Savona: criptovalute fuori controllo

5 Luglio 2021

Il Sole 24 Ore 15 giugno 2021 di Laura Serafini

La relazione Consob. Secondo il presidente dell’Authority, «l’informatica finanziaria è una lampada prodigiosa dalla quale è uscito il genio». Il problema è come riportarlo dentro. Denunciati gli effetti dello scarso coordinamento internazionale e gli eccessi speculativi

La relazione digitale.  Per il secondo anno Paolo Savona ha tenuto la sua relazione al mercato in via telematica 

La capacità di mettere da parte i soldi delle famiglie italiane durante la pandemia è aumentato, con un saggio di risparmio rispetto al reddito disponibile salito del 50%. Peccato che il rendimento sia stato prossimo allo zero. Se invece ci fosse stata la capacità di mettere a reddito quel risparmio, anche solo con una remunerazione di un punto percentuale, le famiglie avrebbero guadagnato complessivamente 30 miliardi, quasi il 2% del prodotto interno lordo.

Certo i tassi di interessi sono ormai al lumicino e investire diventa sempre più difficile: i soldi vanno ad alimentare i depositi che in Italia hanno superato quota 1.700 miliardi. Ma è proprio un simile contesto che rende il risparmiatore più vulnerabile e ad essere attratto dalle “sirene” delle criptovalute ,come i Bitcoin. Nella sua relazione annuale della Consob, la terza, il presidente Paolo Savona continua a prediligere un approccio macroeconomico rispetto alle realtà che è chiamato a vigilare. Così ieri ha concentrato gran parte del suo intervento sui rischi connessi alla crescita tumultuosa e senza regole delle criptovalute (oltre 5mila quelle in circolazione, anche se in gran parte sono “stablecoin”, ovvero espressione digitale di valute tradizionali).

Il presidente ha messo in guardia dai rischi di «creare moneta via computer». Essa offre «a chi la effettua la possibilità di disporre di un potere di acquisto» al quale però non c’è una corresponsione del valore di ciò che viene acquistato. Nel bitcoin non c’è un creditore al quale corrisponde un debitore e non c’è trasparenza di informazioni, perché esse sono in possesso solo di coloro che fanno parte della blockchain. «La blockchain originaria è impenetrabile – ha detto -. L’uso di questi strumenti nelle forme chiuse all’esterno ai partecipanti preclude una vigilanza privata o pubblica» con gli inevitabili effetti sulla trasparenza e la possibilità di «schermatura di attività criminali, come l’evasione, il riciclaggio, il finanziamento del terrorismo».

In un discorso ampio e articolato Savona fa balenare il rischio di destabilizzazione politica quando dice che «la funzione redistributrice, propria della democrazia, e quella produttivo-commutativa, propria del mercato, risultano alterate dalla creazione di potere di acquisto di digitalizzato». La diffusione delle piattaforme digitali, poi, ha permesso di utilizzare questi strumenti alla stregua di altre valute, sviluppando prodotti finanziari e il loro utilizzo come collateral per altri finanziamenti. Una situazione che a Savona ricorda la speculazione sui mutui subprime che ha portato alla crisi del 2008.

Per il presidente Consob «l’informatica finanziaria è una lampada prodigiosa dalla quale è uscito il genio. Le autorità non riusciranno a riportarlo dentro, perché esso agisce nella sfera immateriale controllabile solo cambiando il protocollo delle informazioni». Per questo motivo molte banche centrali stanno sperimentando proprie valute digitali: per seguire e arginare questi fenomeni con le stesse loro armi. Savona auspica un coordinamento e una collaborazione internazionale arrivando ad immaginare nuovi accordi di Bretton Woods per le criptovalute. Forse non è un concetto così peregrino se il Comitato di Basilea sta introducendo un forte giro di vite in termini di accantonamento per le banche che investono in Bitcoin. E ancora, in Italia, serve un maggiore coordinamento tra Banca d’Italia, Consob, Ivass e Covip. Alla fine della relazione l’economista Savona mette in guardia sugli effetti di un “laissez faire” e di uno scarso coordinamento internazionale. «Uno squilibrio quantitativo e qualitativo tra moneta legale e moneta privata farebbe scattare la Legge di Gresham, secondo cui la moneta cattiva scaccia la moneta buona». Questo scatenerebbe «il collasso fiduciario sul quale si regge la stabilità sistemica del mercato mobiliare». L’innesco «si potrebbe presentare se si concretizzassero i recenti timori di inflazione insorti in alcune economie e si affermassero in misura prolungata diversi ritmi di crescita tra grandi aree geopolitiche-economiche».

Tornando all’economia italiana, Savona prende atto del nuovo clima di fiducia ma mette in guarda da un alto indebitamento pubblico che non ha avuto la capacità di far partire i consumi, ma nemmeno di ridare spinta a una redistribuzione del reddito alla quale potrebbe contribuire una riforma fiscale che guardi anche alle istanze etiche e non solo a quelle produttive. Altro punto di attenzione l’incentivazione del capitale di rischio, leggi ricapitalizzazioni, per aiutare le imprese ad innescare la ripresa.

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Iva, soglia unica per la tassazione a destino

5 Luglio 2021

Il Sole 24 Ore 15 giugno 2021 di Benedetto Santacroce Simona Ficola

Atteso oggi in «Gazzetta» il Dlgs sulle regole in vigore dal prossimo 1° luglio

Atteso per oggi in «Gazzetta Ufficiale» il decreto di recepimento della direttiva e-commerce che dal 1° luglio modificherà le procedure nazionali e unionali per la gestione Iva delle operazioni commerciali on line. Il decreto, che per una volta, sarà tempestivo rispetto alla scadenza imposta dall’Ue adeguerà l’ordinamento interno alla direttiva 2017/2455/Ue, con l’introduzione di norme ad hoc e la parziale modifica di talune già esistenti, sia all’interno del decreto Iva Dpr 633/1972, nonché del decreto relativo alle operazioni intraunionali e ancora modifiche che interessano il decreto che regolamenta le sanzioni amministrative.

La disciplina che si applicherà dal 1° luglio 2021 riguarda le operazioni di vendite a distanza intracomunitarie di beni, le vendite a distanza di merci importate da territori terzi o Paesi terzi, le cessioni domestiche di beni da parte di soggetti passivi non stabiliti all’interno della Ue a soggetti consumatori privati facilitate tramite l’uso di interfacce elettroniche e le forniture di servizi a consumatori privati da parte di soggetti passivi non stabiliti nella Ue ovvero stabiliti nella Ue, ma non nello Stato membro di consumo.

Al fine di chiarire la portata delle misure applicabili alle vendite a distanza intracomunitarie di beni, alle vendite a distanza di beni importati da paesi o territori terzi e alle operazioni realizzate tramite piattaforme elettroniche, tali operazioni sono state puntualmente definite all’interno del decreto Iva. Riguardo a tali ultime operazioni, per esempio, è stato introdotto il nuovo articolo 2-bis che individua le cessioni di beni facilitate dalle interfacce elettroniche e le ipotesi in cui tali interfacce sono considerate quali «fornitori presunti», con tutti gli adempimenti ad essi collegati.

L’esigenza di modificare le disposizioni della direttiva unionale e, conseguentemente della normativa interna, nascono dalla valutazione del Moss, procedura avviata sin dal 2015, e dalla crescita esponenziale delle attività di commercio elettronico e delle vendite a distanza dei beni, con le conseguenti esigenze di ridurre al minimo gli oneri gravanti sulle imprese di ridotte dimensioni e di proteggere, al contempo, il gettito fiscale dei diversi Stati membri.

Anzitutto, per ridurre gli adempimenti, è stata introdotta una soglia a livello unionale al di sotto della quale le operazioni restano imponibili ai fini Iva nello Stato di stabilimento del fornitore. Detta soglia, ad oggi già operativa per i servizi Tbe, entrerà in vigore il prossimo 1° luglio 2021 per le vendite a distanza intracomunitarie di beni.

Il decreto appena pubblicato, quindi, interviene direttamente nell’articolo 7-ocites del decreto Iva, introdotto lo scorso anno quale primo step per il recepimento della direttiva e-commerce, ampliando il novero delle operazioni per cui le regole sulla territorialità debbono tener conto della soglia dei 10mila euro, sia con riferimento alle prestazioni di servizi che con riferimento alle vendite a distanza intracomunitarie di beni. Altro intervento di semplificazione riguarda l’eliminazione dell’obbligo di emissione della fattura per le operazioni effettuate nell’ambito del regime speciale e, qualora il fornitore/prestatore decida comunque di emetterla, è stato stabilito il criterio per cui lo stesso debba applicare le norme in materia di fatturazione dello Stato membro di identificazione.

Inoltre, il regime del Oss è stato esteso anche alle vendite a distanza di beni importati da territori o Paesi terzi, prendendo il nome di regime speciale Ioss, cui si affianca la previsione di una esenzione da Iva per i beni dichiarati nell’ambito di questo regime speciale.

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Posta europea al rush finale, l’Italia farà da battistrada

5 Luglio 2021

Il Sole 24 Ore 14 giugno 2021 di Antonelli Cherchi

LA DATA CHIAVE IL 18 GIUGNO FINE DEI TEST

Ancora qualche giorno e la Pec diventerà europea. Il 18 giugno termineranno i test per dare alla posta elettronica certificata un profilo comunitario, così che si possa utilizzare non solo in ambito nazionale ma anche per avere certezza delle comunicazioni nei confronti di pubbliche amministrazioni e privati che operano nella Ue. Un passaggio che deve tutto al nostro Paese.

È stato il regolamento europeo 910/2014 – più conosciuto come Eidas (Electronic identification authentication and signature), nato con l’obiettivo di fornire una base normativa comunitaria ai servizi fiduciari (tra cui la Pec) e alle identità digitali – che ha posto le basi per la posta elettronica certificata dell’Unione. Questo in teoria. Per quanto riguarda la Pec è, infatti, accaduto che le buone intenzioni del legislatore si siano poi scontrate per anni con la mancanza degli standard tecnici necessari per tradurre in pratica quell’obiettivo. D’altra parte, il fatto che la posta certificata sia poco diffusa o addirittura sconosciuta negli altri Paesi dell’Unione, non ha aiutato.

L’Italia, invece, ha fatto da battistrada e ora detiene il primato di tecnologia e diffusione delle mail certificate. Per questo, nel 2019 Agid (Agenzia per l’Italia digitale) e Assocertificatori – l’associazione che riunisce 8 dei 18 gestori di posta elettronica – si sono riuniti per mettere a punto gli standard della Pec europea. «Un’iniziativa – spiega Carmine Auletta, presidente di Assocertificatori – che ha subito trovato il favore di Etsi (European telecommunications standards institute), l’organismo indipendente che definisce gli standard europei nel settore delle telecomunicazioni. L’anno scorso il gruppo di lavoro ha assunto una dimensione europea con la partecipazione dei rappresentanti di diversi Paesi Ue e a gennaio di quest’anno Etsi ha approvato gli standard, che sono stati messi a disposizione degli sviluppatori. Il 31 maggio sono iniziati i test, che termineranno il 18 giugno. Dopodiché gli standard, una volta approvati dalla Commissione europea, potranno dar vita alla Pec europea e così consentire, per esempio, di inviare in modo sicuro una mail alla pubblica amministrazione, all’impresa o al cittadino di un altro Paese Ue. Dialogando con la Pec ci si potrà iscrivere in un’università europea o aprire un conto corrente oppure acquistare un prodotto assicurativo».

Se per la maggior parte degli altri Paesi dell’Unione si tratterà di partire da zero (o quasi), l’Italia dovrà più semplicemente adeguare l’attuale struttura della posta elettronica certificata ai nuovi standard.

«Il nostro Paese – aggiunge Auletta – sta già lavorando per dare alla Pec un profilo europeo, che prevede, tra l’altro, l’associazione con l’dentità digitale. Il messaggio non avrà solo la certificazione circa il momento dell’invio e della ricezione, ma tutto questo sarà accompagnato dalla certezza sull’identità del mittente e del destinatario».

Il meccanismo prevede che si acceda al servizio di Pec attraverso un sistema di identità digitale – che nel nostro caso sarà, considerata la sua diffusione, soprattutto Spid, ma potrà essere anche la Cie – per cui chi riceverà la mail certificata avrà anche certezza sull’identità di chi l’ha inviata. Allo stesso modo, il mittente conoscerà l’identità del destinatario.

Uno meccanismo che rafforza la sicurezza della Pec e che dà ulteriore garanzia nel momento in cui ci si prepara all’interoperabilità europea e, dunque, a un uso allargato che moltiplicherà lo scambio di messaggi. «La posta elettronica certificata – sottolinea Auletta – in tutti questi anni ha dimostrato di essere molto sicura. E questo grazie all’uso di protocolli che presuppongono algoritmi particolari. Gli attacchi di hacker o i fenomeni di phishing che, soprattutto in questi ultimi mesi di smart working, hanno colpito le mail tradizionali, nel caso della Pec non sono possibili. Sicurezza che dovrà essere ancora più forte ora che la Pec si prepara a diventare europea».

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Vendite online, vale l’Iva del Paese di destinazione

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 21 maggio 2021 di Raffaele Rizzardi

Via libera ieri al decreto che recepisce le direttive dell’Unione europea

L’imposta va versata ogni tre mesi. Da chiudere le partite Iva in altri Stati

Manca poco più di un mese al 1° luglio 2021, quando cambierà radicalmente la fiscalità delle vendite online destinate ai privati consumatori dell’Unione europea, e in extremis è arrivato ieri l’ok del Consiglio dei ministri al decreto legislativo che attua le direttive comunitarie volte a regolamentare la materia.

Le novità sono rilevanti. Tranne una piccola soglia di 10mila euro per l’insieme delle vendite in tutta l’Unione europea da parte delle imprese marginali, chi spedisce ai privati dovrà sempre applicare l’imposta sul valore aggiunto del Paese di destinazione, con le conseguenti incertezze per la corretta applicazione dell’aliquota.

Inoltre, la corresponsione del tributo, calcolato distintamente per ciascuno Stato dell’Unione europea diverso da quello di partenza, dovrà essere eseguita trimestralmente avvalendosi dello sportello unico nazionale. Si tratta di un’evoluzione del “mini” sportello, sin qui utilizzato solo per i servizi online.

Chi aveva aperto partite Iva in altri Paesi dovrà chiuderle, altrimenti sarà costretto ad identificarsi in ciascun altro Paese della Ue.

L’Unione europea già da tempo si è posta una serie di problemi di fronte al fenomeno del commercio elettronico, esploso a causa della pandemia ma destinato a non rientrare – se non in minima parte – con la libertà di circolazione, in quanto ci si accorge che determinati acquisti sono convenienti e vanno in pronta consegna.

In particolare la Ue ha perseguito questi obiettivi:

attribuire l’Iva al Paese di destinazione della consegna, dove avverrà presumibilmente il consumo, essendo questa la natura del tributo. Sino alle “soglie di protezione” di 35mila euro l’anno per ciascun fornitore e ciascun Paese di destinazione (100mila euro in alcuni di questi) attualmente l’Iva applicata è quella del Paese di partenza, dove cioè non avviene il consumo;

semplificare gli adempimenti, in quanto il fornitore sopra soglia si trova a dover aprire una partita Iva nel luogo dove spedisce la merce;

eliminare l’esenzione da Iva per i pacchetti provenienti da fuori Ue di valore intrinseco sino a 22 euro. L’importo è basso ma va moltiplicato per l’enorme quantità di arrivi da questi Paesi;

controllare il corretto adempimento, cosa impossibile per la numerosità e lo scarso importo unitario delle singole cessioni, di regola – anche per la partenza dall’Italia – esonerate sia dalla fattura che dalla certificazione fiscale;

a questo scopo coinvolgere le piattaforme che facilitano la vendita, mettendo in contatto fornitore e cliente.

Il principale atto normativo europeo risale a quattro anni fa (direttiva 2455/2017) ed avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio di quest’anno. Il termine è stato poi differito di sei mesi in relazione alla pandemia, che ha sicuramente ostacolato il non facile adeguamento organizzativo degli operatori. Si è poi aggiunta la direttiva sui marketplace (2019/1995), che si occupa anche dei servizi venduti ai privati, come quelli relativi all’utilizzo temporaneo delle abitazioni.

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Il riciclaggio non si può presumere in astratto

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 1 giugno 2021 di Valerio Vallefuoco

Il sequestro preventivo si giustifica con concreti elementi di fatto

Il reato presupposto di riciclaggio e autoriciclaggio non può essere frutto di una mera ipotesi astratta, non confortata da alcun elemento concreto. Così la Corte di cassazione con la sentenza 20990/2021.

Secondo la Suprema corte la probabilità di effettiva consumazione del reato per l’adozione di un sequestro preventivo, pur non dovendo integrare i gravi indizi di colpevolezza, necessita comunque dell’esistenza di concreti e persuasivi elementi di fatto, quantomeno indiziari, i quali, pur tenendo conto della fase processuale iniziale, consentano di ricondurre l’evento punito ad una individuata condotta criminosa dell’indagato.

È quanto emerge dalla sentenza 20990/2021 depositata il 27 maggio dalla II sezione penale della Cassazione a seguito di ricorso proposto dai difensori degli indagati avverso l’ordinanza del Tribunale della libertà di Piacenza che confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip per i reati di cui agli articoli 648 ter.1 Codice penale e 4 del Dlgs 74/2000, ossia autoriciclaggio da reato presupposto tributario nella specie dichiarazione infedele.

Il fatto prendeva le mosse da una riscontrata sproporzione tra la ricchezza accumulata dai ricorrenti e i redditi dichiarati, dato che secondo l’accusa giustificava ex se il delitto di dichiarazione infedele. Tuttavia, la Corte ha rilevato che nel provvedimento impugnato mancava qualsiasi riferimento o indicazione degli elementi di fatto idonei a sussumere la vicenda nell’ambito del delitto di dichiarazione infedele. È stato quindi ribadito che la mera sproporzione tra redditi dichiarati e le ricchezze accumulate non può da sola giustificare o meglio esaurire la valutazione strettamente necessaria al fine di ritenere sussistente il fumus commissi delicti giustificativo della misura ablativa. Da ciò, scaturiva l’illegittimità del sequestro anche con riferimento alla seconda condotta contestata di autoriciclaggio dal momento che in assenza di indizi – ancorchè generici – sul reato presupposto – la detenzione di somme di denaro o altri beni apparentemente sproporzionati rispetto alla dichiarazione dei redditi, non può essere rappresentativa degli elementi costitutivi del reato. Secondo la Cassazione il mero possesso di un’ingente somma di denaro non può giustificare ex se l’elevazione di un’imputazione di riciclaggio o autoriciclaggio senza che sia stata verificata l’esistenza di un delitto presupposto, o anche solo l’esistenza di relazioni tra l’indagato e ambienti criminali, o la precedente commissione di fatti di reato dai quali sia derivato quel denaro, o ancora l’avvenuto compimento di operazioni di investimento comunque di natura illecita. L’orientamento richiamandosi ad alcuni precedenti conferma l’interpretazione garantista e innovativa (Cassazione 29074/18, 26301/16 e 51200/19).

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Verso un regolamento Ue sulle criptovalute

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 27 maggio 2021 di Alessandro Galimberti

La risposta del ministero dell’Economia in commissione Finanze

Per le criptovalute serve una legislazione tributaria chiara, omogenea ma che soprattutto parta dal presupposto che si tratta – vedasi i recenti rally di Bitcoin – non di moneta digitale bensì di «criptoattività di natura altamente speculativa e senza alcun sottostante a sostegno del suo valore» come segnalato recentemente da Banca d’Italia e Consob.

È questa in sintesi la posizione del Mef sull’interrogazione a risposta scritta presentata in Commissione finanze da un gruppo di parlamentari M5S, preoccupati dall’assenza di normative di riferimento che si traducono in chance perse per gli imprenditori delle nuove attività (mining, staking, yeld-farming e NFT) e per gli investitori internazionali.

Oltre a ribadire l’inquadramento fiscale per le operazioni in criptovalute – articolo 67.1 c-ter del Testo unico delle imposte sul reddito, e cioè “redditi diversi”, plusvalenze comprese – il ministro sottolinea che a livello internazionale ferve un dibattito molto acceso per definire l’ambito fiscale dei nuovi cripto-asset e il relativo inquadramento giuridico. In particolare, nel settembre dello scorso anno è stata presentata in sede Ue la proposta di Regolamento MicaMarket in crypto assets per «l’elaborazione di un quadro giuridico solido e omogeneo in ambito Ue» volto, tra gli altri scopi, a «tutelare i cittadini e la stabilità del sistema finanziario». Tale proposta di Regolamento è attualmente «oggetto di negoziato in sede di Consiglio Ue». e, una volta approvata, sarebbe automaticamente self-executive all’interno dei singoli ordinamenti nazionali, ricorda il Mef.

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Primo set ad Amazon: legittimo l’accordo con il Lussemburgo

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 13 maggio 2021 di Alessandro Germani

TRIBUNALE UE

No a vantaggi illegittimi La replica di Vestager: riflettiamo su mosse

Sentenze di tenore opposto del Tribunale Ue su contestazioni della Commissione europea ad Amazon e Engie.

Lo sfruttamento dei marchi di Amazon è avvenuto attraverso due società lussemburghesi e la royalty era basata su un ruling determinato con l’applicazione del Tnmm (transactional net margin method). Nel 2017 la Commissione europea ha stabilito che questo ruling costituiva un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno. Essendo, infatti, la royalty troppo elevata, la società che la corrispondeva (LuxOpco) aveva beneficiato di una riduzione di base imponibile.

Il Lussemburgo e il gruppo Amazon hanno contestato la decisione, trovando accoglimento presso il Tribunale Ue. In primis in questi casi occorre confrontare l’onere fiscale con quello di una società che opera in condizioni di mercato e solo in presenza di errori che viziano il prezzo intercompany con riduzione dell’utile la Commissione potrebbe agire. Il Tribunale contesta l’analisi funzionale (rischi-benefici) svolta sulla società che ha dato in licenza il marchio (LuxSCS), anche perché la sua prestazione non poteva essere considerata tra quelle «a basso valore aggiunto». In ogni caso per il Tribunale la Commissione non ha dimostrato la sottostima della base imponibile di LuxOpco. Dunque nessun vantaggio selettivo per la filiale lussemburghese. E, come si poteva immaginare, la sentenza ha suscitato subito una serie di reazioni. Alla soddisfazione dell’azienda e del Granducato, fa da contraltare la replica della vicepresidente della Commissione Ue, Margrethe Vestager: «Analizzeremo attentamente la sentenza» e «rifletteremo su possibili mosse successive».

Ma, come anticipato, il Tribunale Ue si è pronunciato anche sulla vicenda di Engie. Il caso esaminato riguarda dei ruling su finanziamenti infragruppo relativi a entità lussemburghesi, a fronte di complesse strutture con emissione di azioni e prestiti obbligazionari convertibili fra una holding, una subsidiary e un intermediario, con la sola seconda che è tassata in base a ruling. Tutto ciò è stato contestato dalla Commissione e ha trovato accoglimento presso il Tribunale Ue. In questi casi, infatti, occorre andare oltre la formalistica rappresentazione dei singoli fatti per comprendere la realtà economica e fiscale della struttura. Nel constatare un vantaggio fiscale il Tribunale sottolinea che il trattamento fiscale preferenziale è prevalentemente il risultato della non applicazione di una misura nazionale relativa all’abuso del diritto

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Sulla diffusione di colloqui registrati gli altolà di privacy e Codice penale

10 Giugno 2021

Il Sole 24 Ore 17 maggio 2021 di Marisa Marraffino

RESPONSABILITÀ

Chi diffonde una telefonata senza un interesse legittimo può violare la riservatezza

È reato divulgare comunicazioni acquisite fraudolentemente

Bastano uno smartphone o una chiavetta usb per registrare conversazioni dal vivo o telefoniche e raccogliere informazioni, per poi utilizzarle e renderle pubbliche per le ragioni più diverse. Lo ha fatto di recente Fedez, nella diatriba con la Rai. Ma si tratta di una pratica che, per quanto diffusa, non sempre è lecita.

Il crinale dell’illecito civile

In generale è possibile registrare dialoghi se si è presenti alla conversazione, anche all’insaputa dei partecipanti. Così come è sempre legittimo registrare le telefonate a noi dirette. I contenuti delle registrazioni potrebbero servire, ad esempio, per difendersi in giudizio o per finalità di studio (Cassazione a Sezioni Unite, 36747 del 28 maggio 2003).

Diffondere una telefonata a noi diretta potrebbe però integrare una violazione della legge in materia di privacy (decreto legislativo 101/2018 che ha recepito il regolamento Ue Gdpr, 679/2016) in quanto la voce è un dato personale. Ma se esiste un legittimo interesse alla diffusione del video o della registrazione, come può essere quello di cronaca, non occorre il consenso degli interessati.

Per la Cassazione è anche legittimo mettere in vivavoce una conversazione telefonica senza avvertire l’interlocutore, perché chi intrattiene la telefonata accetta il rischio che il suo contenuto possa anche essere diffuso a terzi. Ma la condotta potrebbe – in certi casi – rappresentare un illecito civile o deontologico (Cassazione, 15003 del 27 febbraio 2013).

È possibile anche registrare le videoconferenze alle quali si partecipa per finalità private (di studio, di ricerca). Non è consentito, invece, divulgarle senza il consenso degli interessati, perché, nella maggior parte dei casi, è difficile sostenere il legittimo interesse alla divulgazione.

Un caso particolare è quello delle conversazioni tra il lavoratore e il suo datore di lavoro: per la giurisprudenza il lavoratore può sempre registrarle al fine di produrle in giudizio. Le registrazioni sono infatti riproduzioni meccaniche in base all’articolo 2712 del Codice civile e possono essere ammesse come prova nel processo civile. Le registrazioni quindi non integrano né un illecito civile né disciplinare (Corte d’appello di Milano, 369 del 20 febbraio 2019).

Quando si commette un reato

Non è invece consentito divulgare le conversazioni acquisite fraudolentemente senza il consenso degli interessati, a meno che la divulgazione non serva per l’esercizio del diritto di difesa o di cronaca, in base all’articolo 617-septies del Codice penale (Cassazione, 24288 del 10 giugno 2016). Per integrare il reato le registrazioni devono essere compiute «fraudolentemente», ad esempio da parte di persone che non erano presenti alla conversazione e con mezzi idonei a eludere la percezione di essere registrati.

Così anche lasciare un registratore acceso in una stanza, all’insaputa dei presenti, per registrare conversazioni tra terze persone è un reato. Può infatti integrare gli estremi dell’articolo 617 del Codice penale che punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque fraudolentemente prende cognizione di comunicazioni tra persone a lui non dirette. L’articolo 617 fa riferimento alle sole conversazioni telefoniche, ma va letto insieme all’articolo 623-bis, che allarga il campo a qualunque captazione illecita, non soltanto quelle telefoniche.

Commette il reato di cognizione illecita di comunicazioni, previsto dall’articolo 617 del Codice penale, anche il marito separato che, preoccupato per le interferenze pericolose della madre sui figli, registra le telefonate tra di loro, pur avendo avvertito la moglie delle sue intenzioni. La stessa pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni si applica a chi diffonde la telefonata (Cassazione, 41192 del 3 ottobre 2014).

Integra infine il reato di intercettazione abusiva di conversazioni, previsto dall’articolo 617-bis, comma 1, del Codice penale e punito con la reclusione da uno a quattro anni installare un programma spia nel telefono di qualcuno per registrare le conversazioni e leggere i messaggi (Cassazione, 15071 del 18 marzo 2019).

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Dall’Irlanda all’Ungheria, almeno 35 Paesi nel mirino della minimum tax sulle società

10 Maggio 2021

Il Sole 24 Ore 8 aprile 2021 di Angelo Mincuzzi

FISCO GLOBALE

Le giurisdizioni che applicano l’aliquota zero risultano 15

Emirati Arabi Uniti, zero. Bahamas, zero. Bermuda, zero. Isola di Man, Jersey e Guernsey, zero. Ungheria, nove. Gibilterra, dieci. Cipro, Irlanda e Liechtenstein, dodici virgola cinque. Sono almeno 35 i paesi che rischiano di finire nel mirino del G20 perché applicano aliquote fiscali tra lo zero e il 12,5% sugli utili delle società. Percentuali troppo lontane dalla media del 23,5% raggiunta nel 2020 dai 37 paesi aderenti all’Ocse.

Contro di loro – da lunedì scorso – è puntato il dito del segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen. Parlando davanti al Chicago Council on Global Affairs, il segretario al Tesoro ha affermato che gli Usa stanno lavorando con i Paesi del G20 per concordare un’aliquota fiscale minima globale per le società, in modo da fermare la corsa al ribasso sulla tassazione degli utili che dura da più di trent’anni.

L’amministrazione Biden sa bene che l’aumento delle imposte sulle società dal 21% al 28% prospettato dal presidente Usa pochi giorni fa rischia di far fuggire all’estero gli utili delle grandi corporation. L’incremento delle imposte dovrebbe contribuire a finanziare l’ambizioso piano infrastrutturale da 2.300 miliardi di dollari deciso da Biden ma per raggiungere l’obiettivo è necessario sterilizzare la concorrenza fiscale di un gruppo di paesi che attraggono le società americane in cambio di imposte nulle o molto basse. Una decisione del G20 che vada nel senso auspicato da Janet Yellen rappresenterebbe una svolta per far rallentare la spirale perversa dei paradisi fiscali.

Ma chi sono i paesi che avrebbero da perdere da un’iniziativa del G20? Per capirlo bisogna leggere un report del dicembre 2020 della Tax Foundation, un think tank di Washington fondato nel 1937 da un gruppo di top manager, tra i quali l’allora presidente della General Motors, Alfred Sloan Jr.

Secondo Tax Foundation sono 15 i Paesi che non prevedono imposte sugli utili societari. Si tratta di Anguilla, Bahamas, Bahrain, Bermuda, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Guernsey, Isola di Man, Jersey, Saint Barthelemy( una collettività d’oltremare della Francia), Tokelau (territorio della Nuova Zelanda), Isole Turks and Caicos, Emirati Arabi Uniti, Vanuatu e le Isole Wallis e Futuna (territorio francese nel Pacifico). Alcuni di loro sono paradisi fiscali ampiamente utilizzati dalle società per ridurre il loro carico fiscale globale.

Altri 20 Stati applicano un’aliquota inferiore al 12,5%. In questo gruppo gli unici paesi industrializzati sono Irlanda (con il 12,5%) e Ungheria (9%). Dublino è ferma a quest’aliquota dal 2003 mentre Budapest l’ha ridotta dal 10% al 9% nel 2017. Altri 10 paesi prevedono una percentuale del 10% e sei di loro sono piccoli Stati europei, soprattutto dell’Est (Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Kosovo, Macedonia del Nord, Andorra e Gibilterra).

Dal punto di vista dell’amministrazione Biden, convincere gli altri partner del G20 a fissare un’aliquota minima globale rappresenterebbe un passo importante ma potrebbe non bastare. Il perché lo rivela uno studio del maggio 2020 dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, diretto da Carlo Cottarelli.

Il documento pone l’accento sulla differenza tra le aliquote statutarie e quelle effettive nei paesi dell’Unione europea. Il messaggio è che la tassazione applicata alle imprese può essere ufficialmente alta ma in realtà molto bassa, perché ridotta da trattamenti specifici come i tax ruling,deduzioni, detrazioni e accordi contro la doppia imposizione fiscale che, nel tentativo di evitare doppie tassazioni, finiscono spesso per non applicarne alcuna.

I casi più rilevanti di differenza tra tassazione ufficiale e reale sono diversi. In primo luogo, l’Irlanda, dove l’aliquota è del 12,5% ma dove la percentuale più bassa applicata è stata dello 0,005%.

Poi il Lussemburgo, che ha un’aliquota ufficiale del 25% ma dove è stata applicata anche una percentuale dello 0,3%, cioè il 99% in meno. E l’Olanda, dove a un’aliquota del 25% può corrispondere una tassazione effettiva del 2,44% (il 90% in meno). E poi il Belgio, con il 29% di tassazione (che scenderà al 25% quest’anno) ma il 2,9% applicato effettivamente in alcuni casi (-90%). Per finire a Cipro (12,50% contro lo 0% applicato, il 100% in meno) e a Malta (35% ufficiale, 5% di aliquota più bassa applicata, l’86& in meno).

Non sarà facile evitare scappatoie se si dovesse raggiungere l’obietivo di una aliquota minima globale. Liniziativa promossa dall’amministrazione Biden interromperebbe però un trend cominciato molto tempo fa. Negli ultimi 40 anni, infatti, le aliquote dell’imposta sugli utili societari sono diminuite costantemente su base globale. Nel 1980, la percentuale fiscale media mondiale era del 40,11%. Oggi, il tasso legale medio si attesta al 23,85%, con una riduzione del 41%.

Se però Biden e Yellen convinceranno i paesi del G20, questi numeri. E per i paradisi fiscali comincerà una vita un po’ più difficile di quella di oggi.

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Plusvalenze da criptovalute: ritenuta al 26 per cento

10 Maggio 2021

Il Sole 24 Ore 26 Aprile 2021 di Alfredo e Attilio Calvano

“Nel 2020 ho cominciato a operare acquistando in diversi momenti bitcoin su una piattaforma per criptovalute. Non possiedo altri investimenti in valuta estera (in qualità di “persona fisica residente in Italia”) mentre sono titolare di un conto titoli (in gestione amministrata). Da unico “titolare effettivo” del wallet, come sono normate le plusvalenze derivanti dal possesso di criptovalute alla luce di quanto emerge da provvedimenti legislativi (come l’articolo 67 del Tuir, Dpr 917/1986), documenti di prassi (la risoluzione 72/E/2016), sentenze (per esempio la n. 1077/2020 del Tar Lazio)?La somma oltre la quale denunciare e tassare le plusvalenze è di 15.000 euro o 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continuativi? Qual è il valore bitcoin (di entrata e uscita) e quale l’aliquota da applicare alle plusvalenze per il calcolo dell’imposta?
È sempre necessaria la compilazione del quadro RW del modello Redditi persone fisiche?”

È da considerare consolidato l’orientamento operativo (oltre ai riferimenti già segnalati nel quesito, si evidenziano in proposito le risposte 210/2020 e 14/2018 dell’agenzia delle Entrate) in base al quale il trattamento reddituale ai fini Irpef delle valute virtuali (criptovalute), tra cui il bitcoin, rientra nella medesima regolamentazione – contenuta nel comma 1, lettera c–ter, articolo 67 del Tuir, Dpr 917/1986 – riservata alle valute “tradizionali”.

La norma dispone che il presupposto impositivo (ovvero l’emersione di minusvalenza) emerge a seguito della cessione della valuta a titolo oneroso, alla quale viene equiparato il suo prelievo dal deposito o conto corrente. A temperare gli effetti impositivi di quest’ultima disposizione interviene il comma 1–ter del citato articolo 67, che prevede l’assoggettamento a tassazione della plusvalenza eventualmente realizzata, qualora nel periodo d’imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui.

Il prelievo d’imposta è previsto nella misura del 26% della plusvalenza realizzata, nella quantificazione della quale il costo è determinato secondo i criteri riportati negli ultimi tre periodi del comma 6 dell’articolo 68 del Tuir; mentre come corrispettivo, in caso di prelievo della valuta da depositi e conti correnti, si assume il valore normale della valuta alla data di effettuazione del prelievo stesso (comma 7, lettera c, dello stesso articolo 68).

Circa gli adempimenti connessi al monitoraggio fiscale delle valute virtuali mediante il quadro RW del modello Redditi, le relative istruzioni non forniscono alcuna indicazione “discriminante” sugli obblighi di compilazione; i quali sono da ritenere sussistenti (ma la circostanza merita una conferma amministrativa) se le operazioni in questione avvengono tramite operatori terzi non residenti e/o con la disponibilità di un conto corrente estero

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