Dipendente e presidente cda ruoli incompatibili

13 Dicembre 2021

Il Sole 24 Ore 24 novembre 2021 di Laura Ambrosi Antonio Iorio

Indeducibili i compensi da lavoro in assenza di una vera subordinazione

Nelle imposte sui redditi è incompatibile la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali con la carica di presidente del cda o di amministratore unico con conseguente indeducibilità del costo del lavoratore.

Il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza e di disciplina rende, infatti, impossibile la diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni necessaria invece per l’elemento della subordinazione. In ipotesi, invece, di membro del cda anche lavoratore dipendente, per la deducibilità del costo, occorre un concreto accertamento della sussistenza del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita. A fornire questi principi è la Cassazione con la sentenza n. 36362 di ieri.

Due soci e amministratori di una scarl oltre al compenso quali componenti del cda (uno dei due era anche presidente) avevano percepito anche compensi da lavoro dipendente. L’Agenzia contestava la deducibilità di queste ultime somme. In particolare, per uno, godendo di autonomia decisionale, risultava mancante il vincolo di subordinazione, per l’altro, trattandosi di presidente del cda, non era ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato. Veniva intrapreso il contenzioso e la Ctr riteneva inerenti e deducibili tali costi. L’Agenzia ricorreva quindi per cassazione.

Secondo la Suprema Corte, può coesistere nella stessa persona la posizione di socio di società e/o componente del suo cda e quella di lavoratore subordinato, purché sia in concreto assoggettata a un potere disciplinare e di controllo dagli altri componenti dell’organo cui appartiene. In mancanza, l’osservanza di un orario di lavoro e una regolare retribuzione non sono sufficienti a far ritenere sussistente il lavoro subordinato. Nel caso di amministratore unico non è invece configurabile il vincolo di subordinazione perché manca la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina. Nella specie, un socio era presidente del cda, di conseguenza, non poteva svolgere un’attività di lavoro subordinato. L’altro, invece, era componente del cda, e occorreva verificare in concreto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, fondato o meno sul potere direttivo, gerarchico e disciplinare nei suoi confronti.

Da qui l’accoglimento del ricorso e il principio di diritto secondo cui nelle imposte sui redditi sussiste incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente e la carica di presidente del cda. Per la compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del cda, con quella di lavoratore dipendente non è sufficiente, invece, una verifica formale (statuto e delibere), ma occorre un concreto accertamento della sussistenza del vincolo di subordinazione, del potere direttivo e disciplinare nonché lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale.

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Nel quadro RW vanno indicate le criptovalute anche se detenute nei wallet con chiavi private

13 Dicembre 2021

Il Sole 24 Ore 25 novembre 2021 di Valerio Vallefuoco

Tassazione dei proventi da cessioni onerose come per le monete estere

La giacenza media va verificata sull’insieme dei portafogli detenuti

Le criptovalute vanno indicate nel quadro RW anche se detenute in wallet con chiave privata. L’agenzia delle Entrate non cambia linea su tassazione e obblighi dichiarativi riferiti alle valute virtuali. La risposta a interpello 788/2021 tratta, infatti, gli obblighi di monitoraggio riferiti alla detenzione di valute virtuali in digital wallet e ribadisce quanto già precisato dall’Amministrazione finanziaria in precedenti documenti di prassi. Una posizione che giunge a pochi giorni dalla scadenza del 30 novembre per la trasmissione telematica delle dichiarazioni dei redditi.

Ma vediamo nel dettaglio. La risposta a interpello riprende come punto di riferimento la sentenza della Corte di giustizia Ue 22 ottobre 2015, causa C-264/14, che assimila le operazioni in valute virtuali a quelle «relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio»; ciò anche se ormai è stato chiarito da più parti – ad iniziare dalla Banca Centrale Europea, ma anche nell’ambito dei lavori del G20 – che questi «beni virtuali» non debbano più essere considerati “valute” ma attività virtuali (crypto-assets).

Sulla base di questo inquadramento civilistico, l’Agenzia trae una serie di conseguenze sul piano fiscale. Intanto, agli eventuali redditi si applica quanto stabilito dall’articolo 67, comma 1-ter, del Tuir per le valute estere, ossia tassazione dei proventi ma solo se derivano da una cessione a titolo oneroso di valute detenute su conti correnti e depositi con giacenza media superiore, per almeno sette giorni lavorativi continui, a 51.645,69 euro; a tal fine, il prelievo da un wallet equivale ad una cessione a titolo oneroso e la giacenza media va verificata rispetto all’insieme dei wallet detenuti dal contribuente, indipendentemente dalla tipologia dei wallet.

Poi, costituisce una cessione anche la conversione di una valuta virtuale in un’altra valuta virtuale o in euro o in un’altra valuta avente corso legale. Va notato che questo chiarimento, per quanto condivisibile, ci differenzia da quanto previsto in altri Paesi, come la Francia, dove la conversione da un crypto-asset ad un altro non dà luogo a redditi imponibili.

Ancora la risposta a interpello conferma gli obblighi di monitoraggio a favore dei quali si è pronunciato anche il Tar del Lazio con la sentenza n. 1077 del 27 gennaio 2020: le valute virtuali vanno indicate nel quadro RW ogni anno, ma non sono soggette a Ivafe (imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero).

Infine in relazione alle valute virtuali per le quali il contribuente abbia la disponibilità della chiave privata del wallet, l’amministrazione finanziaria richiamandosi alla sua precedente circolare 38/E/2013 (paragrafo 1.3.1.) ha precisato che trattandosi di attività finanziarie estere detenute in Italia al di fuori del circuito degli intermediari residenti suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia sussiste comunque l’obbligo di indicazione nel quadro RW della dichiarazione.

La pronuncia dell’Agenzia, per quanto coerente con i precedenti documenti di prassi, mette in luce il limite principale di questo come di altri documenti, ossia l’assenza di norme di diritto civile che diano una definizione univoca e omnicomprensiva (per quanto possibile) dei cripto assets, almeno in attesa che si concluda il processo legislativo comunitario riguardante il regolamento «Mica» (regulation on markets in crypto assets), su cui il Consiglio europeo ha appena raggiunto un accordo.

Ma la soluzione migliore, che conferirebbe certezza agli investitori e agli intermediari, ponendo le basi per uno sviluppo ordinato del mercato di queste attività in Italia, risiederebbe nell’introduzione, come avvenuto in altri Paesi, di una normativa tributaria ad hoc sui cripto-assets, che ne riconoscesse le peculiarità e ne evitasse l’assimilazione a beni e a discipline tributarie che poco si attagliano al fenomeno della finanza digitale.

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Sottrarre dati dal pc aziendale comporta il licenziamento

13 Dicembre 2021

Il Sole 24 Ore 20 novembre 2021 di Marina Olgiati Francesco Torniamenti

Il lavoratore colpevole commette illecito civile e reato di danneggiamento

L’azienda per provare la condotta può produrre documenti personali

I dati contenuti nel pc aziendale in dotazione al dipendente e utilizzati per lo svolgimento dell’attività lavorativa sono patrimonio aziendale. Pertanto, il dipendente che cancelli o manipoli o trasferisca all’esterno tali dati attua una condotta disciplinarmente rilevante, commette illecito civile e penale e può essere tenuto al risarcimento dei danni. Per dimostrare la condotta illecita del dipendente, il datore di lavoro può legittimamente acquisire e produrre in giudizio i messaggi privati inviati dal lavoratore a soggetti terzi. Così ha stabilito la Cassazione nella pronuncia 33809/2021 che ha affrontato il tema anche sotto il profilo della privacy e dei controlli difensivi.

Il caso esaminato ha riguardato un dirigente con mansioni di direttore commerciale, il quale, dopo essersi dimesso, aveva restituito il pc aziendale, previamente cancellando e/o asportando dati di contenuto lavorativo (e-mail, numeri di telefono, informazioni su prodotti e metodi di produzioni). La società datrice, con un intervento tecnico sull’hard disk del pc, aveva recuperato taluni dati cancellati, tra cui una password personale del dirigente, di cui si era poi avvalsa per accedere a messaggi privati del medesimo dirigente. Da tale corrispondenza aveva scoperto che quest’ultimo si era appropriato di informazioni riservate contenute nel pc aziendale, per diffonderle all’esterno. Accertati i fatti, la società aveva convenuto in giudizio l’ex dipendente, proponendo nei suoi confronti una cospicua domanda di danni.

Il giudice di primo grado aveva accolto la domanda, mentre la Corte d’appello l’aveva respinta sul presupposto che la società aveva prodotto prove non utilizzabili (messaggi privati), perché acquisite in violazione del diritto alla riservatezza e alla segretezza della corrispondenza. La Suprema corte ha cassato la sentenza d’appello, con rinvio alla corte territoriale, che dovrà decidere attenendosi ai seguenti principi: il lavoratore che cancella dati contenuti nei dispositivi aziendali lede il patrimonio aziendale e commette illecito civile, a cui consegue il diritto del datore al risarcimento dei danni; commette, altresì, il reato di “danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici”, previsto dall’articolo 635 bis del Codice penale. Il reato sussiste anche se la cancellazione non è definitiva. La Cassazione ha osservato che la condotta è disciplinarmente rilevante e giustifica il licenziamento per giusta causa per infrazione degli obblighi di diligenza e fedeltà.

La produzione in giudizio di documenti contenenti dati personali è sempre consentita quando sia necessaria per esercitare il diritto di difesa e non è preclusa dalla normativa sulla privacy che permette il trattamento di dati personali altrui, senza il consenso del titolare, quando il trattamento è diretto alla tutela di un diritto in sede giudiziaria. La società, al fine di accertare l’illecito utilizzo dei dati aziendali, ben poteva controllare la sua messagistica privata dell’ex dipendente, poiché tale controllo è “difensivo” e può essere adottato senza il rispetto delle garanzie di cui all’articolo 4 della legge 300/1970.

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Transfer pricing, niente sanzioni se c’è buona documentazione

13 Dicembre 2021

Il Sole 24 Ore 27 novembre 2021 di Alessandro Germani

La remissione in bonis è ammessa fino alle dichiarazioni 2022

La comunicazione tardiva alle Entrate può essere fatta entro 90 giorni dal termine

La circolare 15/E/2021 recepisce i commenti pervenuti a seguito della pubblica consultazione conclusasi il 12 ottobre scorso. La struttura della circolare resta invariata e per gli aspetti principali rimandiamo a interventi precedenti (si veda «Il Sole 24 Ore» del 21 e 22 settembre 2021). Di seguito invece ci concentriamo sugli aspetti nuovi che emergono dopo la consultazione.

Ricordiamo che per beneficiare della penalty protection, che consente la disapplicazione delle sanzioni in caso di verifica afferente al transfer pricing (articolo 110, comma 7, del Tuir), occorre predisporre (mera facoltà e non obbligo) una documentazione composta dal masterfile e dal countryfile in grado di dimostrare che i prezzi applicati sono di libera concorrenza, e che pertanto non vi è stato l’intento di spostare materia imponibile altrove all’estero.

Per ciò che concerne il master file, che si ricorda è obbligatorio per tutti i soggetti rispetto al previgente regime, qualora il periodo d’imposta del soggetto estero controllante diretto o indiretto non risulti coincidente con quello dell’entità locale, si ritiene possibile presentare il masterfile predisposto dal soggetto controllante diretto o indiretto riferito al periodo d’imposta la cui data di chiusura precede quella del periodo d’imposta dell’entità locale.

In ogni caso, se nel corso del controllo emerga l’esigenza di disporre di informazioni supplementari o integrative rispetto a quelle contenute nel documento, l’entità locale deve rendere disponibile su richiesta tali ulteriori informazioni, compreso, se del caso, il masterfile riferito al periodo d’imposta la cui data di chiusura segue quella del periodo d’imposta dell’entità locale.

Circa la documentazione nazionale è possibile descrivere anche le operazioni marginali. Se chiaramente queste non vengono descritte, in caso di contestazione per esse non varrà l’esimente sanzionatoria, ma questo non significa che l’esimente venga meno anche per le operazioni non marginali.

Per le operazioni afferenti a royalties e interessi passivi si guarda al principio di competenza, anche se in fase di verifica i controlli potranno essere effettuati sui pagamenti in base al criterio di cassa.

Per quanto riguarda i termini di consegna della documentazione, richieste ad hoc possono riguardare i master file afferenti alle divisioni dell’impresa o quelli riguardanti le altre attività, così come i casi in cui vi siano delle differenze nella chiusura dei periodi d’imposta fra le entità coinvolte.

Viene ribadita l’apertura alla remissione in bonis, così come previsto già per la documentazione del patent box. A titolo esemplificativo, quindi, la comunicazione riferita al periodo d’imposta 2020, da effettuare con il modello Redditi 2021, può essere effettuata presentando una dichiarazione integrativa al più tardi entro il termine di presentazione del modello Redditi 2022, versando, altresì, la sanzione prevista dall’articolo 11, comma 1, del Dlgs 471 del 1997.

Viene specificato che, ai fini dell’applicazione della disciplina della remissione in bonis, non rientrano tra le «altre attività amministrative di accertamento» le richieste informative e documentali eseguite nell’ambito del regime dell’adempimento collaborativo disciplinato dagli articoli 3 e seguenti del Dlgs 128/15.

In caso di rettifica del valore di libera concorrenza dei prezzi di trasferimento praticati dal contribuente, la sanzione amministrativa per infedele dichiarazione non si applica qualora la documentazione, validamente presentata, sia considerata idonea anche per la parte di reddito imponibile, ovvero di compensi, interessi e altre somme soggette a ritenuta, oggetto di dichiarazione integrativa a sfavore; nel diverso caso in cui la documentazione sia ritenuta non idonea, la determinazione della sanzione è rimessa alle valutazioni dell’ufficio competente per l’accertamento.

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Socio unico iscritto Aire e base operativa in Italia: la Srl è esterovestita

9 Novembre 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 18 ottobre 2021 di Giorgio Gavelli

Reperiti inoltre documenti extracontabili presso un’altra impresa italiana

Va considerata esterovestita (ossia solo formalmente con sede all’estero, ma di fatto con sede in Italia) la società con un amministratore unico (e socio unico) ufficialmente iscritto all’Aire ma, di fatto, operante stabilmente in Italia e in presenza di documentazione commerciale ed extracontabile reperita presso una società italiana. È la conclusione a cui giunge la Ctp Torino n. 706/02/2021 (presidente Cervetti, relatore Gurgone), che richiama alla mente alcuni casi eclatanti riguardanti il settore della moda.

In questo caso il settore interessato è quello (meno patinato) della cartellonistica pubblicitaria. Nel corso di una verifica presso una società con sede in Piemonte, la guardia di Finanza reperiva copiosa documentazione commerciale ed extracontabile riguardante altre due società, svolgenti la medesima attività e amministrate dallo stesso soggetto, con sede rispettivamente nel Regno Unito e nella Repubblica di San Marino.

All’esito delle indagini le due società sono state ritenute solo formalmente localizzate all’estero, ma di fatto con sede in Italia, presso la sede della società piemontese, dove venivano assunte le decisioni di natura manageriale e commerciale. Ciò anche se l’amministratore unico di tutte le strutture risultava, dal 2013, non più residente in Italia ma nel Regno Unito.

In base all’articolo 73, comma 1, Tuir, ai fini Ires si considerano residenti le società e gli enti commerciali che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Tuttavia, già dal 2016, il successivo comma 5-bis introduce la seguente presunzione: salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo in soggetti Ires residenti, se, in alternativa:

sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del Codice civile, da soggetti residenti nello Stato;

sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nello Stato.

Nel caso di specie tutti i requisiti per far scattare la presunzione non erano presenti. Tuttavia il collegio sembra collocare direttamente nel nostro Paese «la sede dell’amministrazione» (intesa come sede effettiva, Cassazione 16697/2019) e «l’oggetto principale» delle due società formalmente estere, le quali vengono quindi considerate esterovestite (Cassazione 19000/2021). Ne consegue la conferma di quanto contestato dall’ufficio, in relazione alla omessa presentazione delle dichiarazioni e all’evasione d’imposta.

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Bitcoin e rischio truffa: ecco tutte le difese (ma la sanzione è incerta)

9 Novembre 2021

Il Sole 24 Ore 2 novembre 2021 di Vittorio Carlini

Focus. La valuta regina è considerata un investimento di natura finanziaria Per i criptoasset legati a prodotti può richiamarsi il Codice del consumatore

AFP Boom di investimenti. Con il balzo delle quotazioni del bitcoin si assiste a un balzo degli investimenti: è opportuno conoscere regole e tutele per chi opera in criptovalute

«Fatta la legge, trovato l’inganno». Il proverbio è noto. Solo che rispetto al bitcoin, da un lato, la legge non c’è (perlomeno non esiste una norma ad hoc); e, dall’altro, gli inganni spesso già esistono dietro l’angolo. Un contesto in cui gli investitori, vittime di raggiri, possono quindi pensare di non avere alcuna tutela. Le cose, a ben vedere, non stanno così.

Eft o investimenti diretti

Dapprima bisogna distinguere tra chi opera direttamente sui criptoasset o chi, invece, utilizza Etf o Etn in Europa. In questa seconda ipotesi «se l’Etn è venduto da istituti tradizionali – afferma Andrea Conso, avvocato esperto di cryptocurrency di Conso&Annunziata – si ricade sotto l’ombrello dell’usuale regolamentazione dei prodotti finanziari». Certo: bisogna sempre fare attenzione al prospetto informativo. Buona prassi, ad esempio, è controllare dove sia situata la sede legale dell’emittente. Se è infatti vero che il foro competente, rispetto all’eventuale illecito di un emittente, è in linea di massima quello della residenza dell’investitore, l’esecuzione di un’ipotetica sanzione «diventa complessa, e onerosa, nel momento in cui debba essere realizzata in uno Stato “esotico”». Ciò detto, però, è chiaro che l’investitore fai-da-te, il quale sfrutta l’Exchange traded fund (o l’Etn), ha i mezzi per fare valere le sue ragioni.

Diverso, invece, il discorso nel primo caso. Cioè quando si effettuano compravendite direttamente nella criptosfera, in particolare sulle piattaforme di scambi accentrati. Qui le cose si complicano. «In assenza di norme specifiche -riprende Conso – sarebbe opportuno operare tramite exchange con alcune minime caratteristiche». Quali? Tra le altre: la loro configurazione, o riconducibilità, a società commerciali e con la domiciliazione o sede legale in Stati contraddistinti da un sistema normativo evoluto. «Questo perché, in primis, la presenza di un veicolo societario consente, ad esempio, l’avvio di procedure concorsuali in caso di fallimento». E, poi, perché, «al di là dell’antiriciclaggio, dove la legge ormai comprende i criptoasset, la tutela dell’investitore finora passa attraverso l’applicazione per analogia della norma». Vale a dire: sono richiamate, analizzando ogni singolo caso, regole pensate per altre situazioni. Un meccanismo che, evidentemente, è più facile realizzare in sistemi giuridici evoluti.

Le difese in concreto

Fin qui alcune suggestioni generali: quali, tuttavia, considerazioni più concrete? «Il bitcoin -afferma Conso – è corretto oggi ricondurlo ad un investimento di natura finanziaria». La stessa proposta di regolamento Ue MiCa (atteso per il 2024), creando e applicandosi ad una disciplina residuale per tutte le cripto attività non qualificabili quali strumenti finanziari (tra gli altri le stable coin o gli utility token), sembra avvalorare l’impostazione in oggetto. A fronte di ciò è chiaro che, riguardo alla cryptocurrency regina, possono attivarsi le norme e difese già esistenti collegate alla sollecitazione del pubblico risparmio: dalla presenza di un minimo di prospetto informativo fino alla necessità del consenso informato.

E rispetto, invece, al cosiddetto utility token? Questo, risalendo alla stessa indicazione della Finma (la Consob svizzera), è un criptoasset che legittima, a chi ne è in possesso, di ricevere, a titolo gratuito od oneroso, un bene o un servizio. «Riguardo ad esso, di conseguenza, non è errato pensare alle varie tutele che sono previste nel Codice del consumatore».

Il Codice del consumatore

Già, le tutele del Codice del Consumatore. Ma di cosa si sta parlando? Per rispondere è utile ricordare il fenomeno, ricompreso negli utility token e molto di moda in questo periodo, dei Non fungible token (Nft). Cioè: gettoni digitali, creati su blockchain, che da un lato non possono essere sostituiti con altri token (non fungibilità); e che, dall’altro, certificano e garantiscono, su un bene digitale o fisico (un’opera d’arte) un diritto. Ad esempio: la proprietà.

Ebbene: simili gettoni digitali sono oggetto di compravendita, soprattutto su piattaforme online. In un simile contesto, diversi esperti, sottolineano che all’operatività negli exchange dovrebbe applicarsi l’art. 35 del Codice del consumo. Questo prevede che le clausole del contratto di compravendita siano redatte in modo chiaro e comprensibile. Non solo: dev’essere prevista la garanzia del diritto di recesso. O ancora che non possa essere esclusa all’acquirente la possibilità, a priori, di adire l’autorità giudiziaria nei casi in cui lo si ritenga opportuno. «Simili valutazioni – riprende Conso -sono corrette. Ciò detto, però, bisogna fare i conti con la realtà». Vale a dire? «Molte piattaforme, nelle loro formulazioni contrattuali, spesso disconoscono i diritti in oggetto». È vero! Rimangono in astratto rivendicabili. «Ma gli exchange, frequentemente, non indicano di chi è la titolarità della piattaforma, dove è la sede legale, qual è l’entità giuridica contro cui agire». Insomma: la norma, individuata per analogia, esiste. E, però, la sua concreta applicazione non è scontata.

Alla fine si affronta il consueto problema legato all’evoluzione tecnologica nella finanza. Da un lato le novità, e le speculazioni, corrono velocemente. Dall’altro, il legislatore fatica a tenere il passo. Anche perché, inutile nasconderlo, il nuovo business che si va creando fa gola a molti.

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Hacker contro San Carlo, l’azienda salva i dati

9 Novembre 2021

Il Sole 24 Ore 27 ottobre 2021

CYBER RISK

L’azienda ha deciso di non pagare il riscatto e ha denunciato i fatti

Si tratta di un tipico attacco Ransomware quello messo a segno venerdì scorso ai danni della azienda milanese di patatine San Carlo. Un attacco dopo il quale gli hacker hanno richiesto un riscatto per restituire la piena funzionalità al sistema informatico aziendale. Da quanto si è saputo, però, è stato possibile aggirare l’attacco e l’azienda ha ripristinato subito la piena funzionalità senza subire danni.

Alla San Carlo sarebbero però stati trafugati documenti relativi al budget e alcuni documenti sensibili come copie di passaporti, patenti e documenti di identità di alcuni dipendenti. Autori dell’attacco sarebbero gli hacker del celebre gruppo internazionale Conti, a quanto ha rivelato su Twitter il ricercatore di sicurezza informativa ‘Odisseus’. Questa mattina sul dark web sarebbero già stati diffusi alcuni dei documenti trafugati, che in tutto peserebbero 53 mega bite.

La San Carlo, a quanto si è saputo, non è stata l’unica azienda milanese ad aver subito attacchi informatici in questa settimana, tutti non andati pienamente a segno.

La Polizia Postale, che è subito intervenuta, sta stilando una relazione che consegnerà nelle prossime ore al procuratore aggiunto Alberto Nobili, a capo del pool antiterrorismo e contro i reati informatici della Procura di Milano. Dopo la richiesta del riscatto da parte degli estorsori informatici l’azienda ha deciso di non pagare la somma richiesta anche in ragione del fatto che i dati sottratti erano già stati messi al sicuro con un back up di sistema.

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Le molteplici vie da seguire per il passaggio generazionale

9 Novembre 2021

Il Sole 24 Ore 23 ottobre 2021 di G.G.F.

PIANIFICAZIONE

Spesso il passaggio generazionale, cioè il processo che conduce al passaggio alla generazione successiva di capitali e patrimonio, e anche di responsabilità legate all’impresa, non viene affrontato per tempo o in modo adeguato. «Forse il concetto stesso di passaggio generazionale può essere fuorviante, inducendo alcuni a ritenere che si tratti di un “passaggio del testimone” definitivo ed assoluto, da compiersi in età molto avanzata», osserva Massimiliano Campeis, senior partner dello Studio Avvocati Campeis. «È invece un tema che riguarda tutte le famiglie, nella prospettiva di conferire al proprio patrimonio maggiore ordine, efficienza e protezione, e – in ottica di pianificazione successoria – di fare in modo che in futuro sia equamente diviso, scongiurando l’insorgere di divergenze, e che sia impiegato nella maniera più utile per fare fronte ai bisogni concreti dei beneficiari», spiega l’avvocato.

Se all’interno del patrimonio c’è una società commerciale, la pianificazione aiuta a preservare la stabilità degli assetti proprietari, evitando situazioni che possono danneggiare la continuità dell’azienda e il suo valore. Inoltre, dal punto di vista fiscale, «operare attribuzioni in vita può significare cristallizzare la normativa vigente, mettendo il patrimonio al riparo da futuri inasprimenti dell’imposta di successione e donazione (in Italia oggi particolarmente favorevole)», argomenta Campeis.

Esistono vari strumenti per il passaggio generazionale. Oltre al trust, è possibile ricorrere alla donazione, trasferendo beni o quote societarie al beneficiario; alle polizze vita, che oltre a offrire vantaggi fiscali sono impignorabili e vengono escluse dall’asse ereditario; al patto di famiglia, un contratto tra tutti i legittimari, che anticipa il trasferimento dell’azienda o delle quote nelle mani delle persone più idonee a occuparsene, evitando liti tra gli eredi, nonché i problemi di continuità aziendale. O all’istituzione di una holding tra gli eredi. «Non è facile indicare quali siano i migliori strumenti», riflette Campeis, aggiungendo che «spesso una buona pianificazione ne utilizza diversi, in maniera tra loro coordinata».

Intanto, già un testamento redatto con attenzione è meglio di niente. Meglio ancora, però, se combinato con un’attenta pianificazione “in vita”. «Quando nel patrimonio ci sono una o più società, con un attento utilizzo delle previsioni statutarie in combinazione con la donazione o il patto di famiglia (avente a oggetto la nuda o piena proprietà di partecipazioni), può essere costruito l’assetto più idoneo agli interessi della famiglia», aggiunge Campeis.

Mentre in caso di esigenze particolari, come la necessità di disporre attribuzioni di beni o redditi diluite nel tempo (per esempio per persone in giovane età), o di garantire una governance all’azienda di famiglia, si può appunto ricorrere al trust, che consente «di operare una programmazione dinamica del patrimonio per gli anni, o i decenni, futuri», conclude Campeis.

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La frode del fornitore non contagia tutti i clienti in modo automatico

9 Novembre 2021

Il Sole 24 Ore 25 ottobre 2021 di Massimo Sirri e Riccardo Zavatta

Ctp Milano: l’ufficio ha raccolto indizi privi di valore probatorio

Non regge la tesi per cui il fornitore coinvolto in una frode carosello e quello che abbia ricevuto fatture per operazioni inesistenti altro non potrebbero fare se non diffondere lo stesso “male” a tutti coloro con cui entrano in contatto, con l’effetto che anche le fatture emesse da detti fornitori dovrebbero inserirsi in un circuito fraudolento e, in definitiva, qualificarsi come relative a operazioni oggettivamente inesistenti. Così non è secondo la sentenza 3641/7/2021 della Ctp Milano (presidente e relatore Mainini), la quale, sostituendosi all’ufficio accertatore nello svolgimento del vaglio critico degli elementi meramente indiziari raccolti in istruttoria, evidenzia come questi siano privi di valore probatorio e, in realtà, «senza fondamento e indimostrati». Soprattutto, se messi a confronto con la struttura della cliente (ricorrente in giudizio), con le rigorose procedure di selezione e verifica dei fornitori e gli accurati protocolli di acquisizione documentale (certificazioni-autorizzazioni), nonché con i controlli fisici e contabili che caratterizzano l’intero processo di approvvigionamento. Tutti presidi di regolarità e correttezza dei comportamenti che, peraltro, sarebbero assai difficilmente aggirabili nell’ambito di un’organizzazione aziendale delle dimensioni di quella della contribuente, se non con il coinvolgimento di un numero di dipendenti tale «da rendere impraticabile la sola eventualità». In conclusione, il collegio mette in luce l’inconsistenza e la stessa verosimiglianza delle costruzioni accusatorie (che talora connotano questa tipologia d’accertamenti), evidenziando altresì la disinvoltura con la quale, nel caso di specie, l’ufficio ha trasformato «inspiegabilmente e senza avvio di ulteriori indagini o prove» una possibile contestazione (almeno per uno dei fornitori) d’inesistenza soggettiva in un rilievo per utilizzo di fatture relative a operazioni oggettivamente inesistenti, inserite in un accordo fraudolento. Il che porta a sottolineare come la natura della contestazione sia destinata a riflettersi sull’onere probatorio degli uffici e sugli strumenti a disposizione della difesa. Se si discute d’inesistenza soggettiva, occorre far valere la propria buona fede e diligenza. Se il rilievo concerne l’inesistenza oggettiva dell’operazione (inserita o meno in un carosello), il fisco può ricorrere a presunzioni, ma devono essere gravi, precise e concordanti. Nelle frodi in cui la merce è effettivamente acquistata, ma qualcuno non versa l’Iva, non può parlarsi di operazioni inesistenti. Rileva però la conoscenza-conoscibilità della frode. Nel caso di specie, la prima non è stata provata, nemmeno per presunzioni, e la seconda stride apertamente con la normale diligenza del cessionario.

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Dall’emissione all’Iva, la fattura elettronica cambia le operazioni tra Italia e San Marino

8 Ottobre 2021

Il decreto 21 giugno 2021 del ministero dell’Economia ha dato attuazione all’articolo 12 del Dl 34/2019, che prevedono che gli adempimenti relativi ai rapporti di scambio con la Repubblica di San Marino debbano essere eseguiti in via elettronica.
Le regole tecniche hanno trovato collocazione nel provvedimento 211273 delle Entrate datato 5 agosto 2021, emanato in osservanza dell’articolo 21 del Dm del 21 giugno.

L’effetto pratico di tali novità è che le regole che disciplinano gli scambi tra Italia e San Marino, contenute nel decreto del ministro delle Finanze 24 dicembre 1993, troveranno a breve applicazione, facoltativamente dal 1° ottobre 2021 e obbligatoriamente dal 1° luglio 2022, nell’ambito della fatturazione elettronica che già conosciamo, con qualche ulteriore specificità che di seguito esaminiamo.

Dal punto di vista dell’assolvimento dell’imposta, il decreto prevede che:

  • le cessioni effettuate da parte dei soggetti passivi mediante trasporto o consegna dei beni nel territorio della Repubblica di San Marino (Italia-San Marino) e i servizi connessi, sono non imponibili ai sensi degli articoli 8 e 9 del Dpr 633/1972. Sono assimilate a tali cessioni l’invio di beni mediante trasporto o spedizione a cura del soggetto passivo nel territorio dello Stato o da terzi per suo conto;
  • le cessioni effettuate da operatori sanmarinesi mediante l’introduzione dei beni nel territorio dello Stato (San Marino-Italia) assolvono l’imposta ai sensi dell’articolo 71 del Dpr 633/1972, ossia sono tenuti al pagamento dell’imposta i contribuenti per i quali o per conto dei quali essa è effettuata;
  • momento di effettuazione dell’operazione sono l’emissione della fattura o il pagamento del corrispettivo, ovvero l’inizio del trasporto o della spedizione.
  • In quest’ultimo caso, se gli effetti traslativi o costitutivi si producono in un momento successivo, le operazioni si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti e comunque dopo il decorso di un anno dalla consegna o spedizione.

    Dal punto di vista dell’emissione della fattura elettronica, il decreto prevede che:

    • per le cessioni di beni Italia-San Marino, la fattura elettronica non imponibile trasmessa dal cedente italiano al cessionario sanmarinese (tramite lo Sdi) sia verificata dall’ufficio tributario di San Marino, che ne convalida la regolarità e comunica l’esito del controllo al competente ufficio dell’agenzia delle Entrate attraverso un apposito canale telematico.
    • per le cessioni di beni San Marino-Italia, la fattura elettronica emessa dall’operatore sanmarinese viene trasmessa dall’ufficio tributario di San Marino allo Sdi, il quale la recapita al cessionario italiano che può visualizzare l’esito dei controlli, oltre ai dati fiscali della fattura, attraverso canale telematico messo a disposizione dalle Entrate sul sito «Fatture e corrispettivi».

    Permane, per le cessioni di beni San Marino-Italia:

    • la possibilità di addebitare l’imposta nella fattura elettronica, nel qual caso l’imposta è versata dall’operatore sammarinese all’ufficio tributario di San Marino. L’esito positivo del controllo da parte dell’Agenzia è reso noto telematicamente al cessionario, che da tale momento può operare la detrazione dell’imposta, ai sensi degli articoli 19 e seguenti;
    • la possibilità di non indicare l’imposta nella fattura elettronica, nel qual caso l’operatore italiano al quale la fattura è stata recapitata tramite Sdi assolve l’imposta in reverse charge, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, indicando l’ammontare dell’imposta dovuta con le modalità previste dall’Agenzia per l’integrazione delle fatture elettroniche.

    Le regole contenute nel provvedimento del 5 agosto

    Il provvedimento contiene specifiche regole tecniche per l’emissione e la ricezione delle fatture elettroniche. Dal contenuto del provvedimento e sulla base delle informazioni ricevute da AssoSoftware, possiamo affermare che per l’operatore italiano cedente o cessionario non cambia nulla rispetto alle attuali modalità di invio e ricezione delle fatture elettroniche, salvo indicare lo specifico codice destinatario dell’hub di San Marino per quanto riguarda le fatture emesse.

    Per l’operatore sanmarinese, invece, che invia o riceve le fatture elettroniche, valgono le nuove regole tecniche emesse dal ministero delle Entrate di San Marino che prevedono specifiche e tracciati ad hoc per l’interfacciamento con l’hub dell’Ufficio tributario dello Stato di San Marino.

    Rimangono da verificare le modalità con cui saranno resi disponibili gli esiti dei controlli sull’esigibilità dell’Iva e se questi saranno accessibili anche agli operatori collegati tramite intermediari accreditati (i.e. hub privati). A breve sarà possibile conoscere, grazie alle attività di coordinamento di AssoSoftware, le esatte modalità operative concretamente utilizzabili con i software gestionali.

Doing business in San Marino

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