraio 2025 di Mario Benedetti e Marta Minnici
In base all’articolo 3, paragrafo 1) della direttiva 85/374/CEE in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, il fornitore di un prodotto deve essere considerato una «persona che si presenta come produttore» dello stesso qualora tale fornitore non abbia materialmente apposto nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, ma il marchio che il produttore ha apposto su quest’ultimo coincida, da un lato, con il nome del fornitore o con un elemento distintivo di quest’ultimo e, dall’altro, con il nome del produttore.
È questo il principio espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nella causa C-157/23, a seguito di un recente rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte di cassazione, nell’ambito di una controversia che ha coinvolto l’acquirente di un’automobile difettosa, vittima di un incidente stradale, e la nota casa produttrice automobilistica a marchio Ford.
La vicenda nasce nel 2001, anno in cui il consumatore aveva acquistato un’automobile presso la concessionaria S., rivenditore Ford autorizzato in Italia. Il veicolo in questione era stato fabbricato dalla Ford Wag in Germania e poi distribuito in Italia dalla Ford Italia. A seguito del sinistro stradale verificatosi qualche mese dopo l’acquisto, durante il quale l’airbag del veicolo non si era attivato correttamente, il consumatore aveva deciso di ricorrere dinanzi al Tribunale di Bologna al fine di ottenere il risarcimento dei danni dalla concessionaria e dalla Ford Italia, sostenendo che la responsabilità per il difetto fosse da attribuire alla qualità del veicolo. Ford Italia respingeva la sua responsabilità, affermando di non essere il produttore del veicolo, bensì il fornitore.
La causa proseguiva dinanzi alla Corte di Appello di Bologna, la quale, tuttavia, motivando che l’appellante, in qualità fornitore, era stata correttamente sottoposto alla stessa responsabilità che incombeva al produttore, confermava quanto statuito dal giudice di primo grado.
Successivamente, la Ford Italia ricorreva dinanzi alla Corte di cassazione. I giudici di legittimità, nutrendo dubbi interpretativi sulla portata esatta dell’articolo 3, paragrafo 1) della direttiva 85/374 e, in particolare, sull’estensione della responsabilità del produttore al fornitore, decidevano di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: «Se sia conforme all’articolo 3, paragrafo 1, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore».
Preliminarmente, la Corte di giustizia UE ha precisato che l’articolo 1 della direttiva n. 85/374/CEE attribuisce al produttore la responsabilità per danno da prodotti difettosi, mentre l’articolo 3, paragrafo 1) di tale direttiva definisce il termine «produttore» come, in particolare, il fabbricante di un prodotto finito, il produttore di una materia prima o il fabbricante di una parte componente. E sebbene, in forza dell’articolo 1 della direttiva n. 85/374/CEE, il legislatore europeo abbia scelto di imputare, in linea di principio, al produttore la responsabilità per i danni causati dai suoi prodotti difettosi, l’articolo 3 della citata direttiva designa, tra gli operatori che hanno partecipato ai processi di fabbricazione e di commercializzazione del prodotto in questione, quelli che possono, altresì, assumere la responsabilità istituita da detta direttiva.
In tale contesto, ad avviso della Corte di giustizia Ue, è indifferente che il fornitore abbia materialmente apposto la siffatta menzione sul prodotto o che il suo nome contenga la menzione che è stata apposta su di esso dal produttore e che corrisponde al nome di quest’ultimo. Infatti, in entrambe le ipotesi, il fornitore sfrutta la coincidenza tra la menzione di cui trattasi e la propria denominazione sociale per presentarsi al consumatore come responsabile della qualità del prodotto, suscitando in esso una fiducia paragonabile a quella che questi avrebbe se il prodotto fosse venduto direttamente dal produttore. In entrambi i casi, il fornitore deve, dunque, essere considerato una persona che «si presenta come produttore», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, letto alla luce dei considerando n. 4 e n. 5 della direttiva n. 85/374/CEE.
I giudici dell’Unione Europea risolvono la questione sollevata chiarendo che un fornitore può essere ritenuto produttore se il suo nome coincide con il marchio presente sul prodotto, precisando che, al fine di garantire la tutela del consumatore, il legislatore dell’Unione ha voluto che la responsabilità di «chiunque si presenti come produttore» sorga allo stesso modo di quella del «vero» produttore. Difatti, il consumatore deve avere la libertà di chiedere il risarcimento integrale del danno a uno qualsiasi dei responsabili, essendo la loro responsabilità solidale in base all’articolo 5 della citata direttiva.
Tale pronuncia assume notevole rilievo nell’ambito della tutela del consumatore, specialmente alla luce della nuova direttiva (UE) 2024/2853 con la quale viene garantita una protezione ancor più uniforme per i consumatori e maggiore certezza giuridica per gli operatori economici nell’Unione Europea.