La delibera sui finanziamenti dei soci fa da scudo alle contestazioni fiscali

10 Maggio 2021

Il Sole 24 Ore 12 aprile 2021 di Stefano Mazzocchi

IMPRESE

Le somme non formalizzate potrebbero essere rilevate come redditi non dichiarati

La mancanza si può sanare con indicazioni nel bilancio o con un verbale ad hoc

Il finanziamento delle imprese da parte dei soci, specie in un periodo così difficile, ha implicazioni importanti sia a livello di contabilizzazione, sia sotto il profilo fiscale. È bene ricordare che c’è una differenza non solo metodologica fra un finanziamento e un versamento di capitale da parte dei soci all’interno dell’impresa: il primo è un debito per la società beneficiaria della somma ricevuta, mentre il versamento diviene una posta del patrimonio netto.

La Cassazione (sentenza della prima sezione civile 29330 del 22 dicembre scorso) si è espressa in merito all’inquadramento a livello civilistico delle somme versate dai soci, distinguendo fra poste di debito e poste che incrementano il patrimonio netto (si veda la tabella in alto, con le principali caratteristiche dei versamenti/finanziamenti). La posta di debito presenta tuttora alcuni punti controversi.

La delibera di richiesta

L’articolo 2467 del Codice civile prescrive le regole che qualificano gli apporti dei soci alla società come finanziamenti quando vi sia un momento di «squilibro patrimoniale della società». Non avendo dettato altri criteri di qualificazione, diviene fondamentale la classificazione di queste poste nel bilancio d’esercizio.

Una delle questioni più dibattute ruota intorno alla necessità o meno di formalizzare con una specifica delibera assembleare la richiesta di un finanziamento della società verso i soci. La questione concerne più temi, anche diversi, ad esempio l’attribuzione del compenso dell’amministratore senza una preventiva delibera.

Circa il problema qui trattato, giova richiamare la sentenza 6104/2019 della quinta sezione della Cassazione, che può essere cosi riassunta:

1 la mancanza di delibera può essere sanata attraverso un’idonea rappresentazione nel bilancio di esercizio, che «è il documento principale da cui dover partire per qualificare la natura di un’entrata tributaria»;

2 l’assenza di delibera societaria può essere inoltre sanata ex post attraverso la redazione di un verbale assembleare che tenga conto «di quello omesso entro l’esercizio successivo»;

3 la delibera assembleare di richiesta del finanziamento non è vincolante per i soci (si veda il Tribunale Milano, 23 marzo 2017, n. 3465).

La mancata adozione di un’idonea delibera assembleare potrebbe avere come conseguenza fiscale che l’immissione di liquidità nelle casse sociali, tramite un finanziamento soci non formalizzato, comporti il rischio della rilevazione di ricavi o componenti positivi non dichiarati, pari alla somma erogata.

Quest’ipotesi è stata confermata dalla Cassazione nella sentenza 24746 del 5 novembre scorso, con cui è stata abbracciata l’interpretazione dell’Agenzia, fondando la “trasformazione” in un contesto di società fortemente in perdita.

Il finanziamento soci e la rinuncia

Interessante anche la possibile relazione fra un finanziamento soci concesso e il valore fiscalmente riconosciuto alla partecipazione detenuta. L’articolo 96, comma 5, del Tuir, prevede che per le imprese il costo della partecipazione posseduta sia comprensivo dei versamenti fatti a fondo perduto o in conto capitale, a cui deve essere aggiunto il valore del credito (ergo finanziamento) rinunciato dal socio.

Ai nostri fini, come ricordato dalla risoluzione 124/E del 13 ottobre 2017, la rinuncia al credito di qualsiasi natura (quindi anche finanziaria) costituisce un addendum per la valorizzazione della partecipazione, nei limiti del costo fiscalmente riconosciuto al credito rinunciato.

La trasformazione in riserva

Altro caso da evidenziare, la trasformazione del finanziamento socio in una posta del patrimonio netto.

L’Oic 28 lo tratta dedicandogli un paragrafo (il 36), dove la rinuncia alla restituzione del finanziamento fa scattare un vincolo di destinazione per quella somma, permettendo la contabilizzazione in una riserva del patrimonio netto.

La destinazione finale a una riserva di capitali è strettamente connessa al vincolo di destinazione che, se non espressamente enunciato dal socio o dalla società, lo dirotta verso la riserva in conto capitale. Tale riserva non ha un vincolo specifico, ma una destinazione generale che come ben precisato dal principio contabile avviene «pur in assenza dell’intendimento di procedere a futuri aumenti di capitale».

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Triangolazioni all’esportazione: consegne a rischio imponibilità Iva

10 Maggio 2021

Il Sole 24 Ore 26 aprile 2021 di Matteo Balzanelli Massimo Sirri Riccardo Zavatta 

IMPOSTE INDIRETTE

Il passaggio da promotori o terzisti può incidere sulla continuità dell’operazione

Eccetto le soste tecniche (e casi simili) il primo step causa un effetto interruttivo

Quando il bene oggetto di una compravendita internazionale non giunge direttamente al cliente, ma la sua movimentazione s’interrompe per qualche ragione, possono esserci conseguenze di assoluto rilievo. Ancor più se si tratta di operazioni complesse (triangolari). Occorre allora distinguere fra: “consegne” in senso proprio, che rompono l’unitarietà dell’operazione; consegne che non sono tali in ottica fiscale (“pseudo-consegne”) e quindi non hanno effetto interruttivo; vere “soste tecniche” che parimenti non incidono sulla continuità dell’operazione.

Il tema è stato affrontato nella risposta a interpello 580/2020, che esamina il caso di un’operazione triangolare in cui il primo cedente nazionale (soggetto Ue identificato Iva in Italia) invia i beni al proprio cessionario/cedente nazionale (promotore della triangolare), affinché ne esegua assemblaggio e certificazione, prima di acquistarli ai fini della rivendita al cliente finale extracomunitario.

Una delle criticità è la possibilità che la consegna dei beni al promotore in territorio italiano qualifichi la prima vendita come soggetta a Iva (imponibile), anziché come cessione all’esportazione non imponibile ex articolo 8, comma 1, lettera a), Dpr 633/72. Nel caso in esame – premesso che le clausole che regolano il trasporto e i termini di resa, nonché le altre pattuizioni, sono coerenti con la prassi e la giurisprudenza – secondo le Entrate non si configura alcuna disponibilità dei beni in capo al promotore: pertanto, l’operazione non va scomposta in una vendita imponibile Iva (dal primo cedente al promotore) e in una successiva cessione all’esportazione non imponibile (dal promotore al cliente extra-Ue).

La consegna al terzista

La fattispecie sarebbe analoga a quella affrontata dalla risoluzione 72/E/2000: la consegna al cessionario residente per l’esecuzione di test e collaudi tecnici sui beni prima della loro esportazione «non costituisce consegna in Italia» e non è quindi di ostacolo a realizzare l’operazione non imponibile. Ma la recente risposta è più generosa rispetto alla risoluzione, dato che l’attività svolta dal cessionario/promotore (l’assemblaggio dei beni) pare implicare una “intensità” superiore all’esecuzione di semplici test di conformità. Aspetto che non pare sfuggire alle Entrate, visto che è richiamata la sentenza C-446/13 della corte di Giustizia Ue, che sottolinea come la consegna a un terzista incaricato della loro rifinitura non implichi (ancora) la cessione dei beni all’acquirente finale (trasferendone la disponibilità), perché tale consegna mira solo a rendere i beni conformi a quelli oggetto della fornitura al cessionario.

Attenzione però al diverso contesto. Nel caso della sentenza Ue, infatti, i beni erano inviati in altro Stato per l’esecuzione dei lavori e ciò determinava una diversa allocazione territoriale della loro vendita; mentre nella fattispecie della risposta 580/2020 non è in discussione la territorialità delle cessioni (verificata per entrambe le vendite della triangolare) ma la loro non imponibilità.

L’operazione interrotta

A ogni modo, le aperture di questa risposta non vanno estese a situazioni diverse. Bisogna sempre considerare che, eccetto i casi sopra indicati e qualora non ci sia una vera “sosta tecnica”, la consegna dei beni è idonea a provocare un effetto interruttivo dell’operazione. Si rammenta infatti che, in base alla circolare 15/1980, la sosta tecnica sarebbe quella presso vettori/spedizionieri per il tempo necessario al raggruppamento o smistamento dei beni; e che questa non deve mai integrare un distinto rapporto di deposito (circostanza che può ravvisarsi nell’indicazione sui documenti di trasporto della destinazione del carico presso il luogo della sosta).

Nella risposta 273/2020 si evidenzia che non ricorrono gli estremi della “sosta tecnica” nella spedizione di beni presso un magazzino in altro Stato Ue, in attesa degli ordinativi dei clienti. Nonostante i beni siano destinati a rimanere stoccati per un breve periodo, il loro fermo presso la piattaforma logistica (in un rapporto di deposito) è idoneo a “spezzare” l’operazione, che quindi perde l’unitaria qualificazione di cessione intracomunitaria.

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Recesso per l’agente di commercio se si violano lealtà e buona fede

13 Aprile 2021

Il Sole 24 Ore 17 marzo 2021 di Barbara Grasselli Angelo Zambelli

CONTRATTI

La Cassazione: vincolo con l’azienda più intenso rispetto ai dipendenti

A fronte di una maggiore autonomia risoluzione anche per fatti meno gravi

Nell’esecuzione dell’incarico l’agente deve tutelare gli interessi del preponente e agire con lealtà e buona fede.

Sulla base di tali obblighi, con la sentenza 6915/2021 la Cassazione ha ritenuto legittimo il recesso dal contratto di agenzia per giusta causa esercitato dalla società preponente nei confronti del proprio agente che, in costanza di rapporto, aveva contattato altri collaboratori del preponente nel tentativo di indurli a intraprendere con il medesimo «una nuova attività imprenditoriale nello stesso settore merceologico».

Dalla motivazione della decisione si rileva che all’agente, legato da un patto di non concorrenza post-contrattuale, era stata contestata la «violazione dei canoni di correttezza e buona fede cui deve essere improntata l’attività di collaborazione, quale espressione del dovere di fedeltà di cui all’articolo 1746 del Codice civile». La norma codicistica richiamata nella pronuncia impone innanzitutto all’agente l’obbligo di tutelare gli interessi del preponente per il quale è richiesto, in virtù dell’attività professionale esercitata, un grado di diligenza maggiore rispetto a quello generico del «buon padre di famiglia». Inoltre, tale norma stabilisce che l’agente deve agire con lealtà e buona fede, ovvero deve astenersi dal porre in essere comportamenti pregiudizievoli per il preponente: comportamenti che non necessariamente violano norme specifiche, ma che sono comunque tali da ledere il rapporto fiduciario.

Sulla base di un orientamento costante che applica in via analogica l’articolo 2119 del Codice civile, relativo al licenziamento per giusta causa nel rapporto di lavoro subordinato, la Cassazione ha precisato che nella valutazione della gravità del fatto occorre tenere in considerazione gli elementi tipici dei due rapporti (lavoro subordinato e agenzia), sì che nel rapporto di agenzia il vincolo fiduciario «assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato», e ciò in ragione della maggiore autonomia «di gestione» della prestazione resa dall’agente per «luoghi, tempo, modalità e mezzi» in funzione del conseguimento delle finalità aziendali. A fronte di una maggiore autonomia, dunque, basta un fatto di minore gravità a legittimare un recesso per inadempimento dell’agente.

Nel giudizio di merito era stato accertato il mero tentativo dell’agente di stornare i collaboratori del preponente per avviare insieme a loro una nuova attività imprenditoriale in concorrenza: tanto è stato ritenuto sufficiente per affermare – correttamente – la sussistenza di una giusta causa di recesso sul presupposto della «violazione dell’obbligo di diligenza da parte dell’agente, ravvisabile in qualunque attività che possa nuocere al preponente», e ciò a prescindere dal fatto che lo storno non si sia poi in concreto realizzato.

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Prodotti e-commerce con dogana semplificata

13 Aprile 2021

Il Sole 24 Ore 2 aprile 2021 di Benedetto Santacroce Ettore Sbandi

WEB ECONOMY

Snellita la procedura per beni di modico valore ma solo fino al 1° luglio

L’agenzia delle Dogane aggiorna le procedure di sdoganamento semplificato per le merci di modico valore derivanti da transazioni online, anche se il sistema sarà in vigore solo fino al 1° luglio 2021, quando entreranno in vigore le regole Iva che investiranno il mondo e-commerce anche sul piano doganale.

La Direttoriale presentata ieri nel corso di un incontro con gli operatori, però, è un “provvedimento di transizione” che mira a coinvolgere tutti gli operatori verso le modifiche del 1° luglio.

Nel quadro attuale del commercio elettronico internazionale, infatti, si innestano due primarie criticità dovute al carattere massivo delle singole operazioni: la classificazione doganale delle merci ed il loro valore. È molto difficile arrivare ad una corretta attribuzione di una voce doganale per singoli prodotti che, sommati, cubano centinaia di migliaia di operazioni giornaliere. Oltre a ciò, considerato il sistema delle franchigie oggi in essere (22 euro per l’Iva, 150 euro per i dazi), anche l’attendibilità dei valori è spesso discutibile.

Per questo, con una serie di atti emanati nel tempo, l’Agenzia ha disposto che, fino all’entrata in vigore delle norme di cui al cosiddetto pacchetto Iva per il commercio elettronico (il 1° luglio 2021), i soggetti che effettuano operazioni di import di beni di valore trascurabile destinati a privati ed originate da transazioni online, accedono a procedure dichiarative a dati ridotti solo a seguito di apposita autorizzazione. In concreto, la voce doganale dei beni non viene dichiarata in quanto sostituita dalla voce convenzionale 9990990900. Per accedere a questo beneficio è necessario detenere requisiti soggettivi ed oggettivi di particolare rigore e di intensità variabile a seconda del fatto che l’operatore intenda accedere alle franchigie per la sola Iva o anche a quella per i dazi.

Il sistema in commento, però, è di breve durata ed è opportuno che il mercato consideri non tanto la necessità di accedere oggi ai benefici in esame, ma di settare la propria operatività sul modello di luglio 2021. Sul punto, è interessante l’input dell’Agenzia per cui, per l’ottenimento dell’autorizzazione relativa alle spedizioni di valore fino a 150 euro, tra i tanti requisiti spicca la necessità che, a decorrere dal 10 maggio e fino al 14 giugno di quest’anno (in prova) e dal 15 giugno (in reale), l’operatore confermi la disponibilità all’avvio della sperimentazione del nuovo sistema dichiarativo reingegnerizzato dalle Dogane. Si tratta della presentazione delle informazioni previste dal tracciato H7 di cui all’allegato B del regolamento 2446/15, che invece impone l’uso di (pur semplificate) classificazioni doganali per i beni.

Occorrerà dunque attrezzarsi subito e capire con quale affidabilità e profili di compliance gli operatori potranno ottemperare ai nuovi oneri dichiarativi, spesso derivanti da informazioni “alla fonte” tutte da verificare in un sistema che da luglio 2021 imporrà il pagamento dell’Iva per tutte le operazioni.

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Le piattaforme web comunicheranno il reddito dei venditori

13 Aprile 2021

Il Sole 24 Ore 23 marzo 2021 di Valerio Vallefuoco

DAC7

Nuovo step per la direttiva sulla cooperazione amministrativa

Il Consiglio dell’Unione europea ieri ha adottato il nuovo testo della direttiva Dac7 (directive on administrative cooperation). Il testo approvato dal Consiglio è un emendamento della direttiva sulla cooperazione amministrativa in ambito fiscale dell’Unione Europea 2011/16/EU che ha visto già le prime sei regolamentazioni tali da rendere sempre più trasparenti le operazioni transfrontaliere e lo scambio di informazioni. Alla Dac1, infatti, è seguita: la direttiva 2014/107/UE, nota come Dac2, che ha introdotto il Common reporting standard (Crs), elaborato dall’Ocse per informazioni sui conti finanziari all’interno dell’Unione europea; la direttiva 2015/2376/Ue, nota come Dac3, con cui è stato disposto lo scambio automatico di informazioni sui ruling preventivi e gli Apa transfrontalieri; la direttiva 2016/881/UE, nota come Dac4, che ha introdotto lo scambio automatico obbligatorio di informazioni in materia di rendicontazione Paese per Paese delle imprese multinazionali tra le autorità fiscali (“CbCR”); successivamente è stata approvata, la direttiva 2016/2258/Ue, nota come Dac5, che ha disposto l’obbligo per gli Stati di fornire alle autorità fiscali l’accesso alle procedure di adeguata verifica della clientela applicate in materia di antiriciclaggio. Da pochissimo anche in Italia è stata recepita la Dac6, che ben riflette il principale obiettivo dell’Ue, ossia quello di contrastare la frode, l’evasione fiscale e la pianificazione fiscale aggressiva, prevedendo l’introduzione di nuovi obblighi di trasparenza e comunicazione a carico degli intermediari e dei contribuenti (le Sos fiscali).

Dac7 introduce nell’Unione europea nuove regole per rafforzare la cooperazione amministrativa e includere le vendite attraverso le piattaforme digitali. Ormai un numero elevato e crescente di persone e imprese utilizza piattaforme digitali per vendere beni o fornire servizi, è stato però appurato che il reddito guadagnato attraverso le piattaforme digitali spesso non sia dichiarato e le tasse non vengano pagate, in particolare quando le piattaforme digitali operano in diversi Stati. La Dac7 introdurrà l’obbligo per gli operatori delle piattaforme digitali di comunicare il reddito guadagnato dai venditori sulle loro piattaforme e per gli Stati Ue di scambiare automaticamente queste informazioni. Le nuove regole coprono le piattaforme digitali situate sia all’interno che all’esterno dell’Ue e si applicheranno dal 1° gennaio 2023. Esse permetteranno alle autorità fiscali di individuare il reddito guadagnato attraverso le piattaforme e determinare i relativi obblighi fiscali. Vengono migliorate anche le regole per effettuare controlli simultanei e per permettere ai funzionari di essere presenti in un altro Stato membro durante un’indagine.

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Il diritto d’autore diventa asset digitale su blockchain

13 Aprile 2021

Il Sole 24 Ore 25 marzo 2021 di Pierangelo Soldavini

Il futuro del copyright. La Siae lancia partnership con Algorand: emessi 4 milioni di «token non fungibili» per rappresentare i diritti di 95mila autori

Il mercato mondiale della musica ha sofferto l’emergenza pandemica nella componente dal vivo, ma la parte discografica è cresciuta del 7% a 21,6 miliardi di dollari, con un flusso ancora saldamente in mano alla grandi major . Ma qualcosa sta cambiando in prospettiva, almeno per quanto riguarda il diritto d’autore, che in futuro potrebbe tornare nel controllo degli autori. Grazie agli Nft, i”token non fungibili” che stanno rivoluzionando il mondo dell’arte e del collezionismo con quotazioni da capogiro. L’ultimo caso è il tweet di Jack Dorsey, assegnato per 2,9 milioni di dollari, mentre sul mercato dell’arte anche Damien Hirst vuole giocare con gli Nft con una nuova opera fatta di 10mila immagini, il doppio del puzzle di Beeple che da Christie’s è stato battuto a 69,7 milioni.

Ora anche i diritti d’autore scelgono la blockchain per guardare a un futuro nel segno della disintermediazione. A fare la prima mossa è la Siae italiana, la sesta società di collecting al mondo, che si è alleata con Algorand sfruttando la sua infrastruttura blockchain per veicolare e gestire il diritto d’autore sotto forma di asset digitali: questa settimana sono stati creati 4 milioni di Nft che rappresenteranno digitalmente i diritti degli oltre 95mila autori associati a Siae. Si tratta del primo passo di un percorso che parte dalla creazione di una banca dati decentralizzata, che costituisca un sistema univoco di identificazione degli autori. D’altra parte gli Nft altro non sono che rappresentazioni digitali, gestite sui blockchain, di un asset digitale. Che potrà anche essere fisico: finora sono stati utilizzati per opere d’arte digitali, criptogatti da collezione, video del basket Nba, collectibles. La Siae ora li utilizza per incorporare i diritti connessi alle opere musicali, in un futuro neanche troppo lontano potranno essere utilizzati per la finanza o il mercato immobiliare.

Il primo passo è la tokenizzazione delle identità digitali degli autori, poi seguirà la digitalizzazione della banca dati delle opere con tutti gli attori con diritto al compenso fino alla gestione del conteggio delle riproduzioni: «Domani potremo fare tutto il percorso inverso dal playcount al pagamento dei diritti in maniera decentralizzata e automatica, semplificando un processo molto complesso – sintetizza Matteo Fedeli, direttore della divisione musica di Siae, artefice del progetto -: è una soluzione che risolve l’information gap attuale facendo emergere il valore per gli utenti finali, in nostro caso gli autori. L’informazione decentralizzata sfrutta un’infrastruttura scalabile che punta a riportare il valore in mano ai detentori dei diritti». «Il valore aggiunto della blockchain è la trasparenza di tutti i passaggi, la sicurezza che evita manipolazioni e censure, la velocità delle transazioni, i costi ridotti e la semplicità», sottolinea Silvio Micali, docente di informatica al Mit, premio Turing e fondatore di Algorand: «La nostra soluzione ha anche elevata scalabilità, tale da permettere in futuro l’utilizzo per l’emissione e la gestione di beni più complessi, grazie anche alla possibilità di avere smart contract a livello di protocollo, che garantiscono una gestione molto rapida».

A differenza del bitcoin, in cui il meccanismo di consenso è caratterizzato dalla soluzione di complessi problemi crittografici, la cosiddetta “proof of work” che richiede altissima capacità di calcolo ed elevati consumi energetici, la blockchain di Algorand si basa sul “proof of stake”: con un meccanismo più “democratico” i certificatori del blocco sono scelti casualmente, su base crittografica, tra tutti i nodi della blockchain, vale a dire i possessori di token Algo. Un sistema che di fatto diventa rapido, efficiente e decisamente meno energivoro. E già pronto anche per utilizzi in altri settori. Così un intermediario come Siae scommette su una visione di disintermediazione, in una logica open, aperta a tutte le altre società di collecting a livello mondiale.

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L’inerenza segue l’attività svolta e non i ricavi conseguiti o potenziali

13 Aprile 2021

Il Sole 24 Ore 9 marzo 2021 di Laura Ambrosi

CASSAZIONE

L’antieconomicità non basta da sola a impedire la deducibilità degli oneri

L’ordinanza 6368 propende per una valutazione non di tipo quantitativo

L’inerenza di un costo va verificata rispetto all’oggetto dell’attività di impresa svolta e non con riferimento ai ricavi conseguiti o conseguibili. L’eventuale antieconomicità rappresenta al più un sintomo della estraneità degli oneri, di per sè non sufficiente ad escluderne la deducibilità.

A confermare questi interessanti principi è la Cassazione con l’ordinanza 6368/2021 depositata ieri.

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato ad una società con cui erano recuperati a tassazione costi per spese di sponsorizzazione. Secondo l’Agenzia si trattava di oneri non inerenti in quanto incongrui rispetto all’attività sponsorizzata, ed antieconomici, rispetto alle prestazioni ricevute. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che, per entrambi i gradi di merito, riteneva legittima la pretesa. La Ctr, in particolare, confermava l’indeducibilità nel presupposto che il costo fosse sproporzionato rispetto al potenziale «ritorno commerciale».

Il contribuente ricorreva così in Cassazione lamentando, sul punto, un’errata applicazione del principio di inerenza per la deducibilità dei costi e detraibilità dell’Iva. I giudici di legittimità, ritenendo fondata la doglianza, hanno innanzitutto ricordato che secondo un costante orientamento, per l’inerenza occorre verificare la correlazione del costo non tanto rispetto ai ricavi, bensì all’attività imprenditoriale nel suo complesso, con riguardo all’oggetto. Ai fini della determinazione del reddito di impresa, infatti, devono escludersi i costi estranei all’attività imprenditoriale. Ne consegue così che da un lato non assume alcuna rilevanza la congruità o l’utilità del costo rispetto ai ricavi, atteso che occorre un giudizio di inerenza di carattere qualitativo e non quantitativo; dall’altro l’antieconomicità rispetto al ricavo atteso costituisce un mero elemento sintomatico della carenza di inerenza.

Secondo la Suprema corte, tale elemento rappresenta un giudizio sull’opportunità dell’investimento effettuato e non sull’eventuale estraneità rispetto all’attività di impresa.

Il giudice d’appello, pertanto, aveva errato avendo fondato la propria decisione sulla correlazione tra costi e ricavi e non tra costi ed attività imprenditoriale.

La decisione è interessante poiché riguarda una frequente contestazione dell’amministrazione finanziaria. Non di rado, infatti, gli uffici disconoscono la deducibilità di un costo per assenza di «inerenza» non tanto rispetto all’attività nel suo complesso, ma perché considerato eccessivo rispetto ai servizi ricevuti ovvero inutile per i ricavi conseguibili o conseguiti.

La Cassazione ha ormai da tempo escluso la legittimità di simili contestazioni che costituiscono in realtà valutazioni quantitative dell’investimento effettuato dall’impresa, per di più postume rispetto al sostenimento del costo. È evidente, infatti, che nessun imprenditore potrebbe avere certezza del buon esito del proprio investimento ed infatti, il legislatore ha ancorato l’inerenza proprio all’oggetto dell’attività di impresa svolta e non ai ricavi conseguiti.

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Manichini Bonaveri contraffatti in Cina: Ellassay condannata

13 Aprile 2021

Il Sole 24 Ore 11 marzo 2021 R.I.T.

DIFESA DEI MARCHI

Il Tribunale di Shenzhen ha imposto pubbliche scuse e risarcimento danni

La fashion company cinese Ellassay, in conformità con quanto deciso dalla Corte del Popolo di Shenzhen, ha presentato sul quotidiano economico Shenzhen Economy Daily le pubbliche scuse a Bonaveri, dopo essere stata condannata al risarcimento civile comprensivo di danni punitivi per contraffazione e violazione del copyright della collezione di manichini Aloof. Bonaveri, fondata nel 1950 a Renazzo di Cento (FE), produce manichini di eccellenza esportati in tutto il mondo: nelle sue collezioni si incontrano ricerca estetica, artigianalità, innovazione e attenzione per la sostenibilità, e ovunque sia la moda di qualità.

La controversia iniziata presso la Shenzhen Futian District People’s Court riguardava la contraffazione e la commercializzazione di una collezione di manichini su cui Ellasay dichiarava di possedere i diritti d’autore. Bonaveri, con l’assistenza del team legale italiano e cinese di GWA Law, Tax & Accounting, ha dimostrato la contraffazione e ottenuto il riconoscimento dei propri diritti. Il marchio Ellassay fa capo a Shenzhen Ellassay Fashion, uno dei principali player di abbigliamento in Cina, fondato nel 1996 e dal 2015 quotato alla Borsa di Shanghai.

Ellassay – ha rilevato la Corte cinese – non solo aveva copiato la collezione di manichini Aloof prodotta da Bonaveri, ma ne aveva anche rivendicato i diritti d’autore, dichiarando di aver progettato e sviluppato internamente il prodotto, e registrandone il copyright presso l’ente competente, il National Copyright Administration of the People’s Republic of China. Dopo un confronto diretto tra le prove portate dalle aziende, sia in primo grado sia in appello, il giudice ha verificato la mancanza del processo creativo da parte di Ellassay e haaccertato la contraffazione. La Corte di Shenzhen ha così condannato Ellassay al risarcimento dei danni economici con una parte aggiuntiva a titolo punitivo, decretando la distruzione di tutti gli stampi e delle copie prodotte, il pagamento degli interessi commerciali e una dichiarazione di pubbliche scuse da presentare a proprie spese sulla stampa cinese. La sentenza rappresenta un importante traguardo nella tutela dei modelli di manichini in Cina, da sempre molto complessa.

Si tratta di un riconoscimento del processo creativo, della tutela del modello inteso come creazione artistica, dei diritti su questa creazione e la conseguente loro violazione. La sentenza della Corte di Shenzhen interviene in favore del Made in Italy e della salvaguardia del lavoro di chi, ogni giorno, opera nel nome di qualità, eccellenza, sostenibilità e creatività.«Copiare un prodotto significa appropriarsi non solo del risultato di un lavoro, ma del lavoro stesso che ne ha permesso la realizzazione – dichiara Andrea Bonaveri, Ceo di Bonaveri – Tutelare il Made in Italy vuol dire tutelare la ricerca, il know-how e tutte le professionalità coinvolte nel processo produttivo: dall’ideazione alla realizzazione finale».

Bonaveri ha una produzione annua di 15mila manichini d’autore e il fatturato 2018, che ha sfiorato i 14 milioni di euro, è ripartito per il 22% sul mercato italiano e per il restante 78 sull’estero: Usa, Francia, Uk e Germania. Nei prossimi anni l’obiettivo sarà il consolidamento in Estremo Oriente.

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Amministratore gratis se è previsto dallo statuto  

7 Marzo 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 22 Febbraio 2021 di Angelo Busani

Compensi dei manager 

L’incarico di amministratore di società ha una natura presuntivamente onerosa, con la conseguenza che alla nomina ad amministratore consegue il diritto alla percezione del compenso per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico ricevuto. Nei casi in cui manchi una qualsiasi indicazione al riguardo, il compenso degli amministratori viene stabilito dal giudice in via equitativa, in ragione dell’attività svolta. Il diritto dell’amministratore alla percezione del compenso è peraltro un diritto disponibile e quindi derogabile: l’amministratore può cioé anche rinunciarvi. Ma la rinuncia (per essere valida) deve essere inserita in un’apposita clausola statutaria che sancisca la gratuità dell’incarico. Si tratta di principi già affermati nella giurisprudenza di legittimità e che sono stati ribaditi dalla Cassazione nella ordinanza n. 1673 del 26 gennaio 2021.

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Niente RW per fondi trasferiti all’estero tramite PayPal

7 Marzo 2021

Il Sole 24 Ore 1 febbraio 2021 – Esperto Risponde – di Stefano Mazzocchi

 

Un’impresa individuale, che svolge attività di commercio, utilizza per la propria attività, oltre al conto corrente italiano dedicato, anche un conto PayPal su cui riceve gli accrediti per la merce venduta e con cui effettua i pagamenti a favore di alcuni suoi fornitori.

Dato che si tratta di importi che superano i limiti che impongono il monitoraggio previsti per un conto corrente estero, l’impresa deve compilare il quadro RW?

F.P.CAMPOBASSO

Nonostante sull’argomento vi siano opinioni discordanti, si ritiene che nel caso prospettato non vi sia l’obbligo di compilare il quadro RW: infatti PayPal, ancorché operi alla stregua di un conto corrente, sotto il profilo giuridico è riconducibile a una piattaforma che può essere collegata al proprio conto corrente ordinario o alla propria carta di credito. Non vi è quindi alcun trasferimento di fondi all’estero.

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