Niente tasse sul capital gain: Lugano lancia la sfida cripto

11 Novembre 2024

Il Sole 24 Ore 27 Ottobre 2024 di Alessandro Galimberti

Valute blockchain. Mentre Roma vara l’aumento del prelievo al 42%, in Ticino prende forma la città con acquisti diffusi in Bitcoin (e Lvga), grazie anche alle plusvalenze con zero imposizione sul reddito

Mentre Roma prepara la stangata fiscale sulle criptovalute – con l’aliquota del 42%, inserita nel disegno di legge di Bilancio 2025 per le plusvalenze e agli altri proventi da operazioni in blockchain – a un’ottantina di chilometri di strada da Milano sono già iniziati i festeggiamenti. Euforia dovuta non solo alla terza edizione di Lugano’s Plan B Forum (che si è svolta venerdì e ieri portando in Ticino guru digitali di mezzo mondo), kermesse pensata per celebrare l’esperimento di hub europeo di una città ideale (e reale) a misura di Bitcoin.

L’ipotesi che l’Italia chiuda, per via fiscale, a un mercato retail di 2,2 miliardi di euro (ultimo aggiornamento al 30 giugno scorso) e a 1,3 milioni di utilizzatori (di cui 900mila giovani e quasi giovani tra 18 e 39 anni) non può che elettrizzare la cittadina italofona sulle rive del lago Ceresio.

Dieci anni dopo la fine dell’epoca d’oro da paradiso fiscale e forziere in nero per italiani e gli sforzi, in larga parte riusciti, per rifarsi una reputazione, il Canton Ticino e la sua capitale finanziaria Lugano (terza piazza della Svizzera, non proprio retrovie) vedono salire nuove opportunità dal valico un po’ intristito di Chiasso, un tempo cruna miracolosa di ogni contrabbando e oggi ancora alle prese con una impegnativa rinascita.

«Ben vengano, gli italiani!» ha subito brindato il sindaco della “Lugano bella”, Michele Foletti, salvo poi fare subito una diplomatica retromarcia con distinguo da buona educazione («Non auguro il male a nessuno, volevo solo dire che noi siamo qui»), politeness a cui i ticinesi tengono sempre molto (si veda l’intervista in pagina). Ma certo, se i migranti digitali da Sud decidessero di muoversi verso le care sponde del lago condiviso con gli ultimi lembi d’Italia, molti qui si fregherebbero le mani.

Lugano oggi è una città di 60mila abitanti dove si può fare tutto senza avere un franco in tasca: basta tenere con sé un wallet digitale (cioè un’app nel telefono) alimentato da Bitcoin o Tether per pagare indifferentemente l’officina dell’auto, l’estetista, la pizza, l’enoteca, il ristorante o la palestra. E, ancora, il pet shop, l’ottica, il tattoo fino al…giornale. Meglio ancora se nel wallet si mette il «Lvga», la cripto autoctona del Ceresio accettata da oltre 400 esercizi commerciali che restituisce il 10% in cash back ad ogni acquisto; un «meccanismo che premia chi acquista locale e mantenendo il valore in città crea un effetto virtuoso con ricadute positive sull’intero circuito economico cittadino», spiega il portale di lancio con sfavillante pragmatismo elvetico. Anche perché «a differenza delle altre criptovalute i Lvga non possono essere scambiati con altre valute o criptovalute e non sono soggetti a fluttuazioni», con il valore ancorato al franco svizzero con un cambio fisso 100 Lvga= 1 Chf.

Così una città multiculturale, multietnica e poliglotta, che negli ultimi 40 anni ha saputo imboccare una trasformazione veloce e inarrestabile, vive contemporaneamente lo slancio tecnologico della blockchain e la conservazione delle tradizioni della comunità locale: oltre 20mila luganesi usano abitualmente il Lvga movimentando i 4mila wallet dedicati, numeri all’apparenza piccoli che però prendono altra luce se visti come percentuale della popolazione locale.

Quello che però può più interessare l’investitore privato (i possessori di criptovalute registrati in Italia sono per il 99,9% persone fisiche) è che in Svizzera le plusvalenze sono esenti da tassazione.

Come dire, in un impietoso confronto con il testo fiscale redatto nella medesima lingua ma 700 chilometri più a sud, zero per cento di tasse sui redditi contro 42 per cento.

L’unica condizione, a cui conviene attenersi a queste latitudini, è non essere un imprenditore o un operatore comunque professionale (si veda l’articolo sotto) e, soprattutto, non dissimularsi tale. Perché accoglienti sempre, ma fessi anche no.

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L’iscritto AIRE che riunisce nuda proprietà e usufrutto

11 Novembre 2024

Il Sole 24 Ore 28 Ottobre 2024 di Alfredo e Attilio Calvano

Un cittadino italiano – iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, residente e con sede di lavoro in Francia, come titolare di rapporto di lavoro dipendente – non ha mai presentato la dichiarazione dei redditi in Italia, dove detiene soltanto la nuda proprietà di alcuni immobili. È corretto tale comportamento?

Dato che, nel 2024, questo soggetto ha ereditato immobili affittati, e si è ricostituita la piena proprietà su quelli di cui era nudo proprietario, egli dovrà presentare la dichiarazione dei redditi in Italia per gli affitti? In caso di risposta positiva, dovrà dichiarare solo i redditi italiani o anche i redditi – di lavoro dipendente e immobiliari – percepiti in Francia?

Il cittadino italiano fiscalmente residente in Francia, avendo avuto fino a tutto il periodo d’imposta 2023 soltanto la nuda proprietà di immobili in Italia, non era qui tenuto ad alcun adempimento dichiarativo/impositivo, essendo questo obbligo incentrato sul titolare del diritto di usufrutto degli stessi.
A decorrere dal 2024, la sopravvenuta titolarità, in piena proprietà, di immobili, dati in locazione, comporta invece che, nel 2025, egli presenti in Italia la dichiarazione modello Redditi Pf (qualificandosi nel frontespizio come non residente) e assoggetti a tassazione i redditi fondiari così conseguiti (oltre all’assolvimento dell’Imu).
Sono invece esclusi dalla dichiarazione italiana tutti i redditi prodotti e percepiti in Francia dall’interessato lì residente (articolo 3, comma 1, del Dpr 917/1986, Tuir)

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Ncc, 6 miliardi di euro di tasse locali sparite nei paradisi italiani

11 Novembre 2024

Il Sole 24 Ore 2 Novembre 2024 di Gianni Trovati

Elusione. In Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige il 2% della popolazione e il 52,9% delle auto. Pronto un emendamento contro le sedi fittizie

ROMA

Sei miliardi di euro. Spariti. Trasportati verso il nulla da decine e decine di migliaia di auto a noleggio con conducente in fuga negli ultimi dieci anni verso i loro piccoli paradisi fiscali domestici rappresentati dalla Valle d’Aosta e dalle Province autonome di Trento e Bolzano. Fuga solo sulla carta, ovviamente. Ma i soldi sono spariti davvero.

A calcolarli è una consulenza tecnica chiesta dalla Città metropolitana di Roma Capitale, che sta ravvivando il già fitto fronte giudiziario su cui combattono società di noleggio ed enti territoriali. Perché i miliardi sfumano dalle casse delle Regioni, che insieme alla sede legale delle società perdono la loro tassa automobilistica, e da quelle di Province e Città metropolitane, che non ricevono l’imposta di trascrizione e la quota di Rc Auto destinata agli enti di area vasta. Non è complicato immaginare la reazione di Roberto Gualtieri quando, nella sua veste di sindaco metropolitano di Roma, ha ricevuto i conti; e insieme a Beppe Sala a Milano, Gaetano Manfredi a Napoli e Roberto Lagalla a Palermo ha rilanciato una battaglia unisce i terreni legale e politico.

I quattro sindaci hanno scritto al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti per chiedere «un’incisiva azione del Governo», e hanno proposto una norma condivisa con Anci e Upi che dovrebbe tradursi in un emendamento al decreto fiscale collegato alla manovra (c’è tempo fino a mercoledì alle 10) per ristabilire un principio semplice: quello della «interpretazione sostanziale della sede legale», secondo cui l’indirizzo ufficiale va posto, e le tasse si pagano, dove si svolge l’attività effettiva della società di noleggio.

Nei conteggi di Arianna Montagni, la tributarista che ha sviluppato la consulenza per Roma Capitale, solo le Città metropolitane hanno perso su queste strade due miliardi di euro, mentre il mancato gettito (mal)sopportato dalle Regioni vale il doppio, in una geografia che ha fin qui penalizzato soprattutto Lazio, Emilia-Romagna, Lombardia, Campania, Veneto e Piemonte. Sul tema sono fiorite le battaglie giudiziarie contro le società che si trasferiscono nelle placide valli ad autonomia speciale mentre le loro auto continuano a destreggiarsi nel traffico indiavolato dell’Italia ordinaria. Ma la giurisprudenza si è divisa fra chi, come le Corti di Giustizia Tributaria di Milano, Bologna e Mantova, riconosce l’esistenza dell’abuso del diritto e chi invece la nega, come la Corte di giustizia di Roma nel caso della Città metropolitana e in quello della Regione Lazio.

Ma più degli scontri giurisprudenziali, sono i numeri a mostrare l’entità plateale del fenomeno. Le immatricolazioni di auto a noleggio con conducente registrate dalla banca dati dell’Aci oggi in Italia sono 455.435, cioè 7,7 ogni mille abitanti. La sola Valle d’Aosta, dove vive lo 0,2% degli italiani, ne concentra però 36.566, cioè l’8% del totale.

Se tutte viaggiassero davvero fra Aosta e Champoluc, nella Vallée ci sarebbero tre auto con autista ogni 10 abitanti, neonati compresi, con un’intensità di servizio che si faticherebbe a trovare anche fra le corti arabe gonfie di petrodollari. Ma il reame vero dei noleggi con conducente è il Trentino Alto Adige, che con l’1,8% della popolazione raduna il 44,9% delle auto immatricolate in Italia e in teoria vede viaggiare sulle proprie strade 188,85 vetture con conducente ogni mille abitanti. Con il 2% della popolazione, i due piccoli territori autonomi sommano il 52,9% delle immatricolazioni. Il conto esclude le auto immatricolate in Polonia, Bulgaria o Repubblica Ceca, e iscritte nel registro dei veicoli esteri: sono 53mila, ma 35mila (il 66%) risultano circolanti in Campania, che per questa via perde 20 milioni di euro all’anno.

La Toscana, prima fra le Regioni ordinarie, ha meno di 20 Ncc ogni mille residenti, e in 14 Regioni, compresa la Lombardia che non è tra le più povere del pianeta, il rapporto è sotto l’uno a mille: cioè 200 volte inferiore a quello che si incontra sulle rive dell’Adige. Dove però le auto a noleggio non ci sono davvero, e nemmeno le società. Durante gli accertamenti in alcune delle tante controversie si è scoperto per esempio che in una sede dove avevano la loro casa ufficiale otto aziende di noleggio l’arredamento era limitato a un tavolino e tre sedie. Simile si è rivelata la dotazione un indirizzo che a Bolzano ospitava 63 società.

La spiegazione è fiscale. Perché l’imposta provinciale di trascrizione che si paga lassù è inferiore di circa il 30% a quella che si deve versare a Milano, Padova o Roma. Ma l’arma della concorrenza tributaria arriva spuntata negli enti dei territori ordinari, già alle prese con bilanci ridotti all’osso dalla lunga e ora epocale crisi dell’auto che prosciuga le entrate di un federalismo provinciale basato quasi solo sulla gomma. Negli anni le Province hanno quindi coralmente alzato l’imposta di trascrizione fino ai massimi consentiti dalla legge, ma il gettito ha continuato a diminuire: nel 2023 gli incassi si sono fermati a 1,04 miliardi, cioè il 6,8% in meno del 2019 (ma la differenza è del 19,4% considerando l’inflazione), e ancora peggio è andata alla quota provinciale dell’Rc Auto (nel 2023 a 1,15 miliardi, -23,4% reale rispetto a quattro anni prima). Ora l’ossigeno ai conti manca davvero. E gli amministratori hanno deciso di dire «basta». Per non soffocare.

LA GEOGRAFIA DELLE AUTO A NOLEGGIO

Le immatricolazioni di ncc nelle Regioni italiane – Classifica in base al numero di immatricolazioni ogni mille abitanti

REGIONE POPOLAZIONE IMMATRICOLAZIONI
NUMERO % SUL TOTALE NUMERO % SUL TOTALE OGNI MILLE ABITANTI
Valle d’Aosta 123.018 0,2 36.566 8,0 297,24
Trentino A. A. 1.082.116 1,8 204.358 44,9 188,85
Toscana 3.664.798 6,2 71.577 15,7 19,53
Piemonte 4.252.581 7,2 47.809 10,5 11,24
Lazio 5.720.272 9,7 49.755 10,9 8,70
Emilia-Romagna 4.455.188 7,6 29.217 6,4 6,56
Lombardia 10.020.528 17,0 8.683 1,9 0,87
Molise 289.413 0,5 182 0,0 0,63
Veneto 4.851.972 8,3 2.911 0,6 0,60
Umbria 854.378 1,5 440 0,1 0,51
Friuli-V. Giulia 1.195.792 2,0 391 0,1 0,33
Basilicata 533.636 0,9 152 0,0 0,28
Marche 1.484.427 2,5 416 0,1 0,28
Sicilia 4.794.512 8,2 1.115 0,2 0,23
Campania 5.590.076 9,5 995 0,2 0,18
Puglia 3.890.250 6,6 584 0,1 0,15
Calabria 1.838.150 3,1 155 0,0 0,08
Abruzzo 1.269.963 2,2 66 0,0 0,05
Liguria 1.508.847 2,6 63 0,0 0,04
Sardegna 1.569.832 2,7 0 0,0 0,00

Fonte: elaborazione su dati Aci e Istat

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Neo-residenti, flat tax raddoppiata sui redditi esteri

11 Novembre 2024

Il Sole 24 Ore 8 Ottobre 2024 di Antonio Longo

LE ALTRE NOVITÀ

È definitivo l’aumento da 100mila a 200mila euro della flat tax sui redditi esteri per i “neo-residenti”.

Con la conversione in legge, senza modifiche, dell’articolo 2 del Dl 113/2024 cambia per la prima volta dalla sua introduzione nel 2017 il regime fiscale speciale dell’articolo 24-bis del Tuir. Per il solo anno 2022 (dati Mef su dichiarazioni fiscali 2023) questo regime ha portato in Italia 957 soggetti, che si sono aggiunti ai 2.678 già trasferiti negli anni precedenti, e il complessivo pagamento di 89.750.000 euro a titolo di imposta forfettaria.

I neo-residenti sono le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia e optano per l’assoggettamento all’imposta sostitutiva dei redditi prodotti all’estero, a condizione che non siano state fiscalmente residenti in Italia per un tempo almeno pari a nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione.

L’aumento dell’imposta voluto dal Governo, che tiene conto anche di dinamiche inflazionistiche, non sembra in grado di compromettere il successo di questa misura di attrazione.

L’innalzamento dell’imposta è, infatti, l’unica modifica e di fatto sancisce ad oggi la stabilità del regime nel suo complesso.

Secondo quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, del Dl 113/2024, la nuova caratura del tributo (che non riguarda i familiari dei contribuenti principali, i quali continueranno a pagare l’importo ridotto di 25mila euro) si applica solo ai soggetti che hanno trasferito in Italia la residenza ai fini dell’articolo 43 del Codice civile successivamente alla data di entrata in vigore del Dl, cioè dopo il 10 agosto. Per chi è già nel regime, è garantita l’irrilevanza dell’incremento.

Il riferimento testuale della clausola di salvaguardia è al concetto di residenza civilistica, cioè al luogo in cui la persona ha la dimora abituale, mentre il domicilio coincide con il luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. In sede di discussione parlamentare, alcuni emendamenti avevano proposto di allungare il periodo di salvaguardia e consentire l’adesione al regime esistente a coloro che avessero investito specifiche risorse in attività economiche o iniziative filantropiche, stile «visto investitori».

Nessuna di queste proposte ha visto la luce, ma non per questo il regime sembra destinato ad un cono d’ombra. Al contrario, si ritiene che l’Italia continuerà ad essere in cima tra le destinazioni più ambite per gli individui con redditi e patrimoni (potenzialmente ancora più) ingenti, potendo offrire un regime fiscale chiaro e rodato, rispetto ad esempio alle recenti incertezze sul «res non dom» nel Regno Unito.

Inoltre, non si dimentichi che l’Italia è un Paese europeo e membro del G7 e quindi si qualifica spesso come destinazione strategica anche per ragioni di investimento. I neo-residenti contribuiscono alle casse erariali sia direttamente, con il pagamento dell’imposta forfettaria sui proventi esteri e delle imposte progressive sui redditi italiani, sia per i molteplici effetti, anche ai fini della fiscalità indiretta, derivanti dai consumi, oltre ad essere spesso protagonisti di nuove iniziative imprenditoriali e filantropiche.

In questo contesto, è da segnalare la giusta posizione innovativa che l’agenzia delle Entrate (interpello n. 159/2024) ha recentemente espresso, secondo cui un contribuente in possesso dei requisiti per esercitare l’opzione ex articolo 24­bis può, nei periodi d’imposta successivi, revocarla ed accedere – nel rispetto delle altre condizioni – al regime speciale per i lavoratori impatriati (ora articolo 5 del Dlgs 209/2023). Con ciò favorendo anche l’ulteriore possibile sviluppo di attività lavorative in Italia incentivate dalla detassazione parziale del (nuovo) reddito di fonte domestica in alternativa al regime di vantaggio sui soli redditi esteri.

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Il rivenditore di auto usate non «scorpora» il margine

11 Novembre 2024

Il Sole 24 Ore 28 Ottobre 2024 di Alfredo e Attilio Calvano

Il rivenditore di auto usate non «scorpora» il margine

Un rivenditore di auto usate ha acquistato, da un privato, un’auto al prezzo di 10.000 euro, e l’ha rivenduta, a un soggetto munito di partita Iva, al prezzo di 12.440 euro. Il cliente ha chiesto al rivenditore di auto di poter indicare in fattura l’Iva sul margine di guadagno del rivenditore stesso.
Quest’ultimo può predisporre la fattura di vendita indicando l’importo di 10.000 euro, senza Iva fino a concorrenza del costo di acquisto del privato, e inserendo separatamente i 2.000 euro più Iva, che rappresentano il suo guadagno?

La risposta è negativa. Il rivenditore di auto usate non può esporre separatamente l’Iva in fattura.
Ne fa espresso divieto l’articolo 38, comma 1, primo periodo, del Dl 41/1995, secondo cui i soggetti che applicano il regime del margine «nella fattura non possono indicare l’ammontare dell’imposta separatamente dal corrispettivo».
Inoltre, per le cessioni soggette al regime del margine, l’articolo 21, comma 6, lettera d, del Dpr 633/1972 dispone che la fattura, in luogo dell’ammontare dell’imposta, deve riportare l’annotazione «Regime del margine – beni usati», riferita al totale dei corrispettivi. Non c’è un espresso divieto di indicare il costo di acquisto in fattura; tuttavia, ai fini del trattamento Iva, il costo di acquisto non può essere artificialmente scorporato dal totale addebitato in fattura e dal relativo margine.

 

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Il venditore porta a porta non è agente di commercio

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 4 Settembre 2024 di Massimo Romeo

Un rapporto di agenzia è caratterizzato da specifici vincoli o obblighi contrattuali di promuovere affari per conto della preponente e il collegamento a determinate zone.

In assenza di tali caratteristiche, il rapporto di mandato – conferito da una società per la vendita dei propri prodotti attraverso una struttura di multilevel marketing – equivale a una mera autorizzazione scritta per promuovere la raccolta di ordini dei prodotti della società (mandante) direttamente ai consumatori finali, oltre a incoraggiare e procacciare nuovi venditori in modo da venire ricompensati non solo per le vendite direttamente effettuate ma anche per quelle compiute da altri venditori da essi stessi reclutati.

In tale ipotesi, non si applica l’ordinario regime di tassazione degli agenti di commercio – quale reddito d’impresa – ma la ritenuta a titolo d’imposta sulle provvigioni, prevista dall’ordinamento per le vendite a domicilio («porta a porta»).

Così si è pronunciata la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia ( sentenza 2295 del 29 agosto 2024, presidente Izzi, estensore Appignani).

La controversia concerneva un avviso di accertamento a titolo di Irpef e Irap emesso dalle Entrate a carico di un contribuente, venditore “porta a porta”. In particolare, l’Ufficio riqualificava l’attività svolta per una società da «incaricato delle vendite a domicilio» in «attività di agente di commercio», assoggettandolo al regime ordinario previsto per i redditi di impresa.

Il contribuente contestava la riqualificazione operata dall’Agenzia evidenziando: a) le provvigioni percepite in qualità di incaricato alle vendite a domicilio sono, per legge, escluse dall’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi; b) le stesse sono soggette a una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 23% sul 78% delle provvigioni (articolo 25-bis, comma 6, del Dpr 600/1973) e conseguentemente non formano oggetto di dichiarazione nel modello Unico dell’incaricato alle vendite a domicilio, ai fini del reddito d’impresa (in tal senso, la risoluzione ministeriale 180/E del 12 luglio 1995); c) sia per le vendite «dirette» che per quelle «indirette», l’incaricato alle vendite a domicilio matura il diritto alla provvigione, il cui regime tributario è comunque quello della ritenuta d’imposta definitiva, in quanto si tratta sempre di attività di raccolta ordini di vendita nei confronti del consumatore finale; d) per il particolare inquadramento fiscale, non è consentita la deduzione di spese e costi ai fini della base imponibile Irpef.

L’Ufficio difendeva in giudizio la liceità del proprio operato ribadendo come la posizione del contribuente era quella di un “anomalo” venditore a domicilio sia per l’esiguità degli incassi derivanti da vendite dirette, sia per l’ammontare delle provvigioni maturate sulle vendite procacciata da altri venditori per effetto della struttura basata sul cosiddetto multilevel marketing, sia per la qualifica di senior manager assunta dal contribuente nonché per le tipologie di bonus riconosciutigli oltre quello derivante dalle vendite personalmente promosse ai clienti.

I giudici di secondo grado, hanno riformato la sentenza di primo grado, ricordando la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, ordinanze 17920/2018, 16565/2020, 30852/2021, 530/2024) in cui è stato affermato che caratteri distintivi del contratto di agenzia sono «la continuità e la stabilità dell’attività dell’agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente nell’ambito di una determinata sfera territoriale», realizzando in tal modo, con quest’ultimo, una non episodica collaborazione professionale autonoma, con risultato a proprio rischio e con l’obbligo naturale di osservare, oltre alle norme di correttezza e di lealtà, le istruzioni ricevute dal preponente medesimo. Nel caso particolare il contratto tra il contribuente e la società (mandante), non prevedeva alcuna «esclusiva di zona e vincoli di durata della prestazione» né tantomeno alcun «obbligo vincolante di svolgere attività promozionale», ma solo una «semplice autorizzazione scritta», così rendendo l’attività estranea al rapporto di agenzia.

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Criptoattività tracciate, sanzioni Ue più pesanti

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 17 Settembre 2024 di Valerio Vallefuoco

Le cripto attività in Italia si adeguano al regolamento Ue Mica. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.215 del 13 settembre del Dlgs 129/2024 anche l’Italia come Paese membro Ue si dota di uno strumento completo ed avanzato di attuazione della normativa europea in tema di cripto asset. Il provvedimento è entrato in vigore dal 14 settembre. Tuttavia sono previste delle disposizioni transitorie (articolo 45 del decreto ) in forza delle quali dopo l’entrata in vigore di Micar possono continuare a operare fino al 30 giugno 2025 – in base al Dlgs 141 del 2010 e disposizioni attuative – i soli soggetti regolarmente iscritti nel registro Oam al 27 dicembre 2024. Se questi presenteranno istanza di autorizzazione, in Italia o in un altro Stato membro, entro il 30 giugno 2025, sarà consentito loro di continuare a operare nelle more dello svolgimento del procedimento di autorizzazione, fino al rilascio o rifiuto della medesima e comunque non oltre il 30 dicembre 2025. Il nostro legislatore ha scelto di ridurre al minimo consentito dai regolamenti Ue il periodo transitorio di tolleranza in ossequio alle raccomandazioni della agenzia europea di riferimento ( Esma).

Sempre il decreto prevede un rigoroso sistema sanzionatorio caratterizzato da sanzioni penali e amministrative rilevanti. In particolare, il doppio binario sanzionatorio limita le sanzioni penali alle sole violazioni più gravi. Si tratta dell’abusivismo finanziario, che le nuove norme puniscono con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 2.066 a 10.329 euro. Certamente più ampio è lo spettro delle sanzioni di natura amministrativa, che copre una vasta gamma di condotte, con la possibilità di inasprimento della sanzione nei casi in cui il vantaggio ottenuto dall’autore della violazione in conseguenza della violazione stessa sia superiore ai limiti massimi indicati. In questi casi, infatti, la sanzione amministrativa pecuniaria è elevata fino al doppio dell’ammontare del vantaggio ottenuto. Viene inoltre riconosciuta alla Banca d’Italia e alla Consob, in relazione alle rispettive competenze, la possibilità di disporre, in aggiunta alla sanzione amministrativa, una dichiarazione pubblica indicante la persona fisica o giuridica responsabile e la natura della violazione e/o in un’ingiunzione diretta alla persona fisica o giuridica di porre termine al comportamento e di astenersi da ripeterlo. Particolarmente afflittive sono le sanzioni previste per chiunque violi il divieto di abuso di informazioni privilegiate, di comunicazione illecita di informazioni privilegiate o di manipolazione del mercato. In questi casi, la sanzione applicabile va da 5mila fino a cinque milioni di euro. Le nuove norme quantificano poi le sanzioni amministrative pecuniarie applicabili all’ente individuandone i presupposti per l’applicazione. Quanto al procedimento, la potestà sanzionatoria è in capo alla Banca d’Italia e alla Consob, secondo le rispettive competenze, fermo restando che per le sanzioni amministrative previste in materia di emissione, offerte al pubblico e richiesta di ammissione alla negoziazione di token di moneta elettronica sono sempre applicate dalla Banca d’Italia secondo la procedura sanzionatoria prevista dall’articolo 145 del Tub. Nella relazione illustrativa al decreto si chiarisce che non solo la disciplina del procedimento sanzionatorio amministrativo ma anche le regole speciali sull’impugnazione in Corte d’Appello sono le stesse previste nel Tub. Infine, è rimesso a Banca d’Italia e a Consob il compito di effettuare la segnalazione all’Abe e all’Aesfem prevista dalla Micar delle sanzioni e delle misure amministrative applicate.

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I dati del pedaggio possono legittimare il licenziamento

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 23 Settembre 2024 di Marcello Floris

Il Telepass montato su vettura aziendale non è uno strumento di controllo della prestazione lavorativa a distanza vietato dallo Statuto dei lavoratori, bensì un apparecchio di controllo organizzativo interno, peraltro noto al dipendente. Il base a questa valutazione la Corte di cassazione, con l’ordinanza 17008 pubblicata il 20 giugno 2024 ha confermato la validità del licenziamento di un dipendente, avendo constatato la gravità del comportamento addebitato, sostanzialmente ingiustificato, e la proporzionalità della sanzione espulsiva.

Il datore di lavoro aveva rilevato, infatti, la sosta dell’auto aziendale affidata per servizio al lavoratore e a un suo collega in coincidenza con il turno lavorativo: l’auto era rimasta ferma sul piazzale del posto di manutenzione, mentre nel rapporto di servizio era stato registrato un intervento di rimozione di un ostacolo, in un orario incoerente con i dati del Telepass installato sull’auto. Questo intervento non era stato neanche segnalato alla sala radio, in violazione delle disposizioni di servizio aziendali. Secondo la Corte, il mancato pattugliamento derivante dalla sosta del mezzo, costituisce una violazione insanabile del vincolo fiduciario poiché tali mansioni rientravano nelle attività proprie del lavoratore quale ausiliario alla viabilità, secondo il contratto collettivo applicabile.

Il lavoratore aveva eccepito la mancata prova della giusta causa di licenziamento, non essendo utilizzabili, a suo avviso, a fini disciplinari i dati del Telepass, che costituirebbero controllo a distanza vietato dall’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.

La Corte invece, ha ribadito che l’imprenditore conserva il potere di controllo dell’adempimento della prestazione lavorativa direttamente o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo e che è conosciuta dai dipendenti, anche in presenza dell’articolo 3 dello Statuto dei lavoratori. Esprimendo un orientamento diverso rispetto ad altre pronunce, la Corte ha stabilito poi che il divieto stabilito dall’articolo 4 della legge 300/1970 non è applicabile al caso specifico, perché si riferisce esclusivamente alle apparecchiature per il controllo a distanza, e di conseguenza non si può trasporre per analogia al telepedaggio. Quest’ultimo – precisa la Cassazione nell’ordinanza 17008 del 20 giugno 2024 – è un sistema radioelettronico per il pagamento automatico del pedaggio autostradale e non è quindi uno strumento di controllo a distanza vietato, ma un apparecchio che ha la finalità di controllo organizzativo interno, nota al dipendente.

L’articolo 3 dello Statuto spiega infatti che i nominativi e le mansioni del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa devono essere comunicati ai lavoratori. L’articolo 4 stabilisce invece che gli strumenti con i quali si possa anche controllare a distanza l’attività del lavoratore possono essere impiegati solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e la tutela del patrimonio e possono essere installati solo previo accordo con le rappresentanze sindacali unitarie o con l’autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro, salvo il caso in cui detti strumenti siano utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa. Da qui si comprende appunto l’attenzione della Cassazione sulla natura dello strumento: se si ritiene appunto che non sia un mezzo di controllo della prestazione, ma semplicemente un apparecchio di verifica amministrativa e organizzativa, il divieto previsto dall’articolo 4 non opera e i dati rilevati possono essere liberamente utilizzati a fini disciplinari.

Sempre in tema di controlli sui dipendenti si è espressa la Cassazione con un’altra ordinanza del 20 giugno 2024. I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa devono essere comunicati ai lavoratori interessati. Tale controllo però deve avvenire direttamente da parte dell’imprenditore o mediante l’organizzazione gerarchica che a lui fa capo. In ogni altro caso, il controllo di terzi non può riguardare l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore, ma deve limitarsi agli atti illeciti dal lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale (si veda anche la sentenza della Cassazione 9167 del 2023, che cita precedenti più risalenti)

LE PRONUNCE

Telepedaggio inutilizzabile per controlli disciplinari

La legittimità dei cosiddetti difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Ne consegue che spetta al datore l’onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l’hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il predetto sospetto consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex articolo 5 della legge 604/1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento. La Cassazione ha confermato la sentenza che, nel pronunciare l’illegittimità di un licenziamento disciplinare, aveva ritenuto inutilizzabili, ai fini probatori, i dati acquisiti dalla società ricorrente attraverso l’apparecchio telepass installato sull’automezzo del lavoratore, non avendo la stessa allegato e provato che l’installazione rientrava tra i cosiddetti controlli difensivi, nei termini esposti, né le specifiche circostanze che l’avevano indotta ad attivare quel tipo controllo tecnologico.

Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 15391 del 3 giugno 2024

Informativa privacy anche per il Telepass

In relazione ai riscontri dei pedaggi autostradali forniti dal sistema di telepedaggio installato sul mezzo affidato al dipendente per svolgere la propria attività lavorativa, ai fini disciplinari, occorre che il datore di lavoro abbia rispettato la disposizione prevista dall’articolo 4, comma 3 della legge 300/1970, che impone – fra gli altri adempimenti – di informare il dipendente anche in materia di privacy. Dunque, in assenza di adeguate informazioni sulle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, risultano inutilizzabili i dati acquisiti dal datore di lavoro in seguito all’utilizzo del Telepass da parte del dipendente, con la conseguenza che non possono avere alcun rilievo, a fini disciplinari, i fatti contestati e ricavati da tali dati. Inoltre, in considerazione della portata della norma, non può sostenersi che l’informazione già fornita al lavoratore per uno degli strumenti consegnati sia sufficiente per tutti quelli ulteriori affidati allo stesso dipendente.

Corte d’appello di Ancona, sezione lavoro, sentenza 121 del 4 maggio 2021

Stop all’uso del rilevatore per ragioni non lavorative

È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che, in qualità di capo zona, abbia ripetutamente omesso i controlli di propria competenza presso i punti vendita della società e usato il telepedaggio aziendale per ragioni extralavorative. Si tratta di un comportamento lesivo del vincolo fiduciario, anche con riguardo al ruolo rivestito dal dipendente e alle modalità, autonome e non soggette a controllo, di svolgimento della prestazione lavorativa.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 10540 del 3 giugno 2020

Controlli difensivi legittimi se c’è un fondato sospetto

La legittimità dei cosiddetti controlli difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Ne consegue che spetta al datore l’onere di allegare e di provare le circostanze che l’hanno indotto al controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il sospetto citato consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione

diretta dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, sia perché incombe sul datore, ex articolo 5 della legge 604/1966, la dimostrazione degli elementi che giustificano il licenziamento.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 18168 del 26 giugno 2023

Sì alla raccolta dei dati solo dopo il fondato sospetto

In tema di sistemi difensivi, sono consentiti, anche dopo la modifica dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori a opera del Dlgs 151/2015, i controlli anche tecnologici messi in atto dal datore di lavoro che siano finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali (correlate alla libertà di iniziativa economica), e il rispetto della tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore, e sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 34092 del12 novembre 2021

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Etichette, regole del Paese in cui il prodotto è venduto

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 2 Ottobre 2024 di Marina Castellaneta

Un prestatore di servizi stabilito in uno Stato membro e che vende prodotti cosmetici in un altro Paese Ue è tenuto a rispettare le regole europee in materia di etichettatura, che impongono l’uso della lingua del Paese in cui il prodotto sarà venduto. Di conseguenza, il prestatore di servizi non può invocare il principio dello Stato di origine e limitarsi a rispettare le regole del Paese in cui è stabilito, anche perché, come chiarito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 19 settembre (causa C-88/23) le norme sull’etichettatura non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/31 sul commercio elettronico.

Sono stati i giudici svedesi a chiedere l’intervento della Corte Ue per un chiarimento sulla direttiva. Al centro della vicenda nazionale vi era una controversia tra una società tedesca, che attraverso il proprio sito web vendeva prodotti cosmetici per il mercato svedese, e una società del Paese scandinavo che si occupa della commercializzazione di prodotti. Quest’ultima aveva citato in giudizio l’azienda tedesca dinanzi al Tribunale della proprietà intellettuale e del commercio svedese per vietare la commercializzazione di prodotti cosmetici che non avevano l’etichetta in lingua svedese. L’azienda tedesca riteneva che tale requisito fosse contrario alla direttiva 2000/31, ma il Tribunale aveva accolto l’istanza dell’azienda svedese e vietato alla società tedesca di commercializzare i prodotti cosmetici senza l’etichetta svedese. La Corte di appello di Stoccolma, prima di pronunciarsi, ha chiamato in aiuto gli eurogiudici.

La direttiva – osserva la Corte – punta a rafforzare la libertà di fornire servizi della società di informazione facendo salva, però, la tutela della salute e dei consumatori. Nel chiarire la nozione di “ambito regolamentato” dalla direttiva, l’articolo 2 precisa che si tratta delle prescrizioni che il prestatore deve soddisfare per l’accesso all’attività e il suo comportamento, nonché la qualità o i contenuti del servizio, escludendo le merci in quanto tali, la consegna e i servizi non prestati per via elettronica. L’articolo 2 non precisa se nella nozione di ambito regolamentato possano essere incluse le prescrizioni sull’etichettatura di prodotti promossi e venduti sul sito Internet. Tuttavia, la Corte, con questa sentenza, ha chiarito che l’etichettatura è un requisito applicabile ai beni in quanto tali e, quindi, gli obblighi ad essa collegati sono esclusi dalla direttiva. Di conseguenza, il prestatore dei servizi sarà sottoposto alle regole della direttiva 2000/31 per talune questioni come i requisiti relativi alla pubblicità online e al commercio elettronico ma, per altri aspetti, come gli obblighi in materia di etichettatura, sarà vincolato da altre disposizioni del diritto dell’Unione, proprio per garantire la tutela del consumatore. Pertanto, conclude la Corte, anche ai prestatori di servizi che operano online vanno applicate le disposizioni del regolamento n. 1223/2009 sui prodotti cosmetici che impongono di fornire informazioni in una lingua comprensibile agli utilizzatori finali.

LE VENDITE SUL WEB

Il prestatore stabilito

Il prestatore di servizi stabilito in uno Stato membro che vende prodotti cosmetici in un altro Paese Ue deve rispettare le regole europee sull’etichettatura, che impongono l’uso della lingua del Paese in cui il prodotto sarà venduto

Lo stato di origine

non è possibile invocare il principio dello Stato di origine e limitarsi a rispettare le regole del Paese in cui ci si stabilisce. La Corte Ue con la sentenza del 19 settembre (causa C-88/23) ha, infatti, chiarito che le norme sull’etichettatura non rientrano nel raggio d’azione della direttiva 2000/31 sul commercio elettronico.

 

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Cessione di opere d’arte al test dell’intento speculativo

11 Ottobre 2024

Il Sole 24 Ore 3 Ottobre 2024 di Antonio Fiorentino Martino Paolo Scarion

La Cassazione è tornata sulla tassazione dei collezionisti di opere d’arte con una sentenza (19363/2024) relativa alla cessione di un Monet, effettuata da un privato a distanza di sette anni dall’acquisto. La plusvalenza generata, oltre cinque milioni, era stata qualificata dalle Entrate come reddito derivante da attività commerciale occasionale, dunque imponibile ai fini Irpef ex articolo 67, comma 1, lettera i), del Tuir. Dalle sentenze di merito emerge che il contribuente si era difeso sostenendo di essere un «mero collezionista privato», e di avere ceduto l’opera con l’intendimento di acquistarne poi un’altra; tuttavia, mentre le sue doglianze erano state accolte in primo grado, i giudici di appello avevano condiviso l’opposta prospettazione delle Entrate.

La Cassazione si è posta nel solco dell’orientamento inaugurato con l’ordinanza 6874/2023. Richiamando la tripartizione ivi introdotta – e ribadita nelle ordinanze 1603 e 1610/2024 –, i giudici di legittimità hanno distinto ancora una volta tra 1) mercante d’arte, 2) collezionista «puro», e 3) collezionista «speculatore occasionale»; quest’ultimo acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle «allo scopo di conseguire un utile» (e dunque agisce con intento speculativo), realizzando redditi riconducibili all’articolo 67, comma 1, lettera i).

Non si tratta di un principio nuovo: già la risposta all’interrogazione parlamentare 5-01718 del 21 marzo 2019 era giunta ad un’analoga conclusione; tuttavia, la sentenza Monet permette di meglio comprendere i presupposti della tassazione. La Cassazione ha ritenuto sussistente l’intento speculativo perché il collezionista aveva incaricato della vendita una casa d’aste, aveva in passato concesso l’opera in esposizione a musei, attività che tradirebbe la volontà di “valorizzarla” in vista della vendita, massimizzando il profitto, aveva realizzato una plusvalenza di ammontare molto elevato, infine aveva compiuto operazioni similari «in periodi antecedenti e successivi» (nonostante l’alienazione dell’opera fosse stata l’unica vendita effettuata nell’annualità accertata).

Le considerazioni della Corte possono in effetti prestarsi a talune obiezioni: ad esempio, l’intermediazione di una casa d’aste, anziché sottintendere un intento speculativo, può essere giustificata dalla mera esigenza di rivolgersi a un operatore esperto e qualificato per la gestione della compravendita. Né appare di per sé significativa l’esposizione dell’opera in mostre o musei.Peraltro, la ricerca delle reali intenzioni del collezionista, siccome non può di certo tradursi in un’indagine di natura psicologica, postula inevitabilmente che l’accertamento sia fondato – come riconosce la sentenza Monet – su presunzioni semplici; ed esse, pur dovendo essere gravi, precise e concordanti, restano sempre liberamente apprezzabili dal giudice. L’analisi in questione, dunque, va svolta caso per caso: ciò genera un contesto caratterizzato da forte incertezza e aleatorietà, tanto più pericoloso se si considera che, al superamento di determinate soglie, gli illeciti fiscali possono anche integrare un reato .

Non può, quindi, più attendere l’attuazione della delega per la riforma fiscale (legge 111/2023. Il nuovo paradigma normativo – per come emerge dal testo della delega (articolo 5, comma 1, lettera h, n. 3) e dalla relazione illustrativa – si discosta dalla complicatissima indagine dell’elemento soggettivo in capo al cedente, ed è invece incentrato su parametri oggettivi: vengono, infatti, predeterminate per legge le fattispecie «in cui è assente l’intento speculativo», e nelle quali, dunque, la plusvalenza non è mai imponibile. Si tratta a) della vendita di beni acquisiti per successione o donazione, oppure b) della permuta di opere, o ancora c) della cessione la cui plusvalenza venga reinvestita entro un certo termine per acquistare nuovi oggetti d’arte (che era proprio quanto aveva sostenuto il contribuente della vicenda Monet nelle proprie difese). In tutte le predette ipotesi l’assenza di una finalità lucrativa, e l’esclusione da tassazione, vengono stabilite per presunzione legale. Nella riforma non sembra, invece, esservi spazio per l’introduzione di un holding period, superato il quale la cessione divenga non imponibile.

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