Categoria: Dall’Italia
L’importatore risponde dell’illiceità dei prodotti immessi nel mercato Ue
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore 17 febbraio 2023 di Alessandro Galimberti
La Cassazione equipara le posizioni del produttore e di chi sdogana la merce
MILANO
L’importatore nell’Unione europea ha le stesse responsabilità del produttore e, in caso di mancato rispetto delle norme comunitarie, ne risponde a titolo proprio.
La sentenza della terza penale di Cassazione (25618/22), pur riferita a un modesto quantitativo di colle stick ordinate e arrivate dalla Cina, segna un principio di diritto molto impegnativo per chi fa trading con Paesi terzi. Secondo il collegio (presidente Marini, estensore Andronio) che ha avallato la decisione di merito della Corte d’appello di Genova, l’importazione iniziata con lo sdoganamento della merce equivale a «immissione sul mercato» e pertanto l’importatore ha l’onere di accertarsi «prima» della conformità dei prodotti alla normativa comunitaria.
I fatti di causa riguardavano un imprenditore cinese quarantenne, condannato per violazione dell’articolo 16 del Dlgs 133/2009 (restrizioni sull’uso di sostanze chimiche) per aver immesso sul mercato o utilizzato una sostanza vietata «in quanto tale o in quanto componente di un preparato». In particolare, nelle colle stick bloccate in dogana a Genova era presente una quantità di toulene superiore ai limiti consentiti dal Regolamento Ce 1907/2006 . Secondo la difesa, all’imprenditore cinese non poteva essere contestato alcunché, per l’oggettiva impossibilità di controllare e campionare i prodotti subito sequestrati all’arrivo in dogana. E sempre stando a questa interpretazione, la condanna inflitta dai giudici di merito genovesi avrebbe introdotto pertanto una fattispecie di responsabilità oggettiva a carico dell’imputato, in palese contrasto con il dettato costituzionale.
La Terza penale ha però validato il percorso logico-argomentativo della Corte d’appello ligure, a cominciare proprio dal momento iniziale della «immissione sul mercato» che si realizza «quando un prodotto fuoriesce dalla fase di fabbricazione al fine di essere distribuito sul mercato comunitario». L’immissione sul mercato di un prodotto pericoloso, inoltre, «comprende non solo la messa in circolazione dello stesso, ma anche la sua detenzione in concreta disponibilità a favore della clientela interessata».
Quanto al titolo di responsabilità riconosciuta in capo all’importatore – asseritamente «oggettiva» secondo la difesa – la Cassazione la individua come colposa nell’ambito del reato contravvenzionale. L’imprenditore, scrive il relatore, «si è reso responsabile di una gravissima negligenza nonché di una colpevole imprudenza nei confronti della salute degli acquirenti finali, come dimostrano le parole rese dallo stesso, il quale ha dichiarato che la trattativa per l’ordinazione della merce in questione con il venditore spedizioniere cinese si era tenuta attraverso una chat chiamata QQ, senza che in principio fosse fornita alcuna informazione in ordine alla composizione del prodotto, senza che fosse effettuata alcuna analisi chimica prima dell’importazione doganale, senza che fosse rilasciata alcuna dichiarazione scritta con cui il commerciante cinese avrebbe potuto confermare che il prodotto fosse conforme alla normativa europea». Condotte, quelle descritte dalla Cassazione, che disegnano a contrario i doveri dell’importatore «agente modello» che avrebbe «dovuto astenersi dall’acquisto se non era in grado di conoscere in anticipo la composizione del prodotto» o alternativamente, agendo in buona fede, «avrebbe dovuto imporre al venditore di inviargli preventivamente un prodotto modello da fare analizzare; o, ancora, avrebbe dovuto rivolgersi alle dogane per individuare con i funzionari il protocollo migliore per garantire un commercio corretto».
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Sanzioni alla società se non si prova il ruolo di amministratore di fatto
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore 27 febbraio 2023 Marcello Maria De Vito
Mancando la dimostrazione della «gestione», il singolo risponde a titolo personale
Se un individuo ha usato l’ente come mero schermo viene punito «in proprio»
Qualora l’autore della violazione non abbia agito nell’interesse della società, ma abbia perseguito un interesse proprio o diverso da quello sociale, in tema di sanzioni tributarie non si applica l’articolo 7 del Dl 269/03, bensì la regola generale sulla responsabilità personale dell’autore della violazione. Sono questi i principi riaffermati dalla Cgt Lombardia con la sentenza n.411/11/2023 depositata lo scorso 3 febbraio (presidente Bonomi, relatore De Rentiis).
L’agenzia delle Entrate notificava a un contribuente un atto di contestazione per sanzioni riferibili a violazioni commesse da una cooperativa, ritenendo che fosse amministratore di fatto dell’ente. Il contribuente ricorreva alla Ctp che rigettava il ricorso. Impugnava quindi la sentenza eccependo che l’articolo 7 del Dl 269/03 pone le sanzioni esclusivamente a carico dell’ente, in assenza di prova della qualifica di amministratore di fatto.
La Corte rammenta che, secondo la regola generale, la sanzione colpisce la persona fisica autrice dell’illecito. L’articolo 7 del Dl in questione dispone che le sanzioni relative al rapporto fiscale della società sono esclusivamente a carico della persona giuridica. Il collegio osserva però che la norma eccezionale postula che l’autore della violazione abbia agito nell’interesse della società. Solo tale condizione giustifica la riferibilità della sanzione in via esclusiva all’ente. Qualora, invece, l’amministratore, di diritto o di fatto, abbia agito nel proprio interesse utilizzando la società quale schermo, viene meno la ratio giustificatrice dell’articolo 7 e si applica la regola generale sulla responsabilità personale dell’autore della violazione.
Precisato il quadro giuridico, la Corte puntualizza che se l’ufficio invoca la responsabilità dell’amministratore di fatto deve provare l’esercizio, in modo continuativo e significativo dei poteri tipici della qualifica. Come sottolineato dal collegio, nelle controdeduzioni d’appello l’Agenzia ha affermato che il ricorrente ha posto in essere atti gestori senza produrre però alcuna documentazione. Né dagli esiti dell’indagine penale poteva desumersi l’esercizio significativo dei poteri di amministratore. Pertanto, la Corte accoglie l’appello e annulla l’atto di contestazione.
Sul punto, recentemente, è intervenuta la Cassazione con la sentenza n.1358/2023 del 17 gennaio. La Suprema corte ha espresso il principio secondo il quale si considera soggetto interponente il soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali e quest’ultima si considera soggetto interposto. Ne derivano conseguenze in tema di responsabilità sia per le imposte, sia per le sanzioni.
Sotto il primo profilo, si determina, ex articolo 37, comma 3, Dpr 600/73, la traslazione del reddito d’impresa al soggetto interponente e delle relative imposte da quest’ultimo dovute in quanto effettivo possessore del reddito. In tema di sanzioni, invece, i giudici di legittimità hanno puntualizzato che non ha rilievo il rapporto fiscale della società, bensì ha rilievo il rapporto fiscale che fa capo al soggetto interponente. Ne consegue che la fattispecie esula dal disposto dell’articolo 7 del Dl n. 269/03 che pone a carico della persona giuridica, esclusivamente le sanzioni relative al rapporto fiscale proprio della società .
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Esterometro per acquisti e cessioni con soggetti non stabiliti in Italia
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore 16 febbraio 2023 di Alessandro Mastromatteo
MONITORAGGIO
Restano escluse le operazioni documentate con bolletta doganale di import o export e con fattura elettronica inviata tramite Sdi
Esterometro per tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi verso e da soggetti non stabiliti nel territorio dello Stato, senza ulteriori limitazioni: ai fini della trasmissione dei relativi dati occorre guardare solamente al fatto che il soggetto, cliente o fornitore, non sia stabilito in Italia.
L’invio delle informazioni prescinde anche dalla natura della controparte estera, nonché dal fatto che l’operazione realizzata rilevi o meno a fini Iva nel territorio nazionale. La trasmissione dei dati con l’estero costituisce infatti un obbligo comunicativo: non risponde pertanto a finalità di controllo delle operazioni rilevanti a fini Iva effettuate tra soggetti passivi ma, al contrario, è funzionale esclusivamente al monitoraggio di acquisti o cessioni e prestazioni di servizi nelle quale una delle due parti risulta essere “estera”. Devono perciò essere comunicate tutte le operazioni con controparti non stabilite in Italia, con le uniche esclusioni di natura oggettiva individuate per espressa previsione normativa: l’obbligo di esterometro non deve essere assolto quando acquisto, cessione o prestazione risultano documentate con bolletta doganale, di importazione o esportazione, o anche con l’emissione o la ricezione tramite Sdi (Sistema di interscambio) di una fattura elettronica.
Restano quindi escluse anche le operazioni da e verso la Repubblica di San Marino quando documentate con fattura elettronica emessa o ricevuta tramite Sdi, analogamente alle cessioni nei confronti di viaggiatori extra-Ue ex articolo 38-quater del Dpr 633/72, documentate con fattura elettronica (tax free shopping) trasmessa mediante il sistema Otello 2.0.
L’esclusione opera, infine, anche in presenza di acquisti di beni e servizi non rilevanti territorialmente ai fini Iva in Italia, ai sensi degli articoli da 7 a 7-octies del Dpr 633 del 1972, quando di importo inferiore, per singola operazione, a 5mila euro, comprensivo dell’eventuale imposta: si tratta di fattispecie molto frequenti quali, ad esempio, le spese sostenute all’estero per alberghi o ristoranti, rifornimenti di carburante, noleggi di autovetture, voli aerei esteri. Al contrario le medesime operazioni territorialmente non rilevanti, ma di importo superiore alla soglia indicata, andranno comunque comunicate al fisco con l’esterometro sebbene anch’esse non costituiscano oggetto di registrazione.
Come indicato dall’agenzia delle Entrate con la circolare n. 26/E del 13 luglio 2022, e da ultimo con le risposte a specifici quesiti nel corso di Telefisco2023 (si veda articolo in pagina), la comunicazione dei dati delle operazioni da e verso l’estero impatta anche nella realizzazione di una serie di adempimenti a fini Iva quali le integrazioni ovvero le autofatture per operazioni con l’estero.
Più nello specifico, per quanto riguarda il ciclo passivo estero, la trasmissione dei tipi documento TD17, TD18 e TD19, unitamente alle ricevute generate da Sdi al momento del loro invio/ricezione, costituisce prova dell’avvenuta trasmissione e di adempimento dell’obbligo dell’esterometro come previsto dall’articolo 1, comma 3-bis, del Dlgs 127 del 2015. Le Entrate hanno precisato infatti come l’esterometro, da un lato, e gli obblighi di integrazione di un documento ricevuto e di autofatturazione, dall’altro, costituiscono adempimenti autonomi.
Non vi è infatti un obbligo di assolvere ai doveri di integrazione/autofatturazione mediante la procedura di trasmissione dei dati tramite file xml utilizzando i tipo documento TD17, TD18 e TD19: integrazione o autofattura potrebbero anche avvenire in forma analogica. Tuttavia, il mancato/tardivo invio dei dati attraverso l’esterometro costituisce violazione sanzionabile.
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Russia nella black list Ue: stretta sui costi deducibili
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore 15 febbraio 2023 di Luca Gaiani
Scattano i vincoli reintrodotti dalla manovra 2023
Monitoraggio sui prezzi per verificare la conformità al valore normale
La Russia entra nella lista dei Paesi non collaborativi che fa scattare la deducibilità limitata dei costi provenienti da fornitori ivi domiciliati introdotta dalla legge di Bilancio 2023 (si veda anche il servizio a pagina 14). A partire da ieri, scattano nuovi vincoli anche per Costa Rica, Isole Vergini Britanniche e Isole Marshall.
L’articoli 110, commi 9-bis e seguenti, del Tuir, come modificato dalla legge 197/2022, stabilisce che i costi e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni con fornitori domiciliati in Paesi o territori inclusi nella lista delle giurisdizioni non cooperative ai fini fiscali redatta dalla Ue sono deducibili limitatamente al valore normale (articolo 9 del Tuir).
La norma, entrata in vigore dal 1° gennaio 2023, non ha una specifica decorrenza e dovrebbe dunque applicarsi dall’esercizio che ha inizio a partire da tale data (periodo di imposta 2023 per le società con esercizio coincidente con l’anno solare). Il vincolo introdotto dalla disposizione può essere disapplicato, deducendo importi anche superiori al valore normale, solo qualora l’impresa italiana fornisca al fisco la prova che le operazioni, oltre ad avere avuto concreta esecuzione, rispondono ad un effettivo interesse economico.
Una ulteriore deroga è prevista per operazioni con fornitori black list che sono società controllate dell’impresa italiana a cui si applica la norma Cfc prevista dall’articolo 167 del Tuir e dunque il cui reddito viene imputato per trasparenza in capo al socio italiano.
Anche rispettando il limite del valore normale, i componenti reddituali derivanti da operazioni con fornitori black list dovranno essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi. La mancata o incompleta indicazione di tali spese, anche in presenza dei requisiti per la loro integrale deduzione, farà scattare una sanzione estremamente pesante (articolo 8 comma 3-bis del Dlgs 471/1997) pari al 10% delle spese stesse, con un minimo di 500 e un massimo di 50 mila euro.
I Paesi a cui si applica la disposizione sono quelli contenuti nella lista degli Stati non cooperativi ai fini fiscali aggiornata periodicamente dal Consiglio d’Europa. Con un comunicato diffuso ieri, la Ue ha inserito nell’elenco quattro nuovi Stati: Russia, Isole Vergini Britanniche, Costa Rica e Isole Marshall, che si aggiungono ai dodici già presenti: Samoa Americane, Anguilla, Bahamas, Fiji, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Turks e Caicos, Isole Vergini Americane e Vanuatu.
Con riferimento ai fornitori domiciliati in Russia e negli altri tre nuovi Paesi non collaborativi, la norma dovrebbe applicarsi solo per le operazioni effettuate dal 14 febbraio 2023, data di aggiornamento della lista (cioè per i costi sostenuti in base alle regole di competenza da tale giorno).
Le imprese interessate dovranno dunque tempestivamente aggiornare i propri sistemi di monitoraggio dei costi provenienti da tali fornitori, verificando altresì la conformità dei relativi prezzi al valore normale, onde poterli indicare separatamente nei prospetti che saranno contenuti nelle dichiarazioni del 2024.
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Marchi contraffatti e vendite online: Corte Ue più severa con le piattaforme
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 6 febbraio 2023 di Gianluca De Cristofaro Matteo Di Lernia
Per i giudici il portale internet può rispondere per le vendite di terzi
Dirimente il fatto che l’utente ritenga il provider coinvolto nel commercio
Il gestore di una piattaforma e-commerce risponde per l’uso illecito del marchio altrui se le attività svolte sulla piattaforma inducono un utente normalmente informato e ragionevolmente attento a ritenerlo direttamente coinvolto nella vendita dei prodotti, anche se i prodotti sono venduti da soggetti terzi. La Corte di giustizia Ue (cause riunite C-148/21 e C-184/21) con la decisione del 22 dicembre scorso ha, per la prima volta, ritenuto fondamentale la percezione dell’utente della piattaforma al fine di riconoscere un ruolo attivo ai provider. Una direzione sempre più seguita dai giudici italiani.
Gli annunci di terzi
La Maison Louboutin ha agito per contraffazione nei confronti di Amazon (prima davanti al Tribunale circoscrizionale di Lussemburgo e poi al Tribunale del commercio di Bruxelles) poiché riteneva che gli annunci di venditori terzi relativi a scarpe con suole rosse violassero il marchio “suola rossa” con cui contraddistingue le proprie calzature a tacco alto con una suola rossa (codice 18.1663TP della scala colori Pantone). Secondo Louboutin la piattaforma svolgeva un ruolo attivo nell’uso del marchio “suola rossa”, permettendone la visualizzazione e, inoltre, avendo detenuto, spedito e consegnato i prodotti.
Di contro Amazon ha ribadito il suo ruolo di mero gestore di un mercato online, esente da responsabilità per gli annunci di venditori terzi (articolo 14 della Direttiva 2000/31 Ce).
I giudici di entrambi i tribunali hanno considerato che la piattaforma:
nella comunicazione commerciale presenta le pubblicità, proprie e di terzi, in modo uniforme/analogo, senza distinzione sulla loro origine e tramite l’accostamento del suo marchio a quello del rivenditore;
offre servizi complementari di stoccaggio e spedizione dei prodotti.
Si sono poi chiesti se dovesse essere presa in considerazione anche la percezione degli utenti della piattaforma. Per entrambe le questioni i giudici hanno quindi effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
La responsabilità del provider
La Corte Ue ha innanzitutto ricordato l’orientamento tradizionale, secondo il quale l’uso di un marchio altrui in offerte di vendita in un mercato online non è di per sé riconducibile al gestore della piattaforma, poiché non si tratta di una sua comunicazione commerciale (C-324/09, L’Oréal; C-567/18, Coty c. Amazon).
Tuttavia, secondo la Corte, bisogna considerare lo specifico contesto delle condotte della piattaforma. A questo riguardo, per la prima volta la Corte ha stabilito che debba essere tenuta in considerazione la percezione che gli utenti hanno dell’attività svolta dal provider sulla piattaforma.
La Corte ha, quindi, per la prima volta, stabilito il principio per cui la percezione dell’utente mediamente informato della piattaforma rileva ai fini di verificare la responsabilità di quest’ultima. In particolare, secondo la Corte, le condotte del gestore di una piattaforma online rilevano ai fini di una sua responsabilità qualora l’utente abbia l’impressione che sia proprio il gestore a commercializzare, in nome e per conto proprio, anche i prodotti offerti in vendita dai venditori terzi.
Con riguardo alle specifiche condotte tenute dalla piattaforma e identificate dai giudici del rinvio, la Corte ha stabilito che le stesse rilevano ai fini dell’indagine dell’impressione generata negli utenti.
Questa sentenza costituisce quindi una stretta da parte della giurisprudenza Ue sulla responsabilità degli hosting provider già più volte affermata in Italia con decisioni che sempre più di frequente escludono il ruolo meramente “passivo” delle piattaforme e le considerano responsabili. Con la sentenza del 10 agosto 2022, la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto Vimeo un hosting provider “attivo” in quanto organizzava e sfruttava i contenuti immessi in rete selezionandoli, indirizzandoli, correlandoli, associandoli ad altri. Sempre nel 2022 il Tribunale di Milano (ordinanza del 15 febbraio) ha attribuito un ruolo attivo alla piattaforma Farfetch in ragione dei servizi di promozione, conclusione dei contratti, organizzazione della consegna e assistenza clienti.
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Obbligo di indicazione nel quadro RW dal 2023 e senza minimo di legge
7 Marzo 2023
Il Sole 24 Ore lunedì 6 febbraio 2023 di Stefano Capaccioli e Dario Deotto
Prima della manovra le Entrate avevano richiamato le sole valute
Anche le disposizioni della legge di Bilancio 2023 relative al monitoraggio fiscale e alla “emersione” delle cripto-attività generano dubbi.
Il primo di questi è legato al fatto che (solo) a partire dal 2023 viene stabilito che le criptoattività devono essere dichiarate nel quadro RW. Il problema è l’aspetto sanzionatorio in caso di inadempimento. Come più volte si è riportato su queste pagine, l’articolo 5 del Dl 167/1990 individua le penalità in ragione dell’ubicazione territoriale delle attività (Paesi non black list, sanzione dal 3 al 15% delle attività non dichiarate, mentre per i Paesi black list la sanzione è raddoppiata). Il fatto è che, perlomeno quando il contribuente non ricorre a intermediari, disponendo egli stesso del wallet, si è in presenza di fenomeni che sono affrancati da un territorio, per cui è di difficile individuazione il trattamento sanzionatorio, essendo quest’ultimo, come si è visto, radicato a un territorio “fisico”. Si auspica, quindi, che l’annunciata riforma del sistema sanzionatorio, disciplini espressamente questi fenomeni.
Un’altra perplessità è come possa trovare giustificazione una sanatoria per il passato (commi 138 e seguenti) a fronte di un obbligo di legge che viene inserito per la prima volta dal 2023. In passato, vi sono stati solo interventi di prassi (poi anche le istruzioni al modello) che hanno riportato la necessità di indicazione nel quadro RW, peraltro delle sole valute virtuali, ma la norma non disponeva tale obbligo. Tant’è che esso viene stabilito solo oggi. Tra l’altro la norma stabiliva, come d’altronde ora, che solo quando le attività detenute all’estero risultano «suscettibili di produrre reddito imponibili in Italia» le si doveva indicare nel quadro RW. E stante l’assimilazione – fatta in passato dalla prassi – delle valute virtuali con le valute estere, in molti casi (quando la giacenza media era inferiore a 51.645 euro per almeno 7 giorni lavorativi) la stessa Agenzia aveva riportato che le criptovalute non determinavano obblighi reddituali. Con la conseguenza– per la normativa riferita alle valute estere – che non si era in presenza di attività «suscettibili di produrre reddito imponibile in Italia».
Senza contare, come detto, che l’obbligo di indicare nel quadro RW era stato affermato dalle Entrate per le sole valute virtuali, mentre ora la legge lo impone per tutte le criptoattività, senza un minimo di legge.
In questo contesto appare meno rilevante anche il fatto che se si vuole aderire alla sanatoria per il passato anche ai fini reddituali (pagando il 3,5% sul valore delle attività, oltre allo 0,5%) la medesima prassi aveva detto (interpello 788/2021) che le operazioni crypto su crypto relative a valute virtuali, quando la giacenza media risultava superiore a 51.645 euro per sette giorni lavorativi continui, si dovevano considerare rilevanti, mentre ora non lo sono.
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Proprietà industriale, condannati importatori paralleli e distributori
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2023 di Alessandro Galimberti
Il Tribunale di Roma condanna l’intera rete di vendita di un marchio Usa
Respinta l’eccezione di «esaurimento»: smercio mai autorizzato né tollerato
MILANO
Importatori e venditori al dettaglio condannati in solido per importazione parallela di un noto marchio di abbigliamento. Il Tribunale delle imprese di Roma (sentenza 18090/22) ha risolto in questo modo il contenzioso tra Ralph Lauren e una «articolata struttura» per l’importazione non autorizzata nello spazio economico europeo (See) di decine di migliaia di articoli di abbigliamento con il celebre marchio raffigurante un’azione di polo. Secondo l’azienda – rappresentata a giudizio dai legali Gian Paolo Di Santo e Gabriele Girardello – la merce venne acquistata negli outlet degli Usa tra il 2013 e il 2018 all’insaputa del titolare del marchio, importata poi in Europa grazie a una struttura commerciale che verteva su società americane compiacenti e, in Italia, terminali societari che smistavano a distributori regionali, basati a loro volta nel Lazio ma con diffusione in tutt’Italia. Prodotti originali e non contraffatti quelli oggetto di disputa, quindi, con la contestazione dell’illecito relativa solo all’importazione parallela.
Nella loro difesa, le due principali convenute avevano fatto riferimento al principio dell’«esaurimento comunitario», nello specifico la possibilità di rivendere prodotti già messi in commercio in un paese Ue dal titolare dei marchi. Tuttavia, ha sottolineato il Tribunale capitolino, l’esaurimento comunitario (articoli 7 della Direttiva 2008/95/Ce, 15 del Regolamento Ue 1001/2017 e articolo 5 del Codice della proprietà industriale) opera solo se il titolare del marchio mette in commercio direttamente o presta il consenso all’importazione/immissione nello spazio europeo, dovendo l’autorizzazione essere espressamente rilasciata dal titolare o, se tacita, desumibile da elementi incontrovertibili e verificabili (sentenza nella causa C-337/95). L’istruttoria ha portato i giudici ad escludere il coinvolgimento nelle asserite trattative di soggetti apicali di RL «idonei ad esprimere un valido consenso all’esportazioni di prodotti al di fuori dei normali circuiti di distribuzione selettiva», e ha rilevato che un ulteriore «elemento di sicura riconoscibilità da parte dei terzi rivenditori della provenienza illecita dei beni è dato dal prezzo di acquisto»: i distributori vendevano alla propria rete parallela una t-shirt Ralph Lauren con il 30% di ribasso rispetto ai rivenditori accreditati, con il prezzo finale al dettaglio che sfiorava il 50% di (illecito) sconto per il consumatore.
Nel dispositivo i giudici hanno inflitto alle due importatrici la condanna a complessivi 3 milioni di euro di risarcimento e di oltre 600mila euro totali ai 12 dettaglianti, che non potevano non sapere: il marchio Usa è diverso da quello presente in Europa.
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La cessione estero su estero è fuori campo dell’Iva italiana
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2023 di Raffaele Rizzardi
MERCI
Un quesito di interesse generalizzato per le imprese italiane che hanno merce in deposito all’estero è stato presentato in occasione della giornata di Telefisco e ha ricevuto una risposta dettagliata.
Non si tratta del call-off stock, in cui il cliente deve essere individuato sin dal momento in cui la merce esce dall’Italia, con particolari procedure nel caso in cui i beni dovessero poi andare ad un successivo diverso soggetto.
La questione riguarda invece chi ha merce all’estero, destinata alla vendita a una possibile pluralità di clienti del Paese di deposito.
Questa modalità di consegna è particolarmente interessante in termini commerciali, in quanto la cessione al cliente finale non è più una cessione intracomunitaria, con tutti i relativi adempimenti, ma una cessione interna con l’imposta di quel Paese. Se poi lo Stato membro, come l’Italia (articolo 17, secondo comma, della legge sull’Iva) ha recepito la facoltà dell’articolo 194 della vigente direttiva 2006/112/Ce, il cliente non deve nemmeno finanziare l’Iva da pagare al fornitore, in quanto l’assolvimento del tributo avviene in regime di reverse charge.
La cessione intracomunitaria è solo quella che l’impresa fa a se stessa, dalla partita Iva italiana a quella di cui deve dotarsi nello Stato di deposito (in alcuni si può utilizzare l’identificazione del depositario), come previsto dall’articolo 41, comma 2, lettera c).
Per questa operazione viene emessa una fattura, che quindi è caricata nello SdI, con la natura N3.2, non imponibili – cessioni intracomunitarie – con partita Iva estera e codice destinazione dell’emittente, e che quindi confluirà nella dichiarazione annuale al codice VE30-3, concorrente al volume d’affari.
La cessione estero su estero è fuori campo dell’Iva italiana. La risposta dell’agenzia delle Entrate ipotizza la fatturazione ex articolo 21, comma 6-bis, lettera a), legge Iva, che peraltro riguarda solo clienti domiciliati nella Unione e solo se quel Paese ha recepito la facoltà – non obbligo – dell’articolo 194 della direttiva.
Il tema deve essere approfondito se lo Stato estero non ha recepito la norma sopra ricordata, e quindi la fatturazione è in questo caso imponibile solo nell’Iva locale. Per la merce depositata in territorio extra-unionale, il riferimento è sempre al comma 6-bis, ma nella lettera b).
A questo punto si aggancia il tema dell’esterometro – articolo 1, comma 3-bis, del decreto legislativo 127/2015 – che obbliga a comunicare tutte le operazioni con una controparte non residente.
La risposta riconosce l’inesistenza di obblighi di fatturazione secondo le disposizioni della legge Iva, ma occorre emettere la fattura solo per poter caricare l’importo nello SdI con mera funzione di esterometro.
L’emissione di questa fattura – anche se “fuori campo” – trasferisce l’importo nel quadro VE della dichiarazione – nella specie VE34 – e quindi raddoppia lo stesso volume d’affari già esposto in VE30. Questo anomalo incremento deve essere corretto, ed al riguardo c’è una strada molto semplice, che va ovviamente convalidata dall’agenzia delle Entrate.
Cos è la fatturazione a se stessi per il rifornimento del deposito estero? Evidentemente quella di un passaggio interno. Queste operazioni devono essere espunte dal volume d’affari, come dispone l’articolo 20 della legge Iva, che al momento fa esplicito riferimento a queste operazioni solo nel caso di contabilità separata (articolo 36 legge Iva).
Al riguardo si potrebbe utilizzare la voce VE40, che porta in sottrazione i passaggi interni. Un’interpretazione sistematica, in attesa di una modifica normativa sul punto, dovrebbe essere considerata possibile.
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Reato in concorso del Cda se mancano le deleghe e se nessuno dissente
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 27 gennaio 2023 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Illeciti tributari. La Gdf applica l’orientamento severo della Cassazione La presunzione s’interrompe solo con una dichiarazione specifica sul punto
Del reato tributario, in assenza di specifiche deleghe, rispondono tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salva l’ipotesi in cui qualcuno abbia espressamente esternato il proprio dissenso. Se invece sussistono specifiche deleghe ad uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri delegati. A fornire questa interpretazione, in completa adesione con i principi della Suprema Corte, è la Guardia di Finanza in risposta a una domanda proposta in occasione di Telefisco 2023.
Più in particolare, è stato richiesto in che misura siano responsabili per le violazioni tributarie penalmente rilevanti i membri del cda, in assenza di deleghe. La Gdf ha, innanzitutto, ricordato che secondo il criterio seguito dal legislatore le condotte delittuose devono essere ascritte in capo ai soggetti ritenuti responsabili dell’illecito. In ambito societario, occorre a tal fine un attento esame delle funzioni svolte in aderenza al modello organizzativo adottato o dei poteri esercitati onde individuare i responsabili delle violazioni. Ne consegue che per i delitti dichiarativi, la verifica deve considerare l’esistenza di persone fisiche munite dei relativi poteri di rappresentanza in base agli statuti o alla legge.
La Gdf ha richiamato una sentenza della Suprema corte (Cassazione 11087/2022) secondo la quale per gli illeciti tributari posti in essere da un consiglio di amministrazione privo di specifiche deleghe, la responsabilità grava solidalmente su tutti i suoi componenti. Fa tuttavia eccezione, l’ipotesi in cui uno o più componenti espressamente esternino il proprio dissenso al compimento di una determinata operazione.
Qualora, invece, specifiche materie siano attribuite a uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri ad esse delegati. La Gdf ha tuttavia precisato che resta comunque ferma l’applicabilità dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato.
In tale contesto, la Guardia di Finanza (rispondendo ad altro quesito) ha fornito chiarimenti sulla responsabilità del legale rappresentante nell’ipotesi in cui esista una delega ad un terzo amministratore per la sottoscrizione della dichiarazione.
Secondo la Gdf in capo al delegato è ascrivibile, in prima battuta, l’eventuale reato dichiarativo, fermo restando che altri soggetti diversi dal materiale sottoscrittore della dichiarazione possano concorrere nel reato (Cassazione 50201/2015).
Infatti, laddove venga accertato che il delegato abbia tenuto la condotta penalmente rilevante perché istigato o rafforzato nelle sue intenzioni dal rappresentante legale ovvero in attuazione di un accordo con lo stesso, quest’ultimo risponderà del reato tributario a titolo di concorso (Cassazione 18827/2019).
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Amministratore di fatto, serve la prova rafforzata
8 Febbraio 2023
Il Sole 24 Ore 24 gennaio 2023 di Dario Deotto Luigi Lovecchio
Va dimostrato che la società svolge una funzione servente al dominus
Nel mirino emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
Ai fini dell’irrogazione della sanzione tributaria all’amministratore di fatto di una società di capitali non basta la circostanza che la società abbia utilizzato fatture per operazioni inesistenti. Occorre invece la prova che la società svolga una funzione passiva, meramente servente all’utilità ricavata dall’amministratore. Il principio di diritto è stato affermato dalla Corte di cassazione, nella sentenza n. 1946, depositata ieri.
La questione involgeva una contestazione di emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. In particolare, si era in presenza di una società cartiera, a monte, che aveva emesso delle fatture soggettivamente inesistenti utilizzate a valle da una società, della quale era stato ritenuto amministratore di fatto il signor XY, ricorrente in Cassazione. L’ufficio dell’agenzia delle Entrate, sulla base delle circostanze rappresentate, per un verso, dall’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti da parte della società rappresentata, e, sotto altro profilo, dalla qualificazione come amministratore di fatto del signor XY, ha ritenuto di potere irrogare la sanzione tributaria, in solido, tanto alla società che all’amministratore di fatto.
La Corte di cassazione ha al riguardo ricordato che, ai sensi dell’articolo 7 del Dl 269/2003, per le violazioni imputabili a enti dotati di personalità giuridica, quali le società di capitali, la sanzione è irrogabile unicamente all’ente. Questo in espressa deroga al principio di personalità dell’autore della violazione, sancito nell’articolo 11 del Dlgs 472/1997. Tale criterio, ricorda sempre la Corte, perde tuttavia efficacia ogni qualvolta l’amministratore di società abbia agito per perseguire i propri personali interessi, di modo che la violazione commessa abbia prodotto benefici o utilità a suo favore, e non a favore dell’ente rappresentato. Ciò accade, normalmente, nelle ipotesi degli amministratori di società cartiere, nelle quali non è ravvisabile una effettiva sostanza economica. Tali società, infatti, si risolvono in un mero strumento fittizio attraverso il quale il dominus o amministratore di fatto consegue dei profitti illeciti.
Lo stesso però non vale di fronte a una società che utilizza fatture per operazioni inesistenti che ben potrebbe avere una sua vitalità. Né può ritenersi sufficiente il fatto che attraverso le fatture contestate la società acquirente abbia conseguito, secondo la Corte, degli indebiti risparmi d’imposta, atteso che questa è una connotazione inevitabile dell’illecito in questione che, di per sé, tuttavia non prova la fittizietà della società. Tutt’al contrario, il vantaggio fiscale eventualmente ottenuto dal soggetto partecipato potrebbe dimostrare che l’amministratore di fatto abbia agito a beneficio della società, e non personale. La Cassazione rileva pertanto che l’amministrazione finanziaria deve provare, anche attraverso presunzioni, che la società non sia «vera» o che rappresenti uno strumento artificioso costruito al solo scopo di dissimulare i reali interessi del dominus.
Osserva da ultimo la Cassazione come la condotta dell’Ufficio appaia altresì insanabilmente contraddittoria, rispetto alla tesi sostenuta, nella parte in cui esso irroga la sanzione, in via solidale, tanto alla società che all’amministratore di fatto. Ed invero, delle due l’una: o la società è fittizia, poiché l’unico contribuente è l’amministratore, ed allora la stessa non può essere sanzionata, oppure la società è “viva” ma allora non si può sanzionare l’amministratore di fatto.