Nuovo regime transfrontaliero di franchigia per le Pmi sotto soglia

5 Marzo 2025

Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2025 di Alessandra Caputo

Piccole attività

Il volume d’affari Ue nell’anno civile in corso e in quello precedente la comunicazione di ingresso non può superare i 100mila euro

Dal 2025 entra in vigore il regime di franchigia Iva transfrontaliero. Con il Dlgs 180/2024 è stata, infatti, recepita la direttiva (UE) 2020/285 del Consiglioc, che introduce un regime speciale con cui si estende l’esonero dall’Iva alle piccole e medie imprese (Pmi) che compiono cessioni di beni e/o prestazioni di servizi territorialmente rilevanti in altri Stati Ue a condizione che il volume di affari sia al di sotto di determinate soglie.

Le novità sono contenute nel titolo V-ter del Dpr 633/1972 e le ipotesi disciplinate (in maniera quasi speculare) sono due:

1 l’applicazione del regime di franchigia Iva nazionale ai soggetti stabiliti in altri Stati membri dell’Unione europea;

2 l’applicazione del regime di franchigia in altri Stati membri, da parte dei soggetti stabiliti in Italia.

La modifica è rilevante, perché consente di superare l’impatto negativo che sulla concorrenza produceva la limitazione dell’accesso all’esenzione per i soggetti non stabiliti; in sostanza, consente a soggetti non stabiliti di beneficiare del regime di franchigia in uno Stato Ue (che lo ha introdotto) alle medesime condizioni previste per i soggetti residenti nello Stato.

Soggetti stabiliti all’estero

Per quanto riguarda i soggetti passivi persone fisiche stabiliti in un altro Stato membro dell’Unione europea, questi possono applicare il regime di franchigia in Italia se ricorrono alcune condizioni. In particolare, per accedere è necessario: non superare determinate soglie di ricavi; trasmettere una apposita comunicazione; essere identificati dal numero di identificazione EX esclusivamente nello Stato membro di stabilimento.

Per quanto riguarda le soglie da non superare, è necessario che:

nell’anno civile precedente, il volume d’affari annuo dell’Unione europea (cioè il valore totale annuo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, al netto dell’Iva, effettuate nel territorio dell’Unione europea) non deve essere stato superiore a 100mila euro;

nell’anno civile precedente, il volume d’affari annuo realizzato nel territorio dello Stato non deve aver superato la soglia di 85mila euro stabilita dal comma 54 della legge 190/2014 per l’accesso al regime forfettario;

nel periodo dell’anno civile in corso precedente a quello in cui viene comunicato al proprio Stato di stabilimento l’intenzione di avvalersi del regime di franchigia nel territorio dello Stato, e comporta che il volume d’affari nell’Unione europea non deve essere superiore a 100milaeuro.

Soggetti stabiliti in Italia

Anche il soggetto stabilito nel territorio italiano può essere ammesso al regime di franchigia di un altro Stato (sempre che quest’ultimo lo abbia adottato), comunicando preventivamente all’agenzia delle Entrate l’intenzione di avvalersi del regime e se rispetta alcuni specifici requisiti.

In particolare:

nell’anno civile precedente alla comunicazione, il volume d’affari annuo dell’Unione europea non è stato superiore a 100mila euro;

nel periodo dell’anno civile in corso precedente alla comunicazione, il volume d’affari annuo dell’Unione europea non è stato superiore a 100mila euro;

il volume d’affari annuo realizzato nel territorio dello Stato di esenzione non è superiore a quello previsto da tale Stato per l’applicazione del regime di franchigia;

è identificato ai fini dell’applicazione della franchigia nel solo territorio dello Stato.

L’agenzia delle Entrate assegna al soggetto passivo il suffisso EX, aggiungendolo al numero di partita Iva, in relazione agli Stati di esenzione che hanno ammesso tale soggetto passivo al regime di franchigia, non oltre 35 giorni lavorativi dalla ricezione della comunicazione. Dal momento di attribuzione del suffisso EX, si applica il regime di franchigia nello Stato di esenzione.

Dati da trasmettere

Le informazioni che i soggetti che intendono avvalersi del regime di franchigia in uno Stato di esenzione sono tenuti a trasmettere all’agenzia delle Entrate, nonché le modalità e i termini per effettuare la comunicazione preventiva contenente le predette informazioni, sono oggetto del Provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate 460166 del 2024.

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Transfer pricing, ecco sette motivi che giustificano il prestito infruttifero

5 Marzo 2025

Il Sole 24 Ore 24 Febbraio 2025 di Massimo Bellini e Enrico Ceriana

È conforme alla normativa sui prezzi di trasferimento un finanziamento infruttifero per cui il contribuente sia in grado di giustificare le valide ragioni economiche sottostanti la mancata applicazione di un tasso di interesse. Questo è il principio espresso dalla Corte di giustizia tributaria della Lombardia con la sentenza n. 1633/4/2024 (presidente e relatore Servetti). La pronuncia merita attenzione non tanto per la conclusione, che conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, quanto perché evidenzia con chiarezza alcune argomentazioni che si possono utilizzare per supportare la congruità con il principio di libera concorrenza di finanziamenti non onerosi.

La controversia nasce da una contestazione dell’ufficio per omessa contabilizzazione di interessi attivi maturati su finanziamenti erogati a due società collegate in violazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir, che venivano rideterminati in sede di verifica sulla base del bollettino statistico della Banca d’Italia.

La Cgt di secondo grado accoglieva l’appello del contribuente che aveva fornito le «ragioni commerciali interne al gruppo, connesse al ruolo assunto dalla controllante a sostegno delle consociate» sottese alla gratuità del finanziamento. Sono sette i punti che hanno formato il convincimento dei giudici:

1 in virtù del rapporto di partecipazione la controllante aveva interesse a fornire sostegno finanziario non remunerato, avendo come obiettivo lo sviluppo ed il successo commerciale della partecipata da cui potrà avere un ritorno economico;

2 i finanziamenti erano a tempo indeterminato, caratteristica che di per sé esclude la possibilità che un istituto di credito possa erogare somme senza contestuale previsione di loro restituzione;

3 il trend dei saldi creditori sempre crescente, unitamente all’ indeterminatezza del termine di restituzione, assimilava le erogazioni a versamenti in conto capitale;

4 le controllate avevano avuto ricorrenti perdite per cui sarebbe stato del tutto irragionevole l’aggravamento dei risultati che sarebbe derivato dalla pretesa onerosità dei finanziamenti;

5 le due controllate beneficiarie del finanziamento non godevano di merito creditizio, atteso che i rispettivi elevati gradi di indebitamento comportavano l’oggettiva incapacità di ottenere credito da terzi per cui l’unica possibile fonte di supporto finanziario era la controllante;

6 il gruppo si trovava in situazione finanziaria precaria, tanto da giungere a un accordo di ristrutturazione del debito ex articolo 67 della legge fallimentare, comportante la postergazione ex lege dei finanziamenti in oggetto e il congelamento dei finanziamenti bancari;

7 infine per una delle due consociate il contratto si inseriva in un più ampio accordo finanziario in cui vi erano anche istituti di credito terzi da cui si poteva desumere che l’infruttuosità del finanziamento fosse la reale, e unica, condizione di mercato perseguibile.

Si ricorda che, secondo la Cassazione (7361/2024), la dimostrazione delle ragioni commerciali interne al gruppo rappresenta elemento rilevante ai fini della verifica della conformità al principio di libera concorrenza.

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Se si abbandona il posto di lavoro rapporto chiuso senza convalida

5 Marzo 2025

I Focus di Norme e Tributi 20 Febbraio 2025 di Giampiero Falasca

Dimissioni di fatto

Recesso per assenza ingiustificata oltre il termine del Ccnl o dopo 15 giorni con comunicazione del datore all’Ispettorato

Il dipendente che abbandona il posto di lavoro va considerato un “dimissionario di fatto” e il rapporto si estingue senza la necessità della convalida telematica: questa la novità introdotta dal collegato lavoro (legge 203/2024), nata per colmare una vistosa lacuna della precedente disciplina.

Secondo le regole vigenti prima di questo intervento (articolo 26 del Dlgs 151/2015) non era possibile considerare dimissionario un lavoratore che non aveva completato la procedura telematica di convalida di dimissioni, neanche in presenza di fatti concludenti (assenza prolungata senza motivo, eccetera), come aveva confermato anche la giurisprudenza di merito. Con la nuova disciplina, se il lavoratore risulta assente ingiustificato per un periodo superiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale (in mancanza di previsione collettiva, si applica un termine di 15 giorni) il datore può considerare dimissionario il dipendente, senza pagare il ticket, senza dover licenziare e senza accesso alla Naspi.

Una norma di buon senso, che semplifica il percorso di gestione delle dimissioni e previene comportamenti opportunistici, come quello di chi “provoca” il proprio licenziamento per accedere alla Naspi.

La procedura

Per poter applicare questa disciplina, il datore di lavoro deve seguire una procedura che inizia con una comunicazione del datore di lavoro all’Ispettorato territoriale del lavoro (Itl).

L’Ispettorato, con una nota del 22 gennaio scorso, ha chiarito il contenuto minimo di tale comunicazione e la procedura da seguire. La comunicazione va mandata alla sede territoriale afferente al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro, ragion per cui l’Itl ha elaborato un modello con tutte le informazioni da inviare. Tale modello dovrà essere inviato in via preferenziale a mezzo Pec all’indirizzo istituzionale di ciascuna sede, ma non sono escluse forme differenti di invio (e-mail ordinaria, raccomandata, eccetera).

Le verifiche ispettive

Una volta inviata la comunicazione all’Ispettorato, il datore può comunicare – usando il modello Unilav – la cessazione del rapporto per dimissioni.

Il rapporto si interrompe per dimissioni di fatto, ma la procedura prosegue con una fase fondamentale, quella della verifica. Gli organi territoriali possono contattare il lavoratore, altro personale impiegato presso il medesimo datore di lavoro e ogni altro soggetto che possa fornire elementi utili per verificare che sussista davvero un’assenza ingiustificata. La verifica degli ispettori, secondo Itl, può estendersi anche ai motivi alla base dell’assenza: gli ispettori dovranno informare il lavoratore dei diritti scaturenti da eventuali situazioni di questo tipo. È prevedibile che su questo punto sorgeranno diverse contestazioni, non essendo chiaro il perimetro dell’indagine da svolgere.

Questa fase ha una durata massima di 30 giorni dalla ricezione della comunicazione trasmessa dal datore di lavoro, e può avere due esiti differenti.

Se viene accertata la falsità della comunicazione, l’Ispettorato comunica l’inefficacia della risoluzione sia al lavoratore – il quale avrà diritto alla ricostituzione del rapporto, ove il datore abbia già fatto la comunicazione di cessazione – sia al datore di lavoro. Se la verifica conferma la veridicità dell’assenze, le dimissioni di fatto già comunicate dal datore a inizio procedura restano valide, senza necessità di ulteriori adempimenti.

L’onere della prova

La legge assegna, infine, al lavoratore la possibilità di evitare l’effetto risolutivo, laddove i dimostri l’impossibilità di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore. L’oggetto della prova sembra riguardare, quindi, l’impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza al datore (ad esempio, perché ricoverato in ospedale) o comunque la circostanza di averli comunicati. Non è chiaro se la contestazione possa estendersi anche al merito dei motivi dell’assenza.

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La cessione dei brevetti va tassata come reddito diverso

5 Marzo 2025

Il Sole 24 Ore 1 Marzo 2025 di Daniele Gro e Gabriele Sepio

La cessione dei brevetti va tassata come reddito diverso

Enti non commerciali: la cessione di un brevetto è tassata come reddito diverso in quanto la persona giuridica non può qualificarsi come inventore. Così la risposta 51/2025 delle Entrate sulla cessione delle risultanze «brevettate» delle attività di ricerca svolte dai dipendenti di un ente non commerciale.

Una fondazione avente come finalità lo svolgimento di ricerche scientifiche ha chiesto di valutare la possibilità di considerare non imponibili i redditi derivanti dalla cessione/conferimento di un brevetto sviluppato nell’ambito della propria attività. Secondo l’ente, tali somme costituirebbero redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, che non figurano tra quelli che concorrono alla formazione del reddito complessivo degli enti non commerciali ai sensi dell’articolo 143 del Tuir.

Nel respingere la soluzione prospettata, l’Agenzia ha affermato che i proventi derivanti dallo sfruttamento economico di un brevetto possono qualificarsi come redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo solo se «direttamente» percepiti dal soggetto inventore (articolo 53, comma 2, lettera b), del Tuir). Da ciò discende che, in assenza di tale status, il reddito derivante dalla cessione o conferimento del brevetto deve essere ricondotto tra quelli «diversi» ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera g), del Tuir.

Il condivisibile ragionamento dell’Amministrazione ruota attorno alla circostanza che il diritto di sfruttamento economico delle ricerche è attribuito a una persona giuridica – la Fondazione – e non ai soggetti inventori, ossia i ricercatori dell’ente (titolari, nel caso di specie, della sola paternità morale dell’opera). Sul punto, l’Agenzia richiama l’articolo 64 del Codice della proprietà industriale, che attribuisce al datore di lavoro i diritti derivanti dalle invenzioni realizzate dal dipendente, salvo il diritto di quest’ultimo di esserne riconosciuto autore. Tale circostanza non è priva di conseguenze fiscali: anche se l’ente ha investito risorse nella ricerca e ha sopportato gli oneri connessi alla brevettazione, i proventi derivanti dalla cessione del brevetto non generano redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, proprio perché l’ente non può essere autore materiale dell’opera.

Pertanto, la cessione sarà generativa di un reddito diverso in capo alla Fondazione, detentrice dei diritti economici connessi all’attività di ricerca. La stessa logica vale anche nel caso in cui il brevetto sia conferito in una società. Ciò in quanto il conferimento è fiscalmente equiparato alla cessione ai sensi dell’articolo 9, comma 5, del Tuir, con determinazione dell’imponibile da effettuarsi sulla base del valore normale del brevetto (articolo 9, comma 2, del Tuir).

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Prodotti difettosi, risponde il fornitore se coincide con il marchio

5 Marzo 2025

Il Sole 24 Ore 7 Febbraio 2025 di  Mario Benedetti e Marta Minnici

In base all’articolo 3, paragrafo 1) della direttiva 85/374/CEE in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, il fornitore di un prodotto deve essere considerato una «persona che si presenta come produttore» dello stesso qualora tale fornitore non abbia materialmente apposto nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, ma il marchio che il produttore ha apposto su quest’ultimo coincida, da un lato, con il nome del fornitore o con un elemento distintivo di quest’ultimo e, dall’altro, con il nome del produttore.

È questo il principio espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nella causa C-157/23, a seguito di un recente rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte di cassazione, nell’ambito di una controversia che ha coinvolto l’acquirente di un’automobile difettosa, vittima di un incidente stradale, e la nota casa produttrice automobilistica a marchio Ford.

La vicenda nasce nel 2001, anno in cui il consumatore aveva acquistato un’automobile presso la concessionaria S., rivenditore Ford autorizzato in Italia. Il veicolo in questione era stato fabbricato dalla Ford Wag in Germania e poi distribuito in Italia dalla Ford Italia. A seguito del sinistro stradale verificatosi qualche mese dopo l’acquisto, durante il quale l’airbag del veicolo non si era attivato correttamente, il consumatore aveva deciso di ricorrere dinanzi al Tribunale di Bologna al fine di ottenere il risarcimento dei danni dalla concessionaria e dalla Ford Italia, sostenendo che la responsabilità per il difetto fosse da attribuire alla qualità del veicolo. Ford Italia respingeva la sua responsabilità, affermando di non essere il produttore del veicolo, bensì il fornitore.

La causa proseguiva dinanzi alla Corte di Appello di Bologna, la quale, tuttavia, motivando che l’appellante, in qualità fornitore, era stata correttamente sottoposto alla stessa responsabilità che incombeva al produttore, confermava quanto statuito dal giudice di primo grado.

Successivamente, la Ford Italia ricorreva dinanzi alla Corte di cassazione. I giudici di legittimità, nutrendo dubbi interpretativi sulla portata esatta dell’articolo 3, paragrafo 1) della direttiva 85/374 e, in particolare, sull’estensione della responsabilità del produttore al fornitore, decidevano di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: «Se sia conforme all’articolo 3, paragrafo 1, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore».

Preliminarmente, la Corte di giustizia UE ha precisato che l’articolo 1 della direttiva n. 85/374/CEE attribuisce al produttore la responsabilità per danno da prodotti difettosi, mentre l’articolo 3, paragrafo 1) di tale direttiva definisce il termine «produttore» come, in particolare, il fabbricante di un prodotto finito, il produttore di una materia prima o il fabbricante di una parte componente. E sebbene, in forza dell’articolo 1 della direttiva n. 85/374/CEE, il legislatore europeo abbia scelto di imputare, in linea di principio, al produttore la responsabilità per i danni causati dai suoi prodotti difettosi, l’articolo 3 della citata direttiva designa, tra gli operatori che hanno partecipato ai processi di fabbricazione e di commercializzazione del prodotto in questione, quelli che possono, altresì, assumere la responsabilità istituita da detta direttiva.

In tale contesto, ad avviso della Corte di giustizia Ue, è indifferente che il fornitore abbia materialmente apposto la siffatta menzione sul prodotto o che il suo nome contenga la menzione che è stata apposta su di esso dal produttore e che corrisponde al nome di quest’ultimo. Infatti, in entrambe le ipotesi, il fornitore sfrutta la coincidenza tra la menzione di cui trattasi e la propria denominazione sociale per presentarsi al consumatore come responsabile della qualità del prodotto, suscitando in esso una fiducia paragonabile a quella che questi avrebbe se il prodotto fosse venduto direttamente dal produttore. In entrambi i casi, il fornitore deve, dunque, essere considerato una persona che «si presenta come produttore», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, letto alla luce dei considerando n. 4 e n. 5 della direttiva n. 85/374/CEE.

I giudici dell’Unione Europea risolvono la questione sollevata chiarendo che un fornitore può essere ritenuto produttore se il suo nome coincide con il marchio presente sul prodotto, precisando che, al fine di garantire la tutela del consumatore, il legislatore dell’Unione ha voluto che la responsabilità di «chiunque si presenti come produttore» sorga allo stesso modo di quella del «vero» produttore. Difatti, il consumatore deve avere la libertà di chiedere il risarcimento integrale del danno a uno qualsiasi dei responsabili, essendo la loro responsabilità solidale in base all’articolo 5 della citata direttiva.

Tale pronuncia assume notevole rilievo nell’ambito della tutela del consumatore, specialmente alla luce della nuova direttiva (UE) 2024/2853 con la quale viene garantita una protezione ancor più uniforme per i consumatori e maggiore certezza giuridica per gli operatori economici nell’Unione Europea.

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Trust, la tassazione in entrata fa una scommessa sui beneficiari

11 Febbraio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 20 Gennaio 2025 di Angelo Busani

La nuova normativa in tema di tassazione degli atti inerenti ai trust è senz’altro la più rilevante novità della riforma dell’imposta di successione e donazione recata dal Dlgs 139/2024, in vigore dal 1° gennaio 2025.

L’espressa menzione

Qualsiasi commento sulla riforma non può che partire dal rilievo secondo il quale (se si eccettua il limitato ambito della legge 112/2016, inerente al cosiddetto “dopo-di-noi”) per la prima volta il trust viene ora espressamente menzionato nella legislazione italiana in tema di imposte indirette.

In precedenza, la legge disciplinava solamente la tassazione dei “vincoli di destinazione”, la quale veniva poi applicata anche al trust, poiché quest’ultimo è appunto una particolare espressione della categoria dei vincoli di destinazione. Ora invece il legislatore attribuisce autonoma evidenza al trust, a palese dimostrazione del fatto che esso è ormai divenuto uno strumento di ordinario utilizzo anche nel nostro ordinamento.

Tassazione in uscita

Con la legge di riforma, dopo quasi 30 anni di accese discussioni, viene dunque definitivamente sancito che:

1 l’atto istitutivo del trust (quello dal quale il trust ha origine) è tassato con l’imposta di registro in misura fissa, in quanto atto privo di contenuto patrimoniale;

2 l’atto con il quale il trust viene dotato di patrimonio va anch’esso tassato con l’imposta di registro in misura fissa in quanto: se si tratta della dotazione di un trust autodichiarato, evidentemente non c’è alcun trasferimento patrimoniale; se si tratta del trasferimento di beni e diritti dal disponente al trustee, in capo a quest’ultimo si realizza un incremento patrimoniale, però non imponibile, in quanto il trustee non ottiene un arricchimento gratuito, poiché il patrimonio vincolato in trust è destinato all’attuazione del programma che il disponente ha dettato nell’atto istitutivo del trust;

3 l’imposta di donazione si applica invece (è la cosiddetta tassazione “in uscita”) nel momento in cui il trustee trasferirà il patrimonio vincolato in trust ai beneficiari qualora costoro con ciò conseguano un arricchimento gratuito; per calcolare l’imposta (e quindi per stabilire l’aliquota e la possibilità di beneficiare di una franchigia, applicando le regole vigenti nel momento di distribuzione del patrimonio ad opera del trustee) occorrerà prendere in considerazione il rapporto tra il disponente e il beneficiario, che ottiene l’incremento gratuito del suo patrimonio (se, ad esempio, si tratta di parenti in linea retta e non vengano modificate le norme attualmente vigenti in materia, l’aliquota è del 4% e la franchigia è di un milione).

Tassazione in entrata

L’assetto appena illustrato può però essere notevolmente alterato dal disponente o dal trustee (in caso di dotazione di trust effettuata mediante un testamento), qualora esercitino l’opzione per la cosiddetta tassazione “in entrata”, vale a dire scelgano di applicare l’imposta di donazione nel momento in cui il trust viene dotato di patrimonio.

In tal caso, da un lato, l’Erario ha un incasso anticipato e certo (invero, il trasferimento ai beneficiari del patrimonio vincolato in trust potrebbe anche non verificarsi mai, a causa, ad esempio, del suo esaurimento nel corso della vigenza del trust); d’altro lato, le eventuali attribuzioni ai beneficiari, qualunque ne siano l’oggetto o il valore (e, quindi, anche se di valore superiore al valore dei beni e dei diritti che vennero apportati al trust), non dovranno più essere sottoposte ad alcuna tassazione, con ciò evitando quindi un eventuale aggravio della tassazione che intervenga tra la data in cui l’atto di dotazione viene stipulato e la data in cui il patrimonio vincolato in trust viene trasferito ai beneficiari.

Esercitando questa opzione, peraltro, si corre il rischio che un trasferimento di patrimonio ai beneficiari non si verifichi mai (di nuovo si pensi, ad esempio, al caso in cui il patrimonio del trust si esaurisca nel corso della sua vigenza), in quanto, in tal caso, la legge dispone che non si può far luogo a richiesta di rimborso dell’imposta versata con l’opzione in entrata.

La categoria dei beneficiari

La tassazione in entrata è subordinata alla condizione che i beneficiari delle attribuzioni del trustee siano persone della stessa “categoria” cui appartenevano i beneficiari che sono stati considerati per il calcolo dell’imposta pagata in entrata: se dunque l’imposta in entrata è stata calcolata in riferimento a un rapporto di parentela in linea retta, ma poi il trustee trasmette il patrimonio del trust, ad esempio, a persone non legate da parentela al disponente, la tassazione dovrà essere applicata in uscita.

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Contanti in dogana, al via la stretta valutaria Sequestri lampo anche per oro, carte e titoli

11 Febbraio 2025

Il Sole 24 Ore 18 Gennaio 2025 di Alessandro Galimberti

Anche i militari della Guardia di finanza possono accertare le violazioni sul passaggio di contanti e oro in dogana. La nuove norme valutarie di allineamento europeo in vigore da ieri (Dlgs 211/2024 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 gennaio scorso) allargano le competenze del personale di presidio ai valichi doganali, non solo raddoppiando di fatto le autorità abilitate ai controlli, ma introducendo anche nuove procedure più dirette.

La circolare dell’Adm

Le nuove prassi sono illustrate nella circolare dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli pubblicata giovedì 16 gennaio, alla vigilia dell’entrata in vigore del decreto di allineamento Ue. Il nuovo limite di 10 mila euro in entrata e uscita, che fa scattare l’obbligo di dichiarazione formale, non impedisce alla Gdf di «trattenere» per un periodo limitato (fino a 90 giorni) cifre anche più basse se vi è un generico sospetto di attività criminose collegate al transito di contante. Il trattenimento non interferisce con eventuali altre iniziative della Procura – il sequestro – che, vista la natura penale, “sovrascrivono” il provvedimento amministrativo. Provvedimento che comunque deve essere sempre adeguatamente motivato ed è in teoria impugnabile nelle more con le normali vie amministrative.

Il contante allargato

Attenzione alla nuova definizione di contante “allargato”: oltre ai romanzeschi rotoli di banconote, da ieri vi rientrano per la legge valutaria anche tutti gli strumenti negoziabili al portatore, i beni utilizzati come riserve altamente liquide di valore e le carte prepagate, e ancora le monete metalliche (comprese quelle che possono ancora essere scambiate tramite banche e intermediari finanziari o banche centrali), tutti gli strumenti negoziabili al portatore (cioè che non prevedono di dover provare la propria identità o il diritto di disporne) e infine le monete con un tenore in oro di almeno il 90 % e i lingotti sotto forma di barre, pepite o aggregati con un tenore in oro di almeno il 99,5 %. Non ultime, ovviamente, le carte prepagate e le carte non nominative.

I pacchi anonimi

L’obbligo di dichiarazione valutaria vige anche per i pacchi postali o comunque non accompagnati: l’attestazione di “paternità” è a cura del mittente o del destinatario, per i pacchi “anonimi” – che hanno segnato una interminabile stagione lungo le ferrovie di confine – il sequestro con destinazione definitiva al Fug (Fondo unico giustizia) appare l’unica via praticabile. Per il denaro trattenuto, in ogni caso, il limite temporale per la rivendicazione è di cinque anni.

Violazioni e sanzioni

Mancata o incompleta/erronea dichiarazione vengono perseguite in dogana con sequestri incrementali (dal 50 % al 100%) della valuta “oltre soglia”, le sanzioni conseguenti vanno dal 30 al 50% dell’eccedenza per piccole “dosi” fino al 100% se si transita con più di 110 mila euro. Un percorso di uscita veloce è la classica oblazione a percentuali ridotte – ma solo fino allo sconfinamento di 40 mila euro, oltre non si è ammessi all’estinzione veloce, così come i recidivi -mentre la sanzione massima non superabile e non emendabile è di un milione di euro.

L’oro

Anche l’oro viene allineato alla disciplina valutaria: il trasferimento da o verso l’estero per importi pari o superiore a 10 mila euro ha l’obbligo di dichiarazione: la deve fare chi trasferisce l’oro a qualsiasi titolo, mentre, nel caso in cui parte dell’operazione sia una banca o un operatore professionale in oro spetta a loro compilare moduli e pratiche.

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Rimborsi deducibili solo per spese sostenute con metodi tracciabili

11 Febbraio 2025

Il Sole 24 Ore 23 Gennaio 2025 di Stefano Sirocchi Cristian Valsiglio

Spese di trasferta

Oltre a carte di credito, debito o prepagate, ammessi app, versamenti bancari o postali e assegni. Regole analoghe per gli autonomi

limiti alla deducibilità di alcune tipologie di spesa di trasferta, ai fini delle imposte sui redditi e di lavoro autonomo. Si possono evitare solo se tali spese siano effettuate con mezzi di pagamento tracciabili. È il principio fondamentale delle disposizioni contenute nell’articolo 1, commi 81-83 della legge di Bilancio 2025.

In particolare, le spese di vitto, alloggio, nonché viaggio e trasporto – comprese quelle per i servixi di taxi e Ncc (noleggio con conducente) ed escluse quelle per gli autoservizi pubblici di linea – sostenute per le trasferte dei dipendenti o corrisposti a lavoratori autonomi, sono deducibili nei limiti dell’articolo 95 del Tuir (commi 1, 2 e 3), soltanto se effettuate con i metodi tracciabili, come specificato nel novellato comma 3-bis all’articolo 95.

I tributi coinvolti

La deducibilità è intesa ai fini Ires/Irpef ed è estesa (dal comma 82 dell’articolo 1 della legge di Bilancio 2025) anche a quelli Irap. La tracciabilità occorre anche per esentare i rimborsi ai dipendenti da imposizione fiscale e contributiva.

I metodi tracciabili

Il requisito della tracciabilità è considerato sussistente se dipendenti, collaboratori o professionisti hanno utilizzato uno dei seguenti metodi:

versamento bancario o postale;

app di pagamento via smartphone che, inserendo codice Iban e numero di cellulare, permettono di effettuare transazioni di denaro (risposta 230/E/2020 delle Entrate);

altri sistemi di pagamento previsti dall’articolo 23 del Dlgs 241/1997 (carte di debito, di credito e prepagate, assegni bancari e circolari).

Il lavoro autonomo

Analogamente, in tema di determinazione del reddito da lavoro autonomo, viene aggiunto il comma 6-ter all’articolo 54 del Tuir.

Vi si specifica che, ferma restando la disciplina della deducibilità delle spese (nei termini indicati ai commi 5 e 6), sono deducibili se effettuate con metodi di pagamento tracciabili le medesime spese relative a prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande, nonché per viaggio e trasporto (anche in questo caso, con l’esclusione degli autoservizi pubblici di linea), addebitate analiticamente al committente, oltre che i rimborsi analitici relativi alle stesse spese sostenute per le trasferte dei dipendenti o corrisposti a lavoratori autonomi.

Gli incroci tra i vincoli

In ogni caso, le nuove restrizioni sulla tracciabilità dei pagamenti si intersecano con le limitazioni già in essere. A tal proposito giova rammentare quali sono le tipologie di rimborsi delle spese di vitto e alloggio relative alle trasferte effettuate fuori dal territorio comunale, nonché delle indennità, che possono essere utilizzate dalle imprese:

rimborso analitico (“a piè di lista”);

indennità forfetaria;

rimborso misto.

I rimborsi analitici corrisposti ai dipendenti o collaboratori sono deducibili entro il limite di 180,76 euro al giorno per le trasferte effettuate in Italia e di 258,23 euro al giorno per le trasferte effettuate all’estero.

Nel caso dei rimborsi forfetari o misti, invece, non sono fissati particolari limiti e dunque tali rimborsi sono interamente deducibili dal reddito d’impresa.

Non vi sono ulteriori limitazioni per le spese relative a somministrazioni di alimenti e bevande e a prestazioni alberghiere sostenute per trasferte fuori del territorio comunale, salvo non siano spese di rappresentanza. Le novità, peraltro, riguardano anche queste ultime, che diventano altresì deducibili solo se sostenute con metodi di pagamento tracciabili.

Viceversa, le spese per somministrazioni di alimenti e bevande e prestazioni alberghiere sono deducibili al 75% del loro ammontare, ai sensi dell’articolo 109, comma 5 del Tuir (circolare agenzia delle Entrate 3 marzo 2009, n. 6, paragrafo 5) se svolte nel territorio comunale.

Nella pratica

È evidente che il dipendente in trasferta dovrà essere munito di una carta di credito o debito – non importa se personale oppure aziendale – per far fronte alle spese che all’azienda non è possibile pagare in anticipo con bonifico. È il caso di taxi e ristorante.

Va segnalato che non pochi dubbi stanno sorgendo tra le imprese sulla gestione dei rimborsi per le spese di vitto e alloggio sostenute dai lavoratori in trasferta in quei Paesi esteri dove l’utilizzo di apparecchi Pos è ancora poco diffuso.

In busta paga

Indennità e diarie sono sempre esenti

Importi al lordo per chi paga in contanti

La tracciabilità del pagamento delle spese di trasferta riguarda anche il lavoratore: solo se c’è questo requisito i rimborsi di tali spese non concorrono a formare il reddito dell’interessato. Lo stabilisce il comma 5 dell’articolo 51 del Tuir (Dpr 917/1986), ora modificato dalla legge di Bilancio 2025 (la 207/2024). Vale quindi il principio stabilito dalla stessa legge ai fini della deducibilità di tali rimborsi da parte dell’azienda che li eroga: le spese di trasferta per vitto, alloggio, viaggio e trasporto con autoservizi pubblici non di linea (come taxi e noleggio con conducente) hanno effetti favorevoli sul reddito imponibile solo se sostenute con i sistemi di pagamento attualmente riconosciuti dalla normativa come tracciabili (si veda l’articolo a sinistra).

Quali sono gli impatti sulla busta paga del dipendente? L’azienda potrà rimborsare in busta paga le spese sostenute durante la trasferta secondo tre modalità.

1 In caso di spese di trasferta sostenute con un pagamento tracciabile, il datore di lavoro provvederà a corrispondere i rimborsi (senza prelievo fiscale e contributivo) direttamente sul netto del dipendente.

2 In caso di spese sostenute in contanti, il datore di lavoro provvederà a corrispondere i rimborsi lordi, assoggettandoli a imposte e contributi: l’importo netto rimborsato sarà inferiore rispetto all’esborso del dipendente in trasferta.

3 Inoltre, potrebbe esserci una terza modalità, utilizzabile ove sia difficoltoso il pagamento tracciato (si pensi a trasferte in alcuni Paesi esteri). In questi casi, a fronte di spese sostenute in contanti, il datore di lavoro potrà provvedere a corrispondere i rimborsi, assoggettandoli a imposte e contributi, ma previa loro lordizzazione in modo da non gravare sul netto del dipendente.

Rimangono escluse dagli obblighi di tracciabilità le indennità di trasferta e le diarie corrisposte per le trasferte fuori dal territorio del Comune in cui è ubicata la sede di lavoro.

Nella busta paga, queste indennità saranno esenti da imposte e contributi entro determinati limiti: 46,48 euro al giorno (77,47 euro per le trasferte all’estero), al netto delle spese di viaggio e di trasporto; 30,99 euro al giorno (51,65 per le trasferte all’estero) in caso di rimborso delle spese di alloggio ovvero di quelle di vitto oppure di alloggio o vitto fornito gratuitamente; 15,49 euro al giorno (25,82 per le trasferte all’estero) in caso di rimborso sia delle spese di alloggio sia di quelle di vitto ovvero per rimborsi di altre spese anche non documentabili purché analiticamente attestate dal dipendente (come, per esempio, lavanderia, telefono, parcheggio, mance eccetera).

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Stretta sulle frodi Iva con lo scambio dati Ue e le fatture elettroniche

11 Febbraio 2025

Il Sole 24 Ore lunedì 27 Gennaio 2025 di Ivan Cimmarusti

Il piano. Verifiche della Gdf con le Entrate e collaborazione con l’Eurofisc per tracciare le operazioni intracomunitarie. Anche con l’intelligenza artificiale

Nuovo impulso al contrasto delle frodi Iva, un “sistema” illecito in grado di muovere in Europa flussi di denaro sporco fino a 100 miliardi annui. Ma negli obiettivi 2025 della Guardia di finanza c’è un potenziamento generalizzato per frenare l’evasione fiscale, a partire dalle indebite compensazioni e dalle cessioni dei crediti d’imposta fittizi, in particolare quelli finanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, fino alle più complicate elusioni internazionali.

L’intenzione è di sostenere le entrate tributarie, garantendo una capacità di controllo sulle risorse messe a disposizione per il rilancio dell’economia.

Intelligenza artificiale, banche dati, attività d’intelligence e cooperazione internazionale tra i Paesi dell’Unione europea assumono una funzione sempre più strategica per arginare le forme di crimine finanziario, che ormai operano senza confini grazie a una rete del riciclaggio che movimenta denaro sporco che confluisce anche nei fondi d’investimento di Dubai, come emerge dalle più recenti indagini dell’Antimafia.

Frodi fiscali e Pnrr

Nell’ultimo triennio l’Ufficio centrale della Procura europea (Eppo) ha registrato un aumento del 360% del valore del danno accertato da frode Iva: si è passati da 2,5 miliardi a 11,5 miliardi di euro. L’Italia fin dal principio – cioè da quando nel 2021 è stata istituita la Eppo – si è piazzata al vertice per il valore delle frodi. Ciò è dovuto all’azione coordinata della Guardia di finanza, che ha una storica tradizione di verifiche economico-finanziarie.

Su questo fronte, dunque, le Fiamme gialle prevedono di sfruttare il contributo di dati offerto dall’obbligo di fatturazione elettronica, unitamente alla collaborazione con organismi esteri dell’Eurofisc. Si tratta di un network di cooperazione europea creato per contrastare le frodi fiscali, in particolare quelle dell’Iva intracomunitaria.

L’elemento fondamentale è rappresentato dallo scambio di informazioni in tempo reale. Sul sistema Tna (Transaction network analysis) sono condivisi tutti gli elementi per garantire la celere identificazione degli operatori economici fraudolenti, coinvolti nelle cosiddette frodi carosello.

L’azione delle Fiamme gialle si concentrerà anche sul fenomeno delle indebite compensazioni dei crediti fiscali e sulla cessione di crediti d’imposta fittizi, in particolare quelli finanziari con fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Un capitolo riguarda anche il sommerso d’azienda e di lavoro, sia “nero” sia “irregolare”, cui sono connesse le illecite somministrazioni di manodopera e i distacchi di personale falsi.

Analisi di rischio, monitoraggio dei fenomeni evasivi e piani di intervento continueranno a essere elaborati in modo congiunto con l’agenzia delle Entrate.

Sul fronte della spesa pubblica, invece, è stata rafforzata la cooperazione con enti pubblici locali per prevenire irregolarità nella gestione dei fondi del Pnrr e delle risorse pubbliche, evitando casi di doppio finanziamento. Implementato lo scambio di informazioni con l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e con gli altri organismi di vigilanza.

Riciclaggio

Tra gli obiettivi prioritari, il Corpo punta a prevenire infiltrazioni criminali nell’economia legale, approfondendo i flussi finanziari sospetti e sequestrando patrimoni illeciti, anche grazie alla collaborazione internazionale e con le Financial intelligence units, organismi antiriciclaggio equivalenti all’italiana Uif (Unità di informazione finanziaria). Viene inoltre incrementato il monitoraggio antimafia attraverso il supporto alle Prefetture e il controllo su aziende potenzialmente colluse.

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Uk, meno sportelli: Lloyds taglia 136 filiali

11 Febbraio 2025

Il Sole 24 Ore 30 Gennaio 2025 di R. Fi.

Banche

Prosegue senza sosta nel Regno Unito – e a ritmo ancor più accelerato rispetto ad altri Paesi – la contrazione della rete di filiali bancarie in grado di garantire l’accesso fisico ai clienti. Il Lloyds Banking Group, uno dei colossi finanziari britannici, ha annunciato la chiusura nei prossimi mesi di altre 136 sedi sparse per l’isola, da completare nei piani entro marzo del 2026 nell’ambito di una strategia di ristrutturazione, modernizzazione e riduzione dei costi. Le chiusure riguarderanno 61 succursali con l’insegna Lloyds, nonché 61 di Halifax e 14 di Bank of Scotland (acquisite a suo tempo dal gruppo) a partire da maggio. La scelta, analoga a quella dei competitor, risponde alla necessità dichiarata di adeguarsi a un mercato in cui l’online banking ha ormai preso il sopravvento, riducendo di molto la richiesta di servizi bancari da fornire di persona dallo staff. Non mancano tuttavia allarmi per i posti di lavoro. Mentre è recente la sollecitazione del governo laburista alle banche a garantire almeno un servizio minimo di accesso fisico agli impiegati e al cash per la clientela «più vulnerabile» e meno informatizzata: anziani in primis

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