Riserva di utili da potenziare per il debito da dividendi

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 10 giugno 2024 di Sergio Pellegrino e Lucia Recchioni

In base all’articolo 2949 del Codice civile, i diritti che derivano dai rapporti sociali, come ad esempio i dividendi, si prescrivono in cinque anni se la società è iscritta nel Registro delle imprese.

Ci si potrebbe quindi chiedere come deve essere trattata fiscalmente, in capo alla società, la prescrizione del debito da dividendi, e come questa debba trovare rappresentazione nel prospetto del capitale e delle riserve del quadro RS del modello Redditi.

Utili spunti possono essere tratti dalla sentenza Ctr Friuli Venezia Giulia 19/2020, riguardante un avviso di accertamento emesso nei confronti del socio per omessa dichiarazione di dividendi la cui prescrizione era stata rilevata contabilmente dalla società.

I giudici, nel ritenere non applicabile, nel caso in esame, la teoria dell’incasso giuridico, hanno evidenziato che «la prescrizione non fa emergere alcuna sopravvenienza attiva e correttamente la società ha registrato l’estinzione del debito tra le riserve di utili facenti parte del patrimonio netto: ciò sta a significare che solo in caso di distribuzione delle riserve di patrimonio netto, il socio sarà tenuto a versare l’imposta dovuta, diversamente si verificherebbe una doppia imposizione dello stesso reddito, in quanto l’utile già tassato una prima volta, verrebbe tassato una seconda volta quale sopravvenienza attiva».

Dovendo escludere, quindi, la rilevazione di un componente positivo di reddito a fronte della cancellazione del debito (come potrebbe avvenire per la prescrizione dei debiti nei confronti di soggetti diversi dai soci), si ritiene che la contropartita possa essere rappresentata, alla luce della sentenza citata, da una riserva di utili.

Dalla lettura del principio contabile Oic 28 si potrebbe desumere anche la possibilità di iscrizione di una riserva di capitali, nel caso in cui l’operazione, sostanzialmente assimilata a una rinuncia al credito (pur non potendo essere considerata pacificamente tale), mostrasse una volontà di rafforzamento patrimoniale della società. Tale finalità, tuttavia, si ritiene difficilmente dimostrabile nel caso della prescrizione, la quale presuppone il mancato esercizio dei diritti per un determinato lasso di tempo.

Pertanto, si ritiene che, a fronte dell’eliminazione del debito, debba essere incrementata una riserva di utili del patrimonio netto.

Continuando a concentrarsi sulla tassazione delle società, ci si potrebbe infine chiedere se può applicarsi l’articolo 88, comma 4-bis, del Tuir, in forza del quale la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Anche in tal caso si ritiene che la prescrizione non possa essere assimilata a una rinuncia, dovendo tra l’altro aggiungersi che non vi sarebbe alcuna corrispondenza con componenti negativi dedotti (o, comunque, deducibili) in precedenti esercizi.

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Immobile ereditato all’estero: plusvalenza esente in Italia

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 1 Luglio 2024 di Alfredo Calvano e Attilio Calvano

Un cittadino italiano, residente in Italia, realizza una plusvalenza per la cessione di una casa sita all’estero, ereditata da più di cinque anni dal padre, che era un cittadino italiano iscritto all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero).

Si chiede se la plusvalenza è soggetta a tassazione in Italia.

Si segnala l’operatività delle esimenti reddituali – di natura temporale o giuridica – riconosciute, in alternativa fra loro, dall’articolo 67, lettera b), del Tuir (Dpr 917/1986), in caso di vendita dell’immobile (fabbricato o terreno non edificabile) ancorché situato all’estero.

Pertanto, la plusvalenza realizzata nel caso descritto dal quesito non è imponibile, in quanto il bene è stato acquisito per successione ereditaria (questa esimente assorbe quella rappresentata dal possesso ultraquinquennale, rilevante in caso di acquisto oneroso), a prescindere dalla soggettività fiscale, nazionale o estera, del defunto, come pure dalla collocazione territoriale dell’immobile oggetto di vendita.

Tanto considerato, occorre, tuttavia, che venga valutato anche il regime impositivo dello Stato estero in cui è ubicato l’immobile, alla luce delle norme convenzionali contro le doppie imposizioni, che potrebbero disporre comunque la tassazione (solitamente esclusiva) della vendita nello stesso Stato estero.

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Riciclaggio, Montecarlo nella lista grigia dei Paesi sotto osservazione

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 29 giugno 2024 di Giovanni Parente e Valerio Vallefuoco

Sotto osservazione. Il Principato di Monaco (Montecarlo) e il Venezuela entrano in lista grigia antiriciclaggio. Lista grigia da cui escono invece Giamaica e Turchia. A stabilirlo è stato il Gafi (gruppo di azione finanziaria internazionale) nella sua riunione plenaria svoltasi a Singapore. Una decisione che per il Principato monegasco era nell’aria  e che è arriva nonostante i passi avanti riconosciuti dallo stesso Gafi: Monaco ha compiuto progressi significativi su molte delle azioni raccomandate, tra cui l’istituzione di una nuova unità combinata di informazione finanziaria e di vigilanza antiriciclaggio, rafforzando il suo approccio sull’individuazione del finanziamento del terrorismo ma anche applicando sanzioni finanziarie mirate e una supervisione delle organizzazioni senza scopo di lucro basata sull’analisi di rischio.

Con l’ingresso in lista grigia il Gafi adotta un monitoraggio rafforzato che di fatto servirà a verificare gli esiti lungo un percorso che prevede una serie di direttrici già definite. Gli aspetti su cui Monaco dovrà effettuare passi in avanti riguardano vanno dalla capacità di comprensione del rischio in relazione al riciclaggio di denaro e alle frodi fiscali sul reddito commesse all’estero all’aumento dei sequestri il sequestro di beni sospettati di derivare da attività criminali, passando anche dall’applicazioni di sanzioni efficaci, dissuasive e proporzionate per il riciclaggio di denaro. Il governo del Principato ha assicurato in una nota il massimo impegno per un’uscita dalla lista secondo il calendario indicato e ha ricordato come sia stato messo a punto un calendario che si estende fino al gennaio 2026 che prevede due tappe intermedie, a maggio 2025 e settembre 2025. E il Principato conferma la sua «determinazione ad attuare le nuove raccomandazioni» indicate dal Gafi.

Ma quali sono gli effetti pratici dell’inserimento di un Paese nelle liste Gafi per gli operatori? Se il cliente proviene da un Paese compreso nelle liste Gafi o se l’oggetto dell’operazione ha tali Paesi come aree geografiche di destinazione, diventa opportuno almeno acquisire informazioni aggiuntive sul cliente e sul titolare effettivo, approfondendo gli elementi posti a fondamento delle valutazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto, intensificando la frequenza dell’applicazione delle procedure finalizzate a garantire il controllo costante nel corso del rapporto continuativo o della prestazione professionale.

In questi casi può essere quindi dovuta un’adeguata verifica «rafforzata» che prevede maggiori controlli e intensità degli stessi da parte dei soggetti obbligati. In generale, in questo caso è opportuno valutare se sussiste una valida ragione economica o legale che renda plausibile la tipologia di rapporto continuativo o di operazione richiesti dal cliente o se le necessità finanziarie del cliente possano essere più propriamente soddisfatte nel Paese di residenza o in cui il cliente ha sede.

Gli effetti che ne derivano si ripercuotono sul trattamento sanzionatorio. In alcuni casi, quando vengono omessi gli obblighi antiriciclaggio su operazioni e soggetti che provengono da Paesi inclusi nelle liste grigie, la violazione e la sanzione potrebbe essere considerata grave e quindi ricadere nelle ipotesi di contestazioni qualificate da parte delle Autorità. Tali sanzioni qualificate, oltre ad essere rilevanti dal punto di vista economico, comportano anche in alcuni casi la pubblicazione con ricadute in termini reputazionali.

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Banca responsabile per il pagamento all’Iban errato indicato dall’utente

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 26 giugno 2024 di Angelo Busani

La banca che accredita un Iban indicato in modo errato da chi ha disposto il bonifico, il quale invece dovrebbe essere diretto a un beneficiario che non è titolare di un conto di accredito presso la banca stessa, è responsabile nei confronti del beneficiario rimasto insoddisfatto. A meno che non dimostri di aver adottato le cautele necessarie per evitare l’errato accredito oppure a meno che non dimostri di essersi adeguatamente adoperata per consentire al pagatore la individuazione del soggetto destinatario del pagamento, anche comunicandogli, ove necessario, i dati anagrafici o societari.

Questa esigenza scavalca infatti ogni interesse di tutela della privacy in quanto l’interesse alla riservatezza dei dati personali cede di fronte alla necessità di tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, quale quello del beneficiario di un pagamento di poterlo effettivamente ricevere.

È questa la decisione della Cassazione, nell’ ordinanza n. 17415 di ieri, ove si distingue la responsabilità della banca che esegua un’operazione di pagamento a seguito di una disposizione di pagamento errata nel caso che l’operazione provochi un danno al proprio cliente, il quale utilizza il servizio bancario di pagamento in veste di pagatore o quale destinatario dei fondi oggetto dell’operazione, rispetto al caso in cui l’operazione provochi un danno al beneficiario di una disposizione di pagamento che non sia titolare di un conto di accredito presso la banca stessa.

Nella prima ipotesi, per invocare la responsabilità della banca è necessario dimostrare la sua consapevolezza circa l’errore del cliente. La banca, per essere ritenuta esente da colpa, può limitarsi a dimostrare di aver eseguito l’operazione utilizzando il sistema interamente automatizzato di pagamento, il quale di per sé esclude di dover eseguire un controllo di congruità dell’operazione. In sostanza, il pagamento automatico rende la banca inconsapevole dell’eventuale errore dell’utente del servizio di pagamento, con la conseguenza che spetta a quest’ultimo dimostrare che la banca aveva comunque acquisito la consapevolezza dell’ordine errato.

Nella seconda ipotesi, invece, la banca ha un dovere di diligenza nei confronti dell’effettivo beneficiario rimasto insoddisfatto e quindi, per liberarsi da responsabilità deve provare di aver agito adottando tutte le cautele necessarie al fine di scongiurare il rischio di un’erronea individuazione del beneficiario del pagamento o, quanto meno, deve dimostrare di essersi comportata in modo da rendere possibile la individuazione del soggetto gratificato dal pagamento erroneamente effettuato.

A quest’ultimo riguardo i prestatori di servizi di pagamento – limitatamente ai casi in cui, anche senza porre in essere verifiche specifiche, siano comunque consapevoli dell’inesattezza dell’Iban fornito dal proprio cliente – devono adoperarsi affinché l’operazione di pagamento venga eseguita correttamente: il prestatore che esegua l’operazione di pagamento malgrado sia consapevole dell’inesattezza dell’Iban tiene infatti una condotta volutamente pregiudizievole degli interessi del proprio cliente.

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Canoni commerciali ridotti, l’accordo dev’essere registrato

8 Luglio 2024

Redditi di terreni e fabbricati

Nell’ambito di un contratto di locazione commerciale, il proprietario non ha percepito i canoni dal conduttore.

Per definire e chiudere la disputa con quest’ultimo, il locatore accetta una riduzione del canone e rilascia una dichiarazione liberatoria nella quale afferma di non avere alcunché da pretendere. In sede di dichiarazione dei redditi, il locatore stesso va a dichiarare l’importo effettivamente percepito dopo l’emissione della liberatoria?

È sufficiente tale dichiarazione liberatoria, qualora vi sia allegato l’assegno che dimostra quanto è stato effettivamente percepito?

Gli accordi intervenuti fra locatore e conduttore, in merito alla riduzione del canone di locazione commerciale che risulta convenuto nel contratto originario, non assumono efficacia nei confronti del Fisco senza una loro formale registrazione, da effettuarsi con il modello RLI e peraltro esente da imposte di registro e bollo (articolo 19 del Dl 133/2014).
Di conseguenza, fintantoché non venga posto in essere questo adempimento, nella dichiarazione dei redditi dovrà essere indicato e assoggettato a tassazione l’ammontare dell’intero canone pattuito all’inizio del rapporto di locazione, sebbene non percepito in tutto o in parte.

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No al software per calcolare i tempi delle attività

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 2 luglio 2024 di Giampiero Falasca

È illecito l’utilizzo, da parte di un datore di lavoro, di un software che monitora le prestazioni dei dipendenti in maniera dettagliata, registrando i tempi e le modalità di lavoro del personale nonché i tempi di inattività con le specifiche causali; è altrettanto illecito l’utilizzo di un hardware che regola l’accesso sul luogo di lavoro attraverso un sistema di riconoscimento facciale. Sulla base di queste considerazioni, il Garante Privacy ha comminato una pesante sanzione amministrativa a carico di un datore di lavoro che usava tali strumenti per migliorare la produttività interna (provvedimento 338/2024 del 6 giugno scorso).

Si tratta di un’azienda che si occupa di commercio e riparazione di autovetture, la quale ha deciso di installare un software (denominato Dms) e un hardware (X-Face 380) molto innovativi; un’installazione avvenuta senza accordo sindacale o autorizzazione amministrativa in quanto la società li considerava “strumenti di lavoro”.

Una scelta censurata in modo pesante dal Garante. Per quanto riguarda l’hardware che consente il riconoscimento facciale dei dipendenti, viene confermato l’indirizzo molto restrittivo già seguito in casi analoghi: è vietato perché realizza un trattamento illecito dei dati personali.

I dati biometrici rientrano nel novero delle cosiddette categorie particolari di dati e, quindi, il relativo trattamento è di regola vietato, salvo il caso in cui risulti necessario per assolvere degli obblighi ed esercitare dei diritti specifici in materia di diritto del lavoro e della protezione sociale (ipotesi che non si verifica nel caso in questione, essendo insufficiente l’esigenza di compilazione delle buste paga a integrare questo requisito). Il Garante, confermando anche qui il proprio consolidato indirizzo, sottolinea che nell’ambito del rapporto di lavoro il consenso manifestato dai dipendenti non può essere considerato idoneo presupposto di liceità, alla luce dell’asimmetria tra le rispettive posizioni delle parti.

Anche l’utilizzo del software gestionale viene sottoposto a numerosi rilievi critici.

Con questo sistema il datore di lavoro aveva imposto ai propri dipendenti, attraverso un codice a barre assegnato individualmente, di registrare le varie fasi dell’attività lavorativa, comprese le pause (con l’indicazione della specifica causale: ad esempio, riposo, attesa ricambi eccetera).

L’Autorità lamenta la mancanza di risposte del datore di lavoro sulla natura e la tipologia dei dati trattati, le modalità e i tempi di conservazione dei dati, che ha impedito di valutare l’effettiva necessità e proporzionalità del software rispetto alle finalità da perseguire. Non è bastata, quindi, la spiegazione fornita dalla società sul fatto che «il sistema non fa nessun controllo sulle attività svolte, ma esegue un semplice conteggio del tempo impiegato».

Carenza accentuata dal fatto che tali informazioni non sono state portate a conoscenza nemmeno dei dipendenti, ai quali è stata fornita un’informativa che risulta incompleta e inidonea a rappresentare compiutamente il trattamento effettuato.

Una violazione particolarmente grave, se si considera che nell’ambito del rapporto di lavoro l’obbligo di informare il dipendente è espressione del dovere di correttezza, come ricorda anche il Gdpr.

Per questi motivi, l’informativa rilasciata ai dipendenti viene considerata carente circa l’indicazione dell’idonea base giuridica che consente il trattamento, con la conclusione che il trattamento è stato realizzato dalla società in violazione dei principi di liceità, correttezza e trasparenza.

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Il Garante privacy: «Accertamenti fiscali dal web inesatti e rischiosi»

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 4 luglio 2024 di Andrea Carli

Gli accertamenti fiscali che si basano su informazioni “rastrellate” dal web sono inesatte e rischiose. L’interesse sociale delle intercettazioni non deve essere il gossip. E sul fascicolo sanitario si sono verificate criticità. Sono tre passaggi dell’intervento del presidente dell’Autorità per la protezione dei dati personali, Pasquale Stanzione, che ieri ha illustrato alla Camera la relazione sull’attività svolta nel 2023. Un documento che lancia l’allarme revenge porn, in preoccupante aumento: nel 2023 sono state 299 le segnalazioni di persone che temono la diffusione di foto e video a contenuto sessualmente esplicito, raddoppiate rispetto allo scorso anno. Ma la lente del Garante privacy si è soffermata sulle grandi questioni legate alla tutela dei diritti fondamentali delle persone nel mondo digitale.

Per quanto riguarda gli accertamenti fiscali, ad esempio, Stanzione ha ricordato che «basare le procedure accertative su informazioni “rastrellate” dal web, e come tali in larga misura inesatte, è estremamente rischioso, potendo avere effetti fortemente distorsivi sulla corretta rappresentazione della capacità fiscale dei contribuenti. Le garanzie di protezione dei dati rappresentano quindi, anche in quest’ambito, presupposti di efficacia dell’azione di contrasto dell’evasione fiscale».«I limiti del webscraping – ha continuato il presidente della Privacy – sono stati sottolineati anche rispetto alla riforma fiscale, nel cui ambito il ricorso all’intelligenza artificiale esige requisiti stringenti di affidabilità ed esattezza dei dati utilizzati per la profilazione del contribuente. Se addestrato su dati anche soltanto parzialmente inesatti, infatti, l’algoritmo restituirà risultati errati in proporzione geometrica, con bias che dalla base informativa si propagano lungo tutto l’arco della decisione algoritmica».

Il 2023 è stato l’anno della diffusione dell’intelligenza artificiale. Dopo un iniziale blocco di ChatGpt, per raccolta illecita di dati personali, e assenza di sistemi per la verifica dell’età dei minori, la piattaforma è stata riaperta garantendo più trasparenza e più diritti agli utenti.

C’è poi il nodo intercettazioni. «Il Ddl governativo – ha sottolineato il presidente dell’Autorità – rafforza sensibilmente, le garanzie di riservatezza dei terzi e, per altro verso, circoscrive l’ambito circolatorio dei contenuti captati, a tutela della privacy di tutti i soggetti le cui conversazioni siano acquisite. Ciò che si può auspicare, anche rispetto alla delega legislativa sul divieto di pubblicazione integrale o per estratto dell’ordinanza di custodia in fase di indagini, è che si contenga la tendenza a scambiare l’interesse sociale della notizia con il gossip».

L’intelligenza artificiale è «ormai entrata a far parte del nostro orizzonte quotidiano di vita e sempre più ne sarà elemento costitutivo, con effetti della cui portata (in senso lato antropologica) non siamo, forse, del tutto consapevoli – ha concluso Stanzione -. Il diritto ha il compito di colmare questo vuoto di consapevolezza».

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Responsabilità solidale, serve la prova della frode

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 8 giugno 2024 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Per la responsabilità solidale in caso di cessione di azienda occorre l’individuazione degli elementi che dimostrino l’esistenza della frode e la partecipazione dell’acquirente.

Ad affermarlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 15948 depositata ieri. La vicenda trae origine da tre avvisi di accertamento notificati a un imprenditore che aveva acquistato la propria azienda da una società in liquidazione. Secondo l’Ufficio, sussisteva la responsabilità solidale dell’acquirente prevista dall’articolo 14 del Dlgs 472/1997 rispetto alle obbligazioni tributarie della società cedente per l’anno della compravendita e i due precedenti.

I provvedimenti venivano impugnati dinanzi al giudice tributario eccependo tra i diversi motivi che non c’era stata una cessione di azienda, ma dei trasferimenti di singoli beni e in ogni caso mancavano i presupposti per attribuire tale solidarietà.

Entrambi i giudici di merito confermavano l’intera pretesa. L’imprenditore ricorreva così in Cassazione lamentando sul punto una carente motivazione per l’applicazione nella specie della norma sulla responsabilità.

I giudici di legittimità accogliendo il motivo hanno offerto alcune precisazioni sulla speciale disciplina. Innanzitutto secondo la Suprema Corte i frazionati e numerosi trasferimenti degli elementi quali contratti, leasing, dipendenti, clienti, ecc. di cui si componeva l’azienda ceduta, dovevano essere riqualificati in una cessione di ramo di azienda.

La pronuncia evidenzia altresì che la società cedente era rimasta priva del suo patrimonio rimanendo titolare solo di debiti nei confronti dell’erario.

La Cassazione ha poi rilevato che la norma sulla responsabilità solidale (articolo 14 del Dlgs 472/1997) prevede due differenti ipotesi il cui discrimine è l’esistenza di intenti frodatori.

Più precisamente se la cessione è conforme alla legge è valorizzata la diligenza del cessionario nell’assumere prima della conclusione del negozio informazioni sulla posizione debitoria del cedente. In questo caso la responsabilità è sussidiaria e limitata al valore della cessione.

Se invece il trasferimento è avvenuto in frode al Fisco, la responsabilità del cessionario non ha limiti temporali ed è presunta quando il trasferimento sia effettuato entro sei mesi dalla constatazione di violazioni penalmenti rilevanti (tra le tante Cassazione 29722/2020).

Occorre così una ponderata valutazione da parte del giudice di merito. Nella specie, il collegio di appello non aveva indicato nemmeno nell’esposizione del fatto, da cosa far discendere la finalità frodatoria della cessione e la partecipazione del cessionario. La decisione è interessante perché rileva la necessità che siano individuati degli elementi che possano dimostrare l’effettivo intento di sottrarsi al pagamento dei propri debiti fiscali e peraltro, che tale finalità sia conosciuta anche dall’acquirente l’azienda.

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Influencer come agenti di vendita Avvocati al lavoro sui contratti

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 24 giugno 2024 di Massimiliano Carbonaro

L’inquadramento. Dopo la sentenza del tribunale di Roma aziende, agenzie e testimonial stessi chiedono di rivedere gli accordi e di valutare se è obbligatorio iscriversi all’Enasarco. Il rischio di aumento dei costi

La sentenza che assimila gli influencer agli agenti di commercio spinge aziende sponsor e testimonial a rivedere gli accordi contrattuali con l’assistenza dei legali. Sono gli effetti a cascata della pronuncia del Tribunale di Roma (n. 2615 del 4 marzo 2024) che si è abbattuta su questi rapporti, già soggetti a verifica dopo le linee guida dell’Agcom.

La sentenza arriva a confermare un’ispezione della Fondazione Enasarco effettuata nel 2022 che individuava nella promozione da parte di un gruppo di influencer della vendita online di integratori alimentari l’attività tipica degli agenti di commercio. In base a questo inquadramento, quindi, per il tribunale diventava necessario il pagamento dei contributi al Fondo di previdenza Enasarco e al fondo di indennità di risoluzione del rapporto. Secondo l’analisi degli avvocati, la sentenza in realtà sembra riferirsi solo agli influencer che lavorano con il meccanismo dell’affiliazione (o con il riconoscimento dei codici sconto) e non a quelli che percepiscono un compenso fisso per produrre contenuti e neppure a quelli, come i testimonial, che promuovono un brand senza che ci sia una vendita sottesa. Comunque la pronuncia introduce un nuovo problema: finora la principale preoccupazione per l’attività degli influencer era la correttezza dei contenuti e nei contratti ci si concentrava sulle modalità operative e il rispetto del brand. Ora in primo piano c’è l’inquadramento del rapporto. E questo rischia di avere riflessi in termini economici e sanzionatori.

«Bisognerà prestare attenzione ai prossimi pronunciamenti – spiegano Nicola Bonfante e Paola Tradati, entrambi equity partner, di Gatti Pavesi Bianchi Ludovici – ma intanto le imprese e gli stessi influencer hanno cominciato a richiedere assistenza legale per capire se l’attività degli influencer è riconducibile ad una vendita o se si tratta di contratti di sponsorizzazione. Agenzie e aziende che li utilizzano ci consultano sempre di più per rivedere i contratti ed evitare sanzioni e ulteriori costi e valutare se è davvero necessaria l’iscrizione all’Enasarco».

La presenza di alcuni elementi come un compenso parametrato alle vendite, il tracciamento digitale e l’uso di codici sconto dovrebbe spingere l’influencer ad iscriversi in Camera di commercio come agente.

Ma soprattutto l’impresa che si serve di queste figure professionali è chiamata ad attente valutazioni. «Dovrà gestire il venditore presso l’Enasarco, a prescindere dalla sua iscrizione al ruolo di agente – commenta Filippo Colonna, partner dello studio ColonnaCaramanti – facendosi carico anche dei contributi. La contribuzione si calcolerebbe su tutte le somme dovute all’agente. In questo caso, il committente sarebbe tenuto anche a versare periodicamente un’indennità di fine mandato alla Fondazione e ad accantonare in bilancio indennità aggiuntive a tutela dell’agente».

La sentenza quindi è un punto di partenza, potenzialmente di grande impatto. Per Piercarlo Antonelli, partner AMTF Avvocati, «il nuovo inquadramento potrebbe anche portare all’obbligo di riconoscere agli influencer le indennità di fine rapporto, con importi significativi, fino a un anno di provvigioni. Con il rischio di un effetto retroattivo sui rapporti già cessati».

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Legittimo licenziare chi fa un altro lavoro in congedo parentale

11 Giugno 2024

Il Sole 24 Ore 17 maggio 2024 di Giampiero Falasca

Il dipendente che, durante i permessi per congedo parentale, svolge un’attività lavorativa presso terzi, invece di occuparsi del figlio minore, abusa del diritto potestativo concesso dall’ordinamento. Pertanto, il licenziamento irrogato dal datore di lavoro che viene a conoscenza di questa condotta è legittimo. Con questo principio il Tribunale di Torre Annunziata (sentenza del 17 aprile 2024), confermando la decisione presa nella fase precedente del rito sommario, adotta un approccio rigoroso su un tema poco affrontato dalla giurisprudenza, quello degli eventuali abusi dei congedi parentali.

La vicenda riguarda un lavoratore che ha chiesto dieci giorni di congedo parentale per occuparsi di un figlio minore e di conseguenza si è assentato dal lavoro. Tuttavia i permessi non sono stati utilizzati per la cura del figlio, come accertato da un’agenzia investigativa che ha seguito il lavoratore, su incarico del datore. L’investigatore ha scoperto che il dipendente in congedo impiegava le giornate di permesso per svolgere l’attività di parcheggiatore in una vicina località balneare. In nessuno dei giorni di permesso il bambino si trovava nei pressi o all’interno del parcheggio. Venuto a conoscenza dei fatti, il datore di lavoro lo ha licenziato.

Il Tribunale ha ritenuto di convalidare il licenziamento partendo dalla considerazione che il congedo parentale è un diritto potestativo che consente al titolare di realizzare uno specifico interesse senza che il datore di lavoro possa opporsi; questa configurazione non esclude, tuttavia, la possibilità di verificare le modalità con cui il diritto viene esercitato, sia da parte di terzi, sia da parte del giudice.

In questa prospettiva, la sentenza chiarisce che una condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, può giustificare un licenziamento. Il datore di lavoro, nel caso specifico, tramite un abuso del diritto e senza un valido motivo si è visto privare della prestazione di lavoro del dipendente, oltre a subire una lesione del rapporto fiduciario per via dell’indebita percezione di un trattamento previdenziale non spettante. Pertanto, si verifica un abuso del congedo parentale ogni volta che il tempo non venga usato per la cura diretta del bambino ma per svolgere attività lavorativa o, in senso più ampio, per dedicarsi a qualunque attività che non sia in diretta relazione con questa esigenza di cura: non conta, secondo il Tribunale, quello che fa il genitore nel tempo da dedicare al figlio, quanto – piuttosto – quello che non fa durante questo tempo.

Una pronuncia coerente con l’indirizzo della Corte di cassazione che, in precedenti decisioni (sentenza 16207/2008 e 609/2018), ha affermato che si verifica un abuso del diritto protestativo di congedo parentale nel caso in cui il diritto sia esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere a altra attività di lavoro, sebbene quest’ultima possa poi incidere positivamente sull’organizzazione economica e sociale della famiglia.

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