L’avvocato generale Ue boccia la Commissione sui ruling Lussemburgo

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore 5 maggio 2023 di Alessandro Galimberti

Chiesto l’annullamento di due procedure: valicati i limiti della giurisdizione

MILANO

La Commissione europea non svolge le funzioni di ufficio tributario nazionale di ultimo grado, e né il Tribunale europeo né la Corte di giustizia sono la “cassazione” tributaria, perché questo «inciderebbe sull’autonomia fiscale degli Stati membri nel settore delle imposte non armonizzate».

Con lunghe e argomentatissime conclusioni l’avvocato generale Juliane Kokott ha chiesto alla Corte Ue di annullare in un colpo solo la sentenza del Tribunale T516/18 e T 525/18 del 2021 e la decisione della Commissione del 20 giugno 2018 relativa ai presunti aiuti selettivi del Lussemburgo a favore della multinazionale francese Engie.

I fatti censurati per due volte da Bruxelles riguardavano interventi di ristrutturazione societaria del 2009 e del 2016 entrati in un ruling che, secondo la Commissione, avrebbe garantito la quasi totale non imponibilità degli utili realizzati nell’operazione: participation exemption per le società madri e base imponibile concordata (molto) verso il basso per le società figlie. Quanto bastò, all’epoca, per aprire un doppio versante sull’aiuto selettivo per deroga alla normativa tributaria nazionale (principio in realtà ricavato in via interpretativa da Bruxelles) e comportamento omissivo in materia di prevenzione degli abusi del diritto.

Mentre il Tribunale europeo si era perfettamente allineato alla Commissione, nel nuovo ricorso l’avvocato generale apre, tra gli altri, un fronte importante sui limiti della giurisdizione, e prima ancora sui poteri dell’ amministrazione fiscale unionale nei tributi non armonizzati. Per l’avvocato Kokott «gli Stati membri sono liberi di istituire il sistema impositivo che ritengono più idoneo (…) anche per il settore degli aiuti di Stato», comprese la costruzione dell’imposta e «la determinazione della sua base imponibile e del suo fatto generatore». Perché il tema qui è un altro, scrive l’AG: i limiti del potere discrezionale degli Stati «vengono superati se gli Stati membri abusano della propria legislazione fiscale» per concedere vantaggi a singole imprese «eludendo la normativa in materia di aiuti di Stato», come nel caso «di una configurazione manifestamente incoerente della normativa tributaria».

Quindi, per evitare qualsiasi sconfinamento nella competenza esclusiva degli Stati membri in materia di fiscalità diretta, «l’esistenza di un vantaggio ai sensi dell’articolo 107 Tfue può essere verificata soltanto alla luce del contesto normativo tracciato dal legislatore nazionale nell’esercizio effettivo di tale competenza» e confrontare questo con il ruling (che nel caso specifico era anche trasparente). Tanto per essere chiari, «la Commissione si è fondata, invece che sul diritto tributario nazionale vigente, su un regime tributario forse preferibile, ma in definitiva fittizio».

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Fermo amministrativo possibile sull’auto del manager a uso «misto»

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore 5 giugno 2023 di Giorgio Emanuele Degani e Damiano Peruzza

L’utilizzo per altri fini mina l’indispensabilità per l’attività d’impresa

Il contribuente non è riuscito a dimostrare l’effettiva inerenza del veicolo

La Cgt di secondo grado delle Marche, con sentenza n. 163/3/2023, ha chiarito che la misura cautelare del fermo amministrativo può colpire anche l’autovettura dell’amministratore della società; ciò in quanto è onere del contribuente dimostrare in concreto l’indispensabilità del bene ai fini dell’esercizio dell’attività imprenditoriale, non potendo considerare a priori il bene come strumentale all’attività d’impresa.

La normativa

L’istituto cautelare del fermo amministrativo colpisce la generalità dei beni mobili registrati e, in ogni caso, deve essere preceduto dalla preventiva comunicazione di intimazione a pagare, oltre che dalla regolare notifica degli atti della riscossione e impositivi. Sul punto, l’articolo 86 del Dpr 602/1973, come modificato dalla legge n. 98/2013, dispone che la misura cautelare non può essere disposta se – entro 30 giorni dalla notifica del preavviso – il contribuente fornisce la prova della strumentalità dei beni mobili registrati rispetto all’attività d’impresa o della professione da lui svolta. Il carattere strumentale deve essere, dunque, dimostrato dal contribuente, e sussiste quando il bene sia inserito nell’attività d’impresa, ossia dallo stesso dipendono i ricavi caratteristici dell’impresa e l’apposizione del fermo potrebbe pregiudicare o impedire il normale svolgimento dell’attività d’impresa o professionale.

L’autovettura, per essere strumentale, deve rientrare nei beni essenziali allo svolgimento dell’attività d’impresa o professionale, intendendo come tali quelli indispensabili all’esercizio dell’attività, posto che in assenza di questi, l’attività non può essere esercitata (in tal senso, Cassazione n. 31031/2018).

Il giudizio

Nel caso di autovetture ad uso promiscuo, il requisito dell’indispensabilità è di difficile individuazione, posto che il veicolo viene utilizzato anche per scopi personali del contribuente. Da ciò consegue che l’utilizzo per altri fini esclude la natura di bene strumentale in senso stretto e, quindi, il veicolo può essere assoggettato a fermo amministrativo.

Il contribuente si trova così a fornire una prova ulteriore rispetto alla presunzione che sorge dall’iscrizione del bene mobile nel registro dei cespiti ammortizzabili, in quanto deve essere provata l’effettiva inerenza all’esercizio dell’impresa o della professione.

Tuttavia, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale di tale ultimo principio, da leggere in chiave qualitativa e non quantitativa, appare evidente che il requisito dell’indispensabilità debba essere valutato caso per caso, verificando l’appartenenza del bene all’organizzazione del lavoro e, quindi, che rientri effettivamente nello svolgimento dell’attività d’impresa o professionale.

Nel caso di specie, i giudici hanno escluso la sussistenza del requisito, in quanto l’impresa si occupava di mera gestione immobiliare e, dunque, non è stata fornita la prova dell’indispensabilità dell’utilizzo del bene rispetto alla produzione di ricavi.

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Governance delle società alla prova dei rischi da information technology

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore 31 maggio 2023 di F.R.V.

Nella monografia analizzati i modelli organizzativi per prevenire incidenti

Il rischio informatico dovrebbe essere monitorato e gestito dal consiglio di amministrazione delle società, anche in relazione all’informativa non finanziaria.

Assirevi, l’Associazione italiana delle società di revisione legale, ha pubblicato sul proprio sito la monografia relativa all’evoluzione della governance dei rischi di information technology (It) con l’intento di sensibilizzare i vertici aziendali su tale tematica.

L’impatto delle nuove tecnologie digitali sui modelli di business impone alle imprese una riflessione di carattere strategico sul governo dei rischi e delle opportunità connessi alla trasformazione digitale che, se non opportunamente indirizzati, potrebbero generare conseguenze estreme mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa.

Pertanto, il consiglio di amministrazione è direttamente coinvolto anche nei processi decisionali, strategici e organizzativi che riguardano l’utilizzo della tecnologia digitale: la non adeguata gestione di tali aspetti potrebbe portare a responsabilità degli amministratori.

Inoltre, la prevenzione dei rischi legati all’It è rilevante anche per gli altri soggetti coinvolti nel monitoraggio e nella supervisione dell’informativa finanziaria e non finanziaria, in sostanza collegi sindacali e comitato di controllo e rischi.

In tale contesto, l’interesse di Assirevi deriva dalla necessità per il revisore di conoscere i rischi della società sottoposta a revisione, identificare quelli che possono avere effetti sul bilancio e comprendere le attività poste in essere dagli organi amministrativi per evitare che tali rischi possano avere conseguenze negative sull’informativa.

Nel contesto della trasformazione digitale in atto, è necessario considerare l’influenza dell’uso delle tecnologie, che non sono una funzione aziendale a se stante, sulle altre aree e tematiche di interesse aziendale, per esempio il marketing, la comunicazione e l’organizzazione.

La monografia ha come obiettivo l’analisi dei flussi informativi e dei processi aziendali in materia di rischi It: non si tratta di un documento tecnico per specialisti di It ma, considerando la crescente rilevanza dei sistemi informativi, vuole essere uno strumento di supporto per generare riflessioni sull’approccio per la gestione dell’It.

Il primo capitolo del documento inquadra la tematica nell’ambito del più ampio concetto di corporate governance, mentre nel secondo capitolo sono individuati le modalità di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti.

Il rischio informatico è analizzato nel terzo capitolo, mentre il quarto analizza le componenti di gestione del rischio It.

Il quinto e ultimo capitolo, quello più operativo, identifica le diverse minacce molte delle quali sono favorite dai trend evolutivi e tecnologici che si stanno consolidando nel tempo.

Per esempio, «malware» destinato a eseguire un processo non autorizzato che avrà un impatto negativo sulla riservatezza, integrità, e disponibilità di un sistema.

Altro rischio analizzato riguarda le minacce veicolate tramite e-mail costituite da un insieme di minacce che sfruttano le debolezze della psiche umana e delle abitudini quotidiane, nonché le vulnerabilità tecniche dei sistemi informativi.

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Sul residente all’estero decide l’ufficio dove il reddito è più elevato

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 22 maggio 2023 di Davide Settembre

Illegittimo l’avviso emesso da Prato dove l’interessato deteneva immobili

Per l’accertamento del maggior reddito prodotto in Italia dal contribuente residente all’estero è competente l’ufficio del luogo in cui il contribuente ha prodotto il reddito più elevato, indipendentemente dal domicilio fiscale indicato per i redditi prodotti in Italia. È questo, nel succo, quanto hanno stabilito i giudici della Cgt della Toscana con la sentenza n. 293/1/2023 (presidente Magrini, relatore Giani).

Nel caso in esame, una contribuente residente nel Principato di Monaco presentava la dichiarazione dei redditi in relazione alle annualità 2006 e 2007 al fine di dichiarare i redditi prodotti in Italia relativi, tra l’altro, a immobili situati in Prato, indicando il domicilio fiscale nella medesima città.

L’ufficio di Prato, a seguito di un’indagine finanziaria, emetteva un avviso di accertamento per il 2006 ed uno per il 2007 che venivano impugnati dalla contribuente che contestava, tra l’altro, la competenza dello stesso ufficio. In entrambe i procedimenti, la contribuente risultava soccombente in primo e in secondo grado e ricorreva in Cassazione.

La Corte di cassazione accoglieva il motivo del ricorso relativo alla competenza dell’ufficio ritenendo che questa dovesse essere determinata in base al Comune in cui era stato prodotto il reddito ovvero, se il reddito era stato prodotto in più Comuni, in quello in cui era stato prodotto il reddito più elevato e non in base al domicilio eletto. Pertanto, la Corte rinviava la causa alla stessa Ctr affinché accertasse quale fosse il luogo di maggiore produzione del reddito.

Il giudice di rinvio ha accolto i ricorsi in riassunzione, dopo avere riunito i procedimenti. I giudici hanno richiamato il principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione, che peraltro trova fondamento nel combinato disposto degli articoli 31 e 58 del Dpr 600 del 1973 (si veda negli stessi termini, l’ordinanza della Cassazione n. 13983 del 2022). In base all’articolo 31, la competenza spetta all’ufficio distrettuale nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione alla data in cui questa è stata o avrebbe dovuto essere presentata. Secondo l’articolo 58 le persone: «Non residenti hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato».

Premesso ciò, il giudice di rinvio ha ritenuto che, in base alle risultanze dell’amministrazione finanziaria, il luogo in cui la contribuente risultava avere prodotto il reddito più elevato era Firenze. In tale luogo, in particolare, la contribuente aveva prodotto sia nel 2006 che nel 2007 redditi di gran lunga superiori a quelli riferiti ad altre due località. Pertanto, gli appelli sono stati accolti e gli avvisi sono stati dichiarati illegittimi in quanto emessi da un ufficio incompetente (Prato), spettando invece la competenza a quello di Firenze.

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Patto di famiglia, la compensazione tra fratelli va tassata come donazione

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore 22 maggio 2023 di Angelo Busani

La Cgt Firenze aderisce all’ultimo orientamento della Cassazione

L’onere di disporre tale attribuzione si origina per volontà del disponente

Dal punto di vista tributario nel patto di famiglia si considerano come attribuzioni entrambe effettuate dal disponente sia quella a favore del legittimario assegnatario (avente a oggetto un’azienda o una quota di partecipazione al capitale di una società) sia quella effettuata da quest’ultimo a favore dei propri fratelli o sorelle, a “compensazione” dell’attribuzione dell’azienda o della quota di partecipazione posta in essere dal disponente a vantaggio del legittimario assegnatario.

È questa la decisione n. 129/2/2023 della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Firenze, depositata l’8 marzo 2023 (presidente Pezzuti, relatrice Pompei), la quale si pone dunque in scia con l’orientamento da ultimo adottato in sede di legittimità, vale a dire la sentenza di Cassazione 29506/2020, che radicalmente invertì la precedente giurisprudenza della Suprema corte (e cioè la decisione n. 32823/2018) ove l’attribuzione effettuata dal legittimario assegnatario a favore del legittimario non assegnatario era stata ritenuta tassabile come un’attribuzione tra fratelli e sorelle.

Gli orientamenti

La differenza tra i due orientamenti è evidentissima:

secondo la giurisprudenza più recente (cui aderisce ora anche il giudice fiorentino), se il padre trasferisce al figlio Tizio una partecipazione del valore di 4 milioni di euro e il figlio Tizio compensa il fratello Caio con l’attribuzione di una somma di denaro (o di un bene immobile) del pari valore di 4 milioni di euro, quest’ultima attribuzione subisce imposta di donazione per 120mila euro (4milioni meno 1 milione x 4%);

secondo la giurisprudenza più antica, invece, l’imposta di donazione era da determinarsi in 234mila euro (4milioni meno 100mila x 6%).

Il ragionamento svolto nell’orientamento giurisprudenziale più recente è che l’imposta di donazione è un tributo che si appunta sull’incremento del patrimonio del beneficiario per effetto dell’attribuzione dal medesimo ricevuta. Se, dunque, il beneficiario è gravato da un onere a vantaggio di un altro soggetto, il valore dell’onere decurta il valore dell’attribuzione dal medesimo ottenuta e costituisce, a sua volta, un’attribuzione (che ha fonte nella volontà del soggetto disponente) a vantaggio del soggetto a cui favore l’onere è disposto, da tassare, anch’essa, con l’imposta di donazione.

Il principio

Nel caso del patto di famiglia accade dunque il medesimo fenomeno: per volontà del disponente, si origina, per legge, il gravame del legittimario assegnatario di compensare il legittimario non assegnatario per l’attribuzione effettuata dal disponente a favore del suo discendente avente a oggetto un’azienda o una quota di partecipazione al capitale di una società.

Pertanto, la tassazione deve essere applicata come se tutte le attribuzioni disposte nel patto di famiglia (e, quindi, anche quelle tra un fratello e l’altro fratello) fossero effettuate direttamente dal disponente.

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L’esterovestizione ricade nell’abuso del diritto (e il Fisco deve provarla)

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 15 maggio 2023 di Nicola Borzoni e Fabrizio Cancelliere

Per la Cgt Liguria la nuova norma si applica ai giudizi in corso al 16 settembre ’22

Nel contrasto all’esterovestizione di società ed enti, la prova da parte del Fisco deve essere rigorosa e precisa e deve tenere conto della novità introdotta nell’articolo 7, comma 5-bis, Dlgs 546/1992, applicabile (anche) ai giudizi in corso al 16 settembre 2022. Sono questi i principi espressi dalla Cgt della Liguria 56/1/2023 del 25 gennaio scorso (presidente Cardino, relatore Fanucci): nell’accogliere l’appello del contribuente, ha ritenuto non adeguatamente provata l’esterovestizione della società accertata, avente ad oggetto il noleggio a terzi di aeromobili: la società, secondo i giudici, «era pienamente attiva ed operativa all’estero come risulta dal relativo contratto di affitto, dalle bollette delle utenze, dagli estratti conto bancari, dalle assemblee sociali ivi svolte e dalla corrispondenza e documentazione sociale ivi ricevuta e conservata, dall’assenza di rapporti con banche italiane».

Il tema dell’esterovestizione è stato più volte affrontato nel corso degli ultimi anni dalla Cassazione, all’interno della quale si sono formati due orientamenti.

Nel primo (tra le altre, Cassazione 2869/2013 e 33234/2018, richiamate nella sentenza 7454/2022; 8297/2022; 5075/2023) l’esterovestizione rientrerebbe nel fenomeno dell’abuso di diritto e spetterebbe all’Agenzia dimostrare la artificiosità della localizzazione della società all’estero al fine di ottenere un vantaggio fiscale.

Secondo un diverso, più recente, orientamento, la individuazione della residenza ai fini Ires va effettuata sulla base delle disposizioni dell’articolo 73 del Tuir, trattandosi di una fattispecie riconducibile all’evasione e non all’abuso del diritto (Cassazione 11709 e 1710/2022; 23150 e 23225/2022; 1753/2023).

L’adesione all’uno o all’altro orientamento determina conseguenze ai fini della ripartizione dell’onere probatorio e delle garanzie riconosciute al contribuente in sede di controllo, di accertamento e nella fase contenziosa.

Ebbene, nel caso affrontato, i giudici sembrano seguire il primo orientamento, confermando peraltro il principio per cui il nuovo articolo 7, comma 5-bis, Dlgs 546/1992, si applica anche ai giudizi in corso al 16 settembre 2022, come quello in esame. La posizione è in linea peraltro con altre corti di merito che hanno annullato la pretesa fiscale ritenuta carente sotto il profilo probatorio (Cgt Reggio Emilia n. 293/2022; Cgt Emilia Romagna n. 90/2023; Cgt Siracusa n. 3856 e n. 3866/2022; Cgt Enna n. 1509/2022).

Anche la stessa Cassazione, con le ordinanze 31878-1880/2022, ha affermato, implicitamente, ma chiaramente, l’applicabilità immediata della norma anche ai processi in corso, pur precisando che la novella «non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto a quelli vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale».

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Deduzione tramite iscrizione contabile

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore 11 maggio 2023 di Luca Galani

PERDITE SU CREDITI

Nei fallimenti c’è tempo sino a fine procedura

Nel caso delle perdite su crediti “automatiche”, la deduzione segue l’imputazione in bilancio. Se il debitore si trova in una procedura concorsuale o qualora il credito sia di modesto importo, l’impresa è libera di scegliere il momento in cui dedurre la perdita, iscrivendo l’importo al conto economico.

L’articolo 13 del Dlgs 147/2015 stabilisce che la deduzione delle perdite su crediti verso debitori assoggettati a procedure concorsuali e assimilate (accordi di ristrutturazione omologati e piani attestati) e delle perdite di modesto ammontare (valore unitario inferiore a 2.500 euro, elevato a 5.000 euro per le imprese con fatturato superiore a 100 milioni), scaduti da oltre sei mesi, si considera correttamente effettuata nell’esercizio di imputazione in bilancio anche se successivo al periodo di imposta o quando, in base all’articolo 101 del Tuir, si ritengono verificati gli elementi certi e precisi.

L’imputazione contabile della perdita non deve, però, effettuarsi oltre l’esercizio in cui si è operata, o si sarebbe dovuta operare, la cancellazione del credito secondo corretti principi contabili.

Ciò avviene, in particolare, a seguito della prescrizione del credito oppure in presenza di una rinuncia al credito o anche di una transazione con il debitore (che implica la rinuncia a riscuotere una parte del credito) e, infine, in caso di atti di cessione del credito con il trasferimento dei relativi rischi.

La risposta 12/2018 ha precisato che, in caso di fallimento del debitore, l’evento che fa scattare l’obbligo di cancellazione del credito (termine ultimo per la deduzione della perdita) è costituito dalla chiusura della procedura concorsuale.

Per la compilazione della dichiarazione dei redditi 2023, occorre pertanto verificare che per le perdite “automatiche” non ancora imputate a conto economico (anche mediante svalutazioni o accantonamenti) non risultino scaduti, entro la fine del decorso esercizio, i termini per la cancellazione.

Qualora l’iscrizione nel conto economico e la conseguente deduzione non vengano effettuate neppure nell’esercizio in cui si sono verificati i presupposti per la cancellazione del credito, la deduzione stessa non sarà più consentita. A meno di non ricorrere alla correzione dell’errore contabile (risposta 12/2018), adottando, per le società con revisione legale, le nuove regole semplificate previste dal decreto legge 73/2022 per dedurre gli oneri risultanti dalla “correzione”.

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Mediazione, non vale la procura speciale senza poteri sostanziali

7 Giugno 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 8 maggio 2023 di Valentina Maglione Fabrizio Plagenza

Il legale non può autenticare il documento anche se il rappresentante è lui

Perché la procura speciale rilasciata dalla parte a chi la rappresenta in mediazione sia idonea non basta che nella formula sia citato il procedimento di mediazione, ma occorre specificare i poteri sostanziali attribuiti al delegato. Inoltre, la procura speciale non può essere autenticata dal difensore. Lo ha chiarito la Corte d’appello di Napoli che, con la sentenza 1262 del 21 marzo 2023 (presidente Magliulo, relatore Marinaro), ha anche precisato che, in caso di mediazione disposta dal giudice, la procedura di mediazione deve riguardare tutte le domande e che, quando una parte ha presentato appello principale e l’altra appello incidentale, è onere di entrambe ampliare l’oggetto della mediazione.

Nel caso esaminato, relativo alla compravendita di due immobili, i giudici hanno disposto con ordinanza la mediazione e fissato la successiva udienza di rinvio. Alla procedura, avviata e conclusa (con esito negativo) nei tempi, hanno partecipato un avvocato, delegato dalla parte istante, e la parte invitata, con il suo legale. Ma la «procura speciale» rilasciata dalla parte istante non convince la Corte: lo stile e il contenuto – scrivono i giudici – sono tipici di una procura speciale alle liti in quanto manca il conferimento al rappresentante dei poteri di disporre dei diritti sostanziali necessari alla composizione della controversia.

La Corte d’appello, richiamando le indicazioni della Cassazione, ricorda che è prevista la partecipazione personale delle parti alla mediazione perché il suo successo è riposto proprio nel contatto diretto tra le parti e il mediatore. Tuttavia, la partecipazione è delegabile, ma occorre «una procura avente lo specifico oggetto della partecipazione alla mediazione e il conferimento del potere di disporre dei diritti sostanziali». Se la parte sceglie di farsi rappresentare dal difensore, la procura speciale non può essere autenticata dallo stesso legale. Una direzione confermata anche dalla riforma contenuta nel decreto legislativo 149/2022.

La Corte d’appello dichiara quindi l’improcedibilità delle domande in quanto la parte istante non ha partecipato al primo incontro di mediazione, né personalmente, né tramite un delegato con idonea procura. Né avrebbe rilievo una ipotetica «ratifica» depositata presso l’organismo: sarebbe tardiva e inidonea, perché la valutazione sulla corretta partecipazione va fatta considerando ciò che è avvenuto durante la procedura e che risulta dal verbale.

Non sana la situazione neanche il fatto che la mediazione si chiuda con esito negativo: la procura idonea occorre già per partecipare al primo incontro. Né è possibile sanare l’improcedibilità disponendo una nuova mediazione, dato che la verifica sulla condizione di procedibilità va fatta all’udienza di rinvio.

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Sponsorizzazioni, salva la deduzione se l’ufficio non prova la restituzione

16 Maggio 2023

Il Sole 24 Ore lunedì 24 aprile 2023 di Alessia Urbani Neri

Il giudice applica i principi derivanti dalla riforma del processo tributario

Il Fisco non ha dimostrato la sovrafatturazione delle somme contestate

La Cgt di secondo grado dell’Emilia Romagna ha accolto l’appello della società contribuente, osservando che spetta all’amministrazione finanziaria provare in giudizio le ragioni su cui si fonda l’atto impositivo, anche nel caso in cui venga disconosciuta una deduzione. La decisione, sentenza 294/8/2023 (presidente Russo, relatore Blasi), conferma un precedente indirizzo (sentenza 293, sezione 1, depositata il 30 dicembre 2022).

La legge 130/22 di riforma del processo tributario, in vigore dal 1° settembre 2022, ha riformato l’articolo 7 del Dlgs 546/92, introducendo al comma 5-bis uno specifico obbligo a carico dell’amministrazione di fornire «prova in giudizio» delle «violazioni contestate con l’atto impugnato» mediante una «circostanziata e puntuale» dimostrazione della fondatezza della pretesa tributaria.

Nella vicenda in esame, l’amministrazione finanziaria aveva, infatti, rettificato il reddito societario senza riconoscere la deduzione delle spese relative a fatture afferenti a operazioni inesistenti. In particolare, l’Agenzia fiscale, sulla base di una indagine finanziaria condotta anche presso terze imprese, aveva contestato l’indebito utilizzo di diverse fatture emesse nell’ambito di una più ampia frode compiuta da alcune aziende sportive che sovrafatturavano i costi di sponsorizzazione al fine di consentire la deduzione di spese superiori a quelle in concreto sostenute, procedendo poi alla restituzione di gran parte delle somme pagate.

Il collegio, pur ritenendo l’accertamento correttamente motivato sulla base degli elementi presuntivi raccolti in sede amministrativa, rilevava che l’ufficio non aveva suffragato tali dati in sede giudiziale, con validi elementi probatori. Anzi, osservava che gli esiti del giudizio penale condotto nei confronti dei responsabili delle società sportive, che vendevano gli spazi pubblicitari, escludevano la sovrafatturazione contestata nell’atto impositivo; mentre nessuno sponsor veniva coinvolto nell’indagine penale, né sopportava alcun provvedimento restrittivo.

Non avendo l’amministrazione provato documentalmente l’esistenza della retrocessione (rectius: restituzione) degli importi pagati agli sponsor in forza delle fatture contestate, l’autorità giudiziaria annullava l’atto per carenza di argomentazioni probatorie idonee a sostenere la pretesa tributaria.

Ebbene, al di là del riparto dell’onere prova, che trova la sua fonte normativa nell’articolo 2697 del Codice civile, il comma 5-bis dell’articolo 7 del Dlgs 546/92 richiede il corretto adempimento di tale onere probatorio da parte degli uffici, indirizzando l’azione amministrativa verso una prova più rigorosa dell’atto impositivo, che deve essere data in sede giudiziale, senza intaccare le regole procedimentali che riguardano l’obbligo di motivazione dell’accertamento.

Ne deriva che, una volta che l’ufficio ha fornito indizi sufficienti per sostenere l’obbligazione tributaria, in caso di contestazione nel merito da parte del contribuente, è tenuta in sede giudiziale a provare con maggior responsabilità e puntualità la fondatezza della pretesa fiscale.

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Il paradosso: la stretta sui veicoli con targa estera moltiplica gli abusi

16 Maggio 2023

Il Sole 24 Ore 3 maggio 2023 di Maurizio Caprino

Tra i vantaggi, circolazione con mezzi non a norma Ue e risparmi su vari tributi

L’ultima stretta sui “furbetti della targa estera” ha un anno e sta mostrando più falle del previsto. Dalla sua entrata in vigore (18 marzo 2022) con le modifiche agli articoli 93, 94, 132 e 196 del Codice della strada e il nuovo articolo 93-bis, oltre ai timori per le entrate fiscali legate ai veicoli (Iva, bollo auto, eventuale superbollo e Ipt, si veda «Il Sole 24 Ore» del 28 marzo 2022), sono emersi casi in cui il nuovo regime è servito per risparmiare ulteriormente sulle tasse e regolarizzare veicoli che non hanno i requisiti per circolare con targa italiana.

Perno di tutto è il Reve, il Registro veicoli immatricolati all’estero tenuto dal Pra, in cui vanno iscritti i mezzi con targa straniera utilizzati in Italia per più di 30 giorni da conducenti che risiedono nel nostro Paese (si veda la scheda sopra). Dopo la normale ondata iniziale di iscrizioni (22.233 tra fine marzo e giugno 2022), ci si è assestati su numeri bassi: da 1.700 a 3.600 al mese. Ma l’iscrizione al Reve rischia di diventare di massa: gli operatori vedono sempre nuove situazioni in cui la si usa in modo sospetto.

Sul fronte fiscale, è innanzitutto il caso dell’iscrizione per soli sei mesi: il tempo necessario affinché un veicolo acquistato nuovo all’estero si possa considerare ai fini Iva come usato e quindi tassato non sul suo intero valore da nuovo, ma solo sul margine di guadagno del rivenditore che risulta averlo ceduto d’occasione al cliente finale.

Una variante di questo schema consiste nel prendere in noleggio a lungo termine un veicolo in un Paese con Iva più bassa rispetto all’Italia, per farselo cedere dopo sei mesi dal noleggiatore. La formula del noleggio (come il subnoleggio e il comodato) viene usata largamente per iscriversi al Reve: né le norme né le prassi impongono verifiche documentali o limitazioni.

Un altro vantaggio fiscale è stato scoperto da chi ha iscritto al Reve veicoli già immatricolati in Italia e poi radiati per esportazione. Non di rado, dietro queste radiazioni non c’è un effettivo trasferimento all’estero, bensì l’intenzione di continuare a circolare prevalentemente in Italia senza pagare il superbollo cui si era soggetti quando il mezzo aveva targa italiana. Si può eludere il divieto di circolazione imposto ai veicoli gravati dalle ganasce fiscali: il fermo amministrativo non impedisce l’esportazione, che a quel punto si usa per ottenere una targa estera con cui passare indenni tutti i controlli in cui non venga verificato anche il numero di telaio, ossia la stragrande maggioranza.

Insomma, il vantaggio non è più riservato a chi si procura all’estero un’auto molto potente, ma si allarga a chi ne ha già una normalmente immatricolata in Italia.

C’è pure un fronte tecnico. Può riguardare particolari auto americane non in vendita in Europa, omologate solo negli Usa, secondo standard locali non riconosciuti nella Ue. A volte non si riesce a ottenere la targa italiana neanche apportando le modifiche necessarie per rientrare negli attuali standard Ue o facendo valere il fatto di essere italiani residenti in Usa che stanno rimpatriando (cosa che normalmente dà diritto a una deroga): la materia è complessa e frammentata. Con l’iscrizione al Reve, tutti questi problemi si risolvono in un colpo solo. A scapito di utenti e operatori che hanno gli stessi diritti e non vogliono ricorrere a scappatoie o non le conoscono (per ora)

Doing business in San Marino

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