Categoria: Dall’Italia
Polizze catastrofali, l’obbligo non riguarda il magazzino
14 Aprile 2025
Il Sole 24 Ore 4 Marzo 2025 di Alessandro Germani
Oggetto della copertura obbligatoria per le polizze catastrofali sono le immobilizzazioni materiali, esclusi gli altri beni, dell’attivo di stato patrimoniale, per cui dalla medesima resta fuori il magazzino. Ciò impone alcune considerazioni distinguendo le aziende industriali e quelle commerciali.
Con il Dm 3o gennaio 2025 n. 18 pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» lo scorso 27 febbraio sono state disciplinate le modalità attuative delle polizze catastrofali (contro sismi, alluvioni, frane, inondazioni e esondazioni) di cui le imprese dovranno dotarsi entro il prossimo 31 marzo. L’obbligo originariamente è stato introdotto dall’articolo 1 commi 101-111 della legge 213/2023, con scadenza per l’adeguamento fissata dapprima al 31 marzo 2024 e poi prorogata al 31 marzo 2025 dal decreto Milleproroghe (Dl 202/2024). La norma risponde all’esigenza di prevedere una copertura obbligatoria per le aziende a fronte di eventi che si manifestano con sempre maggiore frequenza e intensità ma con un onere assicurativo in capo a queste. D’altronde si diffonde una cultura assicurativa che è irrinunciabile in presenza di eventi calamitosi.
Profilo soggettivo
Vediamo quali sono le imprese obbligate alla copertura in questione. L’articolo 1 del Dm 18/25 definisce come assicurato l’impresa con sede legale in Italia e le imprese aventi sede legale all’estero con una stabile organizzazione in Italia, tenute all’iscrizione nel Registro delle imprese in base all’articolo 2188 del Codice civile, ad esclusione delle imprese agricole (articolo 2135 del Codice civile). L’obbligo pare quindi ampio, riguardando tanto le imprese italiane quanto le stabili organizzazioni in Italia di soggetti esteri, visto che il comun denominatore consiste nell’iscrizione al registro delle imprese che vale anche per le branch. A maggior ragione, l’iscrizione sembrerebbe ricomprendere non solo le società ma anche le imprese tenute in ogni caso a tale iscrizione.
Profilo oggettivo
Le definizioni richiamano le immobilizzazioni di cui all’articolo 2424, comma a, sezione Attivo, voce B-II, numeri 1), 2) e 3), del Codice civile. Viene specificato che si tratta di:
terreni;
fabbricati intesi come costruzioni e opere murarie, compresi gli impianti idrici, elettrici, di riscaldamento, di condizionamento, comunque pertinenziali all’edificio;
impianti e macchinari;
attrezzature industriali e commerciali.
Il richiamo al Codice civile e agli schemi di bilancio consente di fare riferimento al principio Oic 16 sulle immobilizzazioni materiali, che suddivide i fabbricati fra quelli strumentali (ad esempio silos, piazzali e recinzioni, autorimesse, officine, oleodotti, opere di urbanizzazione, fabbricati ad uso amministrativo, commerciale, uffici, negozi) e quelli non strumentali (ad esempio immobili abitativi, termali, sportivi, balneari, terapeutici, collegi, colonie, asili nido, scuole materne). Invece gli impianti e macchinari ricomprendono sia quelli generici (impianti di produzione, impianti di distribuzione energia, raccordi ferroviari, impianti di allarme) sia quelli specifici. La norma richiama poi anche le attrezzature ma non gli altri beni (mobili e arredi, automezzi, macchine ufficio). Accanto a questi ultimi, resta fuori anche l’altra categoria del magazzino, facente parte dell’attivo circolante.
Modalità di copertura
Sotto il profilo assicurativo, la norma primaria (comma 103) prevede che le compagnie possano assumere direttamente il rischio, oppure agire in coassicurazione o in forma consortile mediante una pluralità di imprese. È poi previsto un intervento di Sace a favore sia degli assicuratori sia dei riassicuratori.
Aspetti di mercato
È chiaro che l’obbligatorietà ha puntato sul comparto delle immobilizzazioni materiali, escludendo gli altri beni. Ma l’esclusione del magazzino comporta che la copertura obbligatoria per un’impresa industriale sia superiore rispetto a quella di un’impresa commerciale. In altre parole, l’evento calamitoso può colpire una linea industriale per cui sarà previsto il risarcimento, ma non avverrà lo stesso nel caso in cui l’evento colpisca il magazzino. Che costituisce l’asset principale di un’impresa commerciale. È evidente che vi saranno state motivazioni economiche a suggerire di non incrementare eccessivamente la misura della copertura obbligatoria come onere a carico delle imprese. Va da sé che le realtà commerciali potranno in ogni caso negoziare con l’assicuratore di estendere la copertura anche al magazzino, sebbene ciò possa comportare un incremento del costo della polizza, a fronte di una copertura ben maggiore.
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Si ricorda che è stata prevista la proroga dei termini di adempimento dell’obbligo di assicurazione dei rischi catastrofali, disposta dal Dl 39/2025,
- le piccole imprese e le microimprese potranno farlo entro il 1° gennaio 2026
- quelle medie entro il 1° ottobre
- grandi imprese il termine del 1° aprile rimane fermo, sia pure con un periodo di tolleranza durante il quale non saranno applicabili conseguenze sanzionatorie.
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Dividendi di fonte estera: sì al credito dopo prelievo preventivo e ritenuta
14 Aprile 2025
Il Sole 24 Ore lunedì 10 Marzo 2025 di Davide Greco e Giulia Sorci
Il credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir deve essere riconosciuto anche al
beneficiario persona fisica di un dividendo di fonte estera qualora questo sia stato
obbligato dalla propria normativa nazionale ad assoggettare il reddito in questione a
ritenuta a titolo di imposta del 26%, come richiesto dall’articolo 27, comma 4 del Dpr
600/1973.
Questa, in estrema sintesi, è la conclusione della Cgt Bergamo n. 68/1//2025 del 14
febbraio scorso (presidente e relatore Fischetti).
La vicenda aveva visto coinvolta una contribuente italiana, la quale lamentava il
mancato rimborso del credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir in relazione a dividendi
da lei percepiti e doppiamente tassati: dapprima in Svizzera, con la cosiddetta imposta
preventiva sui dividendi e, successivamente in Italia con ritenuta a titolo d’imposta del
26% (articolo 27, comma 4 del Dpr 600/1973).
La sentenza in commento è rilevante poiché si inserisce all’interno del filone
giurisprudenziale “inaugurato” nel 2022 dalla Corte di cassazione (con la sentenza n.
25698/2022), confermato anche nel 2024 (si veda Cassazione civile n. 10204/2024),
secondo cui ai fini dell’ottenimento del credito d’imposta ex articolo 165 del Tuir non
costituirà più, a certe condizioni, causa ostativa l’aver assoggettato in Italia i dividendi di
fonte estera a ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento.
Il ragionamento seguito dai giudici di merito si pone, infatti, in linea con l’orientamento
dei giudici di legittimità e costituisce, da ciò che ci risulta, uno dei primi approdi della
giurisprudenza di merito sul tema (sembra difatti vi siano pochissime sentenze di merito
antecedenti, ovvero: sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siena
- 68/2024 e sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Milano n.
3184/2024).
Facendo leva sul dettato normativo contenuto nell’articolo 24, secondo paragrafo della
Convenzione tra Italia e Svizzera, la Corte bergamasca ha dichiarato la supremazia della
fonte sovranazionale rispetto a quella domestica sancendo, in definitiva, che «spetta il
credito per [le] imposte pagate all’estero alle persone fisiche tenute, senza facoltà di
scelta, al pagamento della ritenuta a titolo di imposta come nell’ipotesi di cui all’articolo
27, comma 4 del Dpr 600/1973».
Se, infatti, è vero che una delle condizioni richieste dall’articolo 165 del Tuir per
beneficiare del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero è che il reddito in
questione concorra «alla formazione del reddito complessivo» è anche vero che, a livello
convenzionale, l’articolo 24 della Convenzione tra Italia e Svizzera non riconosce il
beneficio nell’ipotesi in cui «l’elemento di reddito venga assoggettato in Italia ad
imposizione mediante ritenuta a titolo di imposta su richiesta del beneficiario del reddito
in base alla legislazione italiana».
Da tale disposizione pattizia se ne ricava, all’opposto che, qualora l’assoggettamento ad
imposizione mediante ritenuta a titolo d’imposta, o mediante imposta sostitutiva come
nella fattispecie di cui all’articolo 18, comma 1, del Tuir, avvenga non «su richiesta del
beneficiario del reddito» ma obbligatoriamente, non potendo il contribuente richiedere
l’imposizione ordinaria, l’imposta pagata all’estero dovrebbe considerarsi, in linea
generale, detraibile.
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Insolvenza transfrontaliera, criteri Ue per società con sedi fuori dall’Unione
14 Aprile 2025
Il Sole 24 Ore lunedì 10 Marzo 2025 di Leonardo Curatolo e Marcello Tarabusi
Nelle insolvenze transfrontaliere che riguardano società con sedi in Italia e in altri Paesi
extra Ue, l’individuazione del luogo dove aprire la procedura e il rapporto fra le
procedure avviate in Paesi diversi ha importanti ricadute sulla gestione dei beni
aziendali.
Nell’ambito dell’Unione europea la materia è disciplinata dal regolamento Ue 848/2015
ma se i Paesi interessati sono extra Ue si pone il problema di quali norme applicare.
Un’indicazione giurisprudenziale (in assenza di pronunce della Cassazione) arriva da
una sentenza del Tribunale di Bologna (relatore Atzori) che risale al 26 gennaio 2024 (è
la n.14) ma è ancora inedita.
Applicazione universale
Secondo i giudici di Bologna per accertare il luogo dove aprire la procedura, il criterio
da seguire è quello del centro principale degli interessi (Comi) previsto dalle norme Ue
anche per le società con sede legale in Paesi che non fanno parte dell’Unione.
Il tribunale italiano può inoltre aprire la liquidazione giudiziale anche se nel Paese
straniero è già stata avviata una procedura di insolvenza sulla base del diritto locale. E,
sempre secondo i giudici bolognesi, la procedura italiana non è secondaria o dipendente
da quella estera, bensì autonoma e universale, riguarda cioè tutti i beni del debitore (si
veda l’articolo online richiamato in alto).
Pur ritenendo che le norme che regolano la Brexit escludano l’applicazione diretta del
regolamento Ue 2015/848, il Tribunale ha ritenuto alcuni principi ivi previsti di
universale applicazione.
Il provvedimento del Tribunale di Bologna riguardava una vicenda in cui la regolazione
della crisi di una società italiana si intrecciava con quella di una società del medesimo
gruppo ubicata nel Regno Unito.
Nel 2023 la società italiana era stata sottoposta ad amministrazione straordinaria. In
precedenza, il marchio e una serie di asset erano stati trasferiti a un’altra società del
gruppo, con sede legale a Londra che lo aveva dato in licenza alla società italiana (che
aveva la sede a Bologna con 76 dipendenti) la quale erogava anche servizi trasversali al
gruppo (tra cui Ced, marketing, e-commerce).
I creditori italiani avevano chiesto al Tribunale di Bologna di aprire la liquidazione
giudiziale. La società inglese aveva eccepito il difetto di giurisdizione, sostenendo che il
procedimento andava sospeso ai sensi della legge 218/95 (che regola il nostro diritto
internazionale privato), poiché pendeva un analogo ricorso avanti ad un giudice inglese,
la cui decisione sarebbe poi stata resa esecutiva in Italia sempre in base alla legge 218/95
.
Secondo il Tribunale, i criteri indicati nel considerando n. 30 del regolamento Ue
costituiscono, in base alla dottrina internazionalistica, patrimonio comune per
l’individuazione del centro principale degli interessi nelle insolvenze transfrontaliere,
indipendentemente dalla applicabilità della norma Ue. Il criterio del Comi fu infatti
introdotto negli anni ’90 dalla Commissione Onu per il diritto commerciale
internazionale (Uncitral), che ha il compito di armonizzare il diritto commerciale degli
Stati membri dell’Onu, nell’ambito del Modello di legge sull’insolvenza transfrontaliera
adottato il 15 dicembre 1997 con risoluzione n. 52/58 dell’Assemblea generale, poi
trasfuso anche nel regolamento Ce 1346/2000.
Il centro di interessi
Ha inoltre carattere universale il principio secondo cui è sempre possibile offrire la prova
contraria alle presunzioni di coincidenza tra centro principale degli interessi e sede
legale, stabilite dalla legge. E spetta al giudice valutare gli elementi che fanno ritenere
che il centro effettivo di gestione degli interessi sia situati in un altro stato.
Il Tribunale ha ritenuto che, nonostante la sede legale fosse a Londra, il Comi si trovasse
a Bologna, dove erano ubicati il portafoglio clienti e la rete commerciale e dove
avveniva la produzione, dalla creazione stilistica sino al confezionamento. E, da Bologna
i prodotti venivano direttamente spediti ai clienti. Tutto ciò indubbiamente ingenerava
nei terzi (tra cui clienti e dipendenti) la percezione che il luogo in cui il debitore
esercitava la gestione dei propri interessi in modo abituale era in Italia.
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Responsabilità dei sindaci limitata al multiplo del compenso
14 Aprile 2025
Il Sole 24 Ore 13 Marzo 2025 di Federica Micardi
Approvata dall’aula del Senato all’unanimità la legge che limita la responsabilità dei sindaci e del collegio sindacale. Una norma che interessa direttamente oltre 40mila commercialisti e 115mila società di capitali.
Il disegno di legge 1155 che modifica l’articolo 2407 del Codice civile, presentato nel luglio 2023 e che vede come prima firmataria l’onorevole Marta Schifone (Fdi), è stato approvato dalla Camera il 29 maggio 2024 e dalla Commissione giustizia del Senato il 28 gennaio scorso; ieri l’approvazione definitiva dell’Aula di palazzo Madama.
In base al riformato articolo 2407 la responsabilità viene “perimetrata” quando i sindaci o il collegio sindacale non hanno agito con dolo e viene quantificata come un multiplo del compenso percepito in base a tre scaglioni (si veda la scheda in pagina).
Viene anche introdotto un limite temporale per far valere l’azione di responsabilità, che si prescrive in cinque anni dal deposito della relazione dei sindaci annessa al bilancio relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno. Il tempo di prescrizione è stato, di fatto, allineato a quello previsto per i revisori. Fino a oggi erano previsti termini diversi – fino a dieci anni – a seconda del tipo di azione esercitata.
Marta Schifone, responsabile del dipartimento professioni di FdI, parla di una vittoria di buon senso che sarà fondamentale per risolvere il paradosso dei professionisti “bersaglio facile” nelle azioni risarcitorie; aiuterà anche a ridurre il timore del danno reputazionale e patrimoniale che ha caratterizzato il ruolo di sindaco in questi anni, rendendolo sempre meno appetibile.
Il nuovo articolo 2407 si applicherà ai bilanci 2024, ma come saranno trattate le violazioni commesse in precedenza? «Il tema di un’applicazione della norma con effetto retroattivo – spiega Marta Schifone – è stato sollevato alla Camera ed è stato oggetto di uno specifico ordine del giorno della commissione Giustizia del Senato; bisogna trovare il veicolo adatto – prosegue Schifone – che potrebbe essere un emendamento. Mi batterò perché passi questo principio, è una questione di giustizia».
La norma è migliorabile (già si parla anche di una sua estensione ai revisori), ma la sua approvazione è un risultato importante. Come sottolinea Andrea de Bertoldi, firmatario del Ddl 1155, «la limitazione della responsabilità in capo ai componenti dei collegi rappresenta non solo una misura di giustizia, ma anche un’opportunità per le nostre imprese di trovare più facilmente sindaci e revisori, che finalmente avranno una responsabilità calibrata sul proprio compenso».
Sono decenni che i professionisti chiedono al legislatore di intervenire in merito. Secondo le stime fornite dalla Fondazione nazionale di ricerca dei commercialisti, sono oltre 40mila gli iscritti all’Albo dei commercialisti impegnati attivamente come componenti di un collegio sindacale, o come sindaco unico, per un totale di oltre 150mila cariche pari a circa l’80% del totale delle società di capitali interessate (circa 115mila).
Il presidente della categoria Elbano de Nuccio parla di un «traguardo storico» e di «un successo che non riguarda solo i commercialisti, ma anche le imprese e l’intero sistema economico, un atto di giustizia sostanziale che garantisce una maggior qualità dell’organo di controllo».
Il sistema della responsabilità finora vigente – spiega il presidente dell’Unione giovani dottori commercialisti ed esperti contabili, Francesco Cataldi – «ha determinato azioni quasi automatiche verso i sindaci, avvinti dal vincolo di solidarietà con gli amministratori. Una responsabilità – prosegue Cataldi – caratterizzata dall’anomalia di colpire nella medesima misura e pretesa risarcitoria chi ha commesso il fatto e chi avrebbe dovuto vigilare».
Secondo Marco Natali, presidente di Confprofesssioni, l’approvazione del Ddl 1155 corregge una distorsione che per troppo tempo ha penalizzato i professionisti.
Anche il presidente dell’Associazione nazionale commercialisti (Anc), Marco Cuchel, plaude per il «traguardo importante» e invita a «gettare le basi per finire il lavoro e cioè ottenere le modifiche in ordine al calcolo del limite massimo del risarcimento danni, alla retroattività della norma e all’estensione ai revisori legali».
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Movimenti finanziari con l’estero sempre da comunicare all’Agenzia
14 Aprile 2025
Il Sole 24 Ore 19 Marzo 2025 di Marco Piazza e Roberto Torre
Gli intermediari finanziari devono comunicare i trasferimenti da e verso l’estero dei propri clienti all’agenzia delle Entrate «indipendentemente dalla circostanza che alcuni trasferimenti possano essere oggetto di segnalazione anche da parti di altri intermediari italiani».
Il principio viene sancito dalla risposta 75/2025 (si veda l’articolo «Investimenti esteri, con il regime dichiarativo obbligo del quadro RW») che riguarda un caso particolare: quello in cui una persona fisica residente in Italia detenga conti correnti e dossier titoli presso un banca estera dedicati a servizi d’investimento (gestione di patrimoni o consulenza con raccolta d’0rdini) prestati al cliente dalla stabile organizzzazione italiana della banca estera. Tuttavia, può essere esemplificativa di come il cosiddetto monitoraggio fiscale del trasferimento da o verso l’estero, di cui all’articolo 1 del Dl 167/1990, possa fornire all’Amministrazione finanziaria segnalazioni fuorvianti (nel caso delle polizze vita, peraltro, la questione è stata risolta con la risoluzione 62/E del 2024).
L’obbligo di monitoraggio è imposto anche alle stabili organizzazioni in Italia di banche estere, ma – come si desume dalla risposta 75 – non solo per i trasferimenti che interessano conti correnti e dossier detenuti dal cliente presso la stabile organizzazione italiana, ma anche per quelli detenuti presso la casa madre, quando si tratti di conti dedicati ai servizi d’investimento prestati dalla stabile organizzazione stessa. In questo secondo caso, dal tenore della risposta, la comunicazione non riguarderebbe solo i trasferimenti da e verso intermediari esteri, ma anche quelli da e verso intermediari italiani. Vi è quindi il rischio di una doppia segnalazione, dato che anche gli intermediari italiani, controparti nei trasferimenti, procederanno a comunicare la medesima operazione (in entrata o in uscita) con lo stesso segno (avere per i bonifici dall’estero e dare per quelli verso l’estero).
A questo punto, se l’Agenzia non sarà in grado di individuare ed eliminare le doppie segnalazioni, il monitoraggio fiscale – che, insieme allo scambio automatico d’informazioni con le autorità estere si è dimostrato il più efficace sistema di contrasto all’evasione internazionale – rischierà di divenire inefficiente.
Prova delle difficoltà incontrate dall’Agenzia nell’analisi dei dati (spesso sovrabbondanti) è il fatto che risultano avviate diverse indagini finanziarie, scatenate dal monitoraggio fiscale e dello scambio d’informazioni, riguardanti rapporti che sono stati regolarizzati quasi dieci anni fa con la voluntary disclosure, alcuni dei quali intestati a fiduciarie italiane. Sembra impossibile che non si sia ancora riusciti a prevedere una analisi preventiva delle informazioni ricevute (onde evitare uno spreco di risorse a fisco e contribuenti).
Probabilmente il sistema dovrebbe essere completamente rivisto, anche per evitare che gli intermediari, nell’incertezza sul da farsi e vista la gravità delle sanzioni, facciano segnalazioni non dovute, minando ulteriormente l’efficienza della procedura. Il monitoraggio fiscale dovrebbe essere coordinato con gli esiti dello scambio d’informazioni internazionale e con le risultanze dell’archivio dei rapporti finanziari; ciò anche allo scopo di mettere l’Agenzia in condizione di rendersi conto in anticipo dei casi di amministrazione fiduciaria senza intestazione e simili.
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Pagamenti digitali, il balzo dei Pos (+30%) dà più armi al Fisco
14 Aprile 2025
Il Sole 24 Ore 24 Marzo 2025 di Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste
I dati. Nel 2024 attivi 3,5 milioni di terminali per l’uso delle carte. Transazioni +45% in tre anni. Dal 2026 obbligo di collegamento con i registratori di cassa
Nel 2021 in Italia erano attivi 2,7 milioni di Pos. Tre anni dopo – a fine 2024 – siamo arrivati a 3,5 milioni. Anche i pagamenti cashless totali sono cresciuti: da 332 a 481 miliardi di euro, di cui 357 miliardi eseguiti proprio sui terminali per accettare le carte (fisiche o virtuali). In un triennio, insomma, i Pos sono aumentati del 30% e le transazioni senza contante del 45 per cento. Una crescita che offre al Fisco una miniera di dati sui pagamenti pronti da analizzare e usare in chiave antievasione.
Certo, tutti gli esercenti sono dotati di Pos, per obbligo di legge. E da metà 2022 sono in piedi le sanzioni per chi nega l’uso di carte di debito, di credito o prepagate (30 euro più il 4% del valore della transazione). L’impressione, però, è che a spingere i pagamenti digitali stimati dall’Osservatorio del Politecnico di Milano siano state soprattutto le nuove soluzioni tecnologiche e le relative offerte commerciali, che hanno inciso sulle abitudini degli italiani più di incentivi, sanzioni e obblighi spesso fuori fuoco. Anche perché nel frattempo il limite per l’uso del contante è salito da 2mila a 5mila euro, la costosissima esperienza del cashback di Stato è stata archiviata e il tax credit sulle commissioni dei piccoli esercenti, elevato solo per un anno al 100%, è tornato al livello base del 30 per cento.
A livello normativo, a favore degli acquirenti, restano la lotteria degli scontrini e l’obbligo – fissato nel 2020 – di saldare con mezzi tracciabili le spese che si vuol detrarre al 19%, dalle visite mediche alle attività sportive dei ragazzi.
I pagamenti in negozio hanno quindi raggiunto – come detto – 357 miliardi di euro, di cui 291 miliardi in modalità contactless (quasi nove transazioni su dieci eseguite con carta avvengono così). Se l’aumento dei pagamenti cashless è in larga parte spontaneo, perde di peso il dibattito sul tetto al contante (pur utile a contenere l’economia sommersa, Banca d’Italia dixit), che è stato alzato dal Governo Meloni nel 2023 ed è ormai uscito dai radar della politica. Ma a proposito della diffusione dei Pos in chiave antievasione restano due elementi di fondo:
da un lato, nulla vieta che le parti si accordino per saldare in contanti e in nero. E qui serviranno sempre i controlli, le sanzioni e le “classiche” misure antievasione o sul contrasto d’interessi, per indurre l’acquirente a farsi fare la ricevuta;
dall’altro, non è garantito che tutti gli incassi tramite carte siano accompagnati da scontrini e altri documenti fiscali. E qui si aprono spazi per l’incrocio dei dati e l’introduzione dei sistemi che trasmettono in tempo reale le operazioni al Fisco.
Proprio per integrare le certificazioni fiscali (memorizzazione e trasmissione dei corrispettivi) e i pagamenti elettronici, facendo emergere in modo puntuale l’eventuale incoerenza tra incassi cashless e scontrini emessi, a gennaio 2026 scatterà l’obbligo di collegare i Pos ai registratori di cassa. Una mossa legata anche agli obiettivi Pnrr. La relazione tecnica alla legge di Bilancio 2025 spiega che per quantificare le maggiori entrate (circa 50 milioni di Iva) sono stati utilizzati i dati sulle lettere di compliance inviate dalle Entrate nel 2023 e basate sulle anomalie fiscali emerse dall’incrocio delle banche dati. Ma il criterio di stima è «assolutamente prudenziale», perché vengono considerati anomali solo i contribuenti con un elevatissimo profilo di rischio, escludendo «quelli che, pur avendo, per ipotesi, evaso tutte le somme riscosse in contanti, hanno certificato regolarmente quelle pagate con strumenti tracciati».
In attesa delle regole tecniche sul collegamento Pos-registratore di cassa, il mercato comincia già a muoversi. I dati dell’Osservatorio Innovative Payments del Polimi – spiega il direttore Ivano Asaro – mostrano, dopo l’esplosione dei mobile Pos (che toccano il milione, il 28% del totale), «il forte progresso degli smart Pos: evoluzione diretta dei terminali tradizionali, basati su Android e non su un sistema operativo privato. I quali hanno un grosso potenziale anche nell’ottica di integrazione con i registratori telematici». Se ne contano 500mila (il 14% del totale). Tutto ciò mentre cominciano ad avanzare i software Pos che – grazie alle app crittografate installate sugli smartphone – consentono di fare a meno dei terminali esterni, con il loro costo fisso. I numeri sono ancora piccoli (sono circa 150 mila), ma l’espansione è in atto. E potrà forse portare a “cannibalizzare” in parte i Pos mobili.
Dal 1° gennaio 2026 (per effetto dell’articolo 1, commi 74-77, della legge 207/2024) verrà garantita alle Entrate la comunicazione in tempo reale – e non con cadenza mensile, come accade oggi – delle informazioni relative ai pagamenti elettronici, grazie alla loro trasmissione aggregata con i dati delle vendite memorizzati e inviati telematicamente.
In questo modo potranno essere rilevate in maniera automatica eventuali incoerenze tra gli incassi “digitali” e quanto risulta dai documenti commerciali emessi.
Il registratore telematico, collegato tecnicamente con gli strumenti di pagamento elettronico, così come le soluzioni software di certificazione fiscale che potranno essere adottate dai contribuenti – dopo avere memorizzato le informazioni minime di tutte le transazioni elettroniche, tranne di quelle che permettono l’identificazione del cliente – trasmetteranno all’Agenzia l’importo complessivo dei pagamenti elettronici giornalieri acquisiti anche indipendentemente dalla registrazione dei corrispettivi.
Così dal 2026 i dati aggregati del pagamento elettronico e della certificazione fiscale verranno trasferiti, con un medesimo invio, direttamente dal punto vendita delle Entrate: le attuali disposizioni di riferimento e le specifiche tecniche si limitano a prevedere che nel tracciato, trasmesso giornalmente, siano indicate le modalità di pagamento dell’operazione, essendo invece delegata agli operatori finanziari la trasmissione telematica, con cadenza mensile, dei dati identificativi e dell’importo complessivo delle transazioni giornaliere effettuate con strumenti di pagamento elettronico.
Allo stesso modo, le transazioni saranno comunicate dalle soluzioni software di certificazione, rispettando le modalità tecniche definite con disposizioni regolamentari in corso di emanazione, come chiarito dal provvedimento 111204/2025 del 7 marzo 2025 con cui sono state individuate le informazioni da trasmettere e le regole per realizzare e approvare le soluzioni software per memorizzare elettronicamente e trasmettere telematicamente i dati dei corrispettivi giornalieri.
Le nuove disposizioni concorreranno di fatto a superare – o comunque a innovare e integrare – quanto a oggi disposto dal provvedimento direttoriale 352652, pubblicato il 3 ottobre 2023, con cui l’Agenzia ha individuato le modalità per mettere a disposizione del contribuente e della Guardia di Finanza, anche con l’uso di strumenti informatici, le informazioni derivanti dal confronto mensile tra i pagamenti elettronici ricevuti e le fatture elettroniche emesse e/o i corrispettivi telematici trasmessi dallo stesso contribuente.
Destinatari delle comunicazioni sono tutti i contribuenti per i quali l’ammontare dei pagamenti elettronici mensili risulti superiore all’ammontare complessivo delle transazioni economiche certificate fiscalmente nello stesso periodo. Gli elementi e le informazioni comunicati permettono quindi di rimediare a eventuali errori od omissioni, tramite l’istituto del ravvedimento operoso.
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Rappresentanti fiscali con requisiti più stringenti e garanzie proporzionali
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2025 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Operatori esteri
Il Dm attuativo richiede di avere le stesse caratteristiche che sono già obbligatorie per i componenti di Cda e collegi dei sindaci
Le operazioni effettuate da soggetti esteri tramite rappresentante fiscale italiano diventano più sicure, sotto i profili fiscali. Stanno infatti per diventare operativi requisiti soggettivi più stringenti e il rilascio di un’idonea garanzia.
In particolare, con il decreto del 9 dicembre scorso del ministero dell’Economia e delle finanze, è stata data attuazione all’articolo 17, comma 3, ultimo periodo, del Dpr 633/1972, in tema di nuovi e più rigidi requisiti richiesti in capo al rappresentante fiscale del soggetto estero.
La norma è stata introdotta dal Dlgs 13/2024 (il cosiddetto decreto Accertamento), per rafforzare la tutela fiscale contro le frodi Iva.
Le condizioni
In tale ottica è richiesto che il rappresentante fiscale in Italia di un soggetto estero può assumere tale ruolo solo a condizione che:
sul piano soggettivo, presenti determinati requisiti di onorabilità, quali assenza di condanne o procedimenti penali pendenti per reati finanziari, violazioni gravi e ripetute in materia tributaria/contributiva eccetera;
sul piano oggettivo, rilasci una garanzia.
Il decreto attuativo
Con il decreto attuativo, il viceministro delle Finanze declina, in quattro articoli, i criteri di accesso al ruolo del rappresentante, l’oggetto e le caratteristiche della garanzia, la durata di quest’ultima e la previsione di un regime transitorio.
I requisiti
Andando con ordine, sul piano operativo, si segnala che chi intende assumere l’incarico di rappresentante fiscale deve attestare l’esistenza dei requisiti soggettivi (ex articolo 8, comma 1, lettere a, b, c e d del decreto del ministero dell’Economia e Finanze n. 164/1999) in autodichiarazione da presentarsi alla direzione provinciale delle Entrate competente in base al domicilio fiscale.
Nello specifico, si tratta degli stessi requisiti richiesti ai componenti del consiglio di amministrazione e del collegio dei sindaci, per cui questi devono:
non aver riportato condanne, anche non definitive, o sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444 del Codice di procedura civile per reati finanziari;
non aver procedimenti penali pendenti nella fase del giudizio per reati finanziari;
non aver commesso violazioni gravi e ripetute, per loro natura ed entità, alle disposizioni in materia contributiva e tributaria;
non trovarsi in una delle condizioni previste dall’articolo 15, comma 1, legge 55/1990 (come sostituito dall’articolo 1, legge 16/1992).
I riferimenti dei rappresentanti fiscali in possesso dei requisiti richiesti dalla norma e che hanno prestato idonea garanzia sono pubblici e possono essere consultati sul sito internet dell’agenzia delle Entrate.
La garanzia
Quanto alla garanzia, è chiarito che, in sostanza, essa va prestata, sotto forma di cauzione in titoli di Stato, garantiti dallo Stato o di fideiussione/polizza fideiussoria bancaria, rilasciata in favore del direttore pro tempore della direzione provinciale dell’agenzia delle Entrate competente e va consegnata di persona.
L’importo della garanzia segue un criterio di progressione che vede il valore massimale richiesto crescere all’aumentare del numero dei soggetti rappresentanti.
Per cui, il massimale minimo garantito è pari a:
30.000 euro per il rappresentante che rappresenta da 2 a 9 soggetti;
100.000 euro per il rappresentante che rappresenta da 10 a 50 soggetti;
300.000 euro per chi rappresenta da 51 a 100 soggetti;
1 milione di euro, per chi rappresenta da 101 a 1.000 soggetti;
2 milioni di euro per i rappresentanti di più di mille soggetti.
Si osserva, dunque, che il valore della garanzia richiesto è commisurato al numero dei soggetti rappresentati, essendo indifferente le dimensioni della loro impresa o, meglio, il volume d’affari realizzato attraverso la figura del rappresentante. Cosicché, potrebbe essere che il valore della garanzia richiesta resti basso se tale è il numero di soggetti esteri rappresentati, sebbene le operazioni effettuate siano di importo considerevole; viceversa, che il valore della garanzia sia particolarmente alto all’aumentare del numero di soggetti rappresentati, pur effettuando costoro, tramite rappresentante, operazioni di valore ridotto.
Inoltre, secondo quanto disposto dal legislatore nazionale, la garanzia va integrata con il conseguente passaggio da una fascia inferiore ad una superiore, in caso di aumento del numero dei soggetti rappresentanti. In tal caso, il rappresentante fiscale deve prestare la garanzia con il nuovo valore massimale minimo, presentando la relativa documentazione alla direzione provinciale dell’agenzia delle Entrate competente in ragione del proprio domicilio fiscale.
Il soggetto che assume la rappresentanza di un solo soggetto non residente non è tenuto a prestare la garanzia, ma rimane obbligato a presentare l’autodichiarazione circa la sussistenza dei requisiti soggettivi.
Per quanto riguarda poi la durata, la garanzia deve essere prestata per un periodo minimo di 48 mesi, che decorrono dalla data di assunzione del ruolo di rappresentante fiscale, ruolo che si intende assunto dal momento della presentazione della garanzia stessa alla Direzione provinciale competente.
Nel caso di aumento del numero di soggetti rappresentati, che determina il passaggio da una fascia inferiore ad una superiore della garanzia, la nuova garanzia va prestata per un periodo minimo di 48 mesi a partire dal nuovo momento di consegna della stessa.
Spirato il termine di copertura della garanzia prestata, il rappresentante non è tenuto a rinnovarla o a presentarne un’altra, a meno che non siano aumentati, nel frattempo, il numero dei soggetti rappresentati.
Le modalità operative
Con provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate, saranno individuate le modalità operative necessarie a dare attuazione a tali disposizioni entro 120 giorni dalla data di pubblicazione del Dm del 9 dicembre sulla Gazzetta Ufficiale (scadenza che dovrebbe coincidere con l’8 aprile 2025).
Il periodo transitorio
Il legislatore ha previsto poi un regime transitorio.
Alla data di pubblicazione del provvedimento (cioè l’8 aprile), i soggetti che già operano quali rappresentanti fiscali ai sensi dell’articolo 17, comma 3, Dpr 633/1972 sono tenuti, entro 60 giorni, a presentare l’autodichiarazione accertante l’esistenza dei requisiti soggettivi e a prestare la garanzia secondo le nuove modalità.
Qualora il rappresentante in questione non provveda ad adeguarsi alle nuove prescrizioni – ovvero non provvede a presentare l’autodichiarazione attestante il possesso dei requisiti soggettivi di onorabilità e/o non presenta la garanzia agli uffici competenti – l’agenzia delle Entrate comunica allo stesso, a mezzo pec o raccomandata A/R, l’avvio di una procedura di cessazione d’ufficio delle partite Iva nei confronti dei soggetti rappresentati.
Decorsi 60 giorni dalla data di ricezione di tale comunicazione, l’agenzia delle Entrate provvede alla chiusura d’ufficio delle partite Iva dei soggetti rappresentati.
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Messaggi WhatsApp con efficacia probatoria nel processo civile
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 6 Febbraio 2025 di Fulvio Pironti
Cassazione. Confermato l’orientamento dei giudici di merito: scambi in chat utilizzabili purché sia possibile verificarne la provenienza e l’affidabilità
Con l’ordinanza 1254/2025, la Cassazione ha confermato l’orientamento di merito riconoscendo valenza probatoria alla messaggistica digitale WhatsApp nei giudizi civili.
Il caso ha avuto origine dalla opposizione contro un decreto monitorio ottenuto da una società per il pagamento di serramenti. Il Tribunale, ritenendo insufficiente la prova del credito, ha accolto l’opposizione. La Corte d’appello, invece, ha riformato l’esito del primo grado poiché ha ritenuto provato con un messaggio WhatsApp il debito relativo alla fattura a sostegno del monitorio. L’ingiunto ha presentato ricorso alla Suprema corte, contestando l’uso della copia fotografica del messaggio WhatsApp e sostenendo che non era stata garantita la certezza sulla provenienza e autenticità dell’autore.
Il ricorso è stato rigettato con conferma della valenza probatoria dei messaggi conservati nella memoria del telefono cellulare. L’articolo 633 del Codice procedura civile, nel disciplinare le condizioni di ammissibilità della tutela monitoria, prevede che su istanza del creditore di una somma di denaro il giudice emette l’ingiunzione di pagamento «se del diritto fatto valere si dà prova scritta» (non specificando se debba essere cartacea o anche digitale). La Cassazione ha evidenziato che i messaggi WhatsApp sono considerati prove documentali, legittimamente acquisibili anche tramite riproduzione fotografica (come, ad esempio, gli screenshot delle chat). La validità dipende dalla possibilità di verificare la provenienza e l’affidabilità del contenuto.
I messaggi WhatsApp sono documenti elettronici che rappresentano atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e, pur non essendo firmati, rientrano nel novero delle riproduzioni informatiche previste dall’articolo 2712 del Codice civile. Ne consegue che hanno piena efficacia probatoria sempreché la parte contro cui vengono prodotti non disconosca la conformità ai fatti rappresentati.
Tali messaggi sono annoverati tra le prove documentali conosciute dal nostro ordinamento tramite una qualificazione nei termini di riproduzione informatica. L’uso di WhatsApp è ormai largamente diffuso nelle interlocuzioni personali e, grazie all’utilizzo su Pc e cellulari, sta diventando più frequente anche nei contesti lavorativi e commerciali. I messaggi salvati sulla memoria di un telefono cellulare sono da considerarsi prove documentali e possono essere legittimamente acquisiti tramite riproduzione fotografica. Ciò significa che i messaggi estratti da una chat sono utilizzabili come prova digitale sempreché sia possibile verificarne la provenienza e l’affidabilità.
Il creditore può recuperare le somme con un decreto ingiuntivo basato sulle trascrizioni dei messaggi di WhatsApp che attestino il riconoscimento del debito. La copia stampata attraverso screenshot delle conversazioni contenute nelle chat è una «riproduzione meccanica». Per l’utilizzabilità in un giudizio si richiede, in caso di specifica e circostanziata contestazione, l’acquisizione del supporto telematico dove è avvenuta la comunicazione o una relazione tecnica che attesti la metodologia e la strumentazione utilizzata per la copia in quanto va dimostrata la provenienza dal suo autore.
Il messaggio inviato in una chat di WhatsApp con cui si afferma di avere un debito nei confronti del destinatario equivale al riconoscimento dello stesso. Configura una vera e propria promessa di pagamento.
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Criptovalute, il boom dei 30mila token spazzatura
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 23 Febbraio 2025 di Vito Lops
Asset digitali. Ogni giorno vengono emesse sulla piattaforma Solana decine di migliaia di nuove memecoin il cui valore nel tempo tende a zero
«Houston abbiamo un problema. La creazione di token è ormai andata fuori controllo». Se l’Apollo 13 stesse oggi sorvolando il pianeta delle criptovalute con ogni probabilità lancerebbe questo messaggio d’allarme. Perché in effetti, la situazione sembra sfuggita di mano. Ogni giorno, solo sulla blockchain di Solana, vengono create 30mila memecoin. O forse più. Uno sviluppo frenetico che solleva interrogativi critici sulla sostenibilità del mercato e sulle implicazioni per gli investitori. Censirle sta diventando materia assai complessa: il sito Coinmarketcap stima che ad oggi siano in circolazione più di 11 milioni di criptovalute/token. Nella maggior parte di casi si tratta di memecoin, la vera moda di questo ciclo di mercato. Se il crypto bull market del 2016-2017 fu caratterizzato dall’esplosione delle Ico (Initial coin offering, token creati emulando il processo di quotazione di una società in Borsa laddove c’è in effetti una Initial public offering) e quello del 2021 dal boom dei token legati al metaverso, questo nuovo giro della storia vede invece assolute protagoniste le memecoin. In qualunque modo li si chiami il minimo comune denominatore è lo stesso: nella stragrande maggioranza dei casi nel medio-lungo termine questi progetti scompaiono o sopravvivono languenti con un prezzo di mercato che tende asintoticamente allo zero. Lasciando agli investitori (posto che sia corretto chiamarli tali) il cerino acceso in mano.
Facciamo però un passo indietro. Cosa è una memecoin? È una criptovaluta in senso stretto (se gira su una sua blockchain come ad esempio la Dogecoin tanta cara a Elon Musk) o un token (se invece si appoggia a un’altra blockchain come ad esempio quelle che nascono su Solana o Ethereum) ispirata a meme di Internet, personaggi virali o tendenze popolari. A differenza delle criptovalute tradizionali come Bitcoin o Ethereum, che hanno una tecnologia e un’utilità ben definite, le memecoin basano il valore della loro spesso breve vita esclusivamente sull’hype del momento e sull’effetto community. Il punto (e allo stesso tempo il problema per la tutela dei risparmiatori) è che creare una memecoin è oggi facilissimo: la piattaforma Solana è talmente semplice che chiunque, anche senza conoscenze informatiche, in 5-10 minuti può creare la propria memecoin, stabilendo poi la distribuzione dei token che la rappresentano. Ad esempio si può decidere di tenere una fetta importante per sé e destinare al mercato la parte restante. Dopodiché viene la fase più difficile: bisogna sponsorizzare il token utilizzando le leve del marketing e della viralità in modo tale da attirare compratori. Solitamente abboccano giovani (decisamente più abili a destreggiarsi nei crypto-wallet rispetto a chi è nato quando gli smartphone non erano stati neppure immaginati) ingolositi dall’idea di diventare ricchi rapidamente.
Dal lato dei compratori, difatti, è come acquistare un biglietto di una lotteria (truccata) con il rischio reale di pagarlo, in preda all’avidità, molto di più. E magari di comprarne troppi. Dal lato dei venditori, lo sviluppo tecnologico consente a chiunque di creare una nuova lotteria (memecoin) e di mettersi dalla parte del banco, quello che vince sempre. Perché se ho creato un token di cui decido in partenza di possederne una gran quantità, una volta che va a mercato e viene venduto a un determinato prezzo, che magari sale rapidamente nella fase iniziale creando una bolla speculativa, posso poi vendere la mia fetta. Attuando così in modo magistrale la strategia del “pump and dump”.
Se fino a qualche tempo fa le memecoin si ispiravano solo a dei meme inventati che diventano virali (un cane come nel caso di Dogecoin o una rana come per Pepe) ora il meme si sta confondendo con il personaggio pubblico. Un fenomeno particolarmente preoccupante è infatti l’uso delle memecoin come strumento di auto-promozione da parte di personaggi noti. Recenti esempi includono token associati a al presidente degli Usa Donald Trump, la consorte Melania e il presidente dell’Argentina Javier Milei, che hanno attirato enormi volumi di trading ma si sono rivelati altamente speculativi. Il 17 gennaio, tre giorni prima della sua seconda inaugurazione presidenziale, il tycoon ha annunciato il lancio della memecoin $TRUMP. Inizialmente, il valore del token è aumentato rapidamente, raggiungendo una capitalizzazione di mercato di 27 miliardi di dollari. Tuttavia, nelle settimane successive, il valore è diminuito dell’80% rispetto ai massimi vicini a 80 dollari. La società di analisi blockchain Chainalysis ha calcolato che mentre le aziende di Trump e i loro partner avrebbero guadagnato circa 100 milioni di dollari in commissioni di trading, oltre 813mila portafogli hanno registrato perdite cumulative di 2 miliardi. Due giorni dopo, il 19 gennaio, Melania Trump ha lanciato la sua memecoin, $MELANIA, poco prima dell’inaugurazione presidenziale di suo marito. Simile a $TRUMP, la “moneta” ha visto un’impennata iniziale del valore, seguita da un crollo del 70%. Seguendo questa onda il 14 febbraio il presidente argentino Javier Milei ha promosso la criptovaluta $LIBRA attraverso il suo account X. Dai massimi a 0,8 centesimi è ora in rosso dell’80% a 0,18. Sempre Chainalysis ha rilevato che otto portafogli di criptovaluta collegati ai creatori del token hanno prelevato circa 99 milioni di dollari dalla liquidità del token, mentre ovviamente chi ha acquistato sui massimi in preda alla fomo (fear of missing out, paura di perdere l’occasione della vita) ora si sta leccando le ferite. L’opposizione politica ha accusato Milei di coinvolgimento in una presunta frode finanziaria e ha presentato diverse denunce penali, oltre a sollecitare l’avvio di un processo di impeachment. Una sorta di “Cryptogate”.
Dove si andrà a parare di questo passo non lo sa nessuno. Né Apollo 13, neppure Satoshi Nakamoto, colui che ha inventato 15 anni fa il protocollo informatico Bitcoin, l’unica criptovaluta che in tutto questo caos ha mantenuto la sua integrità. Bitcoin non è solo il primo asset digitale decentralizzato, ma è anche l’unico che ha introdotto il concetto di scarsità nel mondo digitale. E forse, se Nakamoto starà osservando l’evoluzione del mercato crypto, starà pensando che i migliaia di cloni fraudolenti nati dalla sua invenzione non erano esattamente parte del piano.
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Imposta nello Stato del committente
5 Marzo 2025
Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2025 di Alessandro Caputo
Eventi online
Abolito il criterio del Paese di svolgimento
Nuove regole per gli eventi trasmessi via streaming o resi virtualmente disponibili. Il Dlgs 180/2024 recepisce la direttiva (UE) 2022/542 e prevede, in sintesi, che per tali eventi l’Iva va applicata nello Stato del committente e non più nello Stato in cui la manifestazione si svolge.
La regola generale Iva delle prestazioni di servizi è contenuta nell’articolo 7-ter del Dpr 633/1972 e dispone che le prestazioni di servizi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato o quando sono rese a committenti non soggetti passivi da soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato.
Il successivo articolo 7-quinquies, al comma 1, lettera a),prevede una deroga alla regola generale per le prestazioni di servizi culturali, artistici, sportivi, scientifici, educativi, ricreativi e simili.
In particolare, la norma dispone che le prestazioni di servizi relativi ad attività culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, comprese le fiere ed esposizioni, le prestazioni di servizi degli organizzatori di dette attività, nonché le prestazioni di servizi accessorie alle precedenti si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando le medesime attività sono ivi materialmente svolte.
La norma prevede che la disposizione si applica anche alle prestazioni di servizi per l’accesso alle manifestazioni culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, nonché alle relative prestazioni accessorie
A decorrere dal 2025, l’articolo 3 del Dlgs 180/2024 modifica l’articolo 7-quinquies, comma 1, lettera a) del Tuir, prevedendo che, se i servizi e i servizi accessori si riferiscono ad attività che sono trasmesse in streaming o altrimenti rese virtualmente disponibili, le prestazioni si considerano effettuate nel territorio dello Stato se il committente è domiciliato nel territorio dello Stato o è ivi residente senza domicilio all’estero.
Il Dlgs 180/2024, inoltre, modifica anche la lettera b) dell’articolo 7-quinquies, il quale – nella sua versione originaria – dispone che le prestazioni di servizi per l’accesso a manifestazioni culturali, artistiche, sportive, scientifiche, educative, ricreative e simili, ivi comprese fiere ed esposizioni, nonché le prestazioni di servizi accessorie connesse con l’accesso, rese a committenti soggetti passivi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando ivi si svolgono le manifestazioni stesse.
Adesso, la novità è che questa disposizione non si applica all’ammissione agli eventi se la presenza è virtuale.