Decisivi sede, oggetto dell’attività, amministrazione

11 Maggio 2022

RESIDENZA, CFC E TRANSFER PRICING

Le Guide del Sole 13 aprile 2022 di Luca Gaiani

RESIDENZA EFFETTIVA

Società estere al test della residenza effettiva. Per evitare di dover fare i conti con il fisco italiano, non basta che la sede legale statutaria sia oltrefrontiera, ma occorre individuare, in termini sostanziali, dove si colloca la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale.

Residenza e tassazione worldwide

Individuare la residenza fiscale (italiana o estera) di un contribuente assume una particolare rilevanza per stabilire le modalità impositive del reddito: i contribuenti residenti (persone fisiche o società) devono assoggettare a imposta in Italia i redditi che essi hanno prodotto ovunque nel mondo. I soggetti fiscalmente esteri, invece, devono tassare nel nostro paese (mediante dichiarazione oppure subendo la ritenuta alla fonte) solo i redditi che si considerano ivi prodotti in base alle regole di territorialità indicate nell’articolo 23 del Tuir.

La residenza fiscale delle società e degli enti soggetti a Ires è disciplinata dall’articolo 73 del Tuir. Per le società di persone, regole analoghe sono indicate dall’articolo 5, lettera d). Va ricordato che le società personali (o comunque le società trasparenti, come ad esempio le Llc statunitensi) con sede estera seguono, in Italia, le disposizioni previste per le società di capitali: esse sono dunque contribuenti opachi, pagano l’Ires sui redditi prodotti nel nostro paese, sicché al socio italiano sono attribuiti soltanto gli utili distribuiti (quali redditi di capitale).

Le società si considerano residenti in Italia qualora, per la maggior parte del periodo di imposta, si trovi in Italia anche uno solo dei seguenti tre elementi: sede legale, sede dell’amministrazione, oggetto dell’attività.

La regola dei 183 giorni

Il criterio di prevalenza temporale fa sì che laddove la società abbia trasferito o mantenuto la sua residenza (e dunque uno o più dei tre elementi) in Italia da una data antecedente al 2 luglio, essa si considererà fiscalmente residente per l’intero anno d’imposta, dovendo tassare con le regole interne (bilancio e dichiarazione) anche i redditi realizzati nel primo semestre dell’esercizio.

Individuare la localizzazione del primo elemento (sede legale) non solleva criticità: va considerato ciò che risulta formalmente dallo statuto e dagli atti sociali.

La sede dell’amministrazione, che è il punto focale delle verifiche in materia di esterovestizione, è da intendersi, come indicato dalla giurisprudenza più recente (Cassazione, 24872/2020 e 6476/2021), come sede effettiva (concetto di matrice civilistica) cioè il luogo in cui si svolgono in concreto le assemblee e le adunanze degli organi direttivi e nel quale, dunque, si assumono le scelte strategiche in vista del compimento degli affari. In sede ispettiva (si veda la circolare della Guardia di finanza, 1/2018) si presta particolare attenzione alla residenza degli amministratori (che non è un indicatore previsto dalla legge), nel presupposto che se tutti gli amministratori (o la maggioranza di essi) sono italiani è ragionevole ritenere che le decisioni siano prese nel nostro paese.

Amministratori esteri

In presenza di amministratori italiani, è allora necessario, per avvalorare la residenza estera, che tutte le riunioni si tengano oltreconfine e che ciò sia confermato dai documenti di viaggio e di soggiorno (con l’eccezione del periodo pandemico nel quale le riunioni si sono realizzate in videoconferenza).

Se gli amministratori sono residenti all’estero, gli uffici tendono poi a verificare se essi hanno adeguati poteri (e compensi) per la gestione ovvero se si tratta, invece, di professionisti che, secondo accordi fiduciari, eseguono sistematicamente decisioni assunte in Italia. Per dimostrare la sede effettiva estera, è poi necessario (ma non sufficiente) che l’operatività aziendale giorno per giorno sia in mano a persone in loco e che dunque l’organizzazione dei processi produttivi e di vendita non sia invece teleguidata dall’Italia. Indicazioni a tal fine si possono trarre dal luogo in cui sono stati conclusi e sottoscritti (anche mediante gli scambi di e-mail) i contratti rilevanti per l’attività della società. Attenzione, però, il centro delle decisioni sulla gestione non coincide sempre con l’attività di direzione e coordinamento svolta in base all’articolo 2497 del Codice civile da una controllante italiana. Ciò che rileva, cioè, non sono le linee guida dell’attività aziendale dettate dalla casa-madre, ma le effettive decisioni gestionali, le quali, soprattutto nelle entità operative, devono essere in mano a persone operanti all’estero.

Alcune recenti sentenze hanno escluso la residenza italiana in base alla mera localizzazione italiana del centro di direzione della attività (sede effettiva) in presenza di strutture estere che ivi esercitano una reale attività commerciale (Cassazione penale 43809/2015).

Dove è situato l’oggetto

Il terzo elemento da indagare è il luogo in cui è collocato l’oggetto della società. Indagine generalmente semplice per attività industriali e commerciali tradizionali (che richiedono stabilimenti, uffici, magazzini, personale), che solleva invece dubbi interpretativi per società non operative, quali le immobiliari di gestione e le holding.

Per le immobiliari, il possesso di fabbricati situati, in prevalenza, nel nostro paese è tale da far scattare, secondo la prevalente dottrina, la residenza fiscale italiana anche se la direzione (e dunque la gestione dei contratti di locazione) è situata all’estero. Per le holding (ferma restando la norma specifica descritta nelle pagine seguenti), invece, il possesso da parte dell’entità estera di azioni di società italiane non è tale da far considerare automaticamente situato in Italia l’oggetto della attività.

Holding con sedi estere: vale ogni mezzo per dimostrare il radicamento fuori dall’Italia

Presunzione di residenza, salvo prova contraria, per le holding caratterizzate dal cosiddetto doppio controllo. La legge considera fiscalmente italiane le società con sede estera che, ad un tempo, controllano società di capitali e sono controllate o in prevalenza amministrate da contribuenti residenti nel nostro paese. Con la contestazione di esterovestizione, scattano gli accertamenti per il reddito non dichiarato, ma anche per gli adempimenti omessi in qualità di sostituti di imposta e eventualmente di Iva.

Il test del doppio controllo

L’articolo 73, comma 5-bis, del Tuir colloca presuntivamente in Italia (salvo prova contraria) la sede dell’amministrazione delle società estere che rispettano congiuntamente due condizioni:

detengono direttamente (anche per il tramite di società fiduciarie) partecipazioni di controllo in base all’articolo 2359, comma 1 del Codice civile società di capitali o enti residenti in Italia (controllo attivo);

sono controllate anche indirettamente (sempre in base all’articolo 2359, comma 1, del Codice civile) da contribuenti italiani (controllo passivo), oppure sono amministrate da un organo in prevalenza composto da persone residenti in Italia.

Il test del doppio controllo va effettuato verificando la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio della società estera e cumulando, quanto al controllo passivo, i voti spettanti ai familiari indicati nell’articolo 5, comma 5, del Tuir. Il controllo attivo rileva, in base alla norma, solo se la partecipazione che la società estera detiene nella Srl o nella Spa italiana è diretta, mentre per il controllo passivo (soci italiani della società estera) si considerano anche rapporti indiretti.

La circolare 28/E/2006 ha però affermato che anche nel controllo attivo possono essere presenti catene societarie composte da più sub-holding estere. La presunzione di residenza in Italia della società estera che direttamente controlla una società italiana, renderà operativa, a parere delle Entrate, la presunzione anche per la società estera inserita nell’anello superiore della catena societaria. Ad esempio, si consideri il caso di Tizio (italiano) che controlla Alfa Sa (Lussemburgo) che a sua volta controlla Beta Bv (Paesi Bassi) che controlla direttamente Gamma Spa (Italia). Tizio controlla indirettamente Beta Bv (controllo passivo) la quale si considera presuntivamente italiana; conseguentemente, anche per Alfa Sa, che controlla direttamente una società esterovestita (presuntivamente italiana), scatta la presunzione di residenza.

Prova contraria

Il secondo sub requisito (residenza italiana degli amministratori) è alternativo al controllo passivo. Diventa dunque esterovestita anche la società estera (controllante di Srl o Spa italiana) partecipata solo da contribuenti non residenti, se il suo consiglio di amministrazione è composto prevalentemente da persone residenti nel nostro paese.

La condizione scatta se gli amministratori italiani sono prevalenti nella maggior parte del periodo di imposta (circolare 11/E/2007). La prassi accertativa si è indirizzata alla ricerca di eventuali amministratori di fatto, dato che, nelle holding esterovestite, è frequente l’attribuzione di incarichi a professionisti locali che fungono da mandatari dei titolari effettivi.

Per vincere la presunzione di esterovestizione in presenza di doppio controllo, la holding dovrà dimostrare, con argomenti adeguati e convincenti, che la sede di direzione effettiva della società non è in Italia, bensì all’estero (si veda la circolare 28/E/2006). Tali argomenti e prove dovranno dimostrare che esistono elementi di fatto, situazioni od atti, idonei a dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero.

In sede di riposta alla Commissione europea (cui la norma era stata rinviata da una denuncia dell’Associazione italiana dottori commercialisti), le Entrate hanno chiarito che la prova di radicamento estero della holding può essere fornita con ogni ordinario mezzo, tra cui i verbali delle adunanze dei Cda, documenti di viaggio degli amministratori o dei soci italiani per recarsi presso la sede estera, documentazione contabile e contrattuale redatta all’estero. Il certificato di residenza fiscale rilasciato dalle autorità estere è stato ritenuto documento necessario, ma non sufficiente.

Le conseguenze

L’esistenza dei requisiti (anche presuntivi) di residenza fiscale italiana comporta conseguenze negative particolarmente rilevanti per la società estera. Dal punto di vista sostanziale, trattandosi di società commerciale residente, essa dovrà assoggettare a imposta il reddito prodotto ovunque nel mondo da determinare secondo le regole delle imprese italiane. L’utile del conto economico redatto in base alla legislazione estera dovrà essere sottoposto alle rettifiche in aumento e in diminuzione previste dalla disciplina del reddito di impresa.

Le società esterovestite saranno inoltre sottoposte alle regole sulle società non operative (articolo 30, legge 724/1994) e in perdita sistematica (articolo 2, comma 36-decies, Dl 138/2011). Potrà dunque emergere (si pensi alle holding o alle società immobiliari) un reddito imponibile da dichiarare anche in assenza di utili di bilancio. La violazione si estenderebbe alla tassazione Irap laddove la società abbia realizzato un imponibile in base alle regole del Dlgs 446/1997.

Il valore della produzione conseguito all’estero (da determinare con i criteri dell’articolo 4, comma 2) resterebbe comunque esente dal tributo regionale. Dal punto di vista procedurale, alla società esterovestita verrà contestata l’omessa dichiarazione dei redditi, con la possibile insorgenza del reato tributario (articolo 5, Dlgs 74/2000) qualora venga superata la soglia di 50.000 euro di imposta evasa (e sussista il dolo).

Ritenute alla fonte

Laddove la società esterovestita abbia erogato compensi (per esempio ad amministratori o consulenti italiani) soggetti a ritenuta alla fonte, scatterà anche la contestazione di violazione della normativa sui sostituti di imposta (omesse ritenute, omesso versamento e omessa dichiarazione). La contestazione di esterovestizione può estendersi all’Iva qualora la società abbia posto in essere operazioni (cessioni di beni o prestazioni di servizi) territorialmente rilevanti.

Le società estere rientrano in ogni caso tra i soggetti esercenti attività di impresa (si veda l’articolo 4 del Dpr 633/1972), ma l’assoggettamento ad Iva delle operazioni dalle stesse effettuate in Italia (si pensi alla vendita di un terreno fabbricabile posto nel nostro paese) avviene mediante inversione contabile ogni qual volta il cessionario o committente sia un soggetto passivo stabilito in Italia. Questo meccanismo potrebbe essere disatteso (con applicazione dell’Iva da parte del cedente) in caso di contestazione di residenza italiana.

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Tasse da pagare nel luogo in cui si lavora

11 Maggio 2022

Il Sole 24 Ore 19 aprile 2022 di Luca Calabrese Raffaele Calabrese Serena Civardi Elena Pasini Azzurra Sestito Roberto Sante Smilari Alessio Vagnarelli

Questa regola generale vale anche qualora l’attività sia prestata per un datore estero

L’ingresso in Italia dei remote workers si accompagna alla necessità di approfondire la tematica anche sotto un profilo fiscale.

Infatti, le peculiari modalità di svolgimento dell’attività lavorativa non consentono, allo stato attuale, di derogare al principio generale di territorialità che regola la tassazione internazionale dei redditi di lavoro dipendente.

Secondo quanto più volte chiarito dall’amministrazione finanziaria, in particolare, ciò che rileva è il luogo in cui fisicamente viene svolta l’attività lavorativa, a prescindere dal fatto che la stessa sia resa a beneficio di un datore di lavoro estero (in tal senso, risposte 17 maggio 2021, n. 345, 7 luglio 2021 n. 458, 15 settembre 2021 n. 590, 23 settembre 2021 n. 621, 27 settembre 2021, n. 626, nonché la risposta all’interrogazione parlamentare 5-04654 del 3 dicembre 2020).

Inoltre, con le recenti risposte 186 dell’8 aprile 2022 e 157 del 25 marzo 2022, in continuità con le posizioni già espresse con la circolare 33 del 28 dicembre 2020 e con la risposta 596 del 16 settembre 2021, l’agenzia delle Entrate ha confermato che, al ricorrere dei requisiti previsti dall’articolo 16 del Dlgs 147/2015, il regime di favore previsto per gli impatriati possa trovare applicazione anche in relazione ai redditi di lavoro dipendente prodotti in Italia dai lavoratori in remote working.

Altro punto di attenzione riguarda poi l’astratta configurabilità per l’impresa estera di una stabile organizzazione (permanent establishment – Pe) di tipo materiale o personale.

Anche nel semplice lavoro da casa, infatti, non è escluso che, oltre ai più noti temi legati alla presenza di una Pe personale, possa ravvisarsi la presenza di una stabile organizzazione di tipo materiale; ilcommentario all’articolo 5 del Modello Ocse a tal fine precisa che «dove, tuttavia, un ufficio a casa è utilizzato su base continuativa per svolgere attività commerciali presso un’impresa ed è chiaro dai fatti e dalle circostanze che l’impresa stessa abbia richiesto alla persona di utilizzare quella sede per svolgere l’attività dell’impresa (ad esempio non fornendo un ufficio ad un dipendente in circostanze in cui la natura del lavoro richieda chiaramente un ufficio) l’ufficio a casa del lavoratore può essere considerato a disposizione dell’impresa».

Se per un verso, il requisito della continuità dello svolgimento di attività lavorativa e l’adempimento di una specifica prescrizione lavorativa potranno essere agevolmente riscontrabili, maggiori difficoltà si incontreranno nello stabilire se l’home office, l’ufficio a casa, possa essere effettivamente considerato nella disponibilità del datore di lavoro estero.

In tal senso, risulterà imprescindibile condurre una specifica analisi, da effettuarsi caso per caso, per verificare l’effettiva rilevanza fiscale di tali fattispecie.

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Per i cripto-operatori esteri scatta l’ora del monitoraggio

11 Maggio 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 25 aprile 2022 di Fabrizio Cancelliere Massimo Simbula Giulio Tombesi

Operativa entro il 18 maggio la nuova sezione speciale del registro pubblico Oam

Obbligo di iscriversi per tutti i wallet provider operanti Italia, anche online

Entro il prossimo 18 maggio inizierà una nuova era per gli operatori in criptovalute (e per gli investitori). I prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (“Vasp”) e di servizi di portafoglio digitale (“Wsp”) che operano – o intendono operare – in Italia avranno l’obbligo di iscriversi alla sezione speciale del registro pubblico informatizzato, tenuto dall’Oam (Organismo gestione agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi), come prevede il decreto Mef del 13 gennaio 2022.

Alla data di apertura del registro (non ancora annunciata dall’Oam), i cambia-valute virtuali già attivi avranno 60 giorni per comunicare la propria operatività in Italia e continuare a esercitare l’attività senza attendere la pronuncia dell’Oam, purché abbiano i requisiti previsti per i cambiavalute “fisici” ex articolo 17-bis, comma 2, Dlgs 141/10. In caso di mancato rispetto del termine, o di diniego da parte dell’Oam, l’esercizio dell’attività sarà considerato abusivo.

Il registro risponde principalmente a finalità di antiriciclaggio (il decreto Mef è attuativo delle modifiche al citato articolo 17-bis, richieste dalla direttiva Ue 2018/843), ma i dati trasmessi potranno essere messi a disposizione anche dell’amministrazione finanziaria (come le comunicazioni degli intermediari per i rapporti finanziari).

L’impatto sugli investitori

Il primo profilo di interesse riguarda gli investitori, soprattutto se si pensa agli adempimenti fiscali per i detentori di criptovalute. Secondo le Entrate, infatti, le criptovalute sono assimilate a valute estere, con le relative conseguenze:

sul versante reddituale: sempre imponibili le plusvalenze a termine, mentre quelle a pronti solo in caso di movimentazioni da depositi/wallet oltre soglia dei 51.645,96 euro per almeno sette giorni lavorativi (risoluzione 72/E/16 e risposta Dre Lombardia 956-39/18);

sul versante degli obblighi di monitoraggio nel quadro RW: dovuto in caso di investimento tramite exchanger esteri ma anche di detenzione diretta di un electronic wallet con chiave privata (risposta 788/21).

L’assimilazione alle valute estere appare però sempre più inadeguata al mutato concetto di cripto-asset, che dalle criptovalute si è esteso a nuove forme di rappresentazione digitale di valore: security tokenutility token e, da ultimo, non fungible token (Nft).

Gli obblighi generalizzati

Il secondo profilo di interesse riguarda l’ambito soggettivo dei nuovi obblighi Oam: le definizioni di cripto-operatori fornite dal Dm sono le stesse della normativa comunitaria antiriciclaggio introdotte con il Dlgs 90/2017, cosi come l’equiparazione alle figure dei cambiavalute. L’obbligo di registrazione riflette quindi la necessità di adeguarsi alla direttiva 2018/843, ma le modalità attuative potrebbero avere effetti sulla competitività del mercato italiano.

Tra i citati requisiti ex Dlgs 141/2010 per l’esercizio dell’attività in Italia rientra infatti la sede legale e amministrativa, ovvero, per i soggetti comunitari, la stabile organizzazione nel territorio dello Stato: requisiti comprensibili per i “classici” cambiavalute, ma meno per i cripto-exchanger, che sono transfrontalieri e attivi anche online. Pertanto, i cripto-operatori esteri che vorranno offrire servizi online al mercato italiano avranno l’obbligo di identificarsi ai fini territoriali in Italia, comunicando la propria sede o la propria stabile organizzazione nel territorio, con ulteriori impatti anche su altri piani giuridici. La presenza di una stabile organizzazione impone infatti obblighi di natura civilistica, contabile e fiscale, sia ai fini delle imposte dirette (i profitti delle stabili organizzazioni sono tassati in Italia) che indirette (apertura di una posizione Iva); fermo restando che le prestazioni strettamente relative all’operatività degli exchanger sono inquadrate come esenti, in linea con la sentenza della Corte Ue 22 ottobre 2015, causa C-264/14 (richiamata nella risoluzione 72/E/16).

L’auspicio è che anche il legislatore fiscale sia spinto a intervenire, precisando se rilevano anche le operazioni “cripto su cripto” oltre a quelle “da valuta legale a cripto e viceversa”; e adeguando l’attuale impianto normativo e dei diversi regimi impositivi (risparmio amministrato e gestito), anche ai fini del monitoraggio RW (esonero per gestioni tramite provider residenti o esteri con sede nel territorio dello Stato).

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Sponsor, inerenza anche senza incrementi

11 Maggio 2022

Il Sole 24 Ore 8 aprile 2022 di Dario Deotto Luigi Lovecchio

Le spese di sponsorizzazione sono inerenti in quanto si risolvono in una forma di pubblicità indiretta dell’impresa, anche quando esse consistono nella promozione del marchio e non dei prodotti. A nulla rileva inoltre l’impatto della spesa sul volume delle vendite. La Cassazione (sentenza n. 11324) sposa una interpretazione più attenta alle ragioni dei contribuenti.

Il caso riguardava le spese sostenute in occasione di gare internazionali di kart. L’Ufficio aveva eccepito che, trattandosi di azienda di commercializzazione di prodotti di largo consumo, i destinatari del messaggio promozionale in una competizione internazionale non coincidevano con i potenziali consumatori. Veniva inoltre rilevato che la sponsorizzazione si risolveva nella esposizione del marchio, senza richiami ai prodotti commercializzati. Da ultimo, si contestava che l’impresa non aveva dato prova dell’impatto che aveva avuto la spesa, in termini di incremento del volume di vendite.

La Cassazione ha rigettato tutte le obiezioni dell’Ufficio, facendo leva sulla nozione di inerenza come delineata negli ultimi arresti dei giudici di vertice. La Corte ha precisato che il contratto di sponsorizzazione consiste in un negozio a prestazioni corrispettive che genera una pubblicità indiretta del soggetto sponsorizzato. Si è poi dedotto che l’inerenza postula un giudizio di natura solo qualitativa, e non quantitativa, di tal che non rileva l’eventuale incremento di fatturato conseguito. Ciò che conta è che il costo manifesti, per sua natura, una correlazione diretta o indiretta, anche in proiezione futura, con l’attività d’impresa. Nelle spese di sponsorizzazione, il collegamento sussiste, in difetto di fondate argomentazioni contrarie.

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Con due proposte la Ue apre alla condivisione dei dati, importante quanto la privacy

11 Maggio 2022

Il Sole 24 Ore 29 aprile 2022 di Giusella Finocchiaro e Oreste Pollicino

SOCIALE & DIGITALE

Due recenti proposte di regolamento europeo, il Data Act e il Data Governance Act, segnano una svolta nel trattamento dei dati. Se, fino ad oggi, il focus è stato soprattutto sulla protezione dei dati personali, ora sembra delinearsi un nuovo approccio volto a favorire la valorizzazione e la condivisione dei dati.

Come è stato dichiarato dalla Presidente von der Leyen, l’obiettivo europeo della costruzione di un mercato unico digitale non può prescindere dalla formulazione di una strategia sui dati e l’Europa deve «equilibrare il flusso e l’ampio uso dei dati tutelando al contempo alti livelli di privacy, sicurezza, protezione e norme etiche». Infatti, il programma di lavoro della Commissione per il 2020 ha stabilito diversi obiettivi strategici, tra cui la strategia europea in materia di dati adottata nel febbraio 2020, che mira a creare un mercato unico dei dati e a fare dell’Ue un leader mondiale dell’economia agile basata sui dati.

Tuttavia, se i dati sono il nuovo petrolio, ancora non sono stati elaborati modelli giuridici adeguati per valorizzarlo, sfruttarlo, e generare valore, nel contesto europeo, come hanno rilevato di recente anche Ramge e Mayer-Schönberger.

Ora siamo a una svolta: sono proposti nuovi modelli di circolazione e gestione dei dati. La proposta di regolamento Data Act è stata presentata dalla Commissione europea il 23 febbraio 2022 e affronta il delicato tema della circolazione e poi dello sfruttamento dei dati generati dai prodotti e dai servizi.

L’altra proposta di regolamento che segue il nuovo approccio è quella «relativa alla governance europea dei dati (atto sulla governance dei dati)» o Data Governance Act presentata il 25 novembre 2020 dalla Commissione europea, ma approvata dal Parlamento europeo recentemente, il 6 aprile 2022, con significative modifiche, che affronta il tema della valorizzazione dei dati per finalità di interesse generale.

Entrambe le proposte disciplinano i dati personali e non personali, andando oltre il dibattito sulla protezione dei dati personali e puntando alla valorizzazione di dati e informazioni. La definizione di dato così comprende «qualsiasi rappresentazione digitale di atti, fatti o informazioni e qualsiasi raccolta di tali atti, fatti o informazioni, anche sotto forma di registrazione sonora, visiva o audiovisiva». È lo stesso approccio seguito dal legislatore cinese.

Il Data Act disciplina l’accesso ai dati generati mediante l’uso di prodotti e servizi, ad esempio i dati generati dai sensori. Dispone che l’utente, cioè il soggetto (persona fisica o giuridica) che possiede, affitta o noleggia un prodotto o riceve un servizio debba poter accedere ai dati generati dal prodotto o dal servizio. Il Data Act evita di entrare nel dibattito concernente il modello giuridico da applicare ma disciplina l’accesso ai dati e chiarisce chi e a quali condizioni possa avere accesso ai dati generati mediante l’uso di prodotti e servizi. Anche il titolare ha il diritto di fruirne, previo accordo con l’utente. Dunque i dati saranno della disponibilità di chi usa il prodotto; e previo accordo, nella disponibilità di chi ha raccolto i dati. Ad esempio, chi utilizza un sensore avrà la disponibilità dei dati generati dal sensore e chi ha di fatto la disponibilità materiale di quei dati, perché lo ha installato o ha prodotto il sensore, potrà sfruttarli previo accordo con l’utente. I dati possono anche, a certe condizioni, essere resi disponibili a terzi. Né l’utente né i terzi possono utilizzare i dati per sviluppare un prodotto in concorrenza con il prodotto da cui provengono i dati. A questi dati, dovranno poter accedere: gli utenti che hanno contributo a generarli; soggetti terzi, su richiesta dell’utente; gli organismi pubblici, quando ricorrano exceptional need connessi ad interessi pubblici. Con due limitazioni: sono esclusi i dati generati da prodotti o servizi offerti da piccole o micro imprese; non possono costituire “soggetti terzi” gli operatori qualificabili come gatekeeper in base al Digital Markets Act. Inoltre si introducono: prescrizioni normative minime per i fornitori di servizi cloudedge e di altri servizi di trattamento dei dati per consentire il passaggio da un servizio all’altro; norme in materia di accesso illecito ai dati non personali detenuti nell’Unione; prescrizioni in materia di interoperabilità e smart contract; la precisazione che il diritto sui generis sancito dalla direttiva 96/9/CE non si applica nel caso di banche dati contenenti dati ottenuti o generati dall’uso di un prodotto o di un servizio.

Nello stesso senso, della valorizzazione dei dati e della condivisione, va il Data Governance Act approvato e modificato dal Parlamento europeo il 6 aprile 2022, che ha costituito la prima misura della nuova strategia europea in materia di dati. Il Data Governance Act agevola il riutilizzo dei dati detenuti da enti pubblici, oggetto di diritti di terzi; prevede un regime di notifica per i fornitori di servizi di condivisione dei dati, che dovranno soddisfare una serie di requisiti, per favorire la fiducia nella condivisione dei dati; introduce il cosiddetto data altruism, che è stato tradotto in italiano come “altruismo dei dati”, e che consiste nel consenso per l’uso dei dati personali per finalità di interesse collettivo. Ciò è particolarmente rilevante per la ricerca scientifica, che dovrebbe poter utilizzare, con le opportune misure di sicurezza (infatti si sottolinea l’importanza dei dati anonimi, cioè non re-identificabili, e dei dati pseudonimizzati) grandi quantità di dati anche per la ricerca data driven. Per favorire la ricerca scientifica si prevedono la creazione di procedure amministrative semplificate, la formattazione standardizzata dei dati, l’utilizzo di metadati informativi sulle scelte metodologiche e di raccolta dei dati e campi di dati standardizzati che consentano la facile integrazione di serie di dati provenienti da diverse fonti di dati del settore pubblico, se necessario ai fini dell’analisi.

Come si legge nella risoluzione del 6 aprile, l’obiettivo di tali pratiche dovrebbe essere la promozione dei dati finanziati e prodotti con fondi pubblici a fini di ricerca scientifica, conformemente al principio «il piu? aperto possibile, chiuso il tanto necessario».

Dunque, un’apertura, dalla Commissione europea, verso modelli che favoriscano la circolazione e la condivisione di dati. D’altronde, già dal titolo, il GDPR dichiara che l’obiettivo non è soltanto la protezione dei dati personali, ma anche la libera circolazione dei dati. E questo, purtroppo, spesso fino ad oggi si è dimenticato.

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La Brexit ha bloccato il trasferimento in Italia delle società inglesi

11 Maggio 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 25 aprile 2022 di Angelo Busani

DIRITTO DELL’ECONOMIA

Per effetto della Brexit, non è più possibile per una società di diritto inglese trasferire la sede legale in Italia, trasformandosi in una società di diritto italiano. Dagli articoli 1 e 1046 del Companies Act 2006 si desume infatti che la legislazione inglese non contempla il trasferimento della sede legale all’estero, né la possibilità di adottare una trasformazione in un tipo sociale proprio di un altro ordinamento, assoggettandosi ad esso (cosiddetta operazione di cross-border conversion o di trasformazione internazionale).

Lo afferma l’ufficio studi del Consiglio Nazionale del Notariato rispondendo al quesito (n. 56-2022/A; 31-2022/I) se una Limited di diritto inglese, con sede legale nel Regno Unito e iscritta nel registro delle imprese britannico, titolare di un immobile sito in Spagna, potesse trasferire l’attuale sede legale in Italia con contestuale sua trasformazione in società a responsabilità limitata di diritto italiano.

Secondo il Notariato, l’unico modo attraverso il quale è consentita la cancellazione dal registro delle imprese britannico (in base agli articoli 1003 e 1004 del Companies Act) è lo scioglimento volontario della società e, quindi, la cessazione di ogni attività da parte della società inglese.

La ragione di questa conclusione è che, dal 1° gennaio 2021, il Regno Unito è definitivamente uscito dall’Unione europea ed è scaduto con il 31 dicembre 2020 il periodo di transizione (previsto dall’articolo 126 dell’accordo di recesso) durante il quale, in base all’articolo 127, il diritto dell’Unione continuava ad applicarsi al Regno Unito. Pertanto, ora che la Brexit ha prodotto pieni effetti, il Regno Unito si deve sotto ogni profilo considerare Stato terzo rispetto all’Unione Europea.

Questo comporta che, in caso di trasferimento della sede di società britannica, non si possono più applicare i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue che, ampliando gradualmente la regola della libertà di stabilimento, consentono il trasferimento della sede all’interno dell’Unione europea in regime di continuità anche laddove la legge nazionale dello Stato di partenza o quella dello Stato di arrivo impongano lo scioglimento nel Paese di partenza e la costituzione di una nuova società nel Paese di arrivo.

Pertanto, la questione va trattata sulla base dell’articolo 25 della legge italiana 218/1995, che dispone che le società sono disciplinate «dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione», a meno che la sede dell’amministrazione sia situata in Italia oppure che in Italia si trovi l’oggetto principale della società, casi in cui si applica la legge italiana. Inoltre, il medesimo articolo 25 dispone che i trasferimenti della sede in un altro Stato hanno efficacia soltanto se posti in essere conformemente alle leggi degli Stati interessati.

In sostanza, occorre effettuare un duplice riscontro, tanto della legge dello Stato di provenienza, quanto di quella dello Stato di destinazione e, quindi, è necessario che l’operazione di trasferimento della sede sociale all’estero sia considerata valida da entrambi gli ordinamenti. Ciò che accade per parte italiana, ma che non accade per parte inglese.

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Operazioni Ue-San Marino, il documento «T2» è d’obbligo

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 14 marzo 2022 di Giampaolo Giuliani

L’interpello 14/2022 va inquadrato nella prassi precedente dell’Agenzia

L’interpello 14 dello scorso 11 gennaio evidenzia ancora una volta come sia importante rivolgersi all’Agenzia con quesiti ben circostanziati, perché altrimenti si rischia di mettere in discussione fattispecie consolidate e supportate normativamente.

In questo caso l’interpellante si è rivolto al Fisco per porre un quesito relativo all’interscambio tra l’Italia e San Marino. La domanda puntava a sapere se il rappresentante fiscale di un operatore sammarinese può cedere a quest’ultimo in regime di non imponibilità dei beni che il rappresentante stesso ha precedentemente acquistato in un Paese Ue.

L’aspetto particolare, indicato nell’interpello, è legato al trasporto dei beni, dato che dal punto di partenza in un Paese Ue i beni arrivano direttamente in San Marino, ma nonostante ciò, a parere dell’interpellante, non sarebbe necessaria la predisposizione del documento di transito T2.

Al riguardo è bene ricordare come gli operatori quando importano dei beni direttamente in San Marino da Paesi Ue diversi dall’Italia devono utilizzare il documento doganale di transito comunitario T2.

La risposta dell’Agenzia a un simile quesito, dunque, non poteva che ribadire la necessità del T2; evidentemente, nel caso di specie non è possibile considerare l’acquisto in un Paese Ue come un acquisto intracomunitario, secondo quanto stabilito dall’articolo 38 del Dl 331/1993, in quanto sono tali soltanto gli acquisti di beni il cui punto di partenza e di arrivo è in due Paesi membri Ue.

Conseguentemente, in assenza di un precedente acquisto intracomunitario da un Paese Ue all’Italia, il successivo trasferimento dei beni a San Marino non può essere considerato una cessione all’esportazione, ai sensi dell’articolo 71 del Dpr 633/1972.

A queste condizioni, in cui l’Italia costituisce solo un Paese di transito, la presa di posizione dell’Agenzia è certamente corretta, tuttavia questo non significa che i rappresentanti fiscali di operatori sammarinesi non possano effettuare acquisti intracomunitari e successivamente una cessione all’esportazione in San Marino nei confronti dei propri rappresentati. Perché ciò si possa realizzare è necessario, o meglio, è indispensabile, che il trasporto sia scisso in due tratte, così come del resto ben chiarito dalla stessa Agenzia nella risoluzione 123/E/2009, per la realizzazione di operazioni in senso inverso, vale a dire le importazioni in Italia da parte di un rappresentante fiscale di beni provenienti da San Marino e successiva cessione intracomunitaria in favore del cliente dell’operatore sammarinese rappresentato.

Nella risoluzione veniva specificato che i beni erano messi a disposizione dell’acquirente (nel caso di specie il rappresentante fiscale), previsto dalla clausola contrattuale “reso frontiera” o Dap (Delivered at Place) sulla linea di confine che divide lo Stato sammarinese da quello italiano, ovvero nelle sue “immediate vicinanze”. Così, dopo avere effettuato un’importazione da San Marino, il rappresentante fiscale avrebbe effettuato la successiva cessione intracomunitaria partendo dall’Italia, sulla base di quanto disposto dall’articolo 41 del Dl 331/1993.

In sostanza, trasferendo questi principi al caso contrario, oggetto dell’interpello 14/2022, il rappresentante fiscale è nelle condizioni di effettuare un acquisto intracomunitario in Italia e successivamente una cessione all’esportazione verso San Marino ogni qual volta sia possibile scindere il trasferimento dei beni da Paesi Ue diversi dall’Italia a San Marino in due ben determinate tratte:

la prima, un trasporto intracomunitario (da un Paese Ue all’Italia);

la seconda, un trasporto internazionale (dall’Italia a San Marino).

Del resto, l’articolo 38 del Dl 331/1993, che definisce gli acquisti intracomunitari, consente ai rappresentanti fiscali di operatori non residenti di effettuare acquisti quando sono introdotti in Italia beni provenienti da Paesi membri.

Parimenti, il nuovo regolamento del 21 giugno 2021, che disciplina i rapporti di interscambio tra l’Italia e San Marino, innovando rispetto alla precedente stesura del decreto del 24 dicembre 1993, prevede esplicitamente all’articolo 1, comma 1, che le cessioni all’esportazione possano essere effettuate anche da soggetti identificati in Italia, sicché non c’è alcuna preclusione a potere realizzare queste operazioni, a condizione, si ribadisce, che il trasporto sia diviso in due tratte.

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Trasferimenti all’estero e fiscalità, rebus residenza per chi ha legami con più Paesi

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore  21 Marzo 2022 di Alberto Crosti e Stefano Vignoli

A oltre due anni dall’inizio della pandemia da Covid-19 riparte il trend di crescita della mobilità delle persone fisiche e dei lavoratori, che comporta però complicazioni fiscali legate al trasferimento di residenza spesso non adeguatamente analizzate.
L’individuazione della residenza è infatti di fondamentale importanza: sulla base del worldwide principle taxation (articolo 3, comma 1, del Tuir), il residente fiscale italiano è tenuto a dichiarare, oltre a redditi e patrimonio in Italia, anche quanto prodotto o detenuto all’estero.

Per molti contribuenti con interessi diffusi in Italia e in altro Paese, la determinazione della residenza presenta ampi margini di incertezza, che non possono essere risolti attraverso istanze di interpello (Circolare 9/E/2016) ma richiedono un’analisi differenziata a seconda della presenza di Convenzioni contro le doppie imposizioni o dell’eventuale trasferimento in “paradisi fiscali”.

Fiscalità e requisiti per la residenza

La prima verifica richiede di individuare se ricorre uno dei tre criteri alternativi previsti dall’articolo 2, comma 2, del Tuir per determinare la residenza in Italia:
1.
 iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente,
2.
 domicilio
3.
 o residenza nel territorio dello Stato, ex articolo 43 del Codice civile.

Quando per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni, 184 se anno bisestile) è presente almeno uno dei tre requisiti, il contribuente è fiscalmente residente in Italia.

Così, chi ha legami con un Paese non legato all’Italia da accordo internazionale dovrà necessariamente assoggettare a imposizione il reddito mondiale a prescindere dall’eventuale utilizzo concomitante di tale criterio da parte dello Stato estero, con evidenti rischi di doppia tassazione.

Inoltre, sugli italiani che hanno trasferito la residenza in uno Stato non white list, grava l’onere di provare l’effettiva residenza estera (articolo 2, comma 2-bis, Tuir).

Nel caso invece, più frequente, in cui il contribuente risieda fiscalmente – in virtù delle legislazioni locali – in due Paesi “convenzionati”, opera il divieto di dual residence previsto dall’articolo 4 del modello Ocse. L’accordo pattizio è infatti norma speciale, sovraordinata alla legge nazionale: pertanto, le disposizioni concernenti le imposte sul reddito si applicano «fatti salvi gli accordi internazionali» (articolo 75 del Dpr 600/1973) e le disposizioni del Tuir si applicano in luogo dell’accordo internazionale soltanto se più favorevoli al contribuente (articolo 169 del Tuir).

Le regole con i Paesi convenzionati

In presenza di una Convenzione occorre infatti applicare la tie break rule per determinare l’unica residenza del contribuente sulla base di quest’ordine gerarchico:
● disposizione di abitazione permanente;
● centro degli interessi vitali;
● luogo di soggiorno abituale;
● nazionalità;
● accordo tra Stati.

Tenuto conto del tie break, il contribuente sarà residente nel Paese dove dispone di un’abitazione, e soltanto quando dispone di almeno un’abitazione in entrambi i Paesi si ricorrerà al criterio degli interessi vitali, siano essi di natura economica o sociale/affettiva/familiare. Questi ultimi tendono ad avere un peso maggiore nell’individuazione della residenza, secondo la prevalente giurisprudenza in Italia e nella Ue (Cgue C-262/99, Louloudakis).

Nell’ordine convenzionale emerge come il criterio del soggiorno per almeno 183 giorni, considerato preminente nel “sentire comune” di molti contribuenti, è determinante solo al terzo livello, quando gli interessi vitali sono diffusi in entrambi i Paesi convenzionati.
In presenza di Convenzione, infatti, la legge nazionale deve lasciare il passo e occorre determinare la residenza sulla base dell’accordo pattizio.

Il freno del requisito formale anagrafico

In quest’ottica lascia perplessi il filone giurisprudenziale che individua erroneamente la residenza italiana attribuendo presunzione assoluta alla mancata cancellazione all’anagrafe, a prescindere dall’effettivo trasferimento in un altro Stato convenzionato (da ultimo, ordinanza Cassazione 1355/2022).

Se la norma interna viene comparata alla regola convenzionale, sono evidenti i disallineamenti, in particolare in riferimento alla rilevanza dell’iscrizione all’anagrafe, requisito non richiesto in ambito convenzionale e sconosciuto a molti Paesi (si veda anche l’articolo «Residenza all’estero, Convenzione in campo se manca l’iscrizione all’Aire»).

Pertanto, alla luce delle ondivaghe sentenze di legittimità e della sempre più accentuata mobilità personale in ambito internazionale, sarebbe auspicabile una rivisitazione normativa che elimini o riduca la rilevanza del requisito formale anagrafico, come peraltro già avvenuto in tema di accesso ai regimi degli impatriati e dei ricercatori.

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Auto con targhe estere senza più limiti in Italia Entrate fiscali a rischio

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 28 marzo 2022 di Maurizio Caprino

Liberalizzazione. Con la legge europea cade il divieto di guida per i residenti Scatta la corsa ai veicoli immatricolati in altri Paesi per ottenere sconti fiscali

Apparentemente è solo una possibile stretta sulla platea dei prossimi incentivi auto. Ma l’esclusione delle imprese (e di tutte le altre persone giuridiche, tranne le società di car sharing) dai beneficiari dei contributi statali all’acquisto di vetture nuove, se confermata nei prossimi giorni dal testo definitivo del Dpcm la cui bozza è stata anticipata dal Sole 24 Ore il 23 marzo, rischia di segnare una svolta negativa in Italia. Non solo per il mercato dell’auto (nel 2021 gli acquisti delle aziende sono stati il 37,5% del totale), ma anche per il Fisco. Perché alla lunga molti potrebbero togliergli gettito, decidendo di circolare con targa estera: da una settimana, farlo è perfettamente legale per chiunque senza alcun vincolo, se registra il veicolo e tiene a bordo un documento.

A spingere verso questa scelta, c’è una coincidenza con le difficoltà di trovare auto, per la mancanza di materie prime e microchip causata dalla pandemia e dalla guerra. Non sembra invece essere un problema il possibile protrarsi del pluridecennale divieto di piena detraibilità dell’Iva (articolo in basso).

L’ok alle targhe estere

Insomma, c’è un sovrapporsi di novità legislative ed eventi cui probabilmente nessuno ha pensato abbastanza. L’elemento scatenante è la rettifica alla stretta sui “furbetti della targa estera” che era stata data con il Dl 113/2018. Per adeguarsi alle norme europee, la Legge europea 2019 (la n. 238/2021) ha modificato gli articoli 93, 94, 132 e 196 del Codice della strada ed è stato aggiunto l’articolo 93-bis. Alcune novità sono in vigore dal 1° febbraio, ma il nuovo regime è pienamente in vigore dal 18 marzo.

In linea di principio, si è passati da un divieto di guidare sul territorio nazionale veicoli con targa estera per chi risieda in Italia da più di 60 giorni a (articolo 93-bis) un obbligo di immatricolare con targa italiana il proprio veicolo entro tre mesi (chi era residente da prima del 1° febbraio deve mettersi in regola dal 1° maggio, secondo la circolare 9868U/2022 emanata dalla direzione centrale Specialità della Polizia il 23 marzo). La chiave di tutto sta nel fatto che, nel nuovo regime, l’immatricolazione in Italia si può evitare se il conducente residente in Italia non coincide col proprietario (residente all’estero): in questo caso, si è in regola se si tiene a bordo un documento con data certa firmato dal proprietario, che indichi a che titolo e per quanto tempo il conducente può utilizzare il veicolo. Se il diritto di questi a disporre del mezzo «supera un periodo di 30 giorni, anche non continuativi, nell’anno solare», titolo e durata dell’utilizzo vanno registrati in un nuovo archivio, tenuto dal Pra: il Reve (Registro veicoli immatricolati all’estero).

I vantaggi del nuovo regime

Dunque, basta poter documentare un comodato, un noleggio o un leasing con una persona o un operatore stranieri e iscrivere il veicolo al Reve per poter circolare in Italia all’infinito, senza problemi. Certo, non sarà più la cuccagna di prima: le multe potranno essere notificate all’indirizzo italiano dell’utilizzatore del mezzo, che sarà tenuto a pagarle davvero. Ma, almeno in parte, non si sarà soggetti al Fisco italiano.

Innanzitutto, ad oggi non è richiesto il pagamento nè dell’Ipt (Imposta provinciale di trascrizione) né del bollo auto (che va alla Regione) e dell’eventuale superbollo, nonostante il nuovo comma 4-ter dell’articolo 94 del Codice istituisca nel Pra un elenco dedicato alle targhe estere, a fini fiscali.

Perdite rilevanti anche per l’erario statale: il veicolo viene acquistato in un Paese europeo (a scapito peraltro della rete commerciale italiana e del suo indotto) da un soggetto che vi risiede, fruendo spesso di un’Iva inferiore a quella italiana (si veda la tabella sopra) e magari di un incentivo all’acquisto che negli acquisti in Italia rischia di non esserci più per tutta la tornata di bonus che sta per iniziare (e che durerà fino al 2030). Anche se in alcuni Stati l’operazione non conviene perché ci sono anche altre pesanti tasse sull’immatricolazione.

Sembrano invece ininfluenti le limitazioni italiane alla detraibilità dell’Iva sui costi di acquisto e utilizzo dei veicoli per le imprese: per i contratti di durata superiore a 30 giorni, valgono le regole italiane a prescindere dal Paese in cui il mezzo è stato immatricolato.

Il caso del noleggio

Qui s’innestano le altre coincidenze. Già per la prossima estate l’Aniasa (l’associazione confindustriale di noleggiatori e car sharing) ha invitato i turisti a prenotarsi per tempo, lasciando anche intendere che ci sarà un aumento dei prezzi, soprattutto in Sardegna e Sicilia: le difficoltà nella produzione delle auto non consentono di avere flotte adeguate alla domanda. Per rimediare almeno in parte, d’estate si potranno trasferire in Italia vetture da Paesi meno turistici.

Ma a questo punto lo schema potrebbe ripetersi anche a regime: le nuove regole del Codice della strada sono state interpretate da Polizia e Aci (circolare del 15 marzo) in modo da ammettere la possibilità per gli operatori di dare in noleggio in Italia anche veicoli che essi stesso hanno preso a noleggio all’estero.

L’Italia ha tutto il diritto di penalizzare fiscalmente la mobilità privata, per ragioni sia di debito pubblico sia di tutela dell’ambiente. Ma le nuove regole sui veicoli con targa estera rischiano di spiazzarla.

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San Marino verso storico accordo fiscale con il Regno Unito

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 9 marzo 2022 di Simone Filippetti

Visita di Stato con Johnson: si esamina l’accordo sulla doppia imposizione

La Gran Bretagna e San Marino sono più vicine: la repubblica del Titano va verso un epocale accordo sul fisco. I due paesi stanno trattando per stipulare un trattato sulla doppia imposizione: chi paga le tasse a San Marino non dovrà pagarle nel Regno Unito; e viceversa. Il reciproco riconoscimento tributario di fatto apre le porte della ricca Inghilterra, e di Londra, a San Marino: la leva fiscale è oggi una delle armi più importanti nella competizione tra paesi per attrarre i paperoni globali. Gli inglesi sono usciti dalla Ue l’anno scorso, il piccolo paese appenninico non ne ha mai fatto parte. La comunanza, lo avvicina all’orbita inglese. La firma del trattato, secondo indiscrezioni, è attesa per i primi di aprile. Ieri, una delegazione della Rocca è stata ricevuta una Londra, in una visita di Stato che per la lillipuziana nazione è già di per sé memorabile.

I due capitani reggenti, Francesco Mussoni e Giacomo Simoncini, hanno varcato la soglia del 10 di Downing Street per incontrare il primo ministro Boris Johnson in persona; e Lord Chamberlain, l’ufficiale a capo della Casa Reale, in veste della Regina Elisabetta II. Oltre all’emergenza della guerra in Ucraina, i capi di Stato hanno discusso delle relazioni bilaterali tra i due paesi. Il micro-stato dell’Adriatico, che si fregia di essere la più antica repubblica d’Europa, ha inviato una richiesta di accordo fiscale con la Gran Bretagna. L’accordo, che fonti vicine alla trattativa danno in dirittura d’arrivo, ha anche un forte significato geo-politico: significherebbe il riconoscimento ufficiale di San Marino, un’ammissione nell’Olimpo dei paesi grandi e affidabili. Per decenni la repubblica romagnola è stata vista e percepita come una sorta di paradiso fiscale dentro al territorio italiano. Lo sdoganamento fiscale anglosassone equiparerà il piccolo paese alla stessa Italia, con cui esiste da decenni un trattato sulle doppie imposizioni. Ma soprattutto innescherà un effetto a cascata: sulla scia di Uk, anche altri paesi potranno siglare accordi fiscali con San Marino. Il reciproco riconoscimento faciliterà anche futuri investimenti inglesi nel micro-stato romagnolo: su eventuali capitali che arriveranno nella Rocca, non ci sarebbero rischi che HMRC, il temibile fisco inglese, possa sollevare problemi o contestazioni.

Il regista della visita e del futuro accordo è Maurizio Bragagni: l’imprenditore toscano di Pieve Santo Stefano riveste il ruolo di console di San Marino nel Regno Unito. Forte delle sue relazioni nel partito Tory (è esponente di spicco degli Italian British Conservatives), sta da tempo, dietro le quinte, cucendo una laboriosa diplomazia tra i due paesi. Il culmine del lavoro è un futuro accordo che farebbe uscire San Marino da una zona grigia per presentarsi come paese affidabile e trasparente.

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