Con la stretta sulle false fatture rischiano contribuenti ignari
11 Novembre 2019
Il Sole 24 Ore 25 OTTOBRE 2019 di Antonio Iorio
LE NUOVE REGOLE
Spesso in casi di documenti soggettivamente inesistenti l’utente finale non sa del reato
L’aumento della reclusione per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture rischia di penalizzare in modo esagerato, e verosimilmente immotivato, i numerosi imprenditori che, spesso senza esserne consapevoli, vengono coinvolti in casi di fatturazioni soggettivamente inesistenti.
Secondo la normativa penale (articolo 1 del decreto legislativo 74/2000) il delitto citato, e quello simmetrico di emissione di falsi documenti, scatta in tre ipotesi: fatture oggettivamente inesistenti riferita ad operazioni del tutto fittizie; sovrafatturazione riferita ad operazioni in parte prive di riscontro nella realtà; fatture soggettivamente inesistenti riferite ad operazioni in cui l’emittente o il beneficiario dell’operazione risultante dal documento non è quello reale.
Mentre nei primi due casi sono attestati cessioni o prestazioni mai avvenute, o poste in essere solo parzialmente, implicando l’ovvia consapevolezza dell’illecito da parte del contribuente che contabilizza le fatture, nel terzo caso spesso l’utilizzatore è ignaro dell’illecito. Quest’ultima contestazione, normalmente rilevata in occasione di controlli fiscali, scatta in genere quando il cedente o il prestatore non ha struttura idonea per effettuare l’operazione o quando a seguito di alcune operazioni scompare e non adempie a obblighi fiscali come dichiarazione o versamento.
L’acquirente, non potendo conoscere la correttezza fiscale del suo fornitore, è spesso ignaro delle sue violazioni. Il fisco, però gli contesta l’indebita detrazione dell’Iva.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale per simili contestazioni l’amministrazione ha l’onere iniziale di provare, anche in via presuntiva, l’interposizione fittizia del cedente ovvero la frode fiscale commessa a monte da altri soggetti. Compete poi all’acquirente provare la propria buona fede. In caso contrario l’Iva è indetraibile.
In genere la buona fede non viene valutata dall’amministrazione che presume la responsabilità dell’acquirente. Il Pvc e l’avviso di accertamento sono così inviati in Procura perché la condotta ipotizzata integra anche il reato di dichiarazione fraudolenta.
Il contribuente, così, viene sottoposto ad un procedimento penale senza comprenderne le ragioni: ha contabilizzato la fattura, ha ricevuto i beni o i servizi, ha pagato regolarmente il documento, con l’unica “irregolarità” (peraltro non prevista da norme di legge ma dalla giurisprudenza) che avrebbe dovuto accorgersi della sospetta posizione del fornitore.
Con le nuove norme in questi casi rischierà addirittura la reclusione da 4 a 8 anni. Sarà sufficiente infatti ricevere fatture per imponibili superiori a 100mila euro (che in concreto equivalgono ad una detrazione Iva di poco più di 22mila euro) per non beneficiare della nuova attenuante (reclusione da 18 mesi a 6 anni).
A ciò va aggiunto che normalmente, almeno la GdF, per questi reati, chiede quasi automaticamente il sequestro dei beni. È evidente che si rischia di addossare un onere esagerato ad imprenditori (medio/piccoli) e artigiani. A nulla rilevando che l’iter processuale porterà verosimilmente a un’assoluzione in quanto sono comunque affrontati rischi e spese considerevoli. È auspicabile, allora, che termini l’automatismo dei verificatori di trasmettere sempre la notizia di reato in Procura in presenza di mere presunzioni tributarie o che comunque ne venga data ampia evidenza. Da parte di Pm e Gip, si spera che, una volta rilevata la base presuntiva della contestazione, non vi siano remore a chiedere l’archiviazione. Il rischio, altrimenti, è di colpire gli imprenditori poco avveduti e non i veri evasori.