Categoria: Dall’Italia
Il paradosso: la stretta sui veicoli con targa estera moltiplica gli abusi
16 Maggio 2023
Il Sole 24 Ore 3 maggio 2023 di Maurizio Caprino
Tra i vantaggi, circolazione con mezzi non a norma Ue e risparmi su vari tributi
L’ultima stretta sui “furbetti della targa estera” ha un anno e sta mostrando più falle del previsto. Dalla sua entrata in vigore (18 marzo 2022) con le modifiche agli articoli 93, 94, 132 e 196 del Codice della strada e il nuovo articolo 93-bis, oltre ai timori per le entrate fiscali legate ai veicoli (Iva, bollo auto, eventuale superbollo e Ipt, si veda «Il Sole 24 Ore» del 28 marzo 2022), sono emersi casi in cui il nuovo regime è servito per risparmiare ulteriormente sulle tasse e regolarizzare veicoli che non hanno i requisiti per circolare con targa italiana.
Perno di tutto è il Reve, il Registro veicoli immatricolati all’estero tenuto dal Pra, in cui vanno iscritti i mezzi con targa straniera utilizzati in Italia per più di 30 giorni da conducenti che risiedono nel nostro Paese (si veda la scheda sopra). Dopo la normale ondata iniziale di iscrizioni (22.233 tra fine marzo e giugno 2022), ci si è assestati su numeri bassi: da 1.700 a 3.600 al mese. Ma l’iscrizione al Reve rischia di diventare di massa: gli operatori vedono sempre nuove situazioni in cui la si usa in modo sospetto.
Sul fronte fiscale, è innanzitutto il caso dell’iscrizione per soli sei mesi: il tempo necessario affinché un veicolo acquistato nuovo all’estero si possa considerare ai fini Iva come usato e quindi tassato non sul suo intero valore da nuovo, ma solo sul margine di guadagno del rivenditore che risulta averlo ceduto d’occasione al cliente finale.
Una variante di questo schema consiste nel prendere in noleggio a lungo termine un veicolo in un Paese con Iva più bassa rispetto all’Italia, per farselo cedere dopo sei mesi dal noleggiatore. La formula del noleggio (come il subnoleggio e il comodato) viene usata largamente per iscriversi al Reve: né le norme né le prassi impongono verifiche documentali o limitazioni.
Un altro vantaggio fiscale è stato scoperto da chi ha iscritto al Reve veicoli già immatricolati in Italia e poi radiati per esportazione. Non di rado, dietro queste radiazioni non c’è un effettivo trasferimento all’estero, bensì l’intenzione di continuare a circolare prevalentemente in Italia senza pagare il superbollo cui si era soggetti quando il mezzo aveva targa italiana. Si può eludere il divieto di circolazione imposto ai veicoli gravati dalle ganasce fiscali: il fermo amministrativo non impedisce l’esportazione, che a quel punto si usa per ottenere una targa estera con cui passare indenni tutti i controlli in cui non venga verificato anche il numero di telaio, ossia la stragrande maggioranza.
Insomma, il vantaggio non è più riservato a chi si procura all’estero un’auto molto potente, ma si allarga a chi ne ha già una normalmente immatricolata in Italia.
C’è pure un fronte tecnico. Può riguardare particolari auto americane non in vendita in Europa, omologate solo negli Usa, secondo standard locali non riconosciuti nella Ue. A volte non si riesce a ottenere la targa italiana neanche apportando le modifiche necessarie per rientrare negli attuali standard Ue o facendo valere il fatto di essere italiani residenti in Usa che stanno rimpatriando (cosa che normalmente dà diritto a una deroga): la materia è complessa e frammentata. Con l’iscrizione al Reve, tutti questi problemi si risolvono in un colpo solo. A scapito di utenti e operatori che hanno gli stessi diritti e non vogliono ricorrere a scappatoie o non le conoscono (per ora)
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L’operatività con terzi salva dall’interposizione la società estera
16 Maggio 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 17 aprile 2023 di Marcello Maria De Vito
Necessario dimostrare la piena strumentalità alla controllante italiana
Gli scambi commerciali di entità marginale e l’operatività anche con altri soggetti sono elementi idonei per escludere che una società non residente sia un mero strumento di cui si serve una società residente per erodere la propria base imponibile. Sono questi i principi affermati dalla Corte di giustizia tributaria di I grado di Genova, con la sentenza 07/12/2022 n.1063, (presidente Picozzi, relatore Galletto).
L’agenzia delle Entrate imputava a una società residente tutte le operazioni effettuate da una società britannica di intermediazione, ritenuta non indipendente e priva di struttura sostanziale. Pertanto, l’Agenzia contestava alla società residente che la società britannica fosse stata utilizzata come strumento per erodere la propria base imponibile in Italia.
Il contribuente ricorreva alla Cgt eccependo la carenza di prova circa l’imputazione alla società residente di tutte le operazioni effettuate dalla società britannica.
Le Entrate evidenziavano che gli amministratori della società residente controllavano la britannica e che dal questionario inviato alla società titolare dei magazzini, in cui risultava depositata la maggior parte della merce compravenduta tra le due società, erano emerse incongruenze prive di spiegazione.
La Corte osserva che dalla documentazione si evince che la società britannica ha effettuato intermediazioni anche con soggetti diversi. Inoltre, gli scambi con la britannica appaiono marginali rispetto alla globalità degli scambi della ricorrente. Al contempo, precisa il collegio, gli elementi portati dall’Agenzia, non sono tali da dimostrare in modo determinante la non operatività e la strumentalità della società britannica alla società residente. La Corte, quindi, accoglie il ricorso compensando le spese.
La fattispecie oggetto di giudizio è da ricondurre all’interposizione disciplinata dall’articolo 37, comma 3, Dpr 600/73, che consente all’ufficio di imputare al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti. Sul punto è intervenuta la Cassazione con la sentenza 1358 del 2023. I giudici hanno precisato che ciò che va verificato è la relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d’impresa prodotto dalla società al soggetto effettivo titolare del reddito. Tale relazione di fatto deve essere caratterizzata, per assumere incidenza, da una particolare pregnanza perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dalla società nel suo complesso al soggetto interponente come se il reddito fosse stato prodotto da quest’ultimo. È irrilevante, precisa la Cassazione, la dimostrazione che l’interposizione sia reale o fittizia. Ciò in quanto l’articolo 37, comma 3, si riferisce non solo a qualsiasi ipotesi di interposizione, ma anche all’uso improprio di un legittimo strumento giuridico, come la società.
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Lecito l’utilizzo di investigatori per condotte non penalmente rilevanti
16 Maggio 2023
Il Sole 24 Ore 18 aprile 2023 di Ranieri Romani
Per il Tribunale di Roma è vietata solo la verifica della prestazione lavorativa
Con ordinanza del 14 marzo 2023 il Tribunale del Lavoro di Roma è tornato sull’annosa questione dell’utilizzo di agenzie investigative per l’accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti nel rapporto di lavoro, dichiarandone la legittimità anche ove abbiano avuto a oggetto la verifica di condotte (illecite) non penalmente rilevanti e a prescindere dal fatto che il datore di lavoro avrebbe potuto accertare la sussistenza delle stesse ricorrendo ad altri strumenti a sua disposizione.
Il caso sottoposto al Giudice trae origine da un licenziamento irrogato a un operaio (responsabile di vari cantieri con mansioni di sorveglianza e controllo) al quale era stata contestata la mancata e irregolare prestazione lavorativa in 18 occasioni nel corso di tre mesi.
In particolare, la Società – mediante il ricorso a un’agenzia investigativa esterna – aveva rilevato il mancato rispetto dell’orario del dipendente, il suo ingiustificato abbandono del posto di lavoro, l’esecuzione in orario di lavoro di attività personali nonchè l’utilizzo di alcuni beni aziendali per scopi privati ed estranei all’attività lavorativa.
Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento eccependo, fra le altre cose, anche l’abusivo ricorso al controllo tramite investigatori privati da parte del datore di lavoro.
Il giudice, nel rigettare integralmente il ricorso, ha affermato che il divieto di ricorrere a controlli tramite agenzie di investigazione privata in capo al datore di lavoro è limitato alla mera verifica dell’adempimento o dell’inadempimento, da parte del lavoratore, della sua prestazione lavorativa (controllo, questo, che spetta esclusivamente al datore e ai suoi collaboratori inseriti nell’organizzazione gerarchica dell’impresa) ben potendo invece lo stesso datore di lavoro eseguire, anche attraverso agenzie esterne, controlli finalizzati a verificare la realizzazione di condotte illecite seppur non penalmente rilevanti (quali sono la falsa attestazione dell’orario da parte del dipendente, il suo allontanamento dal luogo di lavoro per scopi privati o l’utilizzo di beni aziendali per scopi personali). Ciò, purché sussista il sospetto o la mera ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione (sospetto, nel caso di specie, giustificato dalla società convenuta con la prova dell’anomala durata dell’apertura dei vari cantieri rientranti nel perimetro di competenza del ricorrente).
L’ordinanza è interessante anche perché pone l’attenzione sulla rilevanza (ai fini della valutazione della legittimità o meno dell’utilizzo di investigatori privati) di altri strumenti che il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare per accertare le condotte illecite del dipendente: in tal senso, il giudice ha ritenuto del tutto irrilevante la teorica possibilità, per il datore di lavoro, di geolocalizzare il proprio dipendente attraverso la traccia informatica dei tablet in dotazione ad alcuni lavoratori sia perché, nel caso di specie, vigeva un accordo sindacale con il quale l’azienda si era impegnata a non utilizzare i tablet a tale scopo, sia perché ciò non avrebbe in ogni caso impedito il legittimo utilizzo delle indagini investigative esterne da parte del datore di lavoro.
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Svizzera vicina all’uscita dall’ultima blacklist fiscale
16 Maggio 2023
Il Sole 24 Ore21 aprile 2023 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco
Il ministro Giorgetti e l’omologa elvetica firmano l’intesa preliminare
Per gli italiani residenti oltralpe finirà a breve la «presunzione di evasione»
La Svizzera sta per abbandonare definitivamente anche l’ultimo e ormai scomodo ricordo del paradiso fiscale che fu. Il ministro dell’Economia e finanze Giancarlo Giorgetti e il suo omologo «capo del dipartimento federale» delle finanze della Confederazione, signora Karin Keller-Sutter, hanno firmato ieri una «intesa preliminare» per rimuovere il paese alpino dalla lista del Decreto ministeriale 4 maggio 1999, la cosiddetta black list delle persone fisiche.
Anche se manca ancora il sigillo dell’ufficialità, perché restano da definire dettagli collaterali nei rapporti di vicinato (in particolare la regolamentazione fiscale del telelavoro per i frontalieri italiani) la notizia è molto significativa per le centinaia di migliaia di italiani residenti in Svizzera, soprattutto, ma non solo, in Canton Ticino.
L’inserimento nella lista black list comporta infatti, a fini fiscali, la presunzione di fittizietà del trasferimento di residenza, con inversione dell’onere della prova: spetta quindi al contribuente dimostrare in modo “persuasivo” che il trasferimento non è un mero artificio per aggirare l’obbligazione tributaria in patria. Non solo, la black list raddoppia anche i termini di accertamento per i depositi e gli investimenti effettuati oltre confine, che possono essere investigati fino a dieci anni a ritroso.
L’uscita dalla black list di cui al D.M 4 maggio 1999, comporterà, in primo luogo, l’inapplicabilità della presunzione di evasione dell’articolo 12 c. 2 del decreto legge 78/2009, per i contribuenti con attività nel territorio della Confederazione, nonché l’inapplicabilità del raddoppio delle sanzioni, in quanto norme più sfavorevoli. In secondo luogo, non risulteranno più applicabili le norme che regolano le segnalazioni fiscali, relative ai contribuenti con residenza nei paesi black list, di cui alla Direttiva DAC 6, così come quelle che regolano le segnalazioni di operazioni sospette.
Un discorso a parte merita l’applicabilità o meno del raddoppio dei termini di accertamento per le annualità passate. A questo proposito giova ricordare il recente orientamento della Corte di Cassazione, che, con la sentenza 8653/2022, ha sancito la retroattività dell’articolo 12, c. 2-bis e 2-ter del decreto legge 78/2009 sul raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento, relativo alle attività finanziarie detenute in paesi black .Secondo la Suprema Corte, le norme sul “raddoppio dei termini” si applicano anche per i periodi di imposta precedenti alla loro entrata in vigore (1° luglio 2009). Le indicazioni delle Entrate, così come quelle della Gdf, considerano il raddoppio dei termini di accertamento applicabile per le annualità antecedenti alla fuoriuscita del paese dalla lista di cui al Dm 4 maggio 1999. Tuttavia, seguendo, a contrariis, il ragionamento della Suprema Corte, si potrebbe sostenere che, vista la natura procedimentale delle norme che regolano i termini di accertamento e in conseguenza la loro portata retroattiva, anche il raddoppio dei termini in esame potrebbe retroattivamente ridursi nei termini ordinari. Un’interpretazione di tal tenore sarebbe, inoltre, in linea con il parere della Corte Ue.
Per quanto riguarda invece la parte dell’accordo tra Roma e Berna relativa al telelavoro, la norma transitoria richiesta dall’Italia – retroattiva dal febbraio scorso al prossimo 30 giugno -andrebbe a inserirsi nell’accordo sulla fiscalità dei frontalieri sottoscritto nel 2020, approvato dalle Camere federali un anno fa e che, secondo il ministro Giorgetti, verrà ratificato «nelle prossime settimane» dal Parlamento italiano.
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Stop all’uso dei dati biometrici per identificare i lavoratori
11 Aprile 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 27 marzo 2023 di Daniele Colombo
Un’ordinanza del Garante esclude la registrazione delle presenze con impronte
Manca una disposizione ad hoc che sia in lineacon la protezione dei dati
L’introduzione di un sistema di timbratura per rilevare le presenze, con terminale biometrico (rilevamento delle impronte digitali), per dipendenti e collaboratori, con lo scopo di registrare l’accesso e la presenza in azienda, è un trattamento illgittimo di dati, perché privo di valida base giuridica, oltre che contrario ai principi di liceità, necessità e proporzionalità. È il principio contenuto nell’ordinanza ingiunzione del 22 novembre del 2022, pronunciata dal Garante della Privacy a conclusione di un procedimento sanzionatorio avviato contro una società, che offre lo spunto per analizzare l’uso di dati biometrici nell’ambito del rapporto di lavoro. Perchè uno specifico trattamento, che ha per oggetto dati biometrici, possa essere lecitamente iniziato, è necessario che lo stesso trovi il proprio fondamento in una disposizione normativa che abbia le caratteristiche richieste dalla disciplina di protezione dei dati, anche in termini di proporzionalità dell’intervento regolatorio rispetto alle finalità che si intendono perseguire.
Che cosa sono i dati biometrici
L’articolo 4 del Gdpr (il regolamento europeo 2016/679) definisce biometrici i «dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quale l’immagine facciale o i dati dattiloscopici».
Il trattamento di dati biometrici (di regola vietato in base all’articolo 9, paragrafo 1 del regolamento), è consentito solo se ricorre una delle condizioni indicate dall’articolo 9, paragrafo 2 del Gdpr e, riguardo ai trattamenti effettuati in ambito lavorativo, solo quando questo sia «necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato». Queste disposizioni, sono confermate anche dall’articolo 2-septies del Dlgs 101/2018, secondo il quale «i dati genetici, biometrici e relativi alla salute possono essere oggetto di trattamento in presenza di una delle condizioni di cui al paragrafo 2 dell’articolo 9 Gdpr e in conformità alle misure di garanzia disposte dal Garante con apposito provvedimento adottato con cadenza biennale», a oggi ancora in elaborazione. Il datore di lavoro, titolare del trattamento, è, in ogni caso, tenuto a rispettare i principi di «liceità, correttezza e trasparenza», «limitazione delle finalità», «minimizzazione» nonché «integrità e riservatezza» dei dati e «responsabilizzazione» (articolo 5 del Gdpr).
Le condizioni per trattarli
Per poter intraprendere lecitamente un trattamento di dati biometrici, questo deve trovare dunque il proprio fondamento in una disposizione normativa, che deve avere le caratteristiche richieste dalla disciplina sulla protezione dei dati personali, anche dal punto di vista della proporzionalità rispetto alle finalità da perseguire. L’assenza ex lege della tecnologia biometrica per assolvere gli obblighi in materia di lavoro rende illecito il relativo utilizzo. Il trattamento non può trovare un valido presupposto nemmeno nel consenso del lavoratore, data la asimmetria tra le parti.
Il trattamento del dato biometrico, non può essere giustificato dall’interesse legittimo, espressamente vietato dal Gdpr con riferimento ai dati particolari, di cui i dati biometrici fanno parte. Quindi, in assenza di una normativa ad hoc, il Garante della Privacy, in diverse occasioni, ha dichiarato illegittimo l’uso di dati biometrici per rilevare la presenza di dipendenti. Tale trattamento, inoltre, sempre secondo il Garante, è sproporzionato rispetto alle finalità dichiarate, poiché esistono altri strumenti che possono garantire la rilevazione delle presenze. Seguendo questo ordine di idee, si può ritenere che non si possano utilizzare nell’ambito del rapporto di lavoro strumenti quali il riconoscimento vocale, il riconoscimento facciale, i sistemi di body scanner e le scansioni per l’identificazione univoca della persona.
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Deducibili i costi solo con inerenza documentata
11 Aprile 2023
Il Sole 24 Ore 23 marzo 2023 di Enrico Holzmiller
L’utilità dei servizi infragruppo deve essere determinabile e certa
L’effettiva utilità e l’oggettiva determinabilità sono elementi essenziali per la deducibilità dei costi intercompany. È questa la conclusione della Cgt di II grado della Lombardia, con la sentenza 4299/22. La vicenda trae origine da una contestazione dell’ufficio nei confronti di una stabile organizzazione italiana di società avente sede nella Repubblica Ceca e riguarda la deducibilità di costi per servizi che la casa madre ha svolto nell’interesse della filale italiana. Il primo grado si era chiuso con sentenza a favore della contribuente.
L’Ufficio, alla base dell’asserita indeducibilità di tali costi, aveva rilevato le seguenti criticità in capo alla stabile organizzazione:
assenza di un accordo (si suppone scritto, ma la sentenza non lo precisa) valido e vincolante;
genericità della descrizione indicata nell’oggetto delle fatture e la sintetica descrizione delle operazioni contenuta negli internal orders che non riportavano in modo dettagliato la natura, la qualità e la quantità dei servizi oggetto dell’operazione;
il prospetto riguardante i costi orari medi del personale della casa madre e le ore impiegate per il supporto alla filiale estera italiana non consentiva una concreta misurazione delle ore di lavoro effettivamente svolte;
alcuni dei servizi resi dal personale, come descritti, si sostanziavano in una duplicazione di funzioni già svolte a livello locale in Italia così come individuabili dal relativo organigramma:
mancanza di una certificazione emessa da una società di revisione per accertare l’operato del gruppo in termini di effettivo sostenimento, congruità e correttezza delle ripartizioni di costo.
I giudici lombardi, preso atto delle criticità rilevate dall’Ufficio, ricordano anzitutto che in base all’articolo 109 del Tuir le componenti negative del reddito sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono alla formazione del reddito. Ciò che risulta decisivo, quindi, è il collegamento tra la spesa e l’attività di impresa. Il requisito dell’inerenza – continua la Corte – esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa.
Volendo calare questo concetto nell’ambito dei servizi infragruppo – continuano i giudici – ai fini della deducibilità del costo sostenuto è necessario che i servizi erogati siano di effettiva utilità (a favore del soggetto che li riceve e ne sostiene le spese) e che quest’ultima – utilità – sia obbiettivamente determinabile e adeguatamente documentata, con rigorosi criteri di allegazione, attendibilità e prova.
Tenuto conto delle riflessioni appena formulate, e applicandole al caso trattato, i giudici giungono a una conclusione negativa, accogliendo l’appello delle Entrate e ribaltando il giudizio di primo grado. In particolare, ciò che ha determinato la decisione della Corte è stata l’inesistenza di dati e documenti atti a quantificare in modo oggettivo tali servizi e, soprattutto, le chiavi di allocazione degli stessi (e dei relativi costi) in capo alla stabile organizzazione italiana. L’inesistenza di un accordo convenzionale che fornisca, a priori, criteri di quantificazione dei servizi, impedisce di stimare le ore di costo addebitate.
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Ritenute, doppia verifica verso i non residenti
11 Aprile 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 27 marzo 2023 di Stefano Vignoli
L’obbligo di trattenere il 30% a titolo di imposta scatta se c’è presupposto territoriale
Il secondo check riguarda le convenzioni contro le duplicazioni del prelievo
La stagione delle certificazioni uniche, dopo la prima scadenza del 16 marzo, prosegue fino al 31 ottobre 2023 con gli adempimenti relativi alla certificazione dei redditi esenti o non dichiarabili con il modello 730. Ma se l’adempimento certificativo ha scadenze precise, la verifica delle ritenute da operare è un adempimento continuativo che richiede versamenti mensili anche per i contribuenti con liquidazioni trimestrali.
Tra i compensi soggetti a ritenuta vi sono anche quelli previsti dall’articolo 25, comma 2, del Dpr 600/1973, cioè i compensi corrisposti a soggetti non residenti per prestazioni di lavoro autonomo, ancorché non esercitate abitualmente.
La ritenuta del 30%, da applicare a titolo d’imposta, non opera quando le prestazioni sono effettuate all’estero e quando i compensi sono corrisposti a stabili organizzazioni.
Al contrario di quanto avviene per i prestatori residenti, che vedono applicata la ritenuta soltanto quando la prestazione origina «reddito di lavoro autonomo», l’articolo 25 prevede l’obbligo di effettuare la ritenuta per prestazioni rese da soggetti esteri, a prescindere dal requisito soggettivo e pertanto anche quando la prestazione è resa da imprese individuali, società o enti.
Una prima condizione da verificare per l’applicabilità della ritenuta è se la prestazione sia svolta in Italia: in carenza del presupposto territoriale il cliente italiano non deve operare la ritenuta. A questo fine occorre aver riguardo a dove la prestazione viene materialmente svolta: quando il professionista svolge la propria attività direttamente dall’ufficio o abitazione all’estero, anche in modalità online, la ritenuta non sarà dovuta. In questo senso, l’ampia diffusione del lavoro e delle riunioni a distanza, ha sicuramente allargato i casi in cui la prestazione viene effettivamente svolta all’estero: quando la natura della prestazione è tale da poter ingenerare dubbi sul luogo di svolgimento sarà necessario acquisire dichiarazione del beneficiario di aver effettuato la prestazione nello Stato estero.
Nel caso in cui l’attività sia resa soltanto parzialmente in Italia si ritiene che la ritenuta sia applicabile soltanto sulla “parte italiana”, fermo restando la necessità di poter scindere la prestazione evidenziando il lavoro svolto all’estero.
Le ritenute sono operate a titolo di imposta sul compenso lordo senza possibilità di dedurre i costi afferenti (risoluzione 20 marzo 1998 n. 20) e quindi in molti casi superano le imposte effettivamente dovute nel Paese di residenza: al non residente è tuttavia preclusa la possibilità di presentare la dichiarazione dei redditi in Italia ed assoggettare il reddito a Irpef progressiva.
L’applicazione della ritenuta in molti casi non avviene (o è rimborsabile) in quanto le Convenzioni contro le doppie imposizioni prevedono, all’articolo 14 (ovvero articolo 7) del Modello Ocse, che i redditi che il professionista residente di uno Stato ritrae dall’esercizio della libera professione sono imponibili soltanto nello Stato di residenza a meno che non disponga nell’altro Paese di una stabile organizzazione / base fissa.
Sarà tuttavia opportuno verificare il testo di ciascuna convenzione per individuare differenze rispetto al modello standard: si pensi alla convenzione con San Marino che all’articolo 14 prevede la tassazione concorrente dell’Italia per i redditi ivi imponibili.
Inoltre la tutela convenzionale viene meno per gli artisti e sportivi che performano in Italia. L’articolo 17 del modello Ocse prevede infatti potestà impositiva concorrente dello Stato della fonte: così il cantante residente in Gran Bretagna che si esibisce in Italia è soggetto a ritenuta nella misura del 30% anche quando la prestazione è fatturata da società estera che non ha una stabile organizzazione in Italia.
Negli altri casi, l’esonero è condizionato all’acquisizione di idonea documentazione quali la certificazione da parte del prestatore attestante la carenza di stabile organizzazione e la certificazione dello Stato estero da cui emerga che è soggetto passivo di imposta nello Stato stesso e, a tal fine, è possibile utilizzare il modello D approvato con provvedimento delle Entrate n. 2013/84404, disponibile anche in lingua inglese e francese.
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Interposizione fiscale se il trustee è condizionato
11 Aprile 2023
Il Sole 24 Ore 28 marzo 2023 di Michela Folli Marco Piazza
Nel caso il disponente può revocare guardiano e trustee senza giusta causa
In questa situazione i redditi sono attribuiti a disponenti o beneficiari
La circostanza che l’atto istitutivo di un trust vincoli in numerosi casi l’operatività del trustee al consenso del guardiano, e consenta al disponente (anche con l’accordo di uno o più beneficiari) di revocare il guardiano e il trustee anche senza giusta causa è un significativo indizio di limitazione del potere gestorio del trustee, tale da rendere il trust fiscalmente interposto.
Queste conclusioni sono messe in chiara evidenza nella risposta n. 267/2023 di ieri dell’agenzia delle Entrate riguardante un trust italiano possessore di una partecipazione rilevante in una holding residente in Italia.
La risposta – conseguenza di una approfondita analisi delle varie clausole di un atto istitutivo molto complesso – conferma che nell’ipotesi in cui un trust è interposto formalmente nella titolarità di beni o attività (cosiddetta «interposizione fittizia»), il reddito di cui «appare titolare» il trust è assoggettato ad imposizione, per «imputazione», direttamente in capo all’interponente residente in Italia secondo le categorie previste dall’articolo 6 del Tuir (sia esso il disponente o il beneficiario), considerando il trust quale soggetto interposto.
La questione assume una certa rilevanza perché capita molto frequentemente di incontrare trust nei quali il disponente ha potere di revoca incondizionato, anche tramite il guardiano, del trustee.
Non si tratta di una novità nella prassi dell’amministrazione finanziaria. La prima pronuncia pubblicata in cui viene affrontato il tema della revocabilità del trustee (da non confondere con la revocabilità del trust) è la risoluzione n. 8/E del 2003, nella quale si spiega che deve considerarsi fiscalmente come «non esistente» un trust formalmente regolare in cui il settlor mantiene l’effettivo controllo sui beni attraverso un guardiano che – persona di fiducia o consigliere del settlor – può sostituire il trustee per qualsiasi ragione e in qualsiasi momento.
Viene citato il paragrafo B.2 della Parte I del Report on the misure of corporate vehicles for illicit purposes, prodotto dall’Ocse nel 2001 in cui si mette in evidenza come lo stato di soggezione psicologica in cui può trovarsi il trustee revocabile anche in assenza di una giusta causa costituisca un limite alla sua autonomia gestionale.
Nelle circolari 43/E del 2009 e 61/E del 2010 nelle quali vengono individuate alcune tipologie di trust da ritenere «inesistenti in quanto interposte» il che ha fatto pensare che questo elemento non fosse considerato di particolare importanza, ma nella risposta 796 del 2021, la revocabilità incondizionata del trustee è tornata ad assumere rilievo.
L’agenzia delle Entrate, oggi, non mette più in discussione (come invece fu fatto nella risoluzione 8/E del 2003) la liceità di questa tipologia di trust sul piano giuridico. L’interposizione, in altri termini, è solo fiscale non è una intestazione fittizia.
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Alla fine del rapporto l’e-mail del dipendente deve essere disattivata
11 Aprile 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 27 marzo 2023 di Daniele Colombo
Le indicazioni del Garante sui limiti all’accesso a caselle di posta elettronica
L’indirizzo di posta elettronica del lavoratore deve essere cancellato una volta cessato il rapporto di lavoro. Il datore di lavoro, infatti, non può apprendere il contenuto delle e-mail del dipendente adducendo come legittimo interesse la necessità di non interrompere improvvisamente il rapporto con i clienti (o i fornitori), o per difendere in giudizio un proprio diritto. Il Garante della privacy ha ribadito questo principio nell’ordinanza dell’11 gennaio 2023 pubblicata sulla newsletter 501 del 15 marzo (si veda anche Ntpluslavoro del 16 marzo 2023). L’Autorità si è pronunciata in seguito al reclamo presentato dalla collaboratrice di una società alla quale era stato attivato un indirizzo di posta elettronica per partecipare a una fiera. Con l’interruzione del rapporto di collaborazione, nonostante le plurime richieste di cancellazione, la società non aveva provveduto, anzi aveva consultato il contenuto delle e-mail, inoltrandole al direttore commerciale. La società aveva giustificato la propria condotta con la necessità di mantenere i contatti con i clienti, oltre che per difendere un diritto in giudizio. All’esito dell’istruttoria, la società veniva condannata, perchè la condotta tenuta risultava in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 13 del Gdpr, in base al quale il titolare del trattamento deve fornire preventivamente all’interessato tutte le informazioni relative alle caratteristiche essenziali del trattamento che, in questo caso, non erano state fatte pervenire alla collaboratrice. Né l’esigenza di non interrompere i rapporti con i clienti, né l’interesse di difendere un diritto in giudizio, quindi, sono elementi tali da configurare un idoneo criterio di legittimazione del trattamento. La dichiarata esigenza di non interrompere ex abrupto i contatti con i clienti si realizza attraverso l’attivazione di un sistema di risposta automatico con il quale vengono forniti indirizzi alternativi, attraverso i quali contattare il titolare.
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San Marino non valida le fatture di acconto
11 Aprile 2023
Il Sole 24 Ore 13 Marzo 2023 di Gianpaolo Giuliani
Una ditta italiana emette una fattura elettronica per un acconto a società di San Marino.
Nel cassetto fiscale, tramite il servizio di consultazione delle fatture elettroniche, non troviamo la validazione da parte dell’Ufficio tributario di San Marino, che ritroviamo invece nella fattura di saldo merce, inviata sempre in modo elettronico.
È corretto?
L’Ufficio tributario della Repubblica di San Marino appone i propri visti soltanto nel momento in cui i beni sono materialmente introdotti nel proprio territorio, sicché le fatture di acconto non possono essere oggetto di vidimazione. Il visto sarà, dunque, presente nella fattura di saldo, in cui è opportuno richiamare anche la fattura di acconto.