La Svizzera rinuncia al suo trust bocciato in pubblica consultazione

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 19 settembre 2023 di Andrea Vicari

L’«avamprogetto » di legge respinto venerdì scorso dal Consiglio Federale

Secondo la Confederazione avrebbe comportato oneri senza adeguati benefici

Nessun futuro, al momento, per il trust “svizzero”: queste le conclusioni del Consiglio Federale nella seduta del 15 settembre. L’avamprogetto di legge presentato lo scorso anno mirava a introdurre nel codice delle obbligazioni un modello di trust differente rispetto ai modelli esistenti, sia di civil law (San Marino) che di common law, consentendo al disponente di mantenere un ruolo centrale nel funzionamento del trust e ampi poteri e diritti relativi alla sua amministrazione. Aspirava, inoltre, a superare l’attuale regime fiscale nel quale il trust non è mai trattato quale soggetto passivo d’imposta (dove i redditi dei beni in trust, dunque, sono sempre imputati a disponente o beneficiario), introducendo un sistema a “soggettività variabile”: alcune configurazioni di trust avrebbero goduto di soggettività passiva ai fini delle imposte, altre no.

I risultati delle consultazioni pubbliche sono stati determinanti nella decisione di stralcio: è stata contestata «la necessita? di introdurre un trust nell’ordinamento giuridico svizzero, poiché la cerchia potenziale dei beneficiari e? limitata» essendo «disponibili alternative» ed evidenziando che il proposto «trattamento fiscale del trust pone difficolta?».

In Italia il progetto del trust svizzero era stato accolto con grandi entusiasmi. Alcuni ritenevano che la legge svizzera sarebbe potuta diventare la legge di riferimento per i trust interni italiani, sostituendo la legge di Jersey e quella di San Marino, altri che il passo del legislatore svizzero avrebbe potuto addirittura indurre quello italiano a seguirlo nell’introdurre una disciplina interna dell’istituto. Pochi avevano colto il fatto che il modello svizzero riservava al disponente un ruolo importante e che questo fosse poco compatibile con le aspettative degli operatori italiani che, anche per ragioni fiscali, sono costretti a privilegiare modelli di trust nei quale il disponente deve uscire di scena. D’altra parte, il legislatore svizzero aveva indirizzato il proprio modello di trust guardando a una tipologia di disponenti internazionali, non appartenenti a uno specifico ordinamento, ignorando del tutto le esigenze di quelli italiani, a differenza di quanto aveva fatto il legislatore di San Marino. La decisione del Consiglio Federale della settimana scorsa spegne i facili entusiasmi ma offre anche fornisce preziosi stimoli di riflessione.

In primo luogo, il Consiglio Federale ha dato atto della «difficile attuazione, nonché del notevole onere amministrativo che ne sarebbe derivato» di un sistema impositivo del trust a “soggettività variabile”. In Italia, un simile sistema impositivo esiste ed è stato di fatto introdotto dalla prassi amministrativa con la creazione della categoria del trust interposto, impiegata per disconoscere il trust e la sua soggettività passiva: inizialmente solo in presenza di spregiudicati arbitraggi da parte dei contribuenti, ma poi anche in situazioni ordinarie; in principio solo ai fini delle imposte sui redditi, ora anche in materia di imposte di donazione e successione. Il tutto, in assenza di presupposti certi o di tassatività delle fattispecie impositiva. È oggi evidente la difficoltà per il contribuente di prevedere con precisione quale qualificazione fiscale verrà riservata allo specifico trust e ciò moltiplica le istanze di interpello e gli oneri amministrativi o i rischi di accertamenti imprevisti ed i contenziosi. Non appare allora azzardato pensare di abbandonare il vigente sistema italiano a “soggettività variabile” e di optare per uno basato sulla totale trasparenza del trust: più semplice, prevedibile e meno esposto ad arbitraggi.

Dalle consultazioni pubbliche svolte in Svizzera è poi emerso anche che la fondazione di famiglia sarebbe da molti considerata quale una «valida alternativa» al trust e che, per introdurla, sarebbe «molto più? semplice rivedere le norme vigenti in materia di fondazioni piuttosto che istituire un nuovo strumento giuridico».

A questo riguardo, basti pensare che in Germania, Lussemburgo, Danimarca, Liechtenstein, Olanda, Svezia e Austria già disciplinano le fondazioni di famiglia e che recentemente anche San Marino ha nominato un gruppo di esperti per introdurla. Modificare la disciplina delle fondazioni in Italia al fine di permettere l’uso della fondazione di famiglia sarebbe certamente più semplice che continuare a insistere in tentativi, del tutto vani dopo decenni di proclami, di introdurre una disciplina del trust.

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L’iscritto all’Aire paga l’Imu per la quota di casa in Italia

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 18 Settembre 2023 di Pasquale Mirto

Mi sono recentemente iscritto all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) per motivi di lavoro, ma la mia famiglia è rimasta a vivere in Italia, nell’abitazione che possiedo in comproprietà al 50% con mia moglie. Devo pagare l’Imu oppure, abitandoci la mia famiglia, ne sono esente?

L’Imu – nel caso descritto dal quesito – è dovuta per la quota di possesso del 50 per cento. La Corte costituzionale, con la sentenza 209/2022, ha riscritto la definizione di abitazione principale ai fini Imu. In particolare, a seguito della pronuncia citata, deve intendersi quale abitazione principale quella dove il “soggetto passivo” ha stabilito la propria residenza anagrafica e la propria dimora abituale, essendo irrilevante il luogo di residenza e dimora degli altri componenti della famiglia.

Pertanto, nel caso prospettato dal lettore, l’Imu non sarà dovuta dal coniuge comproprietario residente, mentre per lui (coniuge iscritto all’Aire) l’imposta è dovuta.

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Fineco via dal Regno Unito «Brexit rende impossibile il nostro modello»

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 16 Settembre 2023 di Maximilian Cellino

«Il Consiglio di Amministrazione di FinecoBank ha deliberato la chiusura del proprio business nel mercato britannico». Un comunicato scarno, attraverso il quale il gruppo attivo nel risparmio gestito mette la parola fine a un’avventura iniziata nel 2017 sotto i migliori auspici, proseguita poi fra frenate e ripartenze e conclusa adesso contro lo scoglio insormontabile della Brexit e delle complicazioni che la svolta ha comportato per un soggetto estero che vuole operare con le migliori intenzioni in Gran Bretagna e per i suoi clienti.

«Questa decisione segue il significativo cambio del contesto regolamentare nel Regno Unito successivamente all’uscita dall’Unione Europea» spiega infatti Fineco, adducendo la motivazione che «nel nuovo contesto non sarebbe più stato possibile mantenere un modello di business capital light», facendo cioè leva sull’infrastruttura che già la banca ha nel nostro Paese. Tecnicamente Fineco forniva fino a questo momento tutti i propri servizi ai clienti presenti nel Regno Unito dalla sede italiana e all’interno di un quadro regolamentare noto come «Temporary Regime» e consentito fino a dicembre 2023.

Il modello aveva permesso di mantenere una «struttura semplice ed efficiente», ma diventa adesso secondo quanto si ricorda nel comunicato «un’impostazione non più attuabile in quanto gli sviluppi regolamentari richiedono una presenza fisica nel Regno Unito». Soltanto poco più di un mese fa, in occasione della presentazione di conti semestrali da record, l’amministratore delegato, Alessandro Foti, era stato rassicurante nel ribadire che «l’espansione in Gran Bretagna non crea un rallentamento all’estero», ma aveva anche avvertito che prima di procedere su altri mercati europei e aprire nuovi capitoli, come per esempio in Germania, sarebbe stato necessario «concludere il dialogo con le autorità inglesi e definire la situazione nel Paese»

Ora la chiusura delle attività: improvvisa, ma non certo inattesa, che «sarà graduale, senza alcun disservizio per i clienti coinvolti» che secondo le ricostruzione de Il Sole 24 Ore sono circa 20mila e verso i quali ci si a comunicare il prima possibile i prossimi sviluppi. Ma soprattutto, parola di Fineco, «senza impatti materiali sui numeri della Banca».

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Il diritto all’oblio vale anche per i professionisti

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 25 Settembre 2023 di Marisa Marraffino

Sono un commercialista, oltre dieci anni fa sono stato condannato per omissione di soccorso. La notizia finì sul giornale locale e viene ancora indicizzate dal motore di ricerca. Il giornale locale rifiuta di deindicizzarla. Cosa posso fare?

In questo caso il giornale, nella sua qualità di titolare dei dati personali, dovrebbe deindicizzare la notizia in applicazione del cosiddetto diritto all’oblio, così come oggi cristallizzato dall’articolo 17 del Regolamento Ue 679/2016. La testata dovrebbe spostare l’articolo nell’archivio telematico del giornale, inserendo il cosiddetto file robots.txt, in modo che i motori di ricerca non indicizzino più la notizia partendo dal nome dell’interessato. Se la testata rifiutasse la deindicizzazione, la stessa richiesta potrebbe essere fatta direttamente al motore di ricerca. In caso di diniego sarà possibile presentare un reclamo al Garante per la protezione dei dati personali contro entrambi. Il cosiddetto diritto all’oblio vale infatti per entrambi e deve consentire al diretto interessato di non subire a tempo indeterminato gli effetti pregiudizievoli di una condanna ormai datata.

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Origine doganale, la lavorazione sostanziale consente deroghe

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 22 Settembre 2023 di Benedetto Santacroce ed Ettore Sbandi

Le norme in materia di origine non preferenziale vincolanti (allegato 22-01 del regolamento delegato 2015/2446), sono da considerarsi non valide quando non conformi a quanto disciplinato entro la norma ex articolo 60, paragrafo 2, del Codice doganale, in particolare alla luce del criterio discriminante dell’«ultima trasformazione sostanziale».
Sono queste le conclusioni, per certi versi dirompenti, per altri in linea con altri pochi precedenti (causa C-373), cui addiviene la Corte di giustizia dell’Ue nella causa C-210/22, dove si scalfisce un principio di diritto positivo che conferisce certezza agli operatori, in favore di un approccio sostanzialistico che facilmente può sfociare in forme di discrezionalità discutibili.

Nella decisione in commento, la Cgue sottolinea infatti che la Commissione Ue, sebbene nell’ambito dei suoi poteri delegati per l’applicazione dell’articolo 60, paragrafo 2, Cdu a lavorazioni e trasformazioni sostanziali per specifici prodotti, non può adottare soluzioni diverse per lavorazioni e trasformazioni analoghe, dovendo agire secondo criteri di coerenza e in ossequio al principio internazionale dell’origine quale punto di caduta di una «ultima lavorazione sostanziale».

Sul piano pratico, dalla pronuncia si risolvono principalmente due questioni molto tecniche, che qui si riassumono per necessità, cui però segue un principio generale importante: in primo luogo, se la nozione di «sbozzo di tubo» possa essere ricompresa entro la regola primaria che chiarisce la nozione di «profilato cavo»; in secondo luogo, risolta la prima questione, è chiesta la validità del criterio riferito ai profilati cavi, a causa dell’esclusione dell’acquisizione di origine dei prodotti rientranti nella voce 7304 41 Sa, ottenuti a freddo a partire da tubi della sottovoce 7304 49 Sa. In dettaglio, la seconda questione, di maggior rilievo, verte effettivamente sulla validità della regola primaria alla luce dell’articolo 290 Tfue, del principio di certezza del diritto e dell’articolo 60 Cdu.

La Corte dichiara che la regola primaria applicabile alle merci di cui alla sottovoce 7304 41 Sa, prevista all’Allegato 22-01 del regolamento delegato, è invalida nella parte in cui esclude che il cambiamento di voce tariffaria, risultante dalla trasformazione di tubi della sottovoce 7304 49 in tubi e profilati cavi, senza saldatura, di ferro o di acciaio, trafilati o laminati a freddo rientranti nella sottovoce 7304 41, conferisca a questi ultimi il carattere di prodotti originari del paese in cui tale cambiamento ha avuto luogo.

Insomma, per i giudici Ue, la Commissione si è basata solo sulla regola dello spostamento tariffario vincolante per determinare l’origine delle merci in questione; al contrario, benché tale spostamento costituisca un’indicazione del carattere sostanziale della sua trasformazione o della sua lavorazione, tale carattere può essere raggiunto anche in mancanza di un siffatto cambiamento.

Concludendo, anche se la pronuncia può esser eletta in chiaroscuro, ossia favorevole o meno al contribuente, questa sembra sancire il principio per cui il discrimine risiede nella valutazione della trasformazione o lavorazione (appunto, sostanziale), laddove questa comporti un cambiamento qualitativo del prodotto di base, a prescindere dalla regola concretamente prevista in via regolamentare.

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Residenza fiscale, split year concesso se previsto dagli accordi tra i Paesi

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 4 settembre 2023 di Davide Cagnoni e Angelo D’Ugo

Anno d’imposta frazionato in base al giorno in cui viene cambiato il domicilio

Il meccanismo non si applica alle società, per le quali vale l’articolo 73 del Tuir

La maggiore mobilità internazionale dei lavoratori e le nuove modalità di lavoro agile svolto in un Paese diverso da quello del datore di lavoro, comportano la necessaria verifica dei criteri di determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche. Lo ha chiarito la recente circolare 25/E/2023.

In base all’articolo 2, comma 2 del Tuir, una persona fisica è fiscalmente residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta – almeno 183 giorni in un anno solare, 184 in caso di anno bisestile –, possiede nel territorio italiano almeno uno dei seguenti requisiti: iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, possesso della residenza civilistica o possesso del domicilio.

Qualora, tuttavia, la stessa persona sia residente anche all’estero e ci sia quindi un caso di duplice residenza fiscale, questo andrà risolto in base a quanto contenuto nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni sottoscritte tra i due Stati (il cosiddetto tie breaker rules).

Periodo d’imposta frazionato

In caso di trasferimento da uno Stato all’altro nel corso del medesimo periodo d’imposta, una situazione particolare (non trattata dalla circolare 25/E) si verifica qualora la Convenzione contenga la previsione del criterio del “frazionamento del periodo d’imposta” (cosiddetto split year), come accade per le Convenzioni sottoscritte tra l’Italia e la Svizzera o la Germania. Ai sensi di tale disposizione, l’assoggettamento alle imposte termina nel primo Stato (ad esempio l’Italia) alla fine del giorno in cui è effettuato il cambio di domicilio e inizia nell’altro Stato (ad esempio la Svizzera) a partire dal giorno successivo a quello in cui il cambio di domicilio è avvenuto.

Il meccanismo di tassazione

Con la risposta 370/2023, riferita a un caso di trasferimento dall’Italia alla Svizzera avvenuto il 31 maggio, è stato confermato che lo split year trova applicazione solo se entrambi gli Stati hanno titolo per poter considerare una persona fisica quale un proprio residente (in senso analogo: le risposte 73 e 98 del 2023).

Inoltre, è stato chiarito che il reddito di lavoro dipendente prodotto dal 1° gennaio al giorno di trasferimento all’estero è assoggettato a tassazione esclusiva in Italia, mentre quello prodotto dal 1° giugno al 31 dicembre del medesimo anno è assoggettato a tassazione esclusiva in Svizzera, in base all’articolo 15, paragrafo 1 della Convenzione.

Il trasferimento della residenza fiscale da un Paese estero all’Italia può comportare, in caso di mantenimento all’estero di attività immobiliari e/o finanziarie, gli obblighi di monitoraggio previsti dall’articolo 4 del Dl 167/1990.

Pertanto, considerato che raramente in caso di trasferimento è possibile/opportuno smobilizzare contestualmente tutte le attività detenute all’estero, è necessario verificare l’obbligo di dichiarare nel quadro RW le relative consistenze, assolvendo altresì l’Ivie e l’Ivafe, se dovute.

L’iscrizione all’Aire

Un altro tema oggetto di alcune risposte pubblicate a inizio anno (54, 126, 170, 173 e 255 del 2023) è riferito al fatto che, in caso di trasferimento da o verso l’estero, il dato formale costituito dall’iscrizione all’Aire non ha effetto sull’applicazione delle previsioni convenzionali e, dunque, la tassazione in uno dei due Paesi in applicazione dello split year segue il trasferimento del domicilio della persona fisica in base all’articolo 43 del Codice civile.

In questo senso, ad esempio, la risposta 170/2023, riferita a un lavoratore trasferitosi in Germania con iscrizione all’Aire ad agosto, e assunto in tale Paese a settembre dello stesso anno, ha chiarito che il reddito derivante dall’attività lavorativa svolta in Germania a partire da settembre è soggetto a tassazione esclusivamente in Germania, e non deve quindi essere tassato in Italia.

Tale criterio resta valido anche nei casi di lavoro da remoto, dove al lavoratore viene concessa la facoltà di proseguire o avviare l’attività anche dalla propria abitazione situata in un Paese differente rispetto a quello del datore di lavoro.

Le società

Lo split year non trova mai applicazione per le società, non essendo previsto né dalla normativa interna né a livello convenzionale. Per le società, quindi, resta ferma l’applicazione dell’articolo 73 comma 3 del Tuir, che subordina l’attribuzione della residenza fiscale a uno dei criteri di collegamento con l’Italia (sede legale, sede dell’amministrazione od oggetto sociale) per la maggior parte del periodo d’imposta.

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Indeducibili le minusvalenze da svalutazione

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 15 settembre 2023 di Alessandro Germani

Il conferimento è tassato in base al valore che scaturisce dall’atto

In assenza dei requisiti Pex svalutazione deducibile solo quando è realizzata

Va integralmente assoggettata a tassazione, sia Ires sia Irap, la plusvalenza realizzata all’atto del conferimento di un immobile da parte di una società ai sensi dell’articolo 86 del Tuir, mentre la minusvalenza da valutazione della partecipazione è integralmente indeducibile (sia Ires sia Irap) e da riprendere a tassazione.

Sono queste le conclusioni della sentenza di II grado della Cgt del Lazio n. 4887 – depositata il 16 agosto 2023 – che dà ragione al fisco sulla scorta del primo grado di giudizio che era stato già sfavorevole al contribuente. Ma vediamolo in dettaglio.

Il conferimento di immobile era stato effettuato per un valore di 3,7 milioni di euro ma la società, anziché considerare una plusvalenza rispetto al valore di carico dell’immobile (costo storico di 136.698,01 euro), l’aveva considerata nel minor valore di 388.913,99 euro pari alla differenza fra la quota portata ad incremento di capitale e il costo storico originario, mentre quanto iscritto dalla conferitaria a titolo di riserva straordinaria non era stato considerato.

Circa invece la svalutazione della partecipazione, pari a 209.976 euro e operata a seguito della riduzione di capitale della partecipata, per la società detta svalutazione era da considerarsi deducibile in assenza dei requisiti Pex per la partecipazione, consistenti nella mancanza del requisito dell’ininterrotto possesso dal 1° giorno del 12° mese precedente quello dell’avvenuta cessione.

I giudici contestano che il conferimento possa aver riguardato un’azienda piuttosto che un immobile. Perché si tratti di azienda vi deve essere un’autonomia organizzativa ed economica funzionale alla produzione di beni o servizi (Cassazione 18948/21). Peraltro dalla promessa di vendita sembra essersi in presenza di un immobile e non di un’azienda, né pare dirimente l’accatastamento nella categoria D1 per far propendere per un’azienda o un ramo d’azienda. Peraltro lo stesso verbale di assemblea faceva riferimento a un aumento di capitale da liberarsi in natura mediante conferimento delle porzioni immobiliari, ma senza far riferimento ad azienda o ramo d’azienda.

Inoltre a testimonianza che si trattasse di un immobile e non di un’azienda sta il fatto che la società non ha considerato la plusvalenza integralmente non imponibile, come avviene nel caso in cui si fa un’operazione neutrale di conferimento d’azienda ex articolo 176 Tuir.

È errato anche il motivo per cui la società ritiene che la minusvalenza possa essere deducibile ex articolo 101 Tuir. Quello è infatti il caso delle minusvalenze realizzate, mentre nel giudizio in questione si tratta di minusvalenze da valutazione, che resta sempre indeducibile sia Ires sia Irap.

Prova ne è che la società ha svalutato la partecipazione a seguito di una riduzione di capitale della partecipata. Motivo per cui la svalutazione della partecipazione è da considerarsi indeducibile ex articolo 110 comma 1 lettera d) Tuir. Quella norma stabilisce che il valore fiscale della partecipazione è ancorato al costo sostenuto ed è insensibile rispetto alle variazioni determinate in bilancio (Cassazione 32544/19). Si segnala che l’ufficio non si era costituito ma è intervenuto solo nella discussione orale in sede di udienza.

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Codice Mrn della dogana europea utile a provare l’effettiva esportazione

6 Ottobre 2023

Il Sole 24 Ore 4 settembre 2023 di Matteo Balzanelli e Massimo Sirri

La Cassazione fa chiarezza sui documenti idonei a blindare la non imponibilità

Rilevano le attestazioni e i carnet Tir purché vidimati dalle autorità straniere

Nella costante opera di allineamento ai principi unionali, fra i quali risalta la prevalenza dei requisiti sostanziali rispetto agli adempimenti formali, la Cassazione mette qualche punto fermo utile a orientare gli operatori e l’azione di controllo del Fisco. Con ordinanza n. 14853 del 26 maggio scorso, i giudici puntano l’attenzione sui documenti idonei a comprovare la spettanza del regime di non imponibilità Iva delle cessioni all’esportazione, precisando che rappresenta un documento utile allo scopo anche il codice Mrn (di individuazione dell’esportazione e di controllo del «risultato di uscita» dei beni dall’Ue) rilasciato da una dogana comunitaria anziché da una dogana nazionale.

Nella pronuncia (si veda l’articolo a destra) è altresì ribadito l’orientamento in base al quale in un’operazione di tipo triangolare (di cui all’articolo 58, Dl 331/1993) il trasferimento dei beni al cliente finale in altro Stato Ue a opera del promotore (primo cessionario/secondo cedente) non impedisce che anche la prima vendita avvenga in “esenzione”.

Tornando ora alle operazioni di cessioni all’esportazione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera a), Dpr 633/72, i giudici sottolineano che, ai fini della non imponibilità, è necessario che sussistano elementi presuntivi che facciano ritenere che sia avvenuta l’uscita dei beni dal territorio comunitario e che la destinazione all’esportazione sia documentata da mezzi di prova certi e incontrovertibili. Sono tali, fra l’altro, le attestazioni di pubbliche autorità del paese d’importazione, mentre non lo sono documenti di origine privata (fatture, documenti bancari relativi al pagamento). Sono altresì idonei, come da giurisprudenza Ue (C-495/17), i carnet Tir debitamente vidimati per il transito delle merci e, in generale, anche documenti di fonte privata, sempre se vidimati/contrassegnati da un’autorità doganale. Pertanto, è da ritenere che anche il codice Mrn «apposto da uffici doganali non nazionali» rappresenti una prova dell’effettiva esportazione della merce.

Da questo punto di vista, la Cassazione “nobilita” le più prudenti indicazioni fornite dall’agenzia delle Dogane con nota 3028/2008. In tale documento, dopo aver confermato che la scelta dell’ufficio doganale di esportazione (quello in cui “accendere” la pratica) non è rimessa alla discrezionalità degli operatori, l’Agenzia rileva come, in caso di operazione doganale interamente eseguita presso un altro Stato membro, l’operatore deve aver cura di acquisire e tenere agli atti l’informazione associata all’Mrn di «prova di uscita della merce», pur non essendo i relativi Mrn “leggibili” dal sistema informatico doganale interno. Il tutto, nella prospettiva di una sua validità probatoria evidentemente già ipotizzabile all’epoca.

L’ordinanza menziona anche la sentenza C-656/19 nella quale è ampiamente enfatizzato il profilo sostanziale dell’avvenuta esportazione di beni fatturati in regime di esenzione Iva come cessioni a viaggiatori privati stranieri, pur in mancanza dei relativi presupposti. I giudici europei rilevano che, per quanto risulti inapplicabile l’articolo 147, direttiva 2006/112, corrispondente all’articolo 38-quater, Dpr 633/72, le cessioni possono comunque beneficiare della non imponibilità ai sensi del precedente articolo 146, paragrafo 1, lettera b) della direttiva (tradotto nell’articolo 8, comma 1, lettera b, del decreto Iva), nel rispetto delle condizioni sostanziali. Queste possono dirsi avverate nel caso di specie: sebbene la formalità doganale risulti espletata con le modalità delle vendite a privati extracomunitari in assenza dei presupposti, esiste tuttavia un’attestazione dell’autorità doganale di uscita su un modulo che è in possesso del soggetto passivo.

In una situazione come quella della sentenza C-656/19, nella quale, anche se l’operatore ha partecipato alla frode, questa non ha tuttavia determinato perdite fiscali in ambito comunitario né ha messo a repentaglio il funzionamento del sistema Iva, l’esenzione non può essere sistematicamente negata dalle autorità fiscali. Il principio viene argomentato solidamente e in un eventuale contenzioso andrebbe opportunamente fatto valere, nonostante la diversa ma non condivisibile lettura che di tale pronuncia la stessa Cassazione ha offerto in altra sede (sentenza n. 28441/2021).

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Influencer, sfruttare il diritto di immagine è lavoro autonomo

11 Settembre 2023

Il Sole 24 Ore 7 Agosto 2023 di Paolo Arginelli

Con la sentenza su Cristiano Ronaldo la Cgt Piemonte fissa importanti paletti

Con la sentenza 219/2/2023 la Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte ha confermato la decisione della Commissione tributaria provinciale di Torino, la quale aveva negato il rimborso delle imposte versate da Cristiano Ronaldo in relazione ai redditi conseguiti nel 2019 dallo sfruttamento del proprio diritto di immagine.

Ronaldo, allora fiscalmente residente in Italia, aveva esercitato l’opzione per il regime di imposizione sostitutiva dei redditi prodotti all’estero (articolo 24-bis del Tuir); e con varie istanze di interpello aveva chiesto all’agenzia delle Entrate conferma dell’applicabilità ai redditi derivanti dalla concessione del diritto di sfruttamento della propria immagine per scopi commerciali. Nelle more delle risposte dell’Agenzia, Ronaldo aveva versato le imposte e presentato la dichiarazione nel prudenziale assunto che il regime non si applicasse a tali redditi, per poi chiedere il rimborso del tributo.

La Cgt del Piemonte ha quindi confermato il diniego al rimborso, qualificando le somme come redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia, ove l’esercizio abituale e professionale della gestione dell’immagine doveva ritenersi presuntivamente condotto in ragione della localizzazione della residenza e del luogo di esercizio dell’attività di lavoro dipendente di Cristiano Ronaldo.

Tra promozione e redditi

Al di là della vicenda in sé, interessante per la notorietà del contribuente, la sentenza è degna di nota perché fissa in modo convincente alcuni punti con i quali la giurisprudenza successiva – e in particolare la Cassazione – dovrà misurarsi.

Anzitutto, i giudici hanno rilevato un elemento fattuale generale che – pur da declinare in ogni fattispecie concreta – pare cogliere l’essenza dei nuovi fenomeni di sfruttamento mediatico dell’immagine di personaggi pubblici (in particolare degli “influencer”): la notorietà di tali soggetti, «ancorché originata da una qualche specifica attività artistica o professionale, dipende ormai, in misura assai maggiore, dalla capacità del soggetto interessato di promuovere il proprio personaggio, in modo professionale, sui mezzi di comunicazione di massa».

Tale attività di promozione – strettamente connessa al (se non inscindibile dal) conseguimento dei redditi derivanti dallo sfruttamento di immagine – costituisce sotto il profilo tributario un’attività di lavoro autonomo, non essendo qualificabile come attività di impresa a motivo della prevalenza dell’intuitu personae e dell’ordinaria assenza di una significativa organizzazione di mezzi e capitale. Seppure ciò non emerga dalla sentenza, si ritiene che tale attività possa in concreto presentare gradi di intensità, complessità e continuità differenziati; con la conseguenza di poter essere sussunta tra le attività produttive di redditi di lavoro autonomo (ove esercitata conformemente al canone della abitualità) oppure tra quelle produttive di redditi diversi ex articolo 67, comma 1, lettera l) del Tuir (ove priva del requisito della abitualità).

In entrambi i casi, la qualificazione ha effetto anche sull’individuazione della territorialità del reddito, fissandone il criterio di determinazione nel luogo di esercizio dell’attività, conformemente all’articolo 23, comma 1, lettere d) e f). In tale prospettiva, la Cgt ha ritenuto che l’attività di gestione dell’immagine sia strettamente correlata alla persona fisica a cui l’immagine inerisce e, dunque, che debba essere considerata in via presuntiva – e salva ogni prova contraria – come esercita nel luogo in cui la persona abitualmente risiede, in quanto non dissociabile da quest’ultima.

In terzo luogo, la sentenza ha condivisibilmente rigettato la tesi della sussumibilità dei redditi de quibus nell’alveo dell’articolo 53, comma 2, lettera b) del Tuir, concernente i redditi derivanti dallo sfruttamento da parte dell’autore o dell’inventore di diritti di proprietà intellettuale. Da un lato, infatti, la fattispecie in oggetto non è menzionata da tale disposizione, che richiama esclusivamente i redditi derivanti dall’utilizzo economico di opere intellettuali. Dall’altro, non pare ragionevole procedere a un’estensione analogica della fattispecie, stante la difficoltà di individuare nell’immagine un’opera dell’ingegno autonoma rispetto al titolare del diritto, al quale pare indissolubilmente legata.

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Smart working oltreconfine, il fisco segue la residenza

11 Settembre 2023

Il Sole 24 Ore 19 Agosto 2023 di Stefano Sirocchi
Nella circolare delle Entrate il riepilogo sulle principali prese di posizione
L’alternativa del domicilio e della dimora abituale va verificata caso per caso

In linea con i chiarimenti forniti nei recenti documenti di prassi, l’agenzia delle Entrate nella circolare 25/2023 di ieri, conferma che, ai fini dell’individuazione della residenza fiscale e dell’imponibilità dei redditi dei lavoratori in smart working, si devono applicare i criteri ordinari contenuti negli articoli 2 e 3 del Tuir.

Al contempo si devono ritenere superate le regole transitorie valide nel periodo emergenziale del Covid-19 in cui, solo con riferimento agli specifici accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nell’articolo 15 del modello Ocse e a condizione di reciprocità, era possibile, in via eccezionale e provvisoria, considerare i giorni di lavoro svolti nello Stato di residenza come giorni lavorati nello Stato in cui ordinariamente era prestata l’attività lavorativa. Si tratta degli accordi Italia-Austria (concluso il 24/26 giugno 2020, applicabile alle attività lavorative svolte tra l’11 marzo 2020 e il 30 giugno 2022), Italia-Francia (concluso il 16/23 luglio 2020, applicabile dal 12 marzo 2020 fino al 30 giugno 2022), e dell’accordo Italia-Svizzera (concluso il 18/19 giugno 2020, applicabile ai lavoratori subordinati e frontalieri dal 24 febbraio 2020 al 31 gennaio 2023).

Dunque, ordinariamente, la modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, anche se in smart working, non incide sui criteri di determinazione della residenza fiscale. Secondo l’articolo 2, comma 2, del Tuir, ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti fiscalmente le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia 183 giorni in un anno o 184 giorni se anno bisestile) soddisfano anche una sola delle seguenti condizioni: sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente, hanno nel territorio dello Stato italiano il proprio domicilio e/o la propria residenza, secondo quanto stabilito dal Codice civile.

L’accertamento dei presupposti diversi dal dato formale dell’iscrizione anagrafica, richiede un riscontro fattuale da svolgere caso per caso, al fine di poter valutare concretamente gli elementi che consentono di verificare il luogo di domicilio (quello in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi) o di residenza (la sua dimora abituale).

Pertanto è fiscalmente residente in Italia un lavoratore straniero che per la maggior parte dell’anno solare vive con la famiglia in Italia e da qui lavora in smart working per un datore di lavoro estero. Ciò, nonostante non risulti iscritto nelle anagrafi della popolazione residente. Analogamente, rimane residente la cittadina italiana trasferita all’estero, dove lavora in modalità agile, che abbia mantenuto l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta.

Con riferimento all’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni, l’Agenzia sottolinea che l’articolo 15 del modello Ocse, sostanzialmente recepito nelle convenzioni negoziate dall’Italia, prevede la tassazione esclusiva dei redditi da lavoro dipendente nello Stato di residenza del contribuente, salvo l’attività lavorativa venga svolta nell’altro Stato contraente, nel qual caso l’imposizione è concorrente in entrambi i Paesi.

In coerenza con l’articolo 23 comma 1, lettera c), del Tuir, che considera prodotti in Italia «i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato», anche la disposizione convenzionale prevede che il lavoro dipendente si considera svolto nel luogo in cui il lavoratore è fisicamente presente quando svolge la prestazione per cui è remunerato, a prescindere dalla circostanza che la manifestazione di tale lavoro abbia effetti nell’altro Stato contraente.

Doing business in San Marino

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