Categoria: Dall’Italia
Sanzionata per falso in bilancio anche l’omissione sui conti d’ordine
7 Novembre 2022
Il Sole 24 Ore 29 ottobre 2022 di Giovanni Negri
RENDICONTI
La conseguenza è comunque una rappresentazione patrimoniale distorta
Non è determinante il mancato superamento delle soglie di rilevanza
Il falso in bilancio può interessare anche i conti d’ordine, elementi contabili che non rappresentano attività o passività in senso proprio e quindi non incidono sulle soglie di rilevanza penale.
A questa conclusione approda la Cassazione, quinta sezione penale sentenza 36012, con la quale è stata confermata la condanna inflitta al presidente e al vicepresidente del consiglio di amministrazione di una società per azioni. I due amministratori avevano omesso di fornire esatte informazioni sul valore delle partecipazioni detenute nelle loro controllate, incidendo in maniera significativa sulla rappresentazione del patrimonio netto.
Nel procedimento l’accusa aveva valorizzato il fatto che nei conti d’ordine relativi ai bilanci oggetto di contestazione gli amministratori avevano trascurato di indicare il valore delle fideiussioni e delle lettere di patronage concesse a garanzia dei debiti contratti con le banche dalle società partecipate, per oltre 13 milioni.
I conti d’ordine, ricorda la sentenza, secondo la definizione contenuta nel principio contabile n. 22, rappresentano annotazioni di memoria a corredo della situazione patrimoniale-finanziaria esposta nello stato patrimoniale e costituiscono semplici informazioni su operazioni, non suscettibili di incidere sulle soglie di rilevanza penale.
Tuttavia, «pur non influendo quantitativamente sul patrimonio o sul risultato economico dell’esercizio, rappresentano un’informazione essenziale per conoscere lo stato dei reali impegni finanziari della controllante nei confronti delle controllate».
E allora, l’omessa indicazione dell’esatta consistenza degli impegni finanziari infragruppo, «incidendo sul primario interesse della trasparenza», può contribuire a fornire una rappresentazione falsata dell’effettiva consistenza patrimoniale e finanziaria delle singole società.
«Una falsata rappresentazione – osserva la Cassazione – che, a prescindere dalla incidenza o meno sulle soglie quantitative, può assumere comunque rilevanza penale».
Centrale nel ragionamento dei giudici è infatti non tanto il tema delle soglie, improponibile nel contesto specifico, quanto piuttosto quello dell’«alterazione sensibile» previsto dall’articolo 2621 del Codice civile, cui ancorarsi in tutti i casi in cui il dato rigido delle soglie quantitative non appare concretamente praticabile perché manca un risultato di esercizio suscettibile di raffronto e, quindi, di variazione percentuale.
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E-fattura dei forfettari: ravvedimento da valutare per errori o ritardi
7 Novembre 2022
Il Sole 24 Ore 10 Ottobre 2022 di Matteo Balzanelli e Massimo Sirri
DAL 1° OTTOBRE
Dal 1° ottobre anche i forfettari devono rispettare le tempistiche ordinarie per l’emissione delle fatture elettroniche. Eventuali ritardi possono essere sanati con ravvedimento operoso, ma la convenienza delle correzioni spontanee va verificata in base alle singole situazioni. Nel predisporre le e-fatture bisogna anche tenere conto delle specifiche tecniche aggiornate.
Per consentire ai forfettari di adeguarsi alla fattura elettronica, è stato previsto un periodo di moratoria che ha riguardato le operazioni eseguite dal 1° luglio al 30 settembre scorso: l’emissione del documento (e, quindi, la trasmissione via Sdi) poteva avvenire anche oltre i tempi ordinari purché entro il mese successivo a quello di effettuazione. Così, per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a settembre, c’è ancora tempo sino a fine ottobre per provvedere senza sanzioni.
Per le operazioni eseguite dal 1° ottobre si devono invece rispettare i termini ordinari. Per esempio, la fattura per una cessione va emessa entro 12 giorni dalla consegna/spedizione dei beni, fatto salvo il termine più ampio del 15 del mese successivo al ricorrere dei requisiti per la fatturazione differita.
Per coloro che sono rimasti alla carta, invece, le tempistiche sono da sempre quelle ordinarie.
Violazioni, sanzioni e regolarizzazioni
In caso di ritardata o mancata emissione del documento, si applica la sanzione tra il 5 e il 10% dell’imponibile, con un minimo di 500 euro (articolo 6, commi 2 e 4, Dlgs 471/1997). Tuttavia, se la violazione non rileva per la determinazione del reddito, la penalità diventa fissa: da 250 a 2mila euro (articolo 6, comma 2, ultimo periodo, Dlgs 471/1997).
Le sanzioni possono comunque ridursi nell’ipotesi di correzione spontanea dell’errore mediante il ravvedimento operoso. In questo caso, basta emettere il documento (se non già emesso, ancorché tardivamente) e procedere col versamento della sanzione ridotta in funzione del momento in cui interviene la regolarizzazione.
Ma non sempre la regolarizzazione è la strada più conveniente. Infatti, in presenza di più infrazioni si dovrebbe procedere a tante regolarizzazioni quante sono le violazioni commesse, generando quindi un effetto moltiplicativo. Invece, quando le violazioni sono rilevate dall’ufficio si può beneficiare dell’istituto della continuazione, ossia di una sanzione unica (se più favorevole al contribuente) pari a quella più grave, aumentata da 1/4 al doppio (articolo 12, Dlgs 472/1997).
Specifiche tecniche e nuovi controlli
Dal 1° ottobre, poi, anche i forfettari applicano le nuove specifiche tecniche della fattura elettronica (1.7.1 per operazioni B2B e B2C; 1.3.2 per il B2G). La novità più importante è l’introduzione di un nuovo Tipo Documento, il «TD28», da usare in caso di fattura cartacea con addebito d’imposta da parte di soggetti sanmarinesi minori (sono tali quelli con ricavi dell’anno precedente inferiori a 100mila euro), i quali sono esclusi dall’obbligo di fatturazione elettronica.
Il nuovo codice va utilizzato per rispettare l’obbligo di comunicazione dei dati con soggetti non residenti (in altri termini, l’esterometro). Va da sé che, in generale, chi intende gestire i documenti con modalità telematiche può usare il medesimo codice: in questo caso, l’obbligo di comunicazione dei dati risulterebbe assorbito.
Come evidenziato nella guida alla fatturazione elettronica e all’esterometro aggiornata il 30 settembre scorso, il codice «TD19» va usato per assolvere l’Iva ex articolo 17, comma 2, del Dpr 633/1972, nel caso in cui la fattura elettronica ricevuta dall’operatore sammarinese sia senza addebito dell’imposta. In caso di acquisto di beni provenienti da San Marino documentati con e-fattura, l’assolvimento dell’imposta da parte del cessionario residente avviene quindi obbligatoriamente con questo Tipo Documento.
Per i servizi vale il «TD17».
È stato introdotto un nuovo controllo che, se non superato, fa scattare lo scarto del documento (Codice errore «00476»). In particolare, non è ammessa una fattura che riporta contemporaneamente nel Paese dell’identificativo fiscale del cedente/prestatore e del cessionario/committente un valore diverso da IT.
È bene infine ricordare che non tutti i forfettari sono obbligati alla e-fattura. Quelli che nel 2021 non hanno superato la soglia dei 25mila euro di ricavi/compensi, ragguagliati ad anno, possono continuare a gestire il processo di fatturazione in modalità analogica fino a tutto il 2023.
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Il reato di intestazione fittizia dell’immobile è assorbito dal riciclaggio
7 Novembre 2022
Il Sole 24 Ore 11 ottobre 2022 di Patrizia Maciocchi
Condotta composta da più passaggi, il primo dei quali è l’apertura del conto
Il reato di riciclaggio assorbe il trasferimento fraudolento di valori.
La Corte di cassazione (sentenza 38141) accoglie, sul punto, la tesi della ricorrente, condannata per il reato di trasferimento fraudolento di valori e per riciclaggio, aggravato dal danno di rilevante gravità.
Nel mirino dei giudici era finito l’acquisto di un immobile in una località prestigiosa di vacanza. La ricorrente aveva aperto, a proprio nome, un conto corrente delegando il coniuge per le relative operazioni.
In banca era confluito però il denaro provento della bancarotta del marito. Somme con le quali erano state periodicamente pagate al venditore, attraverso trasferimenti dell’istituto di credito, le rate mensili dell’appartamento, fittiziamente intestato alla signora.
Per i giudici di legittimità non ci sono dubbi sul reato di riciclaggio commesso dalla ricorrente in concorso.
Basta l’aver accettato di essere indicata come beneficiario di beni, frutto di attività delittuose, che in realtà appartenevano a terzi . Azione che « pur non concretizzandosi nel compimento di atti dispositivi – scrive la Suprema corte – è comunque idonea a ostacolare e l’identificazione della provenienza del denaro». Nella conferma del reato aveva pesato poi anche il reddito della signora, poco sopra la soglia di sopravvivenza che, neppure unito a quello del marito, giustificava il pagamento di un mutuo di circa 10 mila euro al mese.
Il ricorso è però fondato per quanto riguarda l’assorbimento del reato di trasferimento fraudolento di valori in quello di riciclaggio. Quest’ultimo, infatti, è un reato unico a formazione progressiva e a forma libera. La condotta alla sua base può dunque consistere «anche in una pluralità di distinti atti in sé leciti, realizzati a distanza di tempo l’uno dall’altro, purché unitariamente riconducibili all’obiettivo comune al quale sono finalizzati: ossia l’occultamento della provenienza delittuosa del denaro».
È quanto avvenuto nel caso esaminato, nel quale il riciclaggio è stato messo in atto con più passaggi. Il primo è stato il versamento sul conto corrente del denaro provento della bancarotta.
La fittizia intestazione è stata dunque un segmento dell’articolata condotta di riciclaggio che, considerata la clausola di riserva dell’articolo 512-bis del Codice penale (salvo che il fatto costituisca più grave reato) non può essere sanzionata una seconda volta.
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È reato non dichiarare le somme dalla società non qualificate in bilancio
7 Novembre 2022
Il Sole 24 Ore 21 ottobre 2022 di Laura Ambrosi
Va provata la restituzione di finanziamenti o la distribuzione di dividendi
Commette il reato di dichiarazione infedele il socio che non dichiara tra i propri redditi le somme ricevute dalla società che non siano espressamente qualificate come restituzione di finanziamenti o di distribuzione di dividendi. Determinante a tal fine è il bilancio, in assenza del quale mancano prove univoche della ragione di tali accrediti in favore del socio. Così la Cassazione con la sentenza n. 39766 depositata ieri.
Nei confronti di un contribuente veniva contestato il reato di infedele dichiarazione per avere omesso di indicare nella dichiarazione dei redditi somme ricevute dalla società cui partecipava. Sul punto, entrambi i giudici territoriali confermavano la condanna e pertanto l’imputato ricorreva per cassazione, lamentando l’errata applicazione della norma e comunque il vizio di motivazione.
In particolare, secondo la difesa il giudice di appello non aveva considerato che il denaro ricevuto dall’ente derivava dalla restituzione di finanziamenti precedentemente erogati. Inoltre, anche ove tali somme fossero considerate distribuzione di dividendi occulti, non rilevavano integralmente ai fini dell’imponibile Irpef, bensì, solo in parte.
I giudici di legittimità, richiamando quanto già motivato dalla Corte di appello, hanno innanzitutto rilevato che la mancanza della contabilità della società non consentiva di qualificare i movimenti di denaro.
La distribuzione di utili deve essere preceduta da una delibera di approvazione del bilancio dal quale risulti la loro sussistenza e dalla decisione dei soci di ripartirli anziché destinarli a riserve o altre finalità. I finanziamenti dei soci, invece, che costituiscono passività della società, devono essere provati e iscritti nel bilancio. Tanto è che non tutti i versamenti effettuati da un socio in favore della società si qualificano come finanziamenti. Tali somme potrebbero essere versate in conto capitale o per la restituzione di debiti del socio nei confronti della società.
La qualificazione dipende così dalla volontà negoziale delle parti che, anche in assenza di una manifestazione espressa, può essere verificata nel bilancio, che deve considerarsi determinante. Nella specie, mancavano elementi univoci che consentissero di qualificare i versamenti a favore del socio come rimborsi di finanziamenti ovvero di un’occulta distribuzione di utili.
I numerosi passaggi di denaro tra il socio e la società non risultavano giustificati da una contabilità e non c’era alcuna prova dell’accordo intercorso (se fosse un contratto di finanziamento ovvero di distribuzione di utili). Ne conseguiva così che, in mancanza di elementi che qualificassero la restituzione del finanziamento socio ovvero di distribuzione di utili (occulti), risultavano elementi attivi non dichiarati.
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L’impresa eterodiretta non è fittizia se fa parte di un gruppo societario
7 Novembre 2022
Il Sole 24 Ore 24 ottobre 2022 di Giovanbattista Tona
Può essere considerata un mero schermo se è priva di autonomia strutturale
Non può dirsi né inesistente né fittizia una società solo perché risulta eterodiretta nell’ambito di un gruppo societario. Questo ha stabilito la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 32506 del 5 settembre 2022, nell’ambito di un procedimento per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti.
Dopo il sequestro di alcuni beni all’amministratore di una società in relazione a questa ipotesi di reato, costui aveva sostenuto che le società emittenti erano esistenti e avevano effettiva consistenza e autonomia strutturale; sicché le fatture documentavano operazioni reali effettuate da un ente reale.
Il tribunale del riesame, al quale era stato richiesto l’annullamento del sequestro, aveva invece ritenuto che fosse comunque provata l’amministrazione di fatto di tutte le società da parte dei vertici effettivi di quella in favore della quale erano state emesse le fatture poi utilizzate per la dichiarazione asseritamente fraudolenta.
Quest’ultimo ente avrebbe inglobato e fagocitato società formalmente esistenti e in alcuni casi preesistenti e precedentemente operanti, ma successivamente private della propria autonomia gestionale, in quanto eterodirette dallo stesso gruppo di controllo.
La Corte di cassazione ritiene che questa impostazione sia giuridicamente errata e che l’esistenza di rapporti di “eterodirezione” tra società non rende quelle eterodirette solo per questo degli schermi fittizi. Essa confligge anzitutto con le precise indicazioni fornite dal legislatore in tema di gruppi societari: in particolare, come si evince anche dalla disciplina del Capo IX del Titolo V del Libro V del Codice civile, Capo rubricato «Direzione e coordinamento di società», il potere di eterodirezione della società cosiddetta capogruppo rispetto alle società eterodirette non implica, né determina in alcun modo la fittizietà di queste ultime.
Sicché l’affermazione che una società sia eterodiretta dagli stessi amministratori di quella in favore della quale emette fatture non può bastare a dimostrare che le relative operazioni siano oggettivamente o soggettivamente inesistenti.
Conclude quindi la Cassazione che «per affermare che le operazioni documentate dalle fatture siano state effettuate da un soggetto diverso, è certamente risolutivo evidenziare che l’impresa formalmente emittente sia un mero schermo, e, quindi, un soggetto in realtà inesistente; tale conclusione, però, non è in alcun modo ammissibile quando il soggetto emittente sia solo eterodiretto da altri, ma abbia comunque una sua realtà strutturale».
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Oltre 800mila italiani all’estero finiscono nel mirino del Fisco
6 Ottobre 2022
Il Sole 24 Ore 4 settembre 2022 di Alessandro Galimberti
Caccia agli evasori. Sotto la lente delle Entrate le residenze fittizie nei Paesi black list delle persone fisiche che non hanno mai aderito alla voluntary disclosure. Richiesta la collaborazione dei Comuni
A cinque anni esatti dalla chiusura della seconda finestra di voluntary disclosure (tiepidissimo bis della prima versione del 2015) per i contribuenti ribattezzati «recalcitranti dell’emersione» dal nero internazionale è tempo di bilanci e di carte bollate.
L’agenzia delle Entrate ha infatti aperto sottotraccia un triplo fronte d’attacco per recuperare lo stock di capitali non dichiarati che molti indici (indiretti) ritengono ancora incagliati all’estero. Quello che emerse “spontaneamente” nella prima finestra del 2015 (60 miliardi, solo 15 rimpatriati fisicamente, di cui 4 miliardi versati all’erario) e nella seconda (spiccioli mai quantificati) potrebbe essere solo la punta dell’iceberg in mari che però, dal 2015 ad oggi, hanno chiuso molti porti e aperto molte metaforiche dogane.
Non bastassero infatti i due programmi di emersione volontaria di capitali, la rete internazionale si è stretta a partire dal 2017/18 con l’entrata in vigore dello scambio automatico di informazioni fiscali, arrivato come suggello alle collaborazioni “a richiesta” tra amministrazioni fiscali. Oggi le Entrate stanno dragando tutti questi canali vecchi e nuovi per scovare dove siano finiti i capitali fuggiti dai vecchi paradisi.
La prima lista di contribuenti tecnicamente sospetti è quella degli italiani residenti all’estero. Non tutti, però. L’anagrafe Aire dice che, dati 2021, 5,8 milioni di connazionali risiedono altrove nel mondo: di questi, 839 mila vivono in Stati che il nostro fisco considera ancora “paradiso fiscale” per persone fisiche (si veda tabella sottostante). A carico di ognuno di questi “expat” vale per l’agenzia fiscale il seguente principio (presunzione legale): per noi resti un contribuente italiano fittiziamente trasferito all’estero, dimostra – se riesci – che non è così. Per stanare i finti “expat”, l’agenzia sta chiedendo la collaborazione investigativa degli ultimi comuni di residenza – che, legge alla mano, vengono remunerati in percentuale in caso di riuscita – commissionando verifiche, analizzando forniture, bollette e spostamenti: in sostanza, è lo schema utilizzato negli anni scorsi per le indagini su famosi contribuenti “esterovestiti” dello sport e dello spettacolo.
La parte numericamente grossa di questa lista di expat è rappresentata dalla Svizzera, dove sono registrati 648mila italiani Aire. Caso singolare e molto contestato, quello della Confederazione, perché dal 2015 è diventata un paese pienamente collaborativo e nonostante ciò resta nell’elenco black per le persone fisiche.
Ma a preoccupare chi vive fuori dai patrii confini sono anche, se non soprattutto, altri due filoni di indagine avviati dall’Ucifi (ufficio contrasto illeciti internazionali dell’Agenzia fiscale).
Il primo riguarda le domande di assistenza amministrativa “di gruppo” tra Paesi. Le Entrate hanno puntato i fari sul periodo 2015-2017 (dopo le voluntary e prima dell’entrata a regime dello scambio automatico), chiedendo alle autorità fiscali di vari ex paradisi (Svizzera e Principato di Monaco tra i primi, ma non solo) le liste complete di compatrioti che in quegli anni spostarono o svuotarono o trasferirono da lì i propri conti o i propri soldi. Nonostante le molte resistenze (gli accordi internazionali prevedono l’informazione preventiva al contribuente sotto indagine) e i numerosi ricorsi giudiziari (si veda l’articolo a lato) tutti gli ex paradisi stanno dando corso alle richieste, la cui utilizzabilità processuale – tra l’altro – in Italia è piena e garantita.
Ultimo fronte, non certo però per impatto e importanza, è lo scambio automatico di informazioni fiscali, un flusso semestrale di milioni di dati finanziari iniziato nel 2017 su impulso dell’Ocse e che oggi viaggia attraverso i data base di 110 Paesi, dall’Albania a Vanuatu, (in ordine rigorosamente alfabetico, Usa però auto-esclusi), passando per quasi tutti gli antichi paradisi di vicinato o di mari lontani. Mantenersi offshore, oggi, è diventato avventuroso e soprattutto rischioso. Non ci sono più i paradisi di una volta. E il Fisco lo sa.
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Sempre lecite le operazioni per sfruttare i vantaggi fiscali
6 Ottobre 2022
Il Sole 24 Ore lunedì 5 Settembre 2022 di Dario Deotto e Luigi Lovecchio
Mettersi nelle condizioni di usare un’agevolazione non genera mai elusione
La necessità di valide ragioni economiche rispunta talora nei chiarimenti ufficiali
Il porre in essere operazioni volte a fruire di opportunità e di vantaggi messi a disposizione dall’ordinamento tributario non può configurare ipotesi di abuso del diritto. In questi termini si è più volte espressa l’agenzia delle Entrate, e ciò anche recentemente. Le indicazioni delle Entrate Significativa è la risposta ad interpello n. 165 del 6 aprile 2022, relativa ad una serie di operazioni di riorganizzazione societaria volte a consentire l’opzione per il consolidato fiscale. Nel documento viene specificato che la definizione dell’assetto partecipativo più idoneo ad accedere al regime della tassazione di gruppo non può ritenersi un comportamento elusivo e che l’eventuale risparmio d’imposta derivante dall’accesso al consolidato fiscale nazionale risulta un vantaggio legittimo. Sostanzialmente negli stessi termini si esprime la risposta a interpello n. 301 del 25 maggio scorso che riprende (anch’essa) la “storica” risoluzione 40/E/2018 con la quale venne stabilito che le operazioni di riorganizzazione all’interno di un gruppo societario, al fine di fruire dell’istituto del consolidato domestico, non possono realizzare ipotesi di abuso del diritto quando le società appartenenti al “gruppo” si pongono nelle condizioni di legge per fruire dei vantaggi tributari che il legislatore stesso promuove. Emblematica, nella prospettiva generale del legittimo risparmio d’imposta, risulta la circolare 26/E/2016, in tema di assegnazione agevolata dei beni e trasformazione, sempre agevolata, in società semplice (legge 208/2015): ai fini dell’assegnazione o cessione agevolata occorreva che l’immobile risultasse diverso da quelli strumentali per destinazione, dovendosi verificare tale condizione al momento dell’assegnazione. È stato ritenuto che se un fabbricato veniva utilizzato direttamente dalla società ma poi, prima dell’assegnazione, risultava concesso in locazione, l’immobile potesse essere oggetto di assegnazione agevolata e ciò non poteva costituire ipotesi di abuso del diritto. Sempre in ambito di trasformazione sulla base della legge 208/2015, con risoluzione 101/E/2016, è stato ritenuto perfettamente legittimo il comportamento di una società che – detenendo beni non rientranti nella disciplina agevolata – ha dapprima effettuato una scissione parziale, mantenendo in capo alla scissa i beni non agevolati, provvedendo poi alla trasformazione in società semplice della beneficiaria, fruendo dei vantaggi fiscali previsti dalla disciplina di favore. In definitiva, ciò che emerge da questi documenti di prassi è che se il contribuente, attraverso operazioni legittime, si pone nelle condizioni per fruire di un vantaggio fiscale previsto dalla legge, si configura sempre ipotesi di legittimo risparmio d’imposta e non, invece, di abuso del diritto. L’acquisto dell’1% di quote Va ulteriormente segnalata, apparentemente negli stessi termini, la risposta ad interpello n. 374 del 13 luglio scorso. Vi si afferma che l’acquisto dell’1% della partecipazione in una società, accanto al 50% già detenuto, consente di raggiungere il controllo di diritto e di effettuare un conferimento neutrale ex articolo 177, comma 2, del Tuir senza che si realizzi abuso. Viene però precisato che l’operazione di riassetto societario «sembra diretta a perseguire una più efficiente governance della azienda di famiglia… che costituisce valida ragione economica che giustifica il vantaggio fiscale derivante dall’applicazione dell’articolo 177, comma 2» del Tuir. Ecco, dunque, che riemergono, quasi come un fenomeno “carsico”, le valide ragioni economiche quale elemento in grado di supportare la “bontà” delle operazioni poste in essere. Nel senso che l’assenza delle valide ragioni verrebbe a costituire – come in passato – elemento fondante dell’elusione. Non può essere così: se è l’ordinamento a contemplare un determinato regime fiscale di favore, la scelta del contribuente di avvalersene ponendo in essere i relativi presupposti non configura abuso del diritto, anche se la scelta è stata motivata da esclusive ragioni fiscali. E ciò significa che qui il contribuente non deve giustificare il proprio comportamento adducendo valide ragioni economiche (la sostanza economica) a fondamento dell’operazione, proprio perché l’operazione già trova ragione e giustificazione nel sistema.
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Un errore mette in pericolo l’intero business
6 Ottobre 2022
Il Sole 24 Ore 29 settembre 2022 di Giancarlo Calzetta
IL CASO RETELIT
Il fenomeno della trasformazione digitale ha cambiato il modo in cui i computer vengono usati nelle aziende in maniera così radicale da rivoluzionare l’impatto che gli attacchi informatici hanno sul business. Mentre in passato il computer serviva solo a svolgere più velocemente i compiti che venivano eseguiti a mano, adesso i computer governano i processi aziendali. Ma qualcosa è andato storto. Spesso, infatti, le aziende che hanno iniziato il percorso di trasformazione digitale non sono mai arrivate fino in fondo. Hanno attivato una serie di cambiamenti a livello di business che non sono stati supportati da una trasformazione profonda a livello organizzativo. Il risultato è che se i computer si fermano l’azienda fa altrettanto e mancano delle procedure efficaci di recovery e resilienza. Non è un caso che il cybercrimine stia prosperando, banchettando dove la trasformazione non è stata completata.
«Non si dovrebbe più parlare di sicurezza informatica – dice Francesco Fontana, Chief transformation officer di Retelit, azienda italiana specializzata in progetti di trasformazione digitale – ma di sicurezza del business perché un attacco informatico mina l’operatività e la stessa vita dell’impresa, non solo l’infrastruttura informatica».
In effetti, la sicurezza It dovrebbe essere un tema costantemente all’attenzione del consiglio d’amministrazione. Una violazione informatica ha sicuramente delle conseguenze economiche che possono diventare molto importanti, ma anche una ricaduta negativa sui rapporti con i clienti che vanno a inficiare la posizione sul mercato: una consegna mancata; dati riservati che diventano pubblici; messaggi e report interni che vengono decontestualizzati e recapitati a chi non dovrebbe leggerne; pagamenti effettuati su conti intestati a truffatori. L’elenco potrebbe continuare per giorni, ma il punto è che cadere nelle trappole tese da questi gruppi super organizzati è troppo facile: basta fare un errore perché i pirati ne approfittino per piazzare una testa di ponte nella rete e inizino a esplorare computer e server interni. Ma qui, l’organizzazione interna può fare la differenza.
«Ci capita molto spesso – racconta Fontana – di vedere una scarsa segmentazione della rete, con i dipendenti che hanno accesso a troppe informazioni rispetto al proprio ruolo, oppure rapporti con fornitori particolarmente sensibili che non vengono gestiti con adeguati protocolli di sicurezza e ancora dipendenti che non trattano nella maniera giusta le informazioni riservate, magari parlando al telefono in luoghi affollati di contratti delicati. Tutti elementi che permettono ai criminali di ottenere il massimo dai loro sforzi». Invece, serve una maggiore consapevolezza e una struttura di sicurezza informatica che esuli dall’hardware e dal software, coinvolgendo le persone non solo insegnando loro a non cliccare sui link sbagliati, ma anche a gestire in maniera sensata le informazioni. Un’opera di ampio respiro che ha bisogno di competenze che difficilmente si trovano nelle imprese.
«Trovare la persona giusta per organizzare in maniera orizzontale la sicurezza del business – conclude Fontana – non è facile perché serve qualcuno che entri nelle logiche dell’azienda e riesca a creare un quadro completo di procedure, servizi e competenze che bisogna mettere in campo. La nostra forza è quella di avere personale di grande esperienza in grado di leggere sia i temi tecnologici sia quelli di business per creare un organismo in grado di resistere agli attacchi e limitarne al minimo l’impatto».
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Vecchi paradisi addio, Svizzera e Monaco aprono gli archivi
6 Ottobre 2022
Il Sole 24 Ore 4 settembre 2022 di Valerio Vallefuoco
LA COOPERAZIONE
La cooperazione amministrativa fiscale internazionale ormai è una realtà ineludibile di cui contribuenti e consulenti non possono più non tenere conto. La normativa antiriciclaggio già dal 2012 con le raccomandazioni GAFI-FAFT hanno considerato nel novero dei reati presupposto al riciclaggio e autoriciclaggio i reati tributari rilevanti ai fini delle segnalazioni di operazioni sospette. Inoltre i Paesi non trasparenti e non cooperanti possono essere inseriti nelle cosiddette black list o grey list sempre ai fini antiriciclaggio, inserimento che comporta che tutte le operazioni finanziarie da e per questi Stati vengono considerate ad alto rischio dagli intermediari finanziari e assicurativi. Nemmeno le nuove tecnologie come le criptovalute e gli Nft sfuggono ormai ai controlli antiriciclaggio: tutti gli exchanger e i prestatori di servizi in valuta virtuale comunque denominati sono tenuti alla normativa antiriciclaggio e la compliance fiscale dei portafogli virtuali è uno dei principali requisiti di regolarità.
Gli accordi internazionali sullo scambio di informazioni intanto stanno funzionando, come dimostrano le dinamiche del rapporto tra Italia e Svizzera. L’amministrazione finanziaria della Confederazione e quella italiana scambiano informazioni sulle posizioni finanziarie detenute da specifici contribuenti oltralpe. In particolare la collaborazione è centrata sul periodo immediatamente precedente e successivo alla decorrenza dell’accordo sullo scambio di informazioni su richiesta e “di gruppo” e a quello sullo scambio automatico. Il primo accordo (Protocollo di Milano) è del 23 febbraio 2015 e modifica la Convenzione contro le doppie imposizioni tra i due Stati e della roadmap contestualmente firmata sulle questioni fiscali e finanziarie. Quest’ultima prevedeva la possibilità per l’agenzia delle Entrate di presentare alle autorità svizzere le cosidette richieste di “gruppo” riferite a particolari contribuenti “recalcitranti” che fra la data della firma del Protocollo e l’entrata in vigore dello scambio automatico di informazioni (1° gennaio 2017) avessero assunto comportamenti di ostruzione verso il Fisco italiano. Dando piena attuazione questi accordi l’Agenzia ha effettuato richieste di gruppo riguardante i conti detenuti dai residenti in Italia presso gli istituti bancari elvetici dal 23 febbraio 2015 al 31 dicembre 2016.
L’oggetto della richiesta riguarda tutti i contribuenti che, per eludere o aggirare il futuro scambio automatico di informazioni hanno chiuso i loro conti correnti in Svizzera in tale periodo con prelievi massicci ovvero anche attraverso bonifici internazionali verso Paesi considerati in quel periodo dalla Svizzera non black list (ad esempio, paesi Ue, Emirati Arabi , Hong Kong, Bahamas e Singapore). L’accertamento su questi canali internazionali in Italia è per lo più affidato all’Ufficio per il contrasto degli illeciti internazionali (Ucifi) che sta analizzando tutte le posizioni arrivate e sta controllando tutte le posizioni che non risultano aver aderito alla procedura di voluntary disclosure.
La questione in Svizzera è stata al centro di diversi ricorsi sulla fondatezza della richiesta di informazioni italiana, contestando che era da considerarsi nella sostanza un sorta di richiesta esplorativa di pesca a strascico (fishing expedition). Più volte però il tribunale Federale svizzero (sentenze 2C_904/2015 dell’8 dicembre 2016 e di recente 2C_73/2021 del 27 dicembre 2021) ha respinto tali eccezioni sulla base degli accordi internazionali, sulla rilevanza e pertinenza dei dati richiesti, sulla sufficiente specificità della richiesta e infine sulla circostanza che erano state esaurite tutte le procedure di controllo interno in Italia.
Risulta che simili richieste siano state effettuate anche per lo stato di Monaco, Dubai e diversi altri Stati contenuti nella black list italiana che hanno stipulato accordi di scambio di informazioni del medesimo tenore della Svizzera. Quest’ultima pur cooperando attivamente non è stata ancora espunta dalla black list delle persone fisiche, cosa che è ormai considerata un’anomalia da tutti gli esperti del settore. Alla luce dello stato attuale della cooperazione amministrativa internazionale, pertanto al contribuente “recalcitrante” non rimane che avvalersi delle procedure conciliative spontanee di regolarizzazione previste dal nostro ordinamento che prevedono ancora una riduzione significativa delle sanzioni amministrative e la non punibilità per chi ancora non è stato raggiunto da un accertamento.
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Rinunce ai crediti dei soci da formalizzare con cura per allargare la base Ace
6 Ottobre 2022
Il Sole 24 Ore lunedì 5 settembre 2022 di Fabio Giommoni e Giorgio Gavelli
Serve una comunicazione esplicita altrimenti si genera una sopravvenienza attiva
Secondo la Cassazione, l’enunciazione fa scattare il prelievo del 3 per cento
Per far fronte alla sottocapitalizzazione delle società italiane – aggravata anche dalle perdite causate dalla pandemia – una delle soluzioni più immediate è quella della rinuncia da parte dei soci ai crediti per finanziamenti già erogati alla società per sopperire alle necessità finanziarie di quest’ultima. Tale operazione comporta anche un beneficio ai fini dell’Ace in quanto «la rinuncia incondizionata dei soci al diritto alla restituzione dei crediti verso la società» rileva come incremento del capitale proprio (articolo 5, comma 2, Dm 3 agosto 2017).
L’impatto contabile
Dal punto di vista giuridico si tratta di una remissione di debito (articolo 1236 del Codice civile) che non richiede una forma specifica; tuttavia, la formalizzazione per iscritto della rinuncia è più che opportuna in base alle regole contabili e fiscali. In base al principio Oic 28, se la rinuncia del credito da parte del socio è finalizzata ad un rafforzamento patrimoniale della società (come generalmente avviene), il debito oggetto di rinuncia deve essere contabilmente trasformato in una posta patrimoniale, senza incidere a conto economico.
Il paragrafo 36 del principio contabile dispone che la volontà del socio deve essere desumibile dalle «evidenze disponibili» e dunque occorre una comunicazione scritta in cui il socio esplicitamente rinuncia al credito, indicando le ragioni che stanno alla base di tale decisione. In ambito fiscale la nuova disciplina introdotta dal Dlgs 147/2015 e contenuta nell’articolo 88, comma 4-bis del Tuir, prevede che costituisce sopravvenienza attiva per la società il valore del credito rinunciato per la quota eccedente il valore fiscalmente riconosciuto dello stesso in capo al socio.
Disallineamento da tassare
Poiché la società è estranea alle vicende che hanno comportato l’eventuale disallineamento in capo al socio tra valore nominale e fiscale del credito (ad esempio per acquisto da terzi del credito ad un prezzo inferiore al nominale o per svalutazione deducibile del credito), la norma prevede:
che il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio (Dpr 455/2000), debba comunicare alla società il valore fiscale del credito;
in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero, con la conseguenza che la società beneficiaria assoggetterà a tassazione l’intero importo della sopravvenienza attiva.
Con la risoluzione 124/E/2017 è stato chiarito che queste regole non si applicano ai crediti vantati verso una società partecipata da soggetti non imprenditori (persone fisiche), per i quali non potrebbero sussistere, secondo l’Agenzia, differenze tra valore nominale e fiscale del credito.
Pertanto, il socio persona fisica non esercente attività di impresa non sarebbe tenuto agli obblighi di comunicazione del valore fiscale del credito. È comunque necessaria la formalizzazione per iscritto della rinuncia, anche se va prestata particolare attenzione alle conseguenze che questa potrebbe produrre ai fini dell’imposta di registro.
Il prelievo sull’atto di rinuncia
Infatti, sebbene l’atto di rinuncia al credito dovrebbe scontare, di per sé, imposizione fissa di registro (in quanto assimilato a un conferimento in denaro a favore della società o, comunque, ad un «atto proprio della società»), l’indicazione dell’esistenza di un finanziamento soci (ad esempio in sede di ricostituzione del capitale per perdite) può far scattare l’imposta proporzionale del 3 per cento. Secondo un oramai consolidato orientamento della Cassazione, qualora il contratto di finanziamento (anche se formato per scambio di corrispondenza) sia “enunciato”, ai sensi dell’articolo 22, comma 1, del Dpr 131/1986, in atti soggetti a registrazione in termine fisso (atti pubblici o scritture private), allora si applica l’imposta proporzionale del 3% sull’importo del finanziamento.
È dunque opportuno che la rinuncia al finanziamento sia effettuata esclusivamente per Pec o per scambio di corrispondenza (tassabile solo in caso d’uso), mentre è bene evitare anche il verbale di assemblea ordinaria perché secondo un (isolato) intervento della Cassazione (sentenza 1951/2019) anche l’indicazione in tale atto comporterebbe la tassazione al 3 per cento.
Da tenere presente che tutte queste problematiche si pongono solo nel caso di socio persona fisica non esercente attività di impresa, perché se il socio è un imprenditore il finanziamento rientra nel campo Iva (in regime di esenzione, articolo 10, Dpr 633/1972), per cui opera il principio di alternatività con l’imposta di registro (con conseguente tassazione a imposta fissa).