La cessione di beni intra–Ue non imponibile ai fini Iva

8 Aprile 2022

Un artigiano, che svolge l’attività di tappezziere in Italia, riceve da una ditta tedesca del tessuto per eseguire il rivestimento di panche destinate ad arredo di gelaterie. I fusti delle panche sono realizzati dall’artigiano su disegno del committente Ue, e gli stessi sono tappezzati con il tessuto fornito dal cliente tedesco. Al termine della lavorazione, l’artigiano si reca in Germania per consegnare le panche rivestite ed eseguire il montaggio delle stesse in loco.

Ai fini Iva, l’operazione si deve considerare come prestazione di servizi, ex articolo 7–ter del Dpr 633/1972, oppure come cessione intracomunitaria, ex articolo 41, comma 2, lettera A del Dl 331/1993, considerato che il valore del materiale fornito dall’artigiano è prevalente rispetto a quello del materiale ricevuto in conto lavoro dal committente comunitario?

B.G.TREVISO

L’operazione descritta si qualifica come cessione intra–Ue, non imponibile ex articolo 41, comma 1, lettera c, del Dl 331/1993.

Secondo quanto precisato dalla circolare ministeriale 13/1994, la base imponibile della cessione è costituita dall’importo complessivo, comprendente sia il valore del bene che quello del montaggio in loco.

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Nel Cda privo di deleghe rischiano di rispondere del reato tutti i consiglieri

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 29 marzo 2022 di Laura Ambrosi

La confisca per equivalente si può applicare anche ai beni della società

In assenza di deleghe specifiche ai membri del Cda rischiano di rispondere del reato tributario tutti i consiglieri.

In futuro, inoltre, a seguito dell’inserimento, dei delitti tributari nei reati presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, la confisca per equivalente per tali illeciti, riguarderà anche le società e non solo gli amministratori.

Ad affermare questi interessanti principi sono due sentenze della corte di Cassazione depositate ieri.

In una prima pronuncia (la numero 11087) i giudici di legittimità sono intervenuti a proposito del sequestro preventivo eseguito nei confronti di un membro del consiglio di amministrazione di una società.

Secondo la tesi difensiva, in assenza di una specifica delega, i componenti del Cda non hanno alcuna responsabilità sull’operato altrui.

La Suprema corte ha ricordato che l’articolo 2392 del Codice civile dispone che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto, fatta salva l’ipotesi di attribuzioni proprie ascritte in concreto ad uno o più soggetti.

Secondo la Cassazione, quindi, occorre distinguere l’ipotesi in cui il Cda operi con o senza deleghe: se un determinato atto non rientra nelle attribuzioni delegate, tutti i componenti del consiglio rispondono degli illeciti, salvo il dissenso esternato.

Se invece, sono attribuite specifiche materie a determinati componenti del consiglio, essi rispondono di quanto compiuto.

In conclusione, quindi, in assenza di deleghe grava su tutti i consiglieri la responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti in essere dal Cda.

Sempre ieri, la Cassazione (sentenza numero 11086) ha affrontato la possibile incompatibilità del sequestro preventivo per equivalente operato sui beni dell’amministratore della società, rispetto alla necessaria misura adottata sempre in forma per equivalente in capo all’ente in applicazione della responsabilità amministrativa disciplinata dal Dlgs 231/2001. Infatti, anche alcuni delitti tributari rientrano dal 25 dicembre 2019 tra i reati presupposto per i quali è possibile eseguire, in caso di condanna, la confisca in capo all’ente.

I giudici hanno così rilevato che l’innovazione normativa impone in futuro una più ampia indagine sul patrimonio dell’ente sin dalla fase cautelare: ove non sia possibile preservare il profitto diretto (di norma le disponibilità liquide della società), la misura per equivalente potrà applicarsi sui beni della società e non soltanto come avvenuto in passato su quelli del reo/rappresentante legale.

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Non c’è esterovestizione per l’impresa che ha oltreconfine una sede effettiva

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 3 Marzo 2022 di Alessandro Germani

Le ultime letture di Entrate e Cassazione sulle fittizie localizzazioni all’estero

Un check sulla catena partecipativa per stabilire la residenza della holding

La localizzazione all’estero delle strutture societarie deve essere sempre effettiva e genuina per evitare contestazioni, che tuttavia vanno sempre adeguatamente supportate in relazione al presunto vantaggio fiscale che il contribuente vorrebbe perseguire. In tema di pianificazione estera occorre distinguere le casistiche di residenza fiscale effettiva e di esterovestizione. Può essere il caso di una holding estera che controlli una società italiana. Per stabilire l’effettiva residenza della holding occorrerà fare un check sull’intera catena partecipativa e sulla residenza dei componenti dell’organo amministrativo. Due recenti pronunce di prassi e di giurisprudenza consentono di trarre alcuni elementi utili. Vediamole in dettaglio.

Le Entrate

La risposta n. 27 del 17 gennaio 2022 ha riguardato una società Alfa estera controllata al 51% da una società italiana e amministrata da due persone fisiche delle quali una residente in Italia e l’altra all’estero. Nel caso di specie non si trattava neppure di una holding, non avendo partecipazioni in Italia. La norma dell’esterovestizione (articolo 73, comma 5-bis, del Tuir) introduce una presunzione relativa di residenza in Italia di una società estera che controlla, ex articolo 2359, comma 1, del Codice civile, società ed enti residenti in Italia, se, in alternativa:

è controllata, anche indirettamente, ex articolo 2359, comma 1, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;

è amministrata da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Quindi perché scatti la presunzione di esterovestizione occorre che l’estera, che controlla l’italiana, sia a sua volta controllata da un’altra italiana o amministrata prevalentemente da soggetti italiani. Questo è il quadro di riferimento che bisogna focalizzare.

Se dunque a valle Alfa non controlla alcuna società italiana, la precondizione della norma sull’esterovestizione non è integrata e la disciplina non si applica. Correttamente le Entrate fanno presente che l’esterovestizione è fattispecie ben differente dalla residenza fiscale di una società, stabilita dal comma 3 dell’articolo 73, determinata dal fatto di avere la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo d’imposta. Come dire che una struttura può definirsi esterovestita se controlla una società italiana e a sua volta è controllata sempre da una società italiana o amministrata prevalentemente da italiani. Ma nulla toglie che quand’anche non sia esterovestita possa comunque considerarsi da parte del fisco italiana se si prova che in realtà è solo fittiziamente localizzata all’estero. Qui va fatta una valutazione caso per caso.

La Cassazione

Veniamo ora alla sentenza della Cassazione n. 4463 dell’11 febbraio 2022 dove i giudici di legittimità in un caso di presunta esterovestizione hanno dato ragione al contribuente in quanto, trattandosi di una norma con finalità antielusive, sta all’Agenzia di provare che l’obiettivo preponderante da parte del contribuente sia quello di conseguire un vantaggio fiscale.

La Cassazione ha di fatto avallato il giudizio della Ctr Lombardia. Infatti la società estera è una holding lussemburghese che ha sempre svolto la propria attività di gestione delle partecipazioni. In questo caso l’Amministrazione, colpevolmente, non si è neppure preoccupata di identificare il vantaggio fiscale conseguito o conseguibile con la collocazione artificiosa della sede sociale in Lussemburgo e non in Italia. Non basta, infatti, reperire nella controllata italiana una documentazione «sporadica e discontinua» che appare insufficiente a dimostrare l’esterovestizione. Militano poi a favore del contribuente anche la residenza estera della maggioranza dei consiglieri d’amministrazione e l’imposizione fiscale cui la società Alfa è sottoposta in Lussemburgo. Un’artificiosa localizzazione estera deve infatti rispondere a un trattamento fiscale di favore (Cassazione 16697/19 e 2869/13) e lo scopo essenziale dell’operazione deve limitarsi all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (causa C-419/14, W. Kft). Perché di contro il contribuente sarà sempre libero di scegliere la soluzione che gli consenta di ottimizzare il carico fiscale. Quindi una localizzazione estera può essere contrastata dalla norma nazionale solo se l’obiettivo è quello di contrastare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica (causa C-196/04 e Cassazione 33234/18). I paletti posti dalla Cassazione a favore del contribuente appaiono molto netti.

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È il puro artificio la prova di esterovestizione

8 Aprile 2022

Il Sole 24 Ore 16 marzo 2022 di Laura Ambrosi

La localizzazione in un Paese con fiscalità più vantaggiosa non è operazione elusiva

La localizzazione della sede di una società in un Paese con un minor carico fiscale non costituisce di per sé un’operazione elusiva, tanto meno se la tesi è fondata solo sullo svolgimento in Italia dei servizi amministrativi. L’esterovestizione, infatti, sussiste se all’estero c’è una creazione di puro artificio priva di sostanza economica. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 8297 depositata ieri.

Ad una società con sede in Lussemburgo veniva notificato un accertamento con il quale era contestata una esterovestizione e conseguentemente tassato in Italia il relativo reddito.

Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito lo annullava. In particolare, la Ctr rilevava che lo svolgimento dei servizi amministrativi in Italia non era di per sé sufficiente a dimostrare l’esterovestizione, poiché sussistevano altri elementi che confermavano l’effettiva attività all’estero.

L’Agenzia impugnava la decisione in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata applicazione della norma.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che per esterovestizione si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, più precisamente in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso. Tale comportamento, però, è abusivo solo se ha come risultato l’ottenimento indebito del vantaggio fiscale. Occorre a tal fine il riscontro dello scopo essenziale dell’operazione.

Tuttavia, in base ai principi unionali, il contribuente può sempre scegliere tra due operazioni, non essendo obbligato a preferire quella che implica il pagamento di imposte superiori. Egli, infatti, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale.

In riferimento alla localizzazione all’estero della residenza, secondo il principio di libertà di stabilimento, la circostanza che una società sia stata creata in un determinato Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa, non costituisce di per sé un abuso di tale libertà. Ne consegue così che una misura nazionale che restringa la scelta è ammessa soltanto se riguarda le costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta del territorio nazionale (Cassazione 33234/2018).

Nella specie, il giudice di merito aveva correttamente applicato i citati principi rilevando che l’Ufficio non aveva prospettato l’indebito vantaggio conseguito dall’asserito abuso perpetrato attraverso la sede estera. Da qui la conferma dell’illegittimità della pretesa.

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Nel mirino del Fisco gli 8mila italiani residenti a Montecarlo

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore16 febbraio 2022 di Angelo Mincuzzi

Domicili fittizi. Le Entrate hanno avviato gli accertamenti e alcune posizioni sono già state sanate. Ora obiettivo Dubai, Lussemburgo e Svizzera

Sono giorni di fibrillazione tra gli italiani residenti a Montecarlo. Gli 8mila connazionali che vivono nel Principato di Monaco sono finiti, infatti, nel mirino dell’agenzia delle Entrate. Il Fisco è partito alla ricerca dei falsi residenti nella Rocca dei Grimaldi e sta passando al setaccio le posizioni di tutti gli iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero.

Il passaparola nel piccolo Stato, che conta 39mila abitanti su una superficie di due chilometri quadrati, è partito immediatamente tra i vip che vi risiedono (nel 2021 erano, per la precisione, 7.894), soprattutto perché in questi giorni i primi italiani hanno già regolarizzato la propria posizione versando all’Erario cifre dell’ordine di parecchi milioni di euro.

Più di metà degli italiani residenti a Montecarlo provengono dalla Lombardia e dalle aree limitrofe. Si tratta soprattutto di imprenditori, finanzieri, professionisti, vip e campioni sportivi che nel Principato non pagano nessuna imposta sui redditi delle persone fisiche. A loro toccherà l’onere di dimostrare che la residenza a Montecarlo è reale e che lì si trova davvero il centro dei loro “interessi vitali”.

Monaco è però soltanto il primo passo, perché gli uomini dell’agenzia delle Entrate stanno lavorando anche sui nominativi dei residenti in altri paesi, come Lussemburgo (30.933 italiani secondo l’ultimo censimento Aire relativo al 2021), Dubai (10.795 contando anche gli altri Emirati), Svizzera (639.508) e Liechtenstein (1.824 italiani iscritti).

L’accelerazione dell’agenzia delle Entrate sugli italiani residenti nel Principato di Monaco è stata agevolata dal recente accordo tra Fisco, Comando regionale della Lombardia della Guardia di Finanza e Comune di Milano, firmato il 13 gennaio 2022 dal direttore delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, dal generale Stefano Screpanti, dal sindaco Giuseppe Sala e dal direttore della Direzione specialistica incassi e riscossioni del capoluogo lombardo, Monica Mori.

Il numero degli ex residenti a Milano che si sono iscritti all’Aire è salito dagli 80.140 del 2016 ai 93.230 del 2020, con un aumento del 12,6%. Di questi, 721 risultavano residenti a Montecarlo, altri 1.022 in Lussemburgo, 12.314 in Svizzera, 901 negli Emirati Arabi e 5 in Liechtenstein.

Il protocollo prevede una cooperazione rafforzata per il contrasto all’evasione fiscale con controlli mirati su particolari tipologie di «soggetti, attività e operazioni», per consentire al Comune di Milano un’efficace segnalazione di fenomeni legati all’evasione fiscale. È da sottolineare il fatto che quando la segnalazione qualificata arriva dal Comune, il gettito recuperato finisce totalmente nelle casse dell’amministrazione locale.

La collaborazione consentirà alla Direzione regionale della Lombardia dell’agenzia delle Entrate, guidata da Antonino Di Geronimo, di focalizzare il lavoro su obiettivi particolarmente concreti visto che provengono dall’incrocio di banche dati, anche catastali, con l’attività svolta dal Comune di Milano sul suo territorio. Protocolli di intesa simili sono stati firmati con quasi la metà dei 1.506 comuni della Lombardia e rappresentano un passo importante per rendere più efficace la lotta all’evasione fiscale.

Un “modello Lombardia” che potrebbe essere presto replicato in altre regioni e con altri grandi comuni italiani, soprattutto per gli effetti positivi per le casse comunali a caccia di risorse.

A Milano l’iniziativa contro i falsi residenti all’estero si era aperta già nel 2017 grazie al cosiddetto “modello Milano” sviluppato dall’ex procuratore della Repubblica, Francesco Greco, che aveva costituito all’interno della procura il “Pool latitanti fiscali” con l’obiettivo di dare la caccia proprio ai finti residenti all’estero. Anche perché la Lombardia è la regione dalla quale è arrivato il maggior numero di istanze di adesione alla prima voluntary disclosure, il 49,07% del totale.

Il decreto legislativo 90/2017 ha modificato in modo rilevante sia la normativa sulla prevenzione e sul contrasto del riciclaggio sia la disciplina sul monitoraggio fiscale. In particolare, la segnalazione periodica all’Anagrafe tributaria – a differenza di quella da inviare all’Uif – non è più subordinata al sospetto di un’evasione o di un’elusione d’imposta. Deve essere, in pratica, quasi automatica. Le categorie dei soggetti “monitorabili” restano invece le stesse, ma viene meno il requisito della residenza in Italia, per cui anche l’ordine di trasferimento per conto o a favore di un soggetto non residente ricade nel campo di applicazione della disciplina.

Questa modifica ha consentito alle autorità fiscali l’acquisizione di informazioni utili a contrastare il trasferimento fittizio all’estero della residenza delle persone fisiche. Casi, per esempio, come la maxi-condanna delle sorelle Gucci al pagamento di oltre 100 milioni di euro al termine dell’istruttoria dell’Ucifi (l’Unità centrale per il contrasto all’evasione internazionale) del Settore contrasto illeciti dell’agenzia delle Entrate.

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La società operativa non equivale a uno schermo

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore 4 febbraio 2022 di Alessandro Galimberti

Operazione esente gli interessi passivi alla controllata

Non può escludersi la «titolarità effettiva» di una società controllata basata in un Paese a fiscalità privilegiata in relazione a pagamenti di interessi per operazioni infragruppo. L’amministrazione fiscale per escludere la controllata come beneficial owner deve verificare tutti i presupposti, a cominciare dalla inesistenza di obblighi giuridici di ritrasferimento delle poste ricevute.

I fatti contestati dall’Agenzia si innestano su una complessa operazione triangolare di ristrutturazione del debito (350 milioni di euro) mediante l’emissione di obbligazioni, operazione risalente ai primi anni 2000.

La società madre, Arnoldo Mondadori, aveva corrisposto gli interessi passivi (circa sette milioni) alla controllata lussemburghese – a sua volta obbligata con i sottoscrittori americani – considerando il trasferimento neutro dal punto di vista fiscale (articolo 26-quater del Dpr 600/1973) e quindi senza applicarvi la ritenuta alla fonte del 12,50 per cento. L’esito finale del pagamento però, secondo l’amministrazione finanziaria, e cioè il successivo trasferimento della cifra corrispondente alla società statunitense, avrebbe prodotto l’aggiramento dell’obbligo in capo al sostituto d’imposta mediante l’utilizzo, appunto della società-veicolo basata nel Granducato lussemburghese. A questa interpretazione, condivisa dalla Ctr Lombardia, si è opposta la contribuente con il ricorso in Cassazione risolto dall’ordinanza 3380/22 della Quinta sezione, depositata ieri.

I giudici di legittimità, che hanno cassato con rinvio la decisione della Ctr lombarda, hanno ripercorso l’iter storico di formazione del concetto di beneficial owner e di società conduit per validare l’operazione fiscalmente neutra della contribuente. La giurisprudenza europea ha più volte escluso dal perimetro del beneficial owner (titolare effettivo) le società interposte e le fiduciarie, dotate di poteri molto limitati sui redditi imputati (da ultimo, Causa C 115/16), e le regole Ocse dal 2014 hanno poi individuato la figura nel soggetto giuridico che ha obblighi giuridici – legali, contrattuali ma anche evincibili da situazioni di fatto- di ritrasferimento dei flussi di reddito. In tale contesto, in sostanza, la società conduit viene costituita senza motivazioni economiche diverse dal mero risparmio fiscale.

La Corte non esclude neppure che una subholding possa essere considerata titolare effettivo, a condizione che i flussi siano appostati a bilancio e aggredibili dai creditori, oltreché essere liberamente utilizzabili.

Nel caso specifico la Quinta sezione sottolinea che la storia cinquantennale di Mondadori International Sa, la sua struttura operativa «reale», l’oggetto sociale congruente, le caratteristiche corrette dell’operazione finanziaria in questione, l’iscrizione a bilancio degli interessi percepiti, le garanzie proprie poste nell’operazione di finanziamento degli americani e infine l’assenza di obblighi di ritrasferimento degli interessi ricevuti, sono tutti elementi che fanno escludere la qualificazione di società conduit o di società relais.

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Una sola email dai toni forti può costare il posto al dirigente

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 28 febbraio 2022 di Marcello Floris e Valentina Pomares

La nozione di giustificatezza del recesso è più ampia di quella di giusta causa

Il rapporto di fiducia che lega il dirigente al datore è particolare e accentuato

Basta un solo episodio di intemperanza perchè il licenziamento di un dirigente sia considerato legittimo. Nel caso esaminato dalla Cassazione nell’ordinanza 2246 pubblicata il 26 gennaio scorso, si è trattato di una email in cui il dirigente accusava la proprietà della società datrice di lavoro di aver tradito la propria fiducia e buona fede. Il licenziamento è stato riconosciuto legittimo, a esito dei tre gradi di giudizio. Nel messaggio di posta elettronica che ha causato il recesso, il dirigente licenziato aveva sottolineato così il deteriorarsi del rapporto con la società: «Non so quanto ancora potrò sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile».

A fronte di queste esternazioni, il dirigente era stato licenziato per giusta causa. In primo grado la sussistenza della giusta causa era stata esclusa, ma il licenziamento è stato comunque ritenuto giustificato e la pronuncia è stata confermata in appello e in Cassazione. Sono state respinte le domande di risarcimento danni per mobbing e dequalificazione e la domanda di indennità supplementare.

La nozione di giustificatezza applicata dalla Corte non è contenuta nella legge, ma trova origine nella contrattazione collettiva e nella elaborazione giurisprudenziale. Il concetto di giustificatezza non coincide con quello di giusta causa e giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ma è molto più ampio ed è applicabile solo al rapporto di lavoro dirigenziale. Fatti o condotte non idonee a integrare la giusta causa o il giustificato motivo possono invece valere a giustificare il licenziamento del dirigente.

In generale, il licenziamento del dirigente, per essere giustificato, deve essere motivato da ragioni non discriminatorie né arbitrarie, ma oggettive e concretamente accertabili o comunque tali da ledere il particolare e accentuato rapporto di fiducia che lega il dirigente al datore di lavoro. Secondo la giurisprudenza della Cassazione alla quale fa riferimento l’ordinanza 2246/2022, «ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso». Assume così rilevanza qualsiasi motivo che sorregga il recesso, con motivazione coerente, fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto.

Nel caso specifico, la motivazione è stata giudicata idonea a escludere l’arbitrarietà del recesso per effetto della rilevanza del fatto contestato in termini di turbamento del vincolo fiduciario, tanto più intenso quanto più elevato è il ruolo dirigenziale del dipendente. La Corte ha quindi respinto l’assunto difensivo secondo cui un singolo episodio non sarebbe sufficiente a fondare il licenziamento. Parimenti è stato giudicato privo di rilevanza il fatto che il messaggio che ha originato il recesso sia stato una reazione a un preciso accadimento.

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Per il Fisco l’amministratore unico non è dipendente

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 7 febbraio 2022 di Pasquale Dui

Anche per la V sezione incarichi incompatibili Vale anche per il presidente

Se manca la subordinazione il relativo costo è indeducibile dal reddito della società

Assoluta incompatibilità, in tema di imposte sui redditi, tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa. Sul punto interviene anche la sezione tributaria (la V) della Cassazione con le sentenze del 23 novembre e del 2 dicembre 2021. Questo perché il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni, che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale e indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente.

La subordinazione

La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del Cda di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, ai fini della deducibilità del relativo costo dal reddito d’impresa, non deve essere verificata soltanto in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo, invece, accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita.

Tradizionalmente questa problematica è stata affrontata massicciamente dalla giurisprudenza del lavoro e dalla prassi amministrativa Inps, attraverso, rispettivamente, sentenze e circolari amministrative.

La Cassazione

Come detto, due recenti sentenze della sezione tributaria della Cassazione si sono susseguite a breve distanza, affrontando l’annosa questione della compatibilità tra la qualifica di lavoratore subordinato e quella di consigliere di amministrazione, nei suoi profili di impatto sulle tematiche fiscali, direttamente o indirettamente implicate, in tema di deducibilità dal reddito di impresa dei costi per il lavoro subordinato e in tema di onere probatorio sulla dimostrazione della veridicità della posizione di lavoratore subordinato (sentenza 36362/2021 del 23 novembre e sentenza 38017/2021, del 2 dicembre 2021).

L’agenzia delle Entrate ha recuperato a tassazione nei confronti della società istante le spese sostenute dalla stessa nei confronti di due soci e amministratori, a titolo di lavoro subordinato, in assenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di rapporto, quali la sottomissione al potere direttivo, gerarchico e disciplinare. In particolare, per l’Agenzia, con riferimento al socio e amministratore, componente del Cda della società contribuente, questi godeva di autonomia decisionale e, nello svolgimento delle sue mansioni, non rispondeva del suo operato ad alcun superiore gerarchico.

Quanto all’altro amministratore, questo era presidente del consiglio di amministrazione, sicché essendo munito della rappresentanza generale della società, non era ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato, poiché il potere di rappresentanza equivaleva al potere di controllo, con la conseguente incompatibilità delle due cariche. Pertanto, i due soci e amministratori, rispettivamente, oltre al compenso quali componenti del consiglio di amministrazione, e quale presidente del consiglio di amministrazione, hanno percepito dalla società anche compensi da lavoro dipendente.

Secondo la decisione della Suprema Corte, la sentenza del giudice d’appello ha errato nell’applicazione dei principi giurisprudenziali di legittimità in materia, con riferimento alla possibilità del socio amministratore di svolgere anche, in parallelo, una attività di lavoro subordinato.

Invero, per la Corte è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cassazione, sezione 5, 28 aprile 2021, numero 11161).

GIURISPRUDENZA E PRASSI

Serve la subordinazione

La qualifica di amministratore di una società commerciale non è di per sé incompatibile con la condizione di lavoratore subordinato, ma perché sia configurabile un simile rapporto è necessario che colui che intende farlo valere non sia amministratore unico della società e provi in modo certo il requisito della subordinazione che deve consistere nell’effettivo assoggettamento – nonostante la carica di amministratore rivestita – al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.

Cassazione, sezione V, n. 38017 del 2 dicembre 2021

Ruoli non cumulabili

In tema di imposte sui redditi, sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni, che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione.

Cassazione, sezione V, n. 36362 del 23 novembre 2021

Mansioni diverse

La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., sez. L. 26 ottobre 1996, n. 9368; Cass., 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 11 novembre 1993, n. 11119).

Cassazione, Ordinanza, sezione V, n.11161 del 28 aprile 2021

Gli organi di controllo

Le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed è altresì necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo

di amministrazione

della società.

Cassazione, Ordinanza, 3 aprile 2019, n. 9273

Le verifiche

Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un “alter ego” dell’imprenditore, è necessario, se non c’è un contratto, verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all’interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve od attenuata, alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro.

Cassazione 19 novembre 2018, n. 29761

Le regole Inps

Il rapporto di lavoro subordinato è ritenuto compatibile con la qualità di amministratore purché esista effettivamente il vincolo della subordinazione, ovvero, per dirla in altri termini, da una diversa prospettiva, la medesima attività non può essere oggetto, nel contempo, del rapporto di lavoro subordinato e del lavoro di amministrazione, essendo, invece, indispensabile individuare una serie di mansioni riconducibili esclusivamente al contratto di lavoro.

Messaggio Inps 17 settembre 2019, n. 3359

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Trust. Attesa da 30 anni una norma nazionale

7 Febbraio 2022

Il Sole 24 Ore 29 gennaio 2022 di Lucilla Incorvati

Boom di contenziosi, in arrivo nel 2023 la disciplina elvetica che aiuterà gli italiani

Sono trascorsi 30 anni (1/01/1992) dall’arrivo della Legge con la quale l’Italia recepì la convenzione de l’Aja sul riconoscimento giuridico del trust. Ad oggi in mancanza di una legislazione nazionale, ci si appella ancora ad altre normative straniere (Malta, Jersey e San Marino) ma presto le cose potrebbero cambiare con l’arrivo della legge svizzera sul trust nel 2023. «Redatta nelle tre lingue della confederazione, tra cui l’italiano, la legge agevolerà professionisti e clienti italiani – sottolinea Andrea Baroni, Partner di Capital Trustees AG – che avranno a disposizione un’alternativa semplice che, pur mantenendo le caratteristiche essenziali del trust di tradizione anglosassone, prende a riferimento modelli di civil law». In questo arco temporale molte cose sono successe sul piano giuridico, fiscale, antiriciclaggio. Il trust si è diffuso, andando a coprire ambiti molto importanti non riguardanti solo la sfera patrimoniale. Si pensi alla legge sul “Dopo di noi” e di come il trust ben funzioni a protezione di soggetti fragili.

È in itinere anche il registro dei trust che darà un’esatta dimensione della diffusione. «Al momento possiamo prudentemente stimarli tra i 7mila e i 15mila – spiega Fabrizio Vedana, amministratore di Across Group – ed è ipotizzabile una fotografia puntuale solo nel 2023 in quanto all’iscrizione nel registro (ndr dopo il benestare del Consiglio di Stato ora spetta al Mef istituirlo) saranno da subito obbligati i nuovi trust, mentre per quelli già operativi si dovrà definire una modalità». Certo è che in questi 30 anni non tutto ha funzionato. A testimonianza del contenzioso in materia tributaria, civile e penale ci sono 1.427 documenti di cui 1.365 sono provvedimenti giudiziali. «Il 50% delle cause civili sono azioni revocatorie, quindi avviate da un soggetto per il quale la costituzione di un trust ha leso un diritto di credito – sottolinea Vedana- e questo mette in luce un tema di grande attenzione, vale a dire che il trust non dovrebbe essere creato per sottrarre un patrimonio. Anche sul fronte penale un terzo delle cause è legato alla sottrazione di patrimoni ricorrendo a comportamenti delittuosi. Mentre quello tributario è figlio di una normativa fiscale cambiata molto negli ultimi 20 anni e che ha avuto un’impennata con un intervento dell’Agenzia delle entrate che imponeva il versamento delle imposte di successione e donazione alla nomina dei beneficiari». Ma come spiega l’esperto è in arrivo (forse a giorni), dopo una pronuncia in senso contrario della Cassazione, una nuova circolare dell’Agenzia con la quale si chiarirà che l’imposta sarà dovuta solo quando il Trust devolverà effettivamente il patrimonio ai beneficiari e non alla nomina. «Un chiarimento – conclude Vedana – che potrebbe fare da volano spingendone il ricorso tra le famiglie che hanno ricchezze da trasferire ai propri eredi».

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Corte Ue, alt al modello spagnolo: a rischio il nostro quadro RW

7 Febbraio 2022

Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2022 di Stefano Capaccioli  e Dario Deotto

Con sentenza del 27 gennaio 2022, C-788/2019, la Corte di giustizia ha sancito che la normativa spagnola, che obbliga i soggetti residenti in Spagna a dichiarare i loro beni o i loro diritti situati all’estero, è contraria al diritto dell’Unione in quanto non conforme al principio di proporzionalità. Questo può determinare una serie di (indirette) conseguenze anche per il quadro RW “nostrano” (si veda anche Il Sole 24 Ore di venerdì scorso).

La normativa spagnola che obbliga alla presentazione del «Modello 720» è contenuta nella Ley General Tributaria n. 58/2003, la quale prevede la comunicazione delle attività detenute all’estero, con rilevanti penalità in caso di omessa ovvero di infedele dichiarazione.

La Corte di giustizia ha dichiarato che la Spagna è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio della libera circolazione dei capitali dato che l’obbligo di presentazione del «Modello 720» e le sanzioni collegate all’inosservanza o all’adempimento inesatto o tardivo di tale obbligo, che non hanno equivalenti per quanto riguarda i beni o i diritti situati nel territorio spagnolo, istituiscono una disparità di trattamento tra i residenti in Spagna.

Secondo la Corte, tale obbligo è idoneo a dissuadere, impedire o limitare le possibilità dei residenti di tale Stato di investire in altri Paesi e, pertanto, costituisce una restrizione alla libertà di circolazione dei capitali.

La Corte sottolinea che gli obiettivi di contrasto all’evasione tributaria non risultano perseguiti con proporzionalità dato che la normativa spagnola eccede quanto necessario in relazione ai termini di prescrizione, alla misura della penalità proporzionale nonché con riguardo alle previste sanzioni forfettarie, il cui importo non è commisurato alle penalità previste per infrazioni simili. In particolare viene stabilito che la presunzione spagnola – la quale prevede che si considerino plusvalenze patrimoniali non dichiarate le somme corrispondenti al valore dei beni non dichiarati nel «Modello 720» (presunzione abbastanza simile a quella italiana del Dl 78/2009) senza fissare un preciso termine prescrizionale (da noi, decadenziale) – eccede quanto necessario per garantire l’efficacia dei controlli fiscali e per contrastare l’evasione e l’elusione.

Parimenti non rispettosa del principio di proporzionalità viene ritenuta la sanzione spagnola del 150 per cento (determinata sull’imposta calcolata sulle somme detenute all’estero) la quale, sommandosi ad altra di carattere forfettario, viene ritenuta che arrechi un pregiudizio sproporzionato alla libera circolazione dei capitali. Lo stesso viene stabilito per le sanzioni formali di carattere forfettario, il cui importo non risulta conforme alle penalità previste per infrazioni simili nel contesto nazionale spagnolo.

I principi che la Corte di giustizia ha elaborato – e che confermano (punto 27) che la mera circostanza che un contribuente detenga beni al di fuori del territorio dello Stato non può legittimare una presunzione legale di evasione – possono mettere a rischio il sistema italiano di monitoraggio tributario del Dl 167/1990, dato che le “conseguenze” sia sotto il profilo sanzionatorio che presuntivo appaiono molto simili a quelle spagnole. Sicché va indagato se l’entità delle sanzioni previste in Italia rispettano davvero il principio di proporzionalità.

Risultano a rischio, sotto tale profilo, le conseguenze che si hanno quando le violazioni sono commesse per più anni, posto che ai fini della definizione a un terzo ex articolo 16 del Dlgs 472/1997 il software delle Entrate si è letteralmente inventato un confronto con un’Irpef che di fatto non esiste. Parimenti sproporzionate risultano le penalità legate alle attività detenute nei paesi cosiddetti black list e non, invece, eventualmente, riferite alle attività detenute in Stati terzi (rispetto alla Ue) che non consentono un adeguato scambio di informazioni. In tal caso, infatti, oltre alla sanzione dal 6 al 30 per cento delle attività non dichiarate, si ha la presunzione (difficilmente sconfessabile) in base alla quale le predette attività si ritengono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia (articolo 12 del Dl 78/2009). Presunzione per la quale i termini decadenziali di accertamento risultano raddoppiati; così come raddoppiate risultano le sanzioni ordinariamente applicabili dell’articolo 1 del Dlgs 471/1997.

In sostanza, le misure sanzionatorie nazionali (dirette e indirette) relative al monitoraggio fiscale sembrano davvero istituire una restrizione sproporzionata alla libera circolazione dei capitali.

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