Categoria: Dall’Italia
Oss «non Ue», facilitate le operazioni verso privati anche senza imposta
11 Settembre 2023
I soggetti extra Ue che effettuano operazioni territorialmente rilevanti nell’Unione europea verso privati sono tenuti a nominare un rappresentante fiscale per assolvere gli adempimenti Iva, tra cui quello di fatturazione e dichiarazione. E questo, anche nell’ipotesi in cui tutte le operazioni effettuate siano “esenti”. Al fine di semplificare le procedure, pur in mancanza di imposta da versare, è possibile aderire all’Oss regime non Ue.
È il caso, per esempio, di un soggetto extra Ue che – operando in Italia nel settore dei viaggi tramite un rappresentante fiscale – acquista in nome proprio e rivende ai clienti (ovviamente applicando un mark up) biglietti aerei relativi a tratte internazionali, al di fuori, quindi, del regime speciale ex articolo 74-ter del Dpr 633/1972. Il rappresentante fiscale è tenuto a certificare le vendite mediante emissione di fatture che, nel rispetto delle regole in materia di territorialità fissate dall’articolo 7-quater del decreto Iva e seguendo la logica del mandato senza rappresentanza, recheranno un corrispettivo in parte fuori campo e in parte non imponibile ex articolo 9, Dpr 633/72.
La questione è stata analizzata in una risposta a interpello (a oggi inedita) in cui si afferma che l’operatore estero può aderire al regime “Oss non Ue” facendovi rientrare, oltre alle eventuali operazioni verso privati di altri Stati membri, anche quelle verso clienti privati nazionali (a differenza di quanto avviene per il regime Ue).
Il fatto poi che possano confluire nel regime Oss non Ue tutte le prestazioni di servizi (compresi i servizi di trasporto) con luogo di prestazione nell’Unione, effettuate da un operatore extra Ue a favore di persone che non sono soggetti passivi (consumatori), è confermato anche nelle note esplicative della Commissione europea (paragrafo 3.1.3).
Inoltre, non è d’ostacolo la circostanza per cui tutte le operazioni realizzate possono essere “esenti” (non imponibili secondo la dizione interna). Infatti, anche le note esplicative Ue prevedono che «le prestazioni e le cessioni esenti in uno Stato membro di consumo non devono essere incluse nella dichiarazione per lo sportello unico», peraltro confermando implicitamente che è possibile aderire al regime speciale anche in presenza di sole operazioni “esenti”. Semplicemente, ciò comporta la compilazione e l’invio della dichiarazione speciale “in bianco”.
Adempimenti facilitati
La fisiologica assenza di operazioni nel modello non dovrebbe inoltre rilevare quale causa di esclusione dal regime, considerato che la mancata indicazione di operazioni nella dichiarazione trimestrale per il regime Oss non Ue consegue alle regole di non imponibilità.
Resta inteso che, qualora siano venduti biglietti per tratte nazionali, l’imposta dev’essere applicata e l’operazione va inserita nella dichiarazione Oss. Allo stesso modo, troveranno spazio nel modello le operazioni per le quali è prevista l’imponibilità in altri Stati membri.
L’adesione all’Oss in un caso come quello dell’interpello ha altresì un evidente impatto positivo in termini di semplificazione degli adempimenti. Le Entrate confermano infatti l’esonero dagli obblighi di fatturazione e dagli altri oneri contabili/documentali, così come espressamente previsto dal comma 2 dell’articolo 74-quinquies del decreto Iva, secondo cui i «soggetti che si avvalgono del regime previsto dal presente articolo sono dispensati dagli obblighi di cui al titolo II», restando peraltro dovuti quelli di conservazione ed esibizione di idonea documentazione delle operazioni effettuate, individuati dal comma 10 dell’articolo 74-quinquies.
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Decisiva la residenza per il prelievo tedesco
11 Settembre 2023
Il Sole 24 Ore 18 Agosto 2023 di Alessandro Germani
Tassazione in Germania in base alla Convenzione per la partecipazione ceduta
La plusvalenza derivante dalla cessione di una partecipazione italiana da parte di una partnership tedesca fiscalmente trasparente è imponibile solo in Germania in base alla convenzione fra i due Paesi. È quanto emerge dalla risposta a interpello 418/2023 delle Entrate.
Alfa è una società tedesca in forma di KG assimilabile a una Sas italiana che ha come soci Beta in qualità di accomandante e Gamma come accomandatario e detiene una partecipazione del 100% nella società italiana Delta Srl. Alfa in Germania è un’entità fiscalmente trasparente e i suoi soci sono residenti in Germania come attestato dai relativi certificati di residenza.
Alfa cede a un’altra società del gruppo tedesca la partecipazione italiana, realizzando così una plusvalenza imponibile ex articoli 73, 23 comma 1 lettera f) e 67 comma 1 lettera c) del Tuir. Poiché la convenzione Italia Germania prevede la tassazione esclusiva nello Stato di residenza dell’alienante, il dubbio verte se ciò debba riguardare Alfa (cioè la società che vende la partecipazione) oppure Beta (il socio).
L’Agenzia conferma che i benefici della convenzione si applicano in capo ad Alfa, benché sia un soggetto trasparente, in base al presupposto che sia Alfa che Beta sono soggetti fiscalmente residenti in Germania ed ivi tassati. Viene confermato così che non c’è invece tassazione in Italia. Infatti la plusvalenza in una società italiana è imponibile in Italia, ma interviene poi la convenzione fra i due Paesi che prevale sulla norma interna.
Circa il soggetto cui applicare i benefici convenzionali occorre guardare al protocollo aggiuntivo della convenzione Italia Germania che è stato commentato anche dal report Ocse del 1999 sulle partnership. Esso ha chiarito che in generale i benefici non si applicano alle entità trasparenti, tranne i casi in cui ciò sia espressamente previsto. E l’Ocse cita come caso proprio il protocollo della convenzione Italia Germania. L’importante è che vi sia tassazione nello Stato di residenza della partnership. Pertanto i benefici della convenzione si applicano su Alfa benché trasparente e la tassazione tedesca poi vi sarà in capo al socio Beta, che è fiscalmente residente in Germania e ivi tassato. Senza alcuna tassazione in Italia. Del resto, ciò è in linea con i precedenti di prassi (risoluzioni 17/E/06 e 167/E/08).
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Successioni internazionali: conta la residenza abituale
11 Settembre 2023
Il Sole 24 Ore 7 Agosto 2023 di Massimo Melpignano
Un soggetto residente in Svizzera, con doppia cittadinanza italiana ed elvetica, muore senza lasciare testamento né altre disposizioni. Il defunto possedeva immobili e altri beni (per esempio, conti correnti) sia in Italia sia in Svizzera.
Gli eredi legittimi sono, sia per la legge italiana sia per la legge svizzera, il coniuge e i tre figli, ma le quote spettanti a ciascun erede sono diverse a seconda delle le due legislazioni: secondo la legge svizzera, il coniuge percepirebbe la metà del patrimonio, mentre, secondo quella italiana, gli spetterebbe un terzo.
Fermo restando che dovranno essere indicati nella dichiarazione di successione e tassati in Italia solo i beni presenti in Italia, quale legge dev’essere applicata per determinare le quote di devoluzione?
La regola generale per le successioni transfrontaliere è dettata dal regolamento europeo 4 luglio 2012, n. 650/2012, in vigore dal 17 agosto 2015.
Il principio cardine per individuare la legge applicabile alla successione, sotto il profilo civilistico, è quello della residenza abituale del defunto al momento della morte (per maggiori indicazioni, si veda Ufficio studi del Notariato, risposta a quesito internazionale 115-2019/A dell’11 giugno 2019). Quindi, nel caso prospettato, si applicherà la legge svizzera, visto che il canone generale citato ha carattere universale e si applica anche per gli Stati extracomunitari (articolo 20 del regolamento).
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Preliminare, se muore il promittente tutti gli eredi devono firmare il definitivo
11 Settembre 2023
Il Sole 24 Ore 30 Agosto 2023 di Angelo Busani
Il documento in questione era stato stipulato dal de cuius nel 2001
Se muore il promittente venditore di un contratto preliminare di compravendita, tutti i suoi eredi devono concorrere alla stipula del contratto definitivo e quindi non è sufficiente, per procurare al compratore l’acquisto dell’immobile promesso in vendita, che il definitivo sia stipulato solo da alcuno degli eredi.
È quanto deciso dalla Cassazione nell’ordinanza 25396 del 29 agosto 2023, la quale ha annullato la sentenza impugnata, emessa dalla Corte d’appello di Roma (4993/2016), che, a sua volta, aveva ribaltato, qualificandola come «non assolutamente ammissibile dal punto di vista giuridico» la sentenza del Tribunale di Roma (7416/2014), nella quale il contratto definitivo, stipulato da uno solo degli eredi, senza il concorso dell’altro erede, era stato dichiarato “nullo” «a causa della mancata partecipazione alla stipula» del contratto definitivo di tutti gli eredi della promittente venditrice.
Per la cronaca, la citazione in primo grado era del 2008 e il preliminare in questione era stato stipulato dal de cuius nel 2001.
La Cassazione argomenta la sua decisione con l’osservazione che la promessa di vendita di un bene oggetto di comunione è una «obbligazione indivisibile» avente «natura collettiva» che deve essere adempiuta da tutti i comproprietari i quali costituiscono «un’unica parte complessa»: pertanto, le loro dichiarazioni di voler vendere si fondono in un’unica volontà negoziale, con la conseguenza che, quando una di tali dichiarazioni manchi, non si forma (o si forma invalidamente) la volontà di una delle parti del contratto preliminare e pertanto non si verifica il presupposto in base al quale il promissario acquirente possa concretare in capo a sé l’acquisto del bene oggetto del preliminare.
In altre parole, a fronte della successione a causa di morte a un soggetto promittente venditore, non si verifica una situazione nella quale si originano tanti autonomi contratti preliminari quanti sono gli eredi, ciascuno avente a oggetto una quota indivisa del bene promesso in vendita, in quanto i coeredi vengono a costituire «un’unica parte complessa» poiché la promessa in vendita del bene poi divenuto comune per effetto dell’apertura della successione deriva da un’originaria «unica volontà negoziale» (quella espressa dal promittente venditore, poi deceduto).
Ne esce che, da un lato, tutti gli eredi sono obbligati a prestare il loro individuale consenso, necessario per permettere la stipula del contratto definitivo in quanto le singole loro volontà «sono prive di una specifica autonomia» in quanto «destinate a fondersi in un’unica manifestazione negoziale»; e che, d’altro lato, finchè questo collettivo e unanime consenso non vi sia, l’acquirente non ottiene l’acquisto che gli è stato promesso nel contratto preliminare. In sostanza, ciascuno degli obbligati è in grado di manifestare solo «il consenso relativo alla propria quota e non quello concernente le quote spettanti agli altri».
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Videocamere, email e privacy tutelata: i limiti ai controlli del datore di lavoro
11 Settembre 2023
La privacy del lavoratore non è un diritto assoluto. Negli anni la giurisprudenza ha dettato precisi confini per bilanciare da un lato la tutela alla riservatezza e la dignità dei dipendenti; dall’altro la protezione del patrimonio e dell’immagine aziendale.
Non sempre i contorni sono chiari e definiti, dando luogo a un contenzioso che negli ultimi anni ha riguardato soprattutto:
l’uso delle videocamere di sorveglianza;
il controllo delle email aziendali;
l’impiego di agenzie investigative per rilevare e contestare condotte illecite dei dipendenti.
I controlli
Intanto occorre distinguere tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti o gruppi di dipendenti nello svolgimento della loro prestazione di lavoro, che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori e “controlli difensivi” in senso stretto, diretti ad accertare specifiche condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti.
Questi ultimi controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, possono essere effettuati dal datore di lavoro anche senza le garanzie previste dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, cioè senza l’autorizzazione dell’ispettorato nazionale del lavoro o dei sindacati e senza informare preventivamente il lavoratore.
Così il datore di lavoro potrà installare telecamere nascoste nel caso di ripetuti ammanchi di cassa o furti e ragionevoli sospetti in capo a determinati lavoratori. Il controllo dovrà essere mirato e giustificato, non potendo in ogni caso legittimare un controllo costante e preventivo rispetto al fatto illecito.
La posta elettronica
Applicando gli stessi principi è lecito il controllo delle email aziendali, a condizione che il lavoratore sia stato adeguatamente informato, che il controllo sia proporzionato alle finalità e non sia un controllo massivo.
In via generale non possono invece essere controllate le email personali, ma potrà essere sanzionato un utilizzo illecito delle mail personali o dei social network durante l’orario di lavoro.
L’informativa al lavoratore non deve essere necessariamente scritta, ma può diventare difficile in sede processuale dimostrare con testimoni l’avvenuta informazione circa i limiti e le modalità dei controlli tecnologici.
Tra i comportamenti più gravi ascrivibili al lavoratore e accertabili tramite i controlli periodici delle email aziendali rientra sicuramente la violazione dell’obbligo di fedeltà nei confronti del datore di lavoro prescritto dall’articolo 2105 del Codice civile.
Così è stato ritenuto legittimo il licenziamento della dipendente che trafuga informazioni riservate per svolgere attività concorrenziale (Tribunale di Roma, Sezione lavoro, sentenza 4032, pubblicata il 5 maggio 2023).
Altrettanto lecite sono le riprese effettuate dall’investigatore privato incaricato di sorvegliare il dipendente che effettuava attività di pulizie per una piscina privata durante l’assenza per malattia. Come specificato più volte dalla giurisprudenza, infatti, in questi casi il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell’interessato, può essere eseguito anche in assenza perché serve a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive. Ovviamente anche in questi casi i dati devono essere trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Tribunale di Perugia, sezione lavoro sentenza 129 pubblicata il 30 luglio 2022).
Il casellario giudiziale
Una questione controversa riguarda la possibilità del datore di lavoro di chiedere i carichi pendenti e il casellario giudiziale in fase di selezione. In realtà la Corte di cassazione con un orientamento più recente ha sdoganato tali richieste, anche quando non previsto dal contratto collettivo nazionale applicabile al rapporto di lavoro. Anche in fase precontrattuale, infatti, il datore di lavoro è libero di determinare criteri rigidi che prevedano, ad esempio, l’assenza di processi penali in corso, potendo legittimamente procedere ad una verifica dei requisiti di affidabilità dei lavoratori da assumere ai sensi dell’articolo 41 della Costituzione (Tribunale di Roma, Sezione lavoro, sentenza 6030 pubblicata il 23 giugno 2023).
In alcuni casi poi è addirittura obbligatorio richiedere il certificato del casellario giudiziale per il datore di lavoro, ad esempio nelle attività professionali o volontarie che comportino contatti diretti e regolari con minori, così come previsto dal Dlgs. 39/2014.
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Franchigia a 10mila euro per i frontalieri
11 Settembre 2023
Si fa presente che, la Legge 13 Giugno 2023, n. 83 della Repubblica Italiana ha aumentato, a decorrere dal 1° gennaio 2024, la franchigia applicabile ai lavoratori frontalieri dagli attuali € 7.500,00 (Legge 27 dicembre 2013 nr 147) a € 10.000,00.
Come specificato poi dalla Circolare 25/E del 18 08 2023 dell’Agenzia delle Entrate al punto 2.4.4 “ (…) Tale innalzamento della franchigia trova applicazione nei confronti di tutti i lavoratori frontalieri, non solo quindi quelli che prestano l’attività lavorativa nelle zone di frontiera in Svizzera”.
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Iva, la breve sosta tecnica dei beni non modifica il regime della vendita
8 Agosto 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 24 luglio 2023 di Giampaolo Giuliani
La risposta 365 sull’import da San Marino è estensibile agli scambi con altri Paesi
È ammesso il doppio documento di trasporto per motivi organizzativi
Con la risposta all’interpello 356 del 20 giugno 2023, l’agenzia delle Entrate ha affrontato il tema delle soste tecniche presso gli spedizionieri. Nel caso esaminato i beni sono importati da San Marino, ma questa particolarità non esclude che le importanti puntualizzazioni fornite nella risposta abbiano una valenza di carattere generale, il cui utilizzo può essere esteso anche agli scambi con altri Paesi Ue o alle operazioni interne al territorio dello Stato.
In sintesi, l’interpello è stato proposto da una società sammarinese, che per le vendite alla clientela italiana si avvale di spedizionieri con propri depositi in Italia. Secondo quanto indicato nell’istanza, ogni collo inviato al deposito in Italia sarebbe scortato da apposito documento di trasporto predisposto dalla società sammarinese e da cui risulterebbe il nominativo del cessionario.
Normalmente, i colli di un singolo cliente risultano accorpati in un unico pallet. Tuttavia, potrebbe accadere che i colli di un cliente siano trasportati dalla società nella sede dello spedizioniere anche in più pallet, insieme ai colli di altri clienti: in queste ipotesi lo spedizioniere, per evidenti motivi di razionalità ed economicità, smonterebbe e riassemblerebbe i pallet per consentire un trasporto unico di tutti i prodotti acquistati da un singolo cliente. In ogni caso i colli sosterebbero presso la sede dello spedizioniere solo per il tempo necessario per riassemblare i pallet e organizzare i trasporti.
Soste e documenti
In questo contesto la società sammarinese si è interrogata per sapere se le vendite devono essere considerate delle cessioni dirette da San Marino, oppure se devono essere considerate delle importazioni in Italia da parte della stessa società che determinano delle successive vendite interne. Inoltre, la società si è posta il problema della compilazione dei documenti di trasporto.
Per quanto riguarda il primo quesito, nell’interpello 356 l’agenzia delle Entrate evidenzia come sia di fondamentale importanza che il perfezionamento della vendita ad acquirenti italiani avvenga quando i beni sono ancora fisicamente in territorio sammarinese.
Infatti, nel caso si verifichi questa situazione, l’amministrazione finanziaria afferma che «la sosta dei beni nella sede dello spedizioniere, per il tempo necessario ad organizzare il trasporto, non interrompe l’originaria operazione di vendita già posta in essere (rispetto alle quali, per stessa ammissione dell’istante, “sono noti tutti i dati dell’operazione quali l’identità dell’acquirente e quantità e qualità dei prodotti acquistati”)».
Non solo, l’agenzia delle Entrate si sofferma anche sul tema della brevità delle soste tecniche, richiamando a questo scopo la datata (ma sempre valida) circolare n. 15 del 19 marzo 1980, relativa all’impiego delle bolle di accompagnamento.
L’Agenzia ricorda come «la sosta di beni presso vettori o spedizionieri ai fini del raggruppamento o smistamento dei beni stessi per la prosecuzione del loro trasporto verso il destinatario indicato nella bolla di accompagnamento non fa venir meno la validità del documento regolarmente emesso dal mittente, a condizione che la sosta sia limitata al tempo strettamente necessario per le suddette operazioni e che nella sosta non sia configurabile l’esecuzione di un distinto rapporto di deposito».
Laddove si verificassero queste condizioni, a parere delle Entrate nulla osta che le operazioni di vendita in Italia, realizzate dalla società sammarinese, siano considerate delle vendite dirette: pertanto, la circostanza che per motivi organizzativi siano utilizzati due documenti di trasporto, anziché uno, è irrilevante.
Trattandosi di acquisti presso operatori sammarinesi, merita di essere rilevato quanto indicato dall’interpellante in tema di eseguibilità dell’operazione, ma stranamente non ripreso dall’agenzia delle Entrate nella risposta. Secondo quando disposto dal comma 5, articolo 1, del decreto del 21 giugno 2021, che regola i rapporti di interscambio tra Italia e San Marino, le cessioni si considerano effettuate soltanto alla partenza della merce o dei beni da San Marino e non quando viene importato il bene nel territorio dello Stato.
Se i tempi si allungano l’operazione si «spezza» e viene gestita in due fasi
All’importazione o acquisto intracomunitario segue una cessione interna
L’interpello 356 del 20 giugno 2023 dà un utile spunto per ricordare quando le soste tecniche non sono riconosciute tali: ad esempio, perché i beni consegnati allo spedizioniere non sono già stati venduti, oppure non si è ancora perfezionato il contratto di cessione o, ancora, i termini di giacenza sono tali da ravvisare un contratto di deposito presso lo spedizioniere.
In queste situazioni, se si tratta di beni importati da San Marino o da altri Paesi terzi, oppure acquistati da altri Paesi membri Ue, è necessario che il cedente nomini un proprio rappresentante fiscale, oppure si identifichi in Italia, nel caso in cui sia operatore di altri Stati membri Ue.
Di fatto, la vendita non è più diretta, ma viene virtualmente “spezzata”, e di conseguenza l’operazione ai fini Iva non è più unica, ma viene gestita distinguendo due fasi. Nella prima fase viene realizzata un’importazione o un acquisto intracomunitario da parte del cedente; nella seconda viene realizzata una cessione interna. Ovviamente, in base alle situazioni e ai soggetti coinvolti, ci saranno adempimenti con differenze anche rilevanti.
I diversi obblighi
In generale, è previsto che nelle importazioni da San Marino il rappresentante fiscale della società sammarinese debba assolvere l’imposta sul valore aggiunto in Italia limitandosi ad attribuire una doppia numerazione alla fattura ricevuta connessa all’annotazione nel registro delle fatture emesse e degli acquisti. Infatti, poiché il rappresentante fiscale non è un soggetto stabilito, ma solo identificato, non è tenuto all’adempimento dell’esterometro. Ciò vale anche per gli acquisti intracomunitari che procedono la successiva vendita interna; tuttavia, in questo caso potrebbe essere necessario predisporre il modello Intra.
Per le importazioni, invece, il rappresentante fiscale provvede ad assolvere i dazi e l’Iva in dogana e in seguito ad annotare il documento doganale nel registro degli acquisti: adempimento che consente di detrarre l’imposta indicata nel documento. Nella successiva cessione, in base a quanto previsto dal terzo comma dell’articolo 17 del Dpr 633/1972, il rappresentante fiscale non interviene sempre, ma solo nel caso in cui il cliente sia un privato o sia un soggetto passivo ad esso assimilato non stabilito in Italia.
Al contrario, se l’acquirente è un operatore economico stabilito in Italia, è quest’ultimo che deve assolvere l’imposta mediante il meccanismo dell’inversione contabile.
Vale la pena ricordare come, trattandosi di un’operazione interna realizzata da operatori esteri in veste di cedenti, l’acquirente deve attendere la fattura dal cedente se è comunitario: mentre deve emetttere autofattura negli altri casi. Ciò vale anche per le cessioni da parte di operatori sammarinesi.
GLI ESEMPI
Un operatore Ue riceve un acconto per beni che verranno consegnati al proprio cliente italiano previa una breve sosta tecnica in Italia presso lo spedizioniere.
L’operazione costituisce una cessione diretta, quindi per il cliente italiano è un acquisto intracomunitario: gli acconti rilevano ai fini Iva solo se il cedente operatore Ue ha emesso una fattura. Si tratta di una possibilità, come previsto dall’articolo 39 del Dl 331/93, che non impone alcun obbligo di emettere la fattura per le somme ricevute a titolo di anticipati pagamenti.
Nel caso la fattura sia emessa, l’acquirente dovrà assolvere l’imposta con il meccanismo dell’inversione contabile.
Un operatore sammarinese riceve un acconto per la vendita di un bene che viene consegnato al cliente italiano da un deposito in Italia.
Trattandosi di un’operazione interna, l’acquirente deve assolvere l’imposta mediante autofattura e doppia registrazione, diversamente da quanto accadrebbe per una cessione diretta di beni provenienti da San Marino, dove gli acconti non rilevano, in quanto il presupposto impositivo sorge solo quando il bene viene importato
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«Prestare» i conti correnti non è concorso ma riciclaggio
8 Agosto 2023
Il Sole 24 Ore 18 luglio 2023 di Eleonora Alampi e Valerio Vallefuoco
Per la Corte il money mule agevola l’occultamento del profitto già conseguito
Tempi duri per i money mule (i «muli del denaro»): per la Seconda sezione penale della Cassazione integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi, senza aver concorso nel delitto presupposto, metta a disposizione il proprio conto corrente per ostacolare l’identificazione della provenienza del denaro provento del reato di frode informatica, consentendone il trasferimento tramite bonifici bancari.
Il fenomeno del money muling, ancora oggi soprattutto per le frodi informatiche e con le nuove tecnologie, è uno dei metodi più utilizzati dai riciclatori e consiste nel reclutare soggetti più o meno consapevoli che mettono a disposizione i conti a fronte una retrocessione percentuale per far transitare somme anche piccole e ostacolarne la tracciabilità. La Cassazione con la sentenza 29346/23 del 6 giugno scorso ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due imputati, cui il Gip di Torino aveva applicato la pena patteggiata per riciclaggio. Gli imputati avevano eccepito l’erronea qualificazione del fatto, osservando che la condotta ascritta consisteva nell’aver messo a disposizione il proprio conto corrente per farvi confluire il denaro proveniente da una truffa informatica. Tale condotta sarebbe elemento costitutivo della frode informatica, in quanto strumentale al conseguimento dell’ingiusto profitto e non invece autonoma condotta di riciclaggio, così come sostenuto dal Gip. Di qui l’eccezione di mancata riqualificazione del fatto come frode informatica. Per l’articolo 640-ter c.p. commette il reato chi, alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Nel caso di specie, la truffa era stata perpetrata con il sistema del man in the middle. È una tipologia di attacco con cui l’hacker si frappone tra due soggetti (per lo più di un rapporto commerciale), assumendo l’identità di uno per indurre l’altro a dare informazioni riservate o a farsi versare denaro. Le modalità di realizzazione sono alla base dell’analisi della Corte che si sofferma su un dato non contestato: gli autori della frode informatica avevano già conseguito il profitto con la percezione fraudolenta delle somme di denaro corrisposte dalle vittime. L’azione delittuosa dei ricorrenti era, invece, consistita nel mettere a disposizione il proprio conto corrente senza concorrere in alcun modo nella truffa.Quindi, ad avviso della Corte, è riciclaggio, che (articolo 648 bis del codice) ha ambito applicativo circoscritto alle ipotesi di mancato concorso nel reato presupposto. La clausola di riserva, contenuta nella norma esclude, infatti, dal novero dei soggetti attivi il concorrente nel reato presupposto, la cui condotta, intesa ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, costituisce un post factum non punibile. In altri termini, presupposto del riciclaggio è la precedente commissione di un altro reato, risultante dagli atti del processo, il cui compimento si sia esaurito nel momento di inizio della condotta di riciclaggio.
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Casa in Italia e niente iscrizione Aire: resta possibile la residenza all’estero
8 Agosto 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 17 luglio 2023 di Nicola Borzomì e Fabrizio Cancelliere
La Cgt Treviso applica i criteri della Convenzione Ocse per risolvere i casi dubbi
L’abitazione permanente è oltreconfine dove lavora e ha famiglia il contribuente
Non può essere considerata fiscalmente residente in Italia la persona fisica che nello Stato estero dispone di una «abitazione permanente», di un permesso di soggiorno, svolge lì la propria attività lavorativa documentata dalle certificazioni fiscali rilasciate dai datori di lavoro, da cui risulta la tassazione nel Paese estero dei compensi percepiti e il relativo pagamento dei contributi previdenziali. Ancora, costituiscono elementi a favore del contribuente il fatto che lo stesso abbia nel Paese estero il centro degli interessi vitali (coniuge avente nazionalità dello Stato estero, figlia nata e frequentante le scuole dell’obbligo nel Paese estero). Di contro, non rileva la circostanza che la persona fisica abbia disponibilità di una abitazione in Italia (“casa avita”) utilizzata durante le brevi permanenze in Italia, né il fatto che lo stesso non sia iscritto all’Aire.
Sono questi gli elementi fattuali valorizzati dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Treviso con la sentenza n. 44/2/2023, depositata in data 1° febbraio 2023 (presidente Cicero, relatore Celotto).
La questione riguardava, appunto, il caso di una persona fisica ritenuta dall’agenzia delle Entrate fiscalmente residente in Italia sulla base del fatto che lo stesso, da un lato, risultava iscritto nelle liste anagrafiche di un Comune italiano, né, dall’altro, fosse iscritto all’Aire.
Il controllo traeva origine delle comunicazioni acquisite nell’ambito della cooperazione amministrativa nel settore fiscale, prevista dalla direttiva 2011/16/Ue del Consiglio del 15 febbraio 2011.
La Corte di giustizia, nel valorizzare gli elementi di fatto prodotti dal contribuente, risolve la controversia sulla base di quanto previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e (nel caso in esame) la Romania, la quale, conformemente a quanto previsto dall’articolo 4 del modello di Convenzione Ocse (tie breaker rules),dispone che:
1 in caso di conflitto tra Stati circa la residenza fiscale di una persona fisica il potere impositivo spetti preliminarmente allo Stato ove il soggetto abbia una abitazione permanente;
2 oppure a quello in cui abbia il proprio centro di interessi vitali;
3 e ancora, in subordine, a quello in cui esso abbia una dimora abituale;
4 come ultimo criterio (fourth rule), il modello Ocse individua la nazionalità.
5 Infine, qualora nessuno dei predetti criteri possa trovare concreta applicazione, la norma rinvia alla procedura amichevole tra gli Stati coinvolti.
La decisione si pone in continuità con il consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cassazione 18009/2022) ed è conforme alla normativa interna (articolo 117, Costituzione e articolo 75, Dpr 600/73) che stabilisce, appunto, la prevalenza della disciplina convenzionale sulla normativa interna (in tal senso, Cassazione 14240 e 15207/2021).
Si ricorda, infine, che nel disegno di legge delega fiscale è prevista – all’articolo 3) lettera c) – una revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche, delle società e degli enti diversi dalle società, al fine di renderla coerente con la migliore prassi internazionale e con le convenzioni sottoscritte dall’Italia per evitare le doppie imposizioni.
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False fatture, concorso dei membri del cda solo se hanno avuto conoscenza del reato
8 Agosto 2023
Il Sole 24 Ore 19 luglio 2023 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Per la responsabilità dei manager mutuato l’indirizzo sulla bancarotta
Necessario provare anche la volontà di non attivarsi per scongiurare l’evento
La decisione. Escluso l’automatismo
I membri del cda che non hanno sottoscritto la dichiarazione fraudolenta con false fatture, rispondono in concorso del reato con l’amministratore che l’ha firmata, solo se hanno avuto conoscenza dell’illecito e non si siano attivati per impedire l’indicazione dei falsi documenti o la sua presentazione. È questo, in sintesi, l’interessante principio che emerge dalla sentenza n.31017 della Corte di cassazione (sezione III penale) depositata ieri.
La pronuncia concerne una casistica molto diffusa (praticamente tutti i casi di dichiarazioni fraudolente ascrivibili a società dotate di consiglio di amministrazione) ma che registra rarissime sentenze di legittimità.
A una srl veniva contestato l’utilizzo in dichiarazione di fatture soggettivamente inesistenti. Nel procedimento penale venivano coinvolti per violazione dell’articolo 2 del Dlgs 74/2000, non solo l’amministratore che aveva sottoscritto la dichiarazione, ma anche gli altri due membri del cda dotati di poteri sociali disgiunti differenti.
Dopo la condanna nei gradi di merito, i due amministratori ricorrevano in Cassazione lamentando, tra l’altro, che la sentenza di condanna si era limitata a valorizzare solo il dato della loro carica, senza valutare la loro estraneità rispetto alle vicende e quindi alla sottoscrizione della dichiarazione.
La Suprema Corte, dopo aver rilevato la presenza di un solo precedente specifico in tema di reati tributari, ha ritenuto di mutuare l’orientamento (consolidato) espresso con riferimento ai reati di bancarotta. In sostanza, la responsabilità degli amministratori, privi di delega, per omesso impedimento dell’evento, è configurabile ove sia provata:
l’effettiva conoscenza dei fatti pregiudizievoli o quanto meno di segnali di allarme;
la volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento.
Di conseguenza, anche ai fini penali tributari, gli amministratori di una società, che non abbiano sottoscritto una dichiarazione fiscale fraudolenta, avendovi provveduto il consigliere all’uopo delegato, concorrono nel reato solo ove siano stati a conoscenza dell’inserimento di tali documenti mendaci in contabilità e, ciononostante, non si siano attivati per impedire la loro indicazione in dichiarazione o la presentazione della stessa.
Per la sussistenza di tali circostanze non è sufficiente evidenziare, genericamente, il coinvolgimento degli amministratori nelle scelte gestionali, o ancora l’entità delle operazioni (nella specie circa il 10% del volume di affari), soprattutto in un’ipotesi, come quella al vaglio dei giudici, di fatture soggettivamente inesistenti e quindi di operazioni effettivamente avvenute. Sarebbero stati necessari in altre parole elementi idonei a provare il coinvolgimento degli amministratori che non avevano sottoscritto la dichiarazione.
Appare evidente dalla sentenza che vada escluso «in automatico» il concorso dei membri del cda nei reati dichiarativi, e, soprattutto la necessità di prove della loro consapevolezza dell’illecito che, volontariamente, hanno deciso di non impedire.
Si ritiene che tali circostanze debbano essere poi valutate rispetto al caso concreto. Ad esempio, la conoscenza degli amministratori di «segnali di allarme» in presenza di fatture oggettivamente inesistenti per importi rilevanti (che presuppongono presso l’azienda magazzini, trasporti, personale, che magari non esistono) è ovviamente più agevole rispetto ad acquisti soggettivamente inesistenti, in cui difficilmente l’amministratore ha consapevolezza della non coincidenza tra l’emittente il documento fiscale e il reale cedente dei beni. In via generale, poi, l’effettiva e seria adozione del sistema preventivo (ex Dlgs 231/2001) potrebbe rappresentare un importante strumento difensivo per evidenziare la volontà degli amministratori di prevenire qualsivoglia forma di illecito.