Criptovalute. «Gestori di fondi Esg state alla larga dai Bitcoin»

14 Settembre 2021

Il Sole 24 Ore 14 agosto 2021 di Vitaliano D’Angerio

Altissimo rischio reputazionale per gli investitori, l’allarme di Candriam

«Criptovalute e Esg: una contraddizione in termini?». Basterebbe il titolo della ricerca per aprire e chiudere il dibattito; gli analisti di Candriam (Lucia Meloni e Vincent Compiègne) hanno invece argomentato in una trentina di pagine i motivi per cui gli investitori Esg devono stare, per ora, alla larga da Bitcoin e affini: «Crediamo che le criptovalute abbiano una lunga strada da fare prima di soddisfare i criteri Esg. Fino a quando non vi sarà una seria modalità per risolvere le preoccupazioni dichiarate nel nostro documento, un investimento diretto significativo in criptovalute può causare gravi danni alla reputazione Esg di un gestore o di un investitore istituzionale».

Riciclaggio e non solo

Ma quali sono le preoccupazioni degli esperti di Candriam (140 miliardi di euro in gestione – gruppo New York Life Investments)? «Le criptovalute sono spesso usate per riciclare denaro sporco. Un rapporto di CipherTrace ha rivelato che, nel 2020, i principali furti di criptovalute, le operazioni degli hacker e le frodi hanno totalizzato 1,9 miliardi di dollari, stime che probabilmente rappresentano una piccola parte di ciò che viene effettivamente riciclato attraverso le monete virtuali, perché i criminali con maggiori risorse sono difficili da identificare».

Ecco uno degli elementi sotto accusa da parte degli analisti Esg. Senza dimenticare, viene sottolineato che «l’anonimato offerto dal mercato delle criptovalute ha permesso la diffusione di truffe ingegnose». E viene aggiunto: «Con facili trasferimenti transfrontalieri, la crescita della criminalità informatica legata alle criptovalute evidenzia l’urgente necessità di un intervento politico e di un allineamento normativo internazionale».

Energia a carbone cinese

Altro elemento evidenziato è l’attività di produzione di criptovalute, ad alta intensità di energia, e i luoghi di produzione: «Il mining (l’estrazione, ndr) di Bitcoin utilizza circa lo 0,4% del consumo energetico globale. Più ci si avvicina al limite dei 21 milioni di Bitcoin esistenti, più i puzzle (sistemi che garantiscono l’integrità dell’emissione di nuove unità) sono complessi, e richiedono energia. Secondo l’Università di Cambridge il consumo annuale di elettricità del mining di Bitcoin supera quello di alcune nazioni, e il 75% dell’estrazione globale di Bitcoin avviene in Cina, in aree in cui l’elettricità è prodotta attraverso la combustione di carbone termico». Bitcoin-Cina-carbone: un triangolo esplosivo per i cambiamenti climatici. Come può un gestore Esg giustificare l’investimento in criptovalute?

Cosa c’è da salvare

Ci sono criptovalute pulite almeno dal punto di vista ambientale? La risposta è affermativa: «Esistono le cosiddette criptovalute “non mining“, come Ripple, che non hanno bisogno del supporto di computer ad alta potenza per convalidare i blocchi delle transazioni, quindi più efficienti dal punto di vista energetico». Però anche qui vi è da risolvere un problema: «Il tipo di controlli per convalidare i blocchi di transazione di queste criptovalute pone un problema di governance. Usano infatti un sistema in cui se un’entità riesce a comprare il 51% di tutte le monete può, in teoria, tenere in ostaggio il network e i suoi stakeholder». Le criptovalute hanno veramente tanta strada da fare per diventare Esg.

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Noleggi a lungo termine, tassato in Italia il canone dei veicoli con targa estera

6 Agosto 2021

Il Sole 24 Ore 24 luglio 2021 di Antonio Veneruso

Il luogo di utilizzo può essere dimostrato su un apposito elenco

Tra le incombenze dell’impresa che utilizza in Italia un veicolo estero si annovera l’applicazione della ritenuta fiscale alla fonte a titolo d’imposta cui è soggetto l’importo del canone di noleggio corrisposto all’impresa di leasing e/o noleggio non residente.

La circolazione in Italia di veicoli con targa estera è ammessa, senza limiti di tempo, a condizione che il veicolo sia preso in leasing o a noleggio a lungo termine da un operatore economico con sede in un altro Stato Ue o See, che non ha stabilito in Italia una sede secondaria (con esclusione, dal 1° gennaio 2021, del Regno Unito).

Va ricordato, agli operatori domestici, l’obbligo di applicare la ritenuta fiscale alla fonte sul noleggio di attrezzature industriali, commerciali o scientifiche, tra cui rientrano anche gli autoveicoli, utilizzati in Italia e i cui canoni sono corrisposti a favore di soggetti non residenti. Ciò in quanto in base all’articolo 23, comma 1, lettera f) del Tuir, per i soggetti non residenti si considerano prodotti in Italia, tra l’altro, i redditi diversi di cui al successivo articolo 67, comma 1, lettera h), derivanti dall’affitto, locazione, noleggio o concessione in uso nel territorio dello Stato di veicoli, macchine o altri beni mobili.

L’articolo 25, comma 4, secondo periodo, del Dpr 600/1973, stabilisce che su tali compensi si applica una ritenuta alla fonte del 30% a titolo d’imposta sull’ammontare dei compensi corrisposti a non residenti a condizione che tali beni si trovano nel territorio dello Stato, con la sola esclusione dei compensi versati a stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti.

La base imponibile dei compensi su cui applicare la ritenuta d’imposta ordinaria del 30%, è costituita dall’intero ammontare del canone corrisposto, senza riconoscimento di deduzione alcuna, così come precisato dalle entrate con la circolare 47/E/2005, considerato che per i non residenti si esclude la possibilità di dedurre le spese per la produzione del reddito, ex articolo 71, comma 2 del Tuir, consentita invece per i soggetti residenti.

Ai fini della corretta individuazione del requisito della territorialità, presupposto necessario per la tassazione dei canoni, ci viene in soccorso la circolare 47/E/2005 che evidenzia che l’utilizzatore del veicolo può dimostrare l’effettivo luogo di utilizzo del mezzo di trasporto compilando un apposito elenco in cui siano riportati i dati riguardanti gli estremi del contratto di utilizzo, la durata, il relativo importo, nonché gli elementi di individuazione che per esempio per le autovetture sono costituiti dalla targa.

Il soggetto non residente beneficiario effettivo dei canoni, può invocare l’applicazione della Convenzione per evitare la doppia imposizione stipulata tra l’Italia e lo Stato membro o See interessato, se più favorevole. Infatti, nelle Convenzioni pattizie stipulate dall’Italia, tale previsione è disciplinata dall’articolo 12 che tratta dei canoni.

A dire il vero le Convenzioni stipulate dall’Italia si discostano dal modello Ocse del 2017, in quanto per l’appunto nella definizione di canone comprendono non solo intangible assets ma anche la concessione in uso di attrezzature industriali, commerciali o scientifiche.

Al riguardo, giova ricordare che il sostituto d’imposta italiano sotto la propria responsabilità, ha facoltà di applicare il regime fiscale pattizio più favorevole per le singole fattispecie reddituali (aliquota agevolata o esonero), come ricordato dalle Entrate con il provvedimento direttoriale n. 84404/2013. Quindi, se si decide per l’applicazione diretta, il sostituto d’imposta deve obbligatoriamente acquisire e verificare la corretta compilazione della documentazione prescritta dal provvedimento n. 84404/2013.

In merito alla modulistica, si evidenzia che attualmente l’agenzia delle Entrate riconosce l’utilizzo di modelli alternativi a quelli direttoriali, atteso che l’amministrazione finanziaria del Paese di residenza del beneficiario effettivo del reddito spesso rilascia l’attestato di residenza fiscale utilizzando una propria modulistica da allegare alla domanda di rimborso o di applicazione diretta della Convenzione per l’esonero o l’aliquota convenzionale. Ad ogni buon conto, l’attestazione dell’amministrazione estera contenuta nel modello ha validità a decorrere dalla data di rilascio e fino al termine del periodo d’imposta indicato nel modello stesso.

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Il lavoratore non vuole vaccinarsi? Sospensione e stop alla retribuzione

6 Agosto 2021

Il Sole 24 Ore 27 luglio 2021 di Marisa Marraffino
 
Il datore è garante di salute e sicurezza dei dipendenti e dei terzi in azienda

L’azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19. Questa volta lo ha stabilito il Tribunale di Modena, Presidente Emilia Salvatore, con l’ordinanza n. 2467 dello scorso 23 luglio che fa il punto sui diversi diritti contrapposti in tempo di pandemia.

“Il datore di lavoro – si legge nella pronuncia – si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo ai sensi dell’art. 2087 del codice civile di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori”.

Il Tribunale ricorda come la direttiva UE 2020/739 del 3 giugno 2020 abbia incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro. Rientra quindi tra i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, dettati dal Dlgs 81/2008, quello di tutelare i lavoratori da agenti di rischio esterni. Non basta più l’uso delle mascherine, come invocato dalle due ricorrenti, per proteggersi adeguatamente. Così come il datore di lavoro non è tenuto a fornire al lavoratore ulteriori informazioni sui rischi/benefici della vaccinazione, trattandosi di informazioni ormai notorie.

Nel caso di specie, a presentare il ricorso erano state due fisioterapiste di una RSA assunte da una cooperativa di Modena che le aveva sospese senza retribuzione a seguito del loro rifiuto di vaccinarsi. La sospensione era avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto legge 44/2021 che ha imposto l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario, che quindi non avendo efficacia retroattiva non poteva applicarsi in questo caso.

Il Tribunale ricostruisce allora la vicenda in via generale, delineando il quadro della normativa esistente. Anche se il rifiuto a vaccinarsi non può dar luogo a sanzioni disciplinari, può comportare però conseguenze sul piano della valutazione oggettiva dell’idonenità alla mansione. Così per chi lavora a contatto col pubblico oppure in spazi chiuso vicino ad altri colleghi la mancata vaccinazione può costituire un motivo per sospendere il lavoratore senza retribuzione.

Non trova pregio neppure l’asserita violazione della privacy delle lavoratrici che avevano sottoscritto il consenso informato sulla mancata sottoposizione al vaccino che può essere valutata dal medico aziendale per stabilire l’inidoneità del lavoratore alla mansione.

Il diritto alla libertà di autodeterminazione – spiega l’ordinanza- deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall’articolo 41 della Costituzione.

Pertanto se il datore di lavoro non dispone di mansioni che non prevedano contatti con l’utenza può decidere di sospendere chi non voglia vaccinarsi. Il principio di solidarietà collettiva, grava su tutti (compresi i lavoratori) e rende legittima la scelta del datore di lavoro di allontanare momentaneamente il lavoratore non vaccinato.

Tutti gli studi clinici condotti finora, conclude il provvedimento, hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nella prevenzione del Covid-19. La circostanza che le autorità regolatorie abbiano autorizzato la somministrazione del vaccino a partire da 12 anni serve ad escludere la natura sperimentale dello stesso, rafforzata dal fatto che allo stato non ci sono evidenze scientifiche che provino il rischio di danni irreversibili a lungo termine.

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Bocciati i patti parasociali che «vincolano» la gestione

6 Agosto 2021

Il Sole 24 Ore 26 Luglio 2021 di Angelo Busani

Confliggono con le norme che affidano la responsabilità esclusiva agli amministratori
Gli accordi che riguardano il sindacato di voto sono invece del tutto leciti

È di «dubbia liceità», per non dire che è del tutto illecito, il patto parasociale noto con l’espressione “patto di
gestione” della società le cui azioni sono conferite nel patto, il quale deve pertanto essere attentamente distinto dal
patto parasociale avente a oggetto l’esercizio del voto nell’assemblea dei soci (cosiddetto sindacato di voto),
perfettamente lecito anche in quanto espressamente contemplato dalla legge (e cioè all’articolo 2341-bis, comma 1,
lettera a) del Codice civile). Lo ha stabilito il Tribunale di Milano con decreto n. 3106 del 17 dicembre 2020, reso
noto di recente.
Il patto di gestione
Il patto di gestione è il patto parasociale stipulato al fine di influire sulle modalità con le quali l’organo
amministrativo deve gestire la società (ossia attuare l’oggetto sociale), impegnando in tal senso o direttamente i soci
amministratori oppure i soci non amministratori affinchè influiscano sull’organo amministrativo oppure impegnando
gli amministratori non soci: in altre parole, con il patto di gestione i pattisti si obbligano affinchè l’attività di
amministrazione della società sia effettuata in conformità a quanto deciso dal sindacato (con il voto favorevole di
tanti pattisti quanti ne occorrono ai sensi del contratto che contiene il patto parasociale).
Le ragioni di illiceità del patto di gestione risiedono nella considerazione (già espressa nella sentenza di Cassazione
n. 8221 del 24 maggio 2012) che gli obblighi derivanti dal patto parasociale di gestione pongono gli amministratori
della società in una potenziale contraddizione(tale da ledere il necessario rapporto fiduciario degli amministratori
con la società amministrata) tra il dovere di fedeltà nei confronti della società e quello nei confronti del patto di
sindacato.
Il sindacato di voto è legittimo in quanto vincola esclusivamente le parti contraenti e non può incidere direttamente
sull’attività sociale (Cassazione 14865/2001, 15963/2007, 10215/2010), a meno che il contenuto dell’accordo non si
ponga in contrasto con norme imperative o sia idoneo a consentire l’elusione di norme o principi generali
dell’ordinamento inderogabili (come accade nel caso in cui la pattuizione parasociale consista nell’esonerare gli
amministratori dall’azione di responsabilità: Cassazione 7030/1994 e 10215/2010).
Il conflitto degli amministratori
Invece, il sindacato di gestione pone gli amministratori in una situazione immanente di conflitto in quanto essi sono
investiti inderogabilmente dell’intera ed esclusiva responsabilità della gestione dell’impresa sociale, e ciò sia
nell’interesse della società che nell’interesse dei terzi che con essa vengano in vario modo in contatto.
Il Codice civile afferma esplicitamente questo ruolo degli amministratori sia nell’ambito della normativa dedicata
alla Spa che in quella dedicata alla Srl. Infatti:
O l’articolo 2380-bis, comma 1, sancisce, in tema di Spa, che la «gestione dell’impresa … spetta esclusivamente
agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale»;
O l’articolo 2475, comma 1, in tema di Srl, se invero non ripete l’avverbio “esclusivamente” con riguardo
all’affidamento agli amministratori della gestione dell’impresa (in quanto nella Srl l’amministrazione può essere
affidata, in tutto o in parte, anche ai soci), pur sempre dispone che «spetta esclusivamente agli amministratori» il «
dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni
dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità
aziendale».
A una diversa conclusione sulla probabile illegittimità di un patto di gestione non può giungersi nemmeno
osservando che il Codice civile contempla, sancendone indirettamente la liceità, i patti parasociali che «hanno per
oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante» sulla società le cui azioni sono oggetto
del patto parasociale (articolo 2341-bis, comma 1, lettera c) del Codice civile), poiché da tale patto non tanto deriva
un’etero-direzione della gestione della società, quanto un’influenza sull’assemblea dei soci.

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Il caos regna sovrano anche tra i regolatori delle cripto

6 Agosto 2021

Il Sole 24 Ore 24 luglio 2021 di Gianfranco Ursino

Fin dagli albori nel 2008, il Bitcoin ha registrato una controversa ascesa caratterizzata a livello globale da una sostanziale assenza di regole e controlli, almeno sino al 2017. C’era la convinzione che le criptovalute potessero sfuggire “legittimamente” alle norme. Un pensiero che si è via via dissolto per poi svanire del tutto con lo scoppio della bolla a fine 2017. E dopo le prime prese di posizione delle authority di mezzo mondo, successivamente abbiamo assistito a un confuso susseguirsi di regole.

Ma il mercato delle cripto necessita prima possibile di regole certe per presidiare i rischi insiti di un’attività transnazionale, ma anche per far funzionare e far progredire la tecnologia sottostante. Ad oggi non c’è unità di intenti neanche nel definire e qualificare con un minimo di condivisione i più basilari concetti di valute virtuali, asset virtuali e cripto asset.

C’è grande confusione anche sulla terminologia utilizzata. Una vaghezza e superficialità nelle definizioni in cui le authority provano – per ora inutilmente – a porre rimedio. Per esempio, il legislatore italiano nel recepire in anticipo con solerzia (con il Dlgs 90/2017) la parte di disciplina in materia di cripto contenuta della V Direttiva Antiriciclaggio (Ue 2018/843), fa riferimento ai prestatori di servizi e portafogli relativi a “valute virtuali”. Nelle raccomandazioni internazionali Gafi-Fatf viene fatto riferimento ai fornitori di servizi relativi ad “asset virtuali”, un ambiente più ampio, anche se non ben definito, delle “valute virtuali”. In settimana la Commissione Ue ha presentato un pacchetto di proposte volto a consolidare le norme Ue per contrastare il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, nel tentativo di rendere più tracciabili le transazioni con le “cripto asset”: un universo ancora più allargato rispetto agli “asset virtuali”. Si coglie il tentativo di porre rimedio al disallineamento delle regole che si è creato, ampliando il campo di azione.

Un provvedimento, quest’ultimo, che fa espresso riferimento alla proposta di regolamento relativo ai mercati delle cripto-attività, emanata dalla Commissione Ue a settembre 2020 e meglio nota con l’acronimo inglese “MiCA” (Markets in Crypto-Assets). Una proposta che ha l’obiettivo dichiarato di garantire «la certezza del diritto per le cripto-attività non disciplinate dalla vigente legislazione dell’Ue in materia di servizi finanziari» e «stabilire norme uniformi per gli emittenti e i fornitori di servizi per le cripto-attività a livello Ue». Peccato, però, che in dottrina ci sono pareri contrastanti tra chi ritiene le valute virtuali nel campo di applicazione nel regolamento MiCa e chi le lascia fuori. MiCa ora giace nel Parlamento Ue dove sono state depositati ben 1.160 emendamenti. Una marea di proposte di correzioni che non lasciano ben sperare.

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Riciclaggio, Malta finisce nella lista grigia

6 Agosto 2021

Il Sole 24 Ore 13 luglio 2021 di Valerio Vallefuoco

La Valletta ha assunto l’impegno di rafforzare prevenzione e contrasto

Il 23 giugno il gruppo d’azione finanziaria internazionale (Gafi) o Financial action task force (Fatf) ossia l’organismo intergovernativo che ha per scopo l’elaborazione e lo sviluppo di strategie di lotta al riciclaggio dei capitali di origine illecita e di prevenzione del finanziamento al terrorismo ha aggiornato la sua lista “grigia” inserendo Haiti, le Filippine, il Sud Sudan ma per la prima è stato inserito un Paese membro dell’Unione europea: Malta.

Secondo quanto riportato proprio dalle fonti ufficiali Faft in concomitanza dell’inserimento nella grey list lo Stato di Malta ha comunque preso un impegno politico di alto livello per lavorare sia con il Gafi che con Moneyval (il Comitato permanente degli esperti antiriciclaggio presso il Consiglio d’Europa) per rafforzare l’efficacia della prevenzione del riciclaggio e della lotta al finanziamento al terrorismo Aml/Cft.

Dall’adozione del primo report di valutazione di Moneyval nel luglio 2019, la Repubblica di Malta ha fatto progressi su una serie di azioni raccomandate dal Comitato europeo per migliorare il suo sistema. Tra le principali raccomandazioni che si sta impegnando ad attuare e sta attuando si evidenziano: il rafforzamento della metodologia di approccio basato sul rischio e la supervisione delle Istituzioni finanziarie e dei soggetti obbligati alla normativa antiriciclaggio non finanziari come ad esempio i professionisti; un miglioramento del processo analitico e decisionale per sua intelligence finanziaria Fiau; la cooperazione con gli organi di polizia, i pubblici ministeri per le indagini di riciclaggio di denaro complesso in linea con il profilo di rischio di Malta; l’introduzione di una legge sulla confisca non basata solo sulla condanna; un sensibile aumento delle sanzioni relative al reato di finanziamento al terrorismo e la capacità di indagare sui movimenti di denaro transfrontalieri per la potenziale attività di contrasto al finanziamento del terrorismo.

Ulteriore raccomandazione che Malta si è impegnata ad attuare è l’aumento e quindi la forte sensibilizzazione delle comunicazioni immediate delle istituzioni finanziarie o altre entità segnalanti sulle sanzioni finanziarie mirate nel settore degli enti non profit.

Sempre secondo il Gafi-Faft Malta si è quindi impegnata a lavorare per attuare il suo piano d’azione raccomandato continuando a dimostrare che le informazioni sulla titolarità effettiva degli enti siano accurate e che, se del caso, sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, commisurate ai rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo, siano applicate alle persone giuridiche se le informazioni fornite risultano inesatte.

Tra gli impegni ribaditi dallo Stato europeo anche la garanzia che sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive siano applicate ai soggetti vigilati quando non rispettano i loro obblighi di ottenere informazioni accurate e aggiornate sulla titolarità effettiva e sui beneficiari.

Infine la Repubblica di Malta si è impegnata a migliorare l’uso della sua intelligence finanziaria (Fiau) per sostenere le autorità che perseguono i casi di criminalità fiscale e di riciclaggio di denaro correlato, anche chiarendo i ruoli e le responsabilità amministrazione finanziaria e della Fiau, al fine di aumentare l’attenzione dell’analisi della propria Unità di informazione finanziaria su questi tipi di reati, aiutando le forze dell’ordine maltesi a individuare e indagare sui casi in linea con i rischi di riciclaggio di denaro identificati relativi all’evasione fiscale.

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Auto con targa straniera di un residente in Italia: va pagato il bollo auto

6 Agosto 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 12 luglio 2021 di Alessia Urbani Neri

Ctp di Milano: non rileva la doppia cittadinanza italiana ed elvetica

I criteri del Dl sicurezza: imposizione per i veicoli presenti da oltre 60 giorni

È legittima la ripresa fiscale per mancato versamento del bollo auto elevata nei confronti del cittadino, residente in Italia, sorpreso alla guida di un veicolo con targa straniera. L’articolo 29-bis del Dl 113/18, convertito in legge 132/18 (cosiddetto decreto sicurezza), nel modificare gli articoli 93, 132 e 196 del Codice della strada, vieta a chi risiede in Italia da oltre 60 giorni di guidare un veicolo con targa estera. In tal senso, la Ctp di Milano con la sentenza 1812/5/2021 (presidente Nocerino, relatore Chiametti) ha respinto il ricorso del contribuente, con doppia cittadinanza italiana e svizzera, di impugnazione dell’avviso di accertamento con cui la Regione Lombardia aveva richiesto il pagamento del bollo auto da giugno 2016, stante la presenza del veicolo con targa estera nel territorio italiano da più di 60 giorni.

La prova sarebbe stata fornita dall’estratto Siatel, ossia dall’anagrafe tributaria, da cui emergeva che il cittadino aveva presentato modello F24, per il pagamento in Italia di imposte e tributi.

Irrilevante l’uso sporadico

In definitiva, secondo il giudice tributario, stante la formale residenza in Italia del contribuente ai sensi dell’articolo 2 del Tuir – iscritto all’anagrafe tributaria italiana dal 2016 – lo stesso è da ritenersi soggetto passivo d’imposta anche in relazione al versamento della tassa automobilistica sul veicolo di proprietà con targa svizzera.

A nulla rileva poi la doppia cittadinanza, italiana ed elvetica, dedotta dal contribuente, nonché l’utilizzo sporadico del mezzo, non solo non provato, ma del tutto irrilevante secondo la nuova normativa del 2018.

Il decreto sicurezza, infatti, impone una stretta in tema di circolazione stradale di veicoli con targa straniera, i quali saranno soggetti a sanzioni amministrative, nonché al pagamento del bollo auto se risultano di proprietà di un soggetto residente in Italia da oltre 60 giorni ovvero se il mezzo circoli in Italia da oltre sessanta giorni.

Le uniche eccezioni riguardano le vetture concesse in leasing o con noleggio a lungo termine o in comodato da società straniere dell’Unione europea a dipendenti o collaboratori dell’azienda, che non abbiano sedi secondarie o principale in Italia. In tale ipotesi la norma richiede espressamente che «a bordo del veicolo deve essere custodito un documento… dal quale risultino il titolo e la durata della disponibilità del veicolo. In mancanza di tale documento, la disponibilità del veicolo si considera in capo al conducente».

Stabile permanenza in Italia

Nel caso in esame, il cittadino italiano, che pure conservava la cittadinanza elvetica, essendo residente nello Stato italiano da oltre 60 giorni e versando le imposte in Italia, come risulta dai dati registrati nell’anagrafe tributaria, non poteva circolare con un mezzo munito di targa estera, avendo l’obbligo di procedere alla sua immatricolazione nel territorio italiano. Ciò che rileva, nella fattispecie, è la residenza del titolare della vettura nel territorio italiano e lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, che ne fanno presumere la sua stabile permanenza nella penisola, compresa la vettura di cui è proprietario.

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È valida la vendita perfezionata anche via telefono o WhatsApp

5 Luglio 2021

Il Sole 24 Ore 23 giugno 2021 di Luca Davini

I REQUISITI DI FORMA

Ma i singoli Stati aderenti alla Convezione di Vienna possono imporre la forma scritta anche per i contratti internazionali 

Esaminando i requisiti di forma del contratto di vendita internazionale di merci sulla base delle disposizioni della Convenzione di Vienna (Cisg), si nota che essa ha introdotto un sistema uniforme di regole sulla vendita internazionale a vantaggio degli scambi commerciali tra imprese, che si trovano quindi a operare in un quadro legale comune in cui vigono norme più appropriate per il commercio internazionale rispetto alle singole normative nazionali.

Tra tali regole vi è la libertà di forma del contratto: infatti, secondo la convenzione il contratto di vendita, le sue modifiche e perfino il suo scioglimento non sono soggetti a requisiti di forma (articoli 11 e 29 della Cisg), il che costituisce senza dubbio una regola tra le più adatte al modo di fare affari delle imprese. Tale assoluta libertà di forma (la cosiddetta informalità del contratto) copre sia i requisiti di validità del contratto sia la prova del contratto stesso, che non è quindi soggetta ai limiti processuali delle normative nazionali. Per esempio, in Italia sono posti limiti alla prova testimoniale in materia di contratti nazionali.

Si tenga presente tuttavia che alcuni Stati hanno posto riserve sulla libertà di forma (ad esempio la Russia) richiedendo in sostanza che venga rispettata la loro forma nazionale per concludere una vendita internazionale (normalmente si tratta della forma scritta). Per questo motivo, occorrerà di volta in volta verificare la presenza di queste riserve, poiché in tal caso il contratto per essere valido dovrà tassativamente essere concluso secondo la forma prevista dalla legge nazionale della parte avente sede nel Paese che ha espresso la riserva.

Ne consegue che, secondo gli articoli 11 e 29 della convenzione, un contratto di vendita internazionale potrà essere validamente perfezionato verbalmente, telefonicamente, via email e perfino attraverso uno scambio di brevi messaggi di testo (sms) o tramite le app che offrono servizi di messaggistica istantanea (ad esempio WhatsApp), modalità questa molto diffusa in certi settori merceologici. Pertanto, per fare un caso pratico, una vendita di vini perfezionata via telefono o tramite WhatsApp sarà pienamente valida, ma solo nel caso in cui la convenzione si applichi pienamente al rapporto commerciale tra le parti. Per quanto la forma del contratto di vendita internazionale sia libera, occorre tuttavia evidenziare che la Cisg non regola i requisiti soggettivi delle parti contrattuali, vale a dire la loro capacità a contrarre, a stipulare il contratto. Questa capacità, costituita in particolare (ma non solo) dal disporre del potere di firmare il contratto, andrà verificata secondo il diritto nazionale applicabile caso per caso insieme alla convenzione (e cioè, come visto in precedenza, secondo la legge applicabile al contratto scelta dalle parti o secondo la legge applicabile al contratto in mancanza di scelta espressa dalle parti nel testo dell’accordo).

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Dalla Germania arriva la nuova lista Dubai

5 Luglio 2021

Il Sole 24 Ore 17 giugno 2021 di Alessandro Galimberti

Il Fisco tedesco compra da una fonte anonima un dossier con milioni di dati

Altre liste, altri dati fiscali in libero commercio nel mercato sempre più “globale”. Il governo tedesco ha confermato ieri le anticipazioni giornalistiche di Der Spiegel dichiarando di aver acquistato da una fonte anonima i dati di «milioni» di persone con beni a Dubai. Acquisto portato a termine (legittimamente secondo le leggi tedesche) non solo per perseguire illeciti di cittadini e residenti in Germania, ma anche a vantaggio di altre amministrazioni fiscali che ne faranno richiesta. Questo dossier, spiega una nota ministeriale, «contiene informazioni su milioni di contribuenti in tutto il mondo e diverse migliaia di tedeschi con attività a Dubai». Le informazioni, che sarebbero state pagate 2 milioni di euro, sono già state trasmesse ai Länder di competenza. I dati relativi ai contribuenti stranieri saranno ugualmente «messi a disposizione dei paesi interessati», ha detto Maren Kohlrust-Schulz, direttore delle autorità fiscali tedesche.

Ora, come già in passato, si ripropone il tema dei rischi per contribuenti italiani potenzialmente coinvolti in questo nuovo caso di spying internazionale (sostanzialmente, l’utilizzabilità dei dati acquisiti). Detto che in Italia l’acquisto di dati fiscali da fonti anonime, da gole profonde, da collaboratori di giustizia etc. non ha una base giuridica – e quindi l’agenzia delle Entrate non lo ha mai fatto né prevedibilmente lo farà in futuro – cosa diversa è l’acquisizione rituale e formale dalle autorità estere di atti di provenienza pur non chiarissima. Su questo punto la giurisprudenza di Cassazione è stabilissima, nel senso di permettere un utilizzo pieno come «indizio» (ma non come «prova») a partire dal 2015, quando la Sezione tributaria con due sentenze agostane gemelle (16950 e 16951) sdoganò definitivamente le liste Falciani. A legittimare i dati provenienti da un’autorità straniera, sostiene da allora la Cassazione, è la Direttiva 77/799/CE del Consiglio sull’assistenza nel settore delle imposte. Fermo restando che il giudice nazionale «apprezza liberamente» i dati ricevuti, e che il contribuente può contestarli nel contraddittorio, resta il fatto che la semplice trasmissione “autentica” non può purgare eventuali vizi o illegittimità originari. Ma il tema, oggi come e più di allora, è che il segreto bancario non costituisce un principio inderogabile e, al dovere di segretezza della banca, «non corrisponde nei singoli clienti delle banche una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, nè un diritto della personalità» poiché quel segreto, semmai, tutela «l’obiettivo della sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali, che non può spingersi però fino al punto di farne un ostacolo» al dovere (costituzionale) di ogni cittadino di «contribuire alle spese pubbliche». Per la giurisprudenza europea che pur ipotizza l’operatività dell’articolo 6 della Cedu (diritto a un equo processo) anche in materia fiscale «l’utilizzazione processuale di prove illegalmente acquisite non costituisce di per se stessa violazione, dovendosi valutare se l’intero giudizio, nel suo complesso e nel concreto, sia improntato al giusto processo».

Peraltro la stessa giurisprudenza costituzionale tedesca – sul caso della “lista Vaduz” – escluse l’utilizzabilità della prova illegittimamente acquisita «soltanto nei casi in cui viene invaso il nucleo incomprimibile dell’organizzazione della vita privata».

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E-commerce, controlli incrociati a Pescara

5 Luglio 2021

Il Sole 24 Ore 26 giugno 2021 di Simona Ficola Benedetto Santacroce

Il Centro operativo di Pescara (Cop) è individuato quale ufficio competente a svolgere le attività connesse ai regimi speciali Oss, Ue e non Ue, e Ioss per le attività di e-commerce.

Lo ha chiarito l’agenzia delle Entrate con il provvedimento di ieri con cui ha dato attuazione all’articolo 7 del Dlgs 83/2021 di recepimento della direttiva unionale sul commercio elettronico.

In particolare, nel provvedimento sono individuati gli Uffici competenti a svolgere le attività di registrazione, liquidazione della dichiarazione, accertamento e rimborsi relative ai rapporti con i soggetti che aderiscono a uno dei regimi speciali previsti per l’attività di e-commerce.

La direttiva 2017/2455/Ue ha apportato significative modifiche alla direttiva Iva con riferimento alle norme applicabili all’e-commerce transfrontaliero (B2C), con l’intento di semplificare l’adempimento degli obblighi Iva per le imprese impegnate nell’e-commerce e assicurare alle imprese Ue la «fair competition» nel mercato unionale rispetto alle imprese non-Ue.

Le nuove norme prevedono un sistema europeo di assolvimento dell’Iva, centralizzato e digitale, che ricomprende i servizi elettronici e le cessioni a distanza intracomunitarie di beni, le vendite a distanza di merci importate da territori o Paesi terzi, le cessioni domestiche di beni facilitate da piattaforme e le forniture di servizi da parte di soggetti passivi non stabiliti nella Ue o da soggetti passivi stabiliti all’interno della Ue, ma non nello Stato membro di consumo.

Nel provvedimento delle Entrate sono individuate le competenze relative i controlli Iva per i soggetti passivi stabiliti in Italia ed ivi identificati ai fine dei regimi speciali. Tali controlli non sono finalizzati all’accertamento della maggiore imposta dovuta, che è un’attività di competenza dello Stato membro di consumo, ma rientrano tra le disposizioni in materia di cooperazione amministrativa e lotta contro la frode in materia di Iva.

Nel provvedimento, inoltre, sono disciplinate le modalità operative per la registrazione ai regimi speciali e gli adempimenti dichiarativi e sono approvati gli schemi dei dati relativi alle fasi di registrazione e dichiarazione, individuati in dettaglio negli allegati al provvedimento.

Peraltro, è espressamente previsto che i dati e le informazioni connesse ai regimi speciali sono resi disponibili anche agli Uffici centrali delle Entrate che svolgono contrasto alle frodi.

Per rendere i nuovi regimi Oss e Ioss effettivamente operativi dal prossimo 1° luglio, l’Agenzia ha già reso disponibili sul sito istituzionale le funzionalità telematiche che consentono ai soggetti passivi, residenti e non residenti che intendono aderire ai regimi speciali Oss e Ioss, di effettuare la registrazione online dallo scorso 1° aprile 2021.

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