Nuda proprietà in Spagna, la quota va nel quadro RW

7 Luglio 2022

Il Sole 24 Ore 27 Giugno 2022 di Alfredo e Attilio Calvano (L’esperto Risponde)

Una persona fisica, residente in Italia, riceve nel 2021 – per donazione dalla madre – la quota di un quinto di nuda proprietà di un’abitazione ubicata in Spagna della quale la madre stessa (precedente proprietaria) conserva l’usufrutto.
Questa persona, avendo la sola nuda proprietà della quota di un’abitazione, deve compilare il quadro RW ed è soggetta al pagamento dell’Ivie (imposta sul valore degli immobili all’estero)?

V.A.COMO

Qualora sull’immobile posseduto all’estero siano vantati contestualmente più diritti reali, a titolo di usufrutto e nuda proprietà, la compilazione del quadro RW ai fini del monitoraggio spetta a entrambi i soggetti (in particolare, il nudo proprietario, per quanto qui di interesse, si identificherà con il codice 3 alla colonna 1 del rigo RW1 del quadro pertinente), mentre il pagamento dell’Ivie, calcolata sul valore dell’usufrutto, è dovuto soltanto dall’usufruttuario.

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E-fattura per le cessioni di beni a San Marino: obbligo dal 1° luglio

7 Luglio 2022

Il Sole 24 Ore 27 Giugno 2022 di Giampaolo Giuliani

Dopo nove mesi di regime transitorio, dal 1° luglio sarà operativo il trattato tra l’Italia e San Marino che introduce la fattura elettronica nell’interscambio di beni tra i due Paesi. Perciò, da venerdì prossimo le fatture cartacee potranno essere emesse solo da chi è escluso per legge dall’emissione delle e-fatture: è questo il caso di contribuenti forfettari, che però – sempre dal 1° luglio – potranno continuare a fare fatture cartacee (anche per cessioni di beni verso San Marino) solo a patto di aver percepito nel 2021 ricavi o compensi non superiori a 25mila euro. Per le prestazioni di servizi verso San Marino, invece, resta opzionale la e-fattura con l’utilizzo del numero di identificazione dell’operatore sammarinese e il codice destinatario dell’Ufficio tributario di San Marino – 2R4GTO8. Il Dm 21 giugno 2021, all’articolo 20, prevede infatti che gli operatori stabiliti in Italia, per le prestazioni rese nei confronti degli operatori economici che abbiano comunicato il numero di identificazione agli stessi attribuito dalla Repubblica di San Marino, possono emettere la fattura di cui all’articolo 21, comma 6-bis, lettera b), del Dpr 633/1972, in formato elettronico tramite lo Sdi, il quale la trasmette all’Ufficio tributario per il successivo inoltro al committente. Questa opportunità, però, è limitata alle operazioni fuori campo Iva per carenza del presupposto territoriale. Inoltre – sempre dal 1° luglio – è previsto che la comunicazione delle operazioni transfrontaliere sia effettuata, in via obbligatoria, avvalendosi dello Sdi (il cosiddetto nuovo esterometro). Perciò, anche per tutte le altre operazioni che sono realizzate in favore di operatori e privati sammarinesi sarà necessario emettere la fattura elettronica indicando nel codice destinatario la sequenza di sette caratteri “XXXXXXX” e specificando nel campo partita Iva del «Cessionario/Committente» il codice «OO99999999999» (due volte la lettera O e 11 volte il numero 9); qualora, invece, il cliente sia un privato consumatore, può essere compilato con il codice numerico «0000000» (contenente sette zeri). Tuttavia, in queste due ultime ipotesi la fattura si ferma allo Sdi, dato che quest’ultimo non è in grado di fare l’invio all’Ufficio tributario. In sostanza, le operazioni nei confronti di soggetti passivi residenti a San Marino possono essere divise in due macrocategorie: 1 la prima riguarda le cessioni di beni realmente trasferiti a San Marino (per le quali dal 1° luglio la e-fattura è obbligatoria) e le prestazioni di servizi fuori campo Iva (e-fattura opzionale). Da notare che in entrambi questi casi la fattura elettronica arriva all’operatore sammarinese, in quanto sul documento è indicato il numero identificativo dell’operatore e il codice dell’Ufficio tributario; 2 la seconda categoria raccoglie tutte le altre operazioni quali, ad esempio, le cessioni senza trasferimento dei beni a San Marino, oppure le prestazioni di servizi rilevanti ai fini Iva in Italia. In questi casi la e-fattura può essere emessa e inviata allo Sdi – anzi: deve esserlo ai fini del nuovo esterometro – ma occorre anche trasmettere al cliente sammarinese una fattura di cortesia, dato che questo tipo di fattura elettronica non gli arriva (nulla vieta che questa copia sia inviata, oltre che per posta, mediante una mail o altro sistema elettronico ed in qualsiasi formato, ad esempio pdf o jpg). Acquisti presso operatori sammarinesi Quanto agli acquisti presso operatori sammarinesi, l’operatore italiano potrà ricevere fattura elettronica nel proprio cassetto fiscale solo per i beni trasferiti da San Marino in Italia. Questa e-fattura evita di dover predisporre un documento elettronico per segnalare l’operazione transfrontaliera avvenuta. Tuttavia, potrebbe verificarsi anche l’ipotesi in cui l’acquirente italiano riceva ancora una fattura cartacea, dato che a San Marino gli operatori con ricavi inferiori a 100mila euro non sono obbligati ad emettere fattura elettronica: in questo caso va predisposto il documento elettronico da inviare allo Sdi per segnalare l’operazione transfrontaliera. Servizi resi da operatori sammarinesi Infine, in caso di servizi resi da operatori sammarinesi è sempre obbligatoria da parte dei committenti italiani l’emissione dell’autofattura e la sua doppia registrazione in quanto il Dm 21 giugno 2021 non prevede che gli operatori sammarinesi possano emettere e-fatture per prestazioni di servizi; perciò in questa ipotesi deve essere predisposto il documento elettronico da inviare allo Sdi per comunicare l’operazione transfrontaliera.

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Nuovo esterometro al via ma l’integrazione è un rebus

7 Luglio 2022

Il Sole 24 Ore 20 giugno 2022 di Matteo Balzanelli e Massimo Sirri

Va chiarito se valgono anche le bollette doganali rilasciate da altri Stati Ue

Il Dl Semplificazioni eleva a 5mila euro l’esonero per gli acquisti fuori campo

Metter mano a software e gestionali non è mai cosa semplice. Farlo quando mancano chiare “istruzioni” può duplicare gli interventi (con conseguenti costi) e lascia nell’incertezza gli operatori. Il 1° luglio scatta l’obbligo dell’e-fattura per molti soggetti in regime forfettario (si veda l’articolo a pagina 18), ma – soprattutto – va a regime il nuovo esterometro, con relativo carico di questioni sospese. Molto resta da chiarire e di ciò dovrà tenersi conto quando partiranno i controlli. Vediamo qualche punto (quasi) fermo.

Restano fuori dall’esterometro le operazioni documentate da bolletta doganale (export/import), comprese le cessioni a privati extraUe. C’è però il dubbio se valgano anche le bollette rilasciate da altri Stati membri (questi documenti rilevano per i servizi internazionali; circolare 37/E/2011), come nel caso del soggetto nazionale che immette in libera pratica beni di provenienza extraunionale in altro Stato membro (senza pagare l’Iva – regime 42), facendoli proseguire a destino del cliente in altro paese comunitario cui sono fatturati dalla posizione Iva aperta nel paese d’introduzione dei beni.

Altra questione su cui va fatta definitivamente chiarezza è quella dell’integrazione/autofatturazione elettronica per le operazioni passive. Un acquisto (beni/servizi) in reverse charge interno non obbliga all’integrazione elettronica via Sdi con tipo documento TD16. Si può stampare la fattura e integrarla manualmente.

Ma altrettanto legittimo è adottare lo stesso comportamento – integrazione/autofatturazione analogica – per un acquisto da fornitori non residenti. L’obbligo di utilizzare il formato Xml a fini esterometro, con relative tempistiche d’invio, per un acquisto da non residente (TD17, TD18, TD19) è tutt’altra questione, almeno fintanto che non cambieranno le norme. Su questo punto, le Entrate dovrebbero pronunciarsi presto, anche perché, a seconda che il documento sia elettronico o analogico, cambiano le regole di conservazione.

Al momento, l’unico obbligo d’integrazione elettronica per assolvere l’imposta riguarda l’acquisto di beni da San Marino documentati da e-fattura sammarinese (articolo 8, Dm 21 giugno 2021) per il quale va inviato un TD19. Peraltro, continueranno ad arrivare fatture di carta da quello Stato. Per i servizi ad esempio (salvo diversa scelta del fornitore) o quando il fornitore è un forfettario sammarinese (ricavi inferiori a 100 mila euro). Allo stesso modo, i forfettari nazionali “sotto soglia” continueranno a essere esonerati dall’e-fattura (e conseguentemente dall’esterometro) per tutte le operazioni, comprese le cessioni a San Marino, fino a tutto il 2023.

Permane l’obbligo comunicativo per gli acquisti di beni/servizi all’estero fuori campo Iva (risposta 85/2019), per i quali va trasmesso il documento TD17 (servizi) e TD19 (beni) con natura dell’operazione N2.2 (il Dl Semplificazioni approvato dal Governo esonera gli acquisti fino a 5mila euro, con possibile impatto sul regime 42).

Chi ha aderito al regime Oss non dovrebbe invece fare l’esterometro, a meno che non decida volontariamente di emettere fattura non imponibile Iva per beneficiare del plafond degli esportatori abituali o per accedere al rimborso trimestrale (risposta 802/2021). In tal caso, va fatto l’esterometro e la fattura sarà inviata con codice natura N3.2 (confluendo nella lipe e in dichiarazione annuale), mentre l’imposta estera potrà confluire in campi “non sensibili” del formato Xml. Non dovrebbe tuttavia essere impedito l’utilizzo del codice N7 (che parrebbe il più adeguato), ma verosimilmente solo se la fattura emessa facoltativamente non serve ai menzionati scopi (plafond/rimborso infrannuale).

Il codice N3.2 dovrebbe servire anche per le cessioni intraUe “assimilate” per invio di beni in altri Stati membri per esigenze dell’impresa. Qui, l’obbligo dell’e-fattura dovrebbe derivare dal fatto che il cessionario “assimilato” è pur sempre nazionale, benché dotato di partita Iva nel Paese Ue dove i beni sono trasferiti. Per la successiva “vera” vendita in loco (B2B) si potrebbe invece utilizzare fattura analogica con dicitura “inversione contabile” se in quello Stato è previsto il reverse charge (va però fatto l’esterometro).

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Manager frontaliero con fiscalità svizzera

7 Luglio 2022

Il Sole 24 Ore 7 giugno 2022 di Alessandro Galimberti

L’ad di un gruppo brianzolo con casa e famiglia in Ticino non paga le tasse in Italia

Il fisco italiano non può avere pretese sul manager frontaliero con casa e famiglia in Canton Ticino e con carica di amministratore delegato in un’azienda brianzola a pochi chilometri dal confine. Nonostante il centro di affari e le fonti di reddito del (presunto) contribuente siano completamente riferibili alla giurisdizione italiana, i criteri di appartenenza dettati dalla Convenzione dell’Ocse e da quella sulle doppie imposizioni sottoscritta tra Roma e Berna, corredati dalla giurisprudenza nazionale, portano dritto all’erario svizzero.

La Corte di cassazione (V Civile, ordinanza 18009/22, depositata ieri) torna ancora una volta sulla delicata questione di vicinato geografico, linguistico e fiscale tra il nord della Lombardia e il Sottoceneri del cantone italofono, per ribadire la prevalenza dei criteri oggettivi di individuazione tributaria rispetto a facili suggestioni argomentative.

Il caso, che si riferisce ad accertamenti ormai più che ventennali (1999-2004) tenuti in vita da ripetuti gradi di giudizio, riguardava un dirigente poi ad di un noto marchio manifatturiero della Brianza d’arredo. Secondo l’Ufficio, che pure era già stato disatteso da tutte le Commissioni tributarie adite, il centro d’affari del manager e le sue entrate italianissime dovrebbero guidare l’interprete, senza dimenticare che l’inserimento della Svizzera (tuttora sopravvivente) nella black list del Dm 4 maggio ’90 comporta un’inversione dell’onere della prova, appunto, presuntiva. Il (mancato) contribuente proprio per questo aveva allegato l’iscrizione all’Aire, il contratto di mutuo d’acquisto della casa di abitazione in Ticino, la scuola frequentata dal figlio (Zurigo) e il posto di lavoro della moglie (Lugano), infine le bollette per utenze. Sufficiente per le Ct, ma non per l’agenzia fiscale italiana.

Il domicilio secondo la Cassazione si determina non solo – come sostenuto dall’Ufficio nel ricorso -in base alla sede principale degli affari e degli interessi economici, ma anche (e con peso quantomeno equivalente) laddove il cittadino/contribuente coltiva le sue relazioni personali «dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche di quelli personali» (Cassazione 6081/19 e 29576/11, tra le altre).

Le censure dell’ordinanza colpiscono poi direttamente anche la apodittica esclusione, operata dalle Entrate nei suoi ricorsi, dei dettami della Convenzione Ocse (paragrafo 4) per la determinazione e per la risoluzione dei casi controversi – criteri peraltro trasfusi nella Convenzione italo svizzera contro le doppie imposizioni, ratificata con la legge 943/78. In caso di residenza «di fatto» in entrambi gli Stati, secondo le Convenzioni, prevale la giurisdizione di quello in cui c’è l’abitazione permanente, e se anche questo criterio non basta (perché non risolutivo) si passa a quello dove sono gli «interessi vitali» e infine, in caso di persistente parità e come ultima ratio, laddove la persona «soggiorna abitualmente».

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Sul monitoraggio nel quadro RW pesa il precedente spagnolo

13 Giugno 2022

Il Sole 24 Ore 9 maggio 2022 di Dario Deotto Luigi Lovecchio

La Corte Ue ha bocciato una normativa iberica simile a quella italiana

Il principio di proporzionalità non si “coniuga”, evidentemente, soltanto in termini sanzionatori: esso impone la congruità del mezzo al fine, cioè la realizzazione ai fini unionali e interni con il minor sacrificio degli interessi contrapposti. L’interesse finanziario dello Stato deve arrecare il minimo danno possibile agli interessi dei contribuenti. In quest’ottica occorre verificare se tutto ciò che ruota attorno all’adempimento del quadro RW italiano risulta conforme al principio di proporzionalità.

A tale riguardo, va ricordata la denuncia 14 del 2019 dell’Aidc che ha messo in luce come gli obblighi nazionali di monitoraggio delle attività detenute all’estero confliggono sia con il principio di libertà dei movimenti di capitale sia con quello di proporzionalità. Con riferimento a quest’ultimo, è stato rilevato come la normativa italiana imponga adempimenti e sanzioni che eccedono quanto indispensabile per garantire la tutela degli interessi erariali. In particolare, è stato osservato come l’esigenza di garantire l’efficacia dei controlli fiscali non risulta giustificata quando esistono con l’altro Stato – specie quando si tratta di un Paese Ue – efficaci sistemi di scambio d’informazioni.

Sui termini della questione va segnalata anche la recente sentenza del 27 gennaio 2022, C-788/2019, con la quale la Corte di giustizia ha stabilito che la normativa nazionale spagnola che obbliga i soggetti fiscalmente residenti in Spagna a dichiarare i loro beni o i loro diritti situati all’estero è contraria al diritto dell’Unione in quanto non conforme al principio di proporzionalità e a quello della libera circolazione dei capitali.

Relativamente al principio di proporzionalità, la Corte di giustizia ha stabilito che la normativa spagnola non risulta conforme, considerato che eccede quanto necessario sia in relazione ai termini di prescrizione che alla misura della penalità proporzionale nonché con riguardo alle previste sanzioni forfettarie, il cui importo non è commisurato alle penalità previste per infrazioni simili. In particolare, la Corte ha evidenziato come non rispetti il principio di proporzionalità la presunzione spagnola che stabilisce che si considerano plusvalenze patrimoniali non dichiarate le somme corrispondenti al valore dei beni non indicate nel “modello 720” (dichiarazione spagnola che prevede la comunicazione dei conti ubicati all’estero nonché di immobili, titoli, beni, titoli o diritti rappresentativi del capitale sociale, fondi propri o beni di qualsiasi tipo di entità, assicurazioni, depositati o ubicati all’estero).

Parimenti non rispettosa del principio di proporzionalità è stata ritenuta la sanzione spagnola del 150% (determinata sull’imposta calcolata sulle somme detenute all’estero), considerata molto elevata, che sommandosi ad altra di carattere forfettario, viene ritenuta che arrechi un pregiudizio sproporzionato alla libera circolazione dei capitali. Lo stesso viene stabilito per le sanzioni formali di carattere forfettario, il cui importo non risulta commisurato alle penalità previste per infrazioni simili nel contesto nazionale spagnolo.

Va notato che la normativa spagnola risulta molto prossima a quella italiana del Dl 167/1990 e a quella prevista dall’articolo 12 del Dl 78/2009.

Sicché è da condividere la tesi che le disposizioni italiane sul monitoraggio fiscale, oltre che le conseguenze previste nel caso di violazione degli obblighi di monitoraggio in relazione alle attività detenute nei Paesi “black list”, risultino in contrasto con il principio di proporzionalità. Quanto alle attività detenute nei Paesi “black list”, occorre rilevare che, oltre alla sanzione dal 6 al 30% delle attività non dichiarate, la normativa dispone la presunzione (difficilmente contrastabile) in base alla quale tali attività si ritengono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia (articolo 12 del Dl 78/2009). Presunzione per la quale i termini decadenziali di accertamento vengono raddoppiati (per l’infedeltà dichiarativa si arriva dunque al 31 dicembre del decimo anno successivo); così come raddoppiate risultano le sanzioni ordinariamente applicabili dell’articolo 1 del Dlgs 471/1997 (sempre per l’infedeltà, la sanzione risulta quindi dal 180 al 360% della maggiore imposta).

Si tratta di misure che non appaiono giustificate, che sembrano eccedere quanto necessario per garantire l’efficacia dei controlli fiscali e per contrastare l’evasione e l’elusione fiscale.

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Esclusa l’esterovestizione se la società dimostra che l’attività è effettiva

13 Giugno 2022

Il Sole 24 Ore 9 maggio 2022 di Davide Settembre

Tra le prove il certificato dell’autorità tedesca e i viaggi in Germania

La presenza di un insediamento effettivo all’estero così come lo svolgimento in quel territorio di un’attività economica reale sono elementi idonei a escludere un fenomeno di esterovestizione. È quanto hanno stabilito i giudici della Ctp di Macerata con la sentenza 26/1/2022 (presidente e relatore Fazzini).

Nel caso esaminato la guardia di Finanza aveva emesso un Pvc a carico di una società, a seguito di una attività di indagine di polizia giudiziaria svolta nell’ambito di un procedimento penale a carico del rappresentante legale per il reato di omessa presentazione della dichiarazione (articolo 5, Dlgs 74/2000). In particolare, i verbalizzanti erano giunti alla conclusione che la società avesse una struttura e fosse operativa in Italia, ma che avesse dichiarato di avere la sede legale in Germania con il fine di sfruttare una legislazione fiscale più vantaggiosa rispetto a quella nazionale.

A seguito di tale verifica erano stati emessi tre atti di accertamento (in relazione a tre diverse annualità) che erano stati impugnati dalla società.

Il ricorso è stato accolto dai giudici marchigiani che hanno in primis ricordato che, per la Corte di cassazione con il termine esterovestizione «si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare, in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale…» (sentenza 15424/21). In tali casi, pertanto, la residenza fiscale nello Stato estero sarebbe dichiarata solo per beneficiare di un regime fiscale più appetibile in assenza di «un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale».

Tuttavia, nel caso in esame i giudici hanno ritenuto che la scelta di costituire la società all’estero apparisse del tutto lontana dall’intento di usufruire di un regime fiscale più vantaggioso. Infatti, la ricorrente aveva prodotto in giudizio il certificato rilasciato dall’autorità fiscale tedesca dal quale si evinceva che la società era fiscalmente residente in Germania e che in tale Stato fosse presente anche la direzione dell’impresa. Secondo i giudici, la valenza probatoria di tale documentazione non poteva essere trascurata e ciò avrebbe dovuto almeno condurre l’ufficio ad approfondire la situazione esistente in Germania, verifica che però è stata omessa.

Nella sentenza si evidenzia che il rappresentante legale si recava in Germania per lunghi periodi, a dimostrazione del fatto che l’attività della società fosse essenzialmente svolta in tale territorio. In definitiva, per i giudici esistevano nel caso in esame sia un insediamento effettivo della società all’estero che lo svolgimento di un’attività economica reale, e pertanto non vi erano elementi per ritenere che la scelta di costituire la società in tale territorio fosse stata fatta per fruire di un regime fiscale più vantaggioso.

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Contraffazione di alta moda Amazon non responsabile

13 Giugno 2022

Il Sole 24 Ore 3 giugno 2022 di Alessandro Galimberti

Le finte scarpe Loubutin «non associabili» al marchio della nota società americana

Ma la giurisprudenza Usa e i nuovi regolamenti Ue muovono in altra direzione

Suola rossa.  Il «marchio» Louboutin ADOBESTOCK

L’intermediario digitale non deve essere considerato responsabile per la vendita di prodotti contraffatti nel proprio marketplace se non ha creato le condizioni perché il cliente creda di acquistare da lui e non invece dal contraffattore. Sono le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia Ue nella doppia causa intentata da Christian Louboutin – lo stilista francese delle note décolleté a suola rossa – ad Amazon, considerata (cor)responsabile della messa in commercio digitale e non autorizzata delle famose quanto ambìte scarpe.

Il tema affrontato dall’Avvocato generale Maciej Szpunar, per quanto non vincolante nella decisione futura della Corte, è particolare per il ruolo del convenuto (Amazon), non è nuovo per l’approccio scelto del magistrato e comunque è alla vigilia di due regolamenti europei che potrebbero cambiare sensibilmente le regole del gioco.

Amazon ha infatti varie nature, almeno due: è un marketplace – e quindi un luogo di intermediazione tra venditore e acquirente – ma è anche un venditore di prodotti a proprio marchio. E giusto in questo spiraglio di potenziale ambiguità, agli occhi del compratore, si è mossa l’analisi del magistrato europeo, le cui conclusioni – per il caso specifico – sono che un navigatore mediamente preparato capisce di stare acquistando un prodotto “non Amazon”, ma solo intermediato da Amazon. Da qui l’esenzione di responsabilità per un intermediario che – almeno fino a prova contraria – non aveva consapevolezza di quanto stava accadendo, e per legge non ha neppure un dovere di vigilanza attiva su tutto ciò che avviene nel suo spazio virtuale.

Tuttavia questa applicazione canonica delle regole sul commercio elettronico in vigore da 20 anni, cioè la generale «non responsabilità» del fornitore dei servizi di rete, in particolare per i marketplace, sta vedendo da tempo qualche incrinatura. Due anni fa un giudice della Corte d’appello della California (Cal. Ct. App., 4th Dist., D075738 – Bolger vs Amazon.com Inc.) aveva ritenuto Amazon responsabile per un prodotto difettoso comprato da un utente (una batteria per laptop esplosa per surriscaldamento, con danni immaginabili). Secondo il giudice se il gestore di una piattaforma diventa «parte» della attività ne assume oneri e onori. Amazon.com sarebbe così a tutti gli effetti un elemento (fondamentale) del processo di vendita produttore-utente finale, gestendo in via esclusiva la comunicazione con il cliente, la messa a disposizione del prodotto, la logistica della consegna, il pagamento e la “garanzia dalla A alla Z”. Dunque il suo ruolo «implica un’autonoma responsabilità».

E proprio in questo nuovo approccio continentale di rendere internet uno spazio «trasparente e sicuro» si sta muovendo il regolatore europeo con il Digital Service Act e con il Digital Market Act, due regolamenti ormai prossimi all’entrata in vigore, dopo aver recentemente visto raggiungere anche l’accordo politico tra i 27.

La “perdita d’innocenza” degli intermediari digitali è chiaramente espressa nella norma del Dsa secondo cui se una piattaforma online consente ai consumatori di concludere contratti a distanza con operatori commerciali, la stessa deve preventivamente e obbligatoriamente raccogliere una serie di dati anagrafici/commerciali dell’impresa , e poi anche verificarne la verità. Altrimenti rischia di essere considerata “complice”.

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La piena disponibilità del server configura la sede fissa

13 Giugno 2022

Il Sole 24 Ore 21 maggio 2022 di Marco Piazza

Abrogata la disciplina italiana, contestazioni con margini di opinabilità

Da quanto si desume dal comunicato diffuso dalla Procura di Milano (si veda l’articolo a lato), magistrati e contribuente hanno condiviso la conclusione che la disponibilità di una rete di server utilizzati in esclusiva nel territorio dello Stato per fornire un servizio di streaming alla clientela italiana costituisce una stabile organizzazione materiale idonea a produrre un reddito imponibile nel nostro Paese.

Non ci sono però ulteriori informazioni sulle caratteristiche dell’infrastruttura italiana e – considerato che le motivazioni dell’atto di adesione non sono pubbliche – è improbabile che dalla notizia di stampa possano trarsi elementi utili per migliorare le conoscenze sulla nozione di «stabile organizzazione materiale» se non quella, molto importante, che i rischi di subire un accertamento, con le relative conseguenze anche penali, sono molto alti.

L’accertamento, viene riferito, è relativo ai periodi d’imposta 2015-2019. Fino al 2017 l’articolo 162 del Testo unico conteneva una definizione di «stabile organizzazione» sostanzialmente conforme al modello Ocse con una particolarità: il comma 5 stabiliva che «non costituisce di per sé stabile organizzazione la disponibilità a qualsiasi titolo di elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi».

Questo comma, introdotto con la riforma fiscale del 2003, pareva avere la portata di differenziare la definizione italiana di stabile organizzazione da quella del Commentario al Modello di convenzione Ocse. Il Commentario, infatti, nella parte relativa al commercio elettronico (paragrafi 122 e seguenti sub. articolo 5) afferma che è possibile ritenere che una impresa che opera nel territorio dello Stato per mezzo di apparecchiature elettroniche vi abbia una stabile organizzazione anche se non utilizza personale. Tuttavia, esclude che vi sia stabile organizzazione se le funzioni svolte dall’infrastruttura tecnologica nel territorio dello Stato sono solo preparatorie e ausiliarie. Ove, invece, tali funzioni costituiscano di per sé una parte essenziale e significativa dell’attività dell’impresa nel suo complesso, queste andrebbero al di là delle attività ausiliarie e costituirebbero «stabile organizzazione» (paragrafo 129).

L’agenzia delle Entrate, però, ha immediatamente ricondotto l’ambito applicativo del comma 5 dell’articolo 162 nell’alveo del Commentario. Già nella risoluzione 119/E del 2007 veniva, infatti, precisato che il comma 5 – recependo, sostanzialmente, l’orientamento dell’Ocse – ha lo scopo di precisare che, ai fini della configurazione della stabile organizzazione è necessaria la piena ed esclusiva disponibilità dell’apparecchiatura da parte del soggetto non residente per un periodo tale da configurare il presupposto della fissità e lo svolgimento attraverso di essa di attività ritenute principali nell’ambito dell’attività complessiva dell’impresa, restando esclusa la sussistenza della stabile organizzazione quando «l’attività della sede fissa nel suo insieme (…) abbia carattere preparatorio o ausiliare».

La mera disponibilità di apparecchiature elettroniche, quindi, non configura stabile organizzazione; ma la loro piena ed esclusiva disponibilità, la stabilità della presenza in Italia e lo svolgimento, in Italia, dell’attività tipica attraverso tali apparecchiature comporta l’insorgere della sede fissa, con le relative conseguenze.

Dal 2018 il comma 5 dell’articolo 162 è stato del tutto abrogato e la materia continua a essere molto scivolosa perché richiede accertamenti di fatto caratterizzati da forte opinabilità.

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Non scatta la ritenuta sul relatore dall’estero in modalità online

13 Giugno 2022

Il Sole 24 Ore 18 maggio 2022 di Marco Piazza

L’attività svolta configura una prestazione professionale

I compensi percepiti da un relatore non residente per essere intervenuto in videoconferenza dall’estero in un convegno organizzato in Italia e per la cessione all’organizzatore del materiale didattico prodotto nel corso del convegno non sono tassabili in Italia perché sono corrisposti a fronte di una prestazione professionale e non per la cessione di diritto di sfruttamento di know-how. Inoltre, l’attività del relatore non è svolta nel territorio italiano. Lo conferma la risposta a interpello 266/2022 delle Entrate.

Nel caso oggetto del quesito il relatore percepisce un compenso comprensivo anche del materiale didattico ceduto all’organizzatore affinché questi possa farne uso attraverso i social media e le piattaforme social in maniera separata o con altri lavori.

Nessun dubbio sul fatto che la prestazione del relatore non residente rientri fra le attività di lavoro autonomo tassabili in Italia solo se prestate nel territorio dello Stato ex articolo 23, comma 1, lettera d) del Tuir (come da tempo precisato, fra le altre, dalla risoluzione 12/1247 del 30 dicembre 1977).

Viene però confermato che il collegamento in video conferenza dall’estero non equivale a svolgimento dell’attività in Italia. Il compenso, quindi, resta escluso da tassazione in Italia.

Per completezza va ricordato che anche nel caso di presenza fisica in Italia, ove il professionista sia residente in un o Stato con il quale l’Italia ha una convenzione contro le doppie imposizioni, il compenso è di norma escluso da imposizione per effetto dell’articolo del trattato relativo alla tassazione delle attività professionali (di norma l’articolo 14) che tassa questi redditi nello Stato in cui è svolta la prestazione solo se il contribuente vi ha una base fissa (risoluzione III-5-225 dell’11 agosto 1994; risposta n. 352 del 2019); il provento, in questo caso, è soggetto a ritenuta d’acconto e concorre a formare l’imponibile complessivo, al netto dei costi imputabili alla base fissa tassabile in Italia (risoluzione 154/E dell’11 giugno 2009; risoluzione 512 del 2019).

Il quesito, in realtà, era incentrato sulla cessione del materiale didattico, essendo sorto il dubbio che il compenso erogato al relatore fosse in tutto o in parte attratto fra quelli per la concessione del diritto di utilizzare opere dell’ingegno o di informazioni scientifiche e quindi tassabile in Italia, in base all’articolo 23, comma 2, lettera c) del Testo unico, per il solo fatto di essere dovuto da un residente.

L’Agenzia lo esclude, perché la cessione del materiale non è suscettibile di uno sfruttamento economico da parte del cessionario che gli consenta di ricavare un beneficio, a fronte del quale corrisponde una royalty.

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Le regole temporanee per i soci «qualificati» terminano nel 2022

13 Giugno 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 16 maggio 2022 di Giorgio Gavelli Fabio Giommoni

Il prelievo sugli utili fino al 2007 e ante-2017 è più basso della ritenuta al 26%

La legge di Bilancio 2018 (comma 1005 della legge 205/2017) ha disposto la tassazione degli utili percepiti da persone fisiche, a partire dal 1° gennaio 2018, mediante applicazione di una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 26% (salvo i dividendi da Paesi «black list»), indistintamente per i possessori di partecipazione qualificate e non qualificate.

Il comma 1006 della manovra ha tuttavia previsto una disciplina transitoria, in base alla quale alle distribuzioni di dividendi derivanti da partecipazioni qualificate e relativi a utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017, deliberati dal 1° gennaio 2018 e fino al 31 dicembre 2022, continua ad applicarsi il regime di tassazione preesistente, cioè quello che prevede che i dividendi percepiti da persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa concorrono, sia pure in parte, alla formazione del reddito Irpef del socio.

In particolare, concorrono nella misura del 40% i dividendi relativi a utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2007; nella misura del 49,72% gli utili prodotti a partire dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007; nella misura del 58,14% gli utili prodotti a partire dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2016 (e fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017, perché poi scatta la nuova tassazione «secca»).

Considerate dette percentuali e tenuto conto delle aliquote Irpef vigenti comprese le addizionali locali (si supponga un’aliquota massima complessiva del 45%), la tassazione degli utili fino al 2007 e quelli ante 2017 si presenta conveniente in confronto alla ritenuta del 26% (con detta aliquota Irpef del 45% si avrebbe, infatti, una tassazione finale, rispettivamente, del 18% e del 22,37%). Invece, per gli utili 2017 la situazione è sostanzialmente neutra (con l’aliquota Irpef del 45% si avrebbe una tassazione netta del 26,16%, in linea con la ritenuta).

Da tenere presente che, secondo alcuni uffici periferici delle Entrate (interpello Dre Lombardia 904-1168/2019 e interpello Dre Emilia-Romagna 909-721/19) la disciplina transitoria di cui al comma 1006 si applica solo nell’ipotesi di delibere di distribuzione di utili e non anche ai redditi di capitale derivanti dalla liquidazione della partecipazione a seguito di recesso ed esclusione del socio, morte del socio, riduzione del capitale o liquidazione della società (articolo 47, comma 7, Tuir).

In tali casi il reddito di capitale, pari alla differenza tra la somma ricevuta (o il valore normale del bene assegnato) e il costo fiscale della partecipazione annullata, anche per i soci qualificati sconterebbe unicamente la ritenuta a titolo di imposta del 26% (anche perché la somma attribuita al socio in tali occasioni sarebbe difficilmente ricollegabile a una precisa stratificazione di utili formatasi nel tempo).

Doing business in San Marino

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