La successione transfrontaliera sdoppia la «massa»

6 Marzo 2021

Il Sole 24 Ore 17 febbraio 2021 di Angelo Busani

EREDITÀ

Se la successione ereditaria è regolata da una legge straniera che però disciplina solo la devoluzione dei beni mobili, ma rinvia al diritto italiano per gli immobili in Italia, si ha una scissione della successione e si formano due masse ereditarie, ognuna soggetta alla propria legge. Questo il principio enunciato dalle Sezioni Unite civili della Cassazione nella sentenza 2867/2021, dal quale consegue che la legge applicabile a ogni massa individua gli eredi, determina l’entità delle quote di eredità, regola le modalità di accettazione dell’eredità, appresta l’eventuale tutela dei legittimari, disciplina validità ed efficacia del titolo successorio (compresa la revoca del testamento).

La sentenza è rilevante perché, pur dettata con riferimento alla normativa precedente il regolamento Ue 650/2012, contiene principi tutt’oggi da tenere in considerazione: il regolamento 650 (applicabile in Italia, ma non nel Regno Unito) dispone che la legge applicabile «all’intera successione» è quella dello Stato in cui il defunto aveva la propria residenza abituale al momento della morte; se la legge applicabile è però quella inglese (come nella sentenza 2867/2021), essa dispone che, per i beni mobili, si applica la legge del domicilio del de cuius, mentre per i beni immobili occorre osservare la lex rei sitae, ossia la legge del luogo ove gli immobili sono ubicati; anche il regolamento 650 (articolo 34, comma 1), riconosce il rinvio “all’indietro” e cioè riconosce applicabile il diritto italiano quando a esso rinvia la legge (di diritto internazionale privato) dello Stato che il regolamento 650 designa quale legge applicabile alla successione ereditaria.

Nel caso esaminato dalle Sezioni Unite, una vedova reclamava l’applicazione della norma di diritto inglese (la section 46 del Wills Act 1837) per effetto della quale la celebrazione di un matrimonio dopo la confezione di un testamento importa la revoca del testamento stesso.

L’interesse a far valere questa revoca era dettato dal fatto che, se fosse stata ottenuta una pronuncia di accertamento dell’intervenuta revoca, la vedova, invece di beneficiare solo di un legato di 50mila sterline disposto nel testamento, avrebbe beneficiato della devoluzione ereditaria disposta dalla legge per il caso di apertura di una successione non regolamentata da un testamento, vale a dire della totalità dei beni mobili (ai sensi della legge inglese) e di un terzo dei beni immobili ubicati in Italia.

La Cassazione decide dunque che, scindendosi la massa ereditaria in massa mobiliare (regolata dalla legge inglese) e massa immobiliare (regolata dalla legge italiana), ognuna di dette leggi deve essere osservata con riguardo alla devoluzione della rispettiva massa: quindi, il testamento si intende revocato ai sensi del diritto inglese, per susseguente matrimonio, ma non si intende revocato ai sensi del diritto italiano, il quale non conosce tale figura di revoca. Ancora: per la massa immobiliare italiana, si applicano le norme italiane sulla tutela della quota di legittima spettante ai legittimari (e, quindi, al coniuge, in presenza di più figli, spetta un quarto dell’eredità).

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Tassazione come valute estere tutta in salita per bitcoin e token

6 Marzo 2021

Il Sole 24 Ore 22 febbraio 2021 di Dario Deotto

DICHIARAZIONI

La tesi del Fisco contrasta con le norme antiriciclaggio ed è di difficile attuazione

Il richiamo alla norma «di chiusura» impedisce di far valere le minusvalenze

La forte accelerazione che, negli ultimi tempi, hanno avuto le criptovalute e determinati token impone di ritornare sulle questioni giuridiche e fiscali che li riguardano. Anche se il problema dell’inquadramento giuridico e tributario si pone per molti altri fenomeni della digitalizzazione dell’economia, che ormai prescindono da un luogo fisico (sono cioè a-territoriali). Così che si ritiene che la dimensione “spaziale”, più che territoriale, di molti fenomeni digitali potrà essere regolata soltanto con regole uniformi in seguito ad un accordo globale tra Stati.

Uno di questi fenomeni a-territoriali è proprio quello delle criptovalute, per le quali non esiste un preciso inquadramento giuridico.

La nozione antiriciclaggio

Il legislatore italiano ha regolato il fenomeno esclusivamente ai fini della disciplina antiriciclaggio definendo le valute virtuali «la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente» (articolo 1, comma 2, lettera qq), del Dlgs 231/2007).

Si tratta di una definizione che, a nostro avviso, coglie nel segno in quanto, in primo luogo, riconosce la rilevanza delle criptovalute come mezzo di scambio e non di pagamento. Il “mezzo di scambio” non ha una dimensione temporale: è l’utilizzo che se ne fa “ora e adesso”. La funzione di mezzo di pagamento consente invece di estinguere il debito che è stato contratto.

Inoltre, la disciplina del Dlgs 231/2007 individua – correttamente – la “funzione multiforme” delle criptovalute: quest’ultime possono risultare sia mezzo di scambio che strumento d’investimento, così come viene stabilito – sempre giustamente – che le criptovalute non risultano necessariamente collegate a una valuta avente corso legale.

Il corretto inquadramento della disciplina antiriciclaggio stride tuttavia con la rilevanza tributaria che, in alcuni documenti di prassi, è stata attribuita dall’agenzia delle Entrate (risoluzione 72/E/2016 e interpello 956-39/2018). Quest’ultima, infatti, ha assimilato le criptovalute alle valute estere. Occorre rilevare che una valuta si può considerare tale quando ha un legame con un territorio. Le criptovalute non hanno, evidentemente, questo legame.

Così è senz’altro da disconoscere la connotazione delle criptovalute come valute estere che porterebbe ad applicare, per le persone fisiche “private” – sempre secondo l’Agenzia – la specifica disciplina prevista dagli articoli 67 e 68 del Tuir.

La tassazione secondo il Fisco

L’articolo 67, comma 1, lettera c-ter) del Tuir, in particolare, ritiene espressivo di un’attività di investimento, come presunzione assoluta di legge, anche il (semplice) prelievo delle valute estere da depositi e conti correnti.

Tale previsione viene in parte attenuata dal successivo comma 1-ter) dell’articolo 67, con il quale viene stabilito che le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere derivanti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che, nel periodo d’imposta in cui esse sono realizzate, la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui.

Tale previsione non può, evidentemente, essere applicata a un fenomeno “vivace” e multiforme come le criptovalute. I sette giorni lavorativi continui risultano, ad esempio, un concetto che mal si concilia con il “cryptomondo”, così come il riferimento al cambio al 1° gennaio del periodo di riferimento e ai «depositi e conti correnti» dimostrano tutta l’inadeguatezza dell’accostamento delle criptovalute (molte nascono in corso d’anno e, comunque, il “cambio” tra inizio d’anno e qualche mese dopo può mutare notevolmente) alle valute estere.

Il prelievo come redditi diversi

Con la conseguenza che il trattamento di eventuali plusvalenze derivanti da un loro impiego come strumento di investimento, escludendosi l’assimilazione alle valute estere, deve essere ricercato nelle altre disposizioni dell’articolo 67 del Tuir. La soluzione più plausibile, a nostro avviso, è che eventuali plusvalenze debbano essere assoggettate a tassazione come redditi diversi ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera c-quinquies), dello stesso Tuir, posta la funzione di “chiusura” di tale disposizione. Anche se questa conclusione non piace a molti perché comporta l’irrilevanza di eventuali minusvalenze.

È chiaro che sarebbe meglio che il diritto positivo si stancasse di rincorrere questi fenomeni, e li disciplinasse in modo organico e ragionevole

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Sotto torchio amministratori e organi di controllo

6 Marzo 2021

Il Sole 24 Ore 24 febbraio 2021 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

GLI OBBLIGHI

La proprietà diretta con una partecipazione di oltre il 25%

L’approvazione del decreto sulla titolarità effettiva di imprese dotate di personalità giuridica, di persone giuridiche private, di trust per finalità antiriciclaggio e la connessa istituzione di un’apposita sezione del Registro delle imprese comporterà nuovi obblighi degli amministratori e dell’organo di controllo eventualmente presente in questi enti.

Le imprese con personalità giuridica e le persone giuridiche private devono acquisire per un periodo non inferiore a 5 anni informazioni sulla propria titolarità effettiva e le forniscono ai soggetti obbligati agli adempimenti antiriciclaggio (intermediari finanziari, professionisti ecc.) in occasione dell’adeguata verifica della clientela.

Nel caso di società costituisce indicazione di proprietà:

  1. a)diretta: la titolarità di una partecipazione superiore al 25% del capitale del cliente, detenuta da una persona fisica;
  2. b)indiretta: la titolarità di una percentuale di partecipazioni superiore al 25% del capitale del cliente, posseduto per il tramite di società controllate, fiduciarie o per interposta persona.

Se dall’assetto proprietario non è possibile individuare univocamente la persona fisica cui attribuibire la proprietà diretta o indiretta dell’ente, il titolare effettivo coincide con la persona fisica cui, in ultima istanza, è attribuibile il controllo del medesimo in forza:

  1. a)del controllo della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria;
  2. b)del controllo di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante in assemblea ordinaria;
  3. c)dell’esistenza di particolari vincoli contrattuali che consentano di esercitare un’influenza dominante.

Nel caso invece di persona giuridica privata rilevano:

  1. a)i fondatori, ove in vita;
  2. b)i beneficiari, quando individuati o facilmente individuabili;
  3. c)i titolari di funzioni di direzione e amministrazione.

Qualora l’applicazione dei citati criteri non consenta l’univoca individuazione di uno o più titolari effettivi, il titolare effettivo coincide con i titolari di poteri di amministrazione o direzione della società. L’individuazione del beneficiario compete agli amministratori. Questi, in prima battuta, acquisiscono le informazioni sulla base delle scritture contabili e dei bilanci, dal libro dei soci, dalle comunicazioni relative all’assetto proprietario o al controllo dell’ente, nonché dalle comunicazioni ricevute dai soci e da ogni altro dato a loro disposizione. Se dovessero permanere dubbi sulla titolarità effettiva, gli amministratori devono richiedere specifici chiarimenti ai soci.

Analoghi adempimenti incombono:

sui fondatori se in vita o su chi ha rappresentanza e amministrazione delle persone giuridiche private;

sul fiduciario di trust e istituti giuridici affini tenuti all’iscrizione nella sezione speciale, delle informazioni sulla titolarità effettiva del trust o dell’istituto giuridico affine, e sulle relative variazioni.

L’inerzia o il rifiuto del socio ovvero l’indicazione di informazioni palesemente fraudolente rendono inesercitabile il relativo diritto di voto e comportano l’impugnabilità delle deliberazioni assunte con il loro voto determinante.

A questo punto, stante le potenziali conseguenze dannose che potrebbero derivare in presenza di inerzia o rifiuto di fornire informazioni o di dichiarazioni mendaci da parte del socio, quali l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, l’impugnabilità delle deliberazioni ecc. appaiono evidenti le responsabilità anche dell’organo di controllo della società.

Per tali ragioni, l’organo di controllo dovrà svolgere un’attenta vigilanza sia sugli adempimenti da porre in essere da parte degli amministratori, sia su eventuali condotte omissive del socio a seguito delle richieste degli amministratori stessi.

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Accertamento da transfer pricing fondato sul divario dal valore normale

9 Febbraio 2021

Il Sole 24 Ore 13 gennaio 2021 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

CASSAZIONE

Non bastano per la rettifica l’antieconomicità o il risparmio d’imposta

Il contribuente è poi tenuto a dimostrare la normalità delle condizioni concordate

Nel trasfer pricing l’antieconomicità o il risparmio di imposta non sono elementi sufficienti per fondare l’accertamento: occorre infatti che l’ufficio provi lo scostamento del prezzo rispetto al valore normale.

Il contribuente è poi tenuto a dimostrare la “normalità” delle condizioni economiche concordate.

Ad affermarlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza 230/2021 depositata ieri 12 gennaio.

La vicenda trae origine dalla contestazione dell’Agenzia di alcuni costi di marketing, partecipazione a fiere estere, promozione aziendale e pubblicità sostenuti e dedotti da una società controllante anche nell’interesse delle partecipate estere.

L’Agenzia, contestando la violazione dei prezzi di trasferimento, recuperava tali costi nel presupposto che fossero privi di una valida giustificazione economica e avessero in concreto consentito un cospicuo risparmio di imposta.

Infatti, poiché anche le società estere avevano beneficiato dei servizi acquistati dalla controllante nazionale, avrebbero dovuto partecipare al relativo costo.

La società impugnava il provvedimento ed entrambi i giudizi di merito confermavano l’illegittimità della pretesa.

L’ufficio ricorreva così in Cassazione lamentando, sul punto, un’errata applicazione della norma.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che la contestazione del transfer pricing introduce una presunzione secondo la quale i componenti di reddito con società estere controllate da un ente residente sono valutati in base al valore normale.

La definizione di valore normale (articolo 9 del Tuir) va individuata nel prezzo praticato per analoghi beni o servizi, in regime di libera concorrenza e nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti.

In proposito, la Cassazione ha precisato che in caso di operazioni infragruppo, l’Ufficio deve provare l’esistenza dell’operazione stessa, della pattuizione di un corrispettivo inferiore e lo scostamento di tale valore rispetto ai normali prezzi di mercato.

In tale contesto, non è necessario che l’Amministrazione finanziaria fornisca la prova che l’operazione sia priva di una valida giustificazione o abbia comportato un risparmio di imposta. Si tratta, infatti, di presupposti della diversa fattispecie dell’abuso del diritto.

La Suprema corte ha così concluso che in mancanza della prova a carico dell’ufficio dello scostamento del prezzo rispetto alla “normalità” non ci sono i presupposti per la contestazione di trasfer pricing.

La decisione è interessante poiché riguarda una situazione che si verifica di frequente.

Di prassi gli uffici contestano i prezzi infragruppo (in realtà anche relativi a società interamente nazionali) nell’unico presupposto che si tratti di operazioni asseritamente antieconomiche ovvero alla presunta esistenza di un risparmio indebito di imposte.

Secondo il principio affermato dalla Cassazione, il provvedimento così motivato è illegittimo poiché ai fini della sua validità, l’ufficio deve provare lo scostamento del prezzo applicato dalla contribuente rispetto al valore normale.

Esemplificando, è verosimile ritenere che una prova in tal senso potrebbe essere l’indicazione nel provvedimento dei prezzi di analoghi prodotti/servizi desunti da listini prezzo, ricerche sul web, eccetera.

Dinanzi a tali prove, il contribuente è poi tenuto a dimostrare che il corrispettivo convenuto corrisponda ai normali valori economici attribuiti dal mercato. Ove invece, manchi il corrispettivo specifico, occorre dimostrare che i servizi/beni di cui le società estere hanno usufruito è stato remunerato attraverso altri accordi (ad es. maggiorazione del prezzo del bene finito.

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Chi posta sui social commenti offensivi rischia la diffamazione aggravata

9 Febbraio 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 11 gennaio 2021 – Giustizia e Sentenze

DIRITTO E WEB

Carcere fino a tre anni o multa: il punto sui confini della rilevanza penale

Si configura anche il reato di sostituzione di persona se si usa un falso profilo

Attenzione a lasciarsi coinvolgere in battibecchi sui social perché lanciare in rete post offensivi può costare una condanna per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo di pubblicità.

Il reato è quello previsto dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale che punisce (con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 euro) chi offenda l’altrui reputazione comunicando con un mezzo di pubblicità. Per i giudici, infatti, anche un messaggio postato a un gruppo limitato di amici ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Così, uno sfogo rischia di sconfinare in crimine se – per tenore letterale o contenuto – sfori i limiti del rispetto delle persone coinvolte.

A stabilire i confini tra commenti solo inopportuni e le fattispecie di reato è la giurisprudenza.

Le pronunce

Scatta la diffamazione aggravata, ad esempio, per chi con un post visibile a tutti i suoi contatti offenda l’ex accusandolo di non contribuire al mantenimento dei figli (Tribunale di Torino, 299/2020).

Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca, considerata luogo aperto al pubblico poiché fruibile dagli iscritti al social, insulti il marito qualificandolo come «un miserabile» bisognoso di cure psichiatriche (Corte d’appello di Cagliari, 257/2020) o per chi, nella spasmodica ricerca di «giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti», denigri una professoressa sul piano familiare, privato e lavorativo (Tribunale di Ascoli Piceno, 90/2020).

Condannato anche chi – riferendosi alla vicenda di un operaio di uno stabilimento siderurgico tragicamente morto sul lavoro – pubblichi sul suo profilo pesanti offese a un sindacalista definendolo «viscido e senza spina dorsale» (Tribunale di Taranto, 123/2020).

Diffamatorio, inoltre, il commento che marchi un giornalista come uno «pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare» per infangarne la reputazione e offuscarne il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico (Tribunale di Campobasso, 43/2020).

Il reato si configura se le espressioni adoperate sono tali da gettare una luce oggettivamente negativa sulla vittima. Sfuggirà a responsabilità penale, pertanto, chi – interagendo sulla piattaforma di Youtube – auguri a un dottore che aveva rilasciato un’intervista critica sull’omosessualità che le figlie siano lesbiche e sposino dei gay, eventualità che nella realtà non riveste un connotato spregievole (Cassazione, 17944/2020).

Del resto, il bene protetto è l’onore “sociale”, ossia la reputazione di qualcuno in un certo gruppo e in un particolare contesto storico.

Prova e risarcimento

Per inchiodare il colpevole di un post offensivo e dimostrarne la paternità, puntualizza la Corte di Cassazione con sentenza 9105/2020, è superfluo ricorrere alla macchinosa procedura della rogatoria internazionale nella sede americana di Facebook se l’imputato non solo ha firmato e diffuso lo scritto su siti di libero accesso ma – diffidato dalla persona offesa – ha provveduto a rimuoverlo.

La persona diffamata può quindi costituirsi parte civile nel processo penale o rivolgersi direttamente al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa (Tribunale di Vicenza, 1673/2020).

Falso profilo

Una fattispecie diversa si configura se si “ruba” l’immagine di una persona per creare una falsa identità digitale associata a un nickname di fantasia e da lì si fanno partire delle offese. È infatti configurabile il reato di sostituzione di persona, insieme con la diffamazione aggravata a mezzo stampa qualora con l’acquisizione degli screenshot si appuri che le offese siano state divulgate con post visibili agli “amici” del profilo e non con l’invio di messaggi in privato (Cassazione, 22049/2020).

Per scovare l’autore dei contenuti infamanti occorre individuare con gli indirizzi IP (Internet Protocol address) il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (host).

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Dichiarazione fraudolenta anche senza avere benefici

9 Febbraio 2021

Il Sole 24 Ore 21 gennaio 2021 di Antonio Iorio

CASSAZIONE

Coinvolto il responsabile amministrativo con delega a firmare le dichiarazioni

Anche il responsabile amministrativo della società risponde del reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture se ha la delega alla sottoscrizione delle dichiarazioni. A nulla rileva che non sia socio dell’impresa e che quindi non abbia tratto beneficio diretto dall’evasione in quanto il suo coinvolgimento può essere provato anche sotto altri profili. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di Cassazione con la sentenza 2270 depositata ieri.

Nei confronti del direttore amministrativo di una società che aveva sottoscritto la dichiarazione dell’impresa veniva effettuato un sequestro preventivo in considerazione di un ipotizzato reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture. La misura cautelare veniva confermata dal competente tribunale del riesame. L’interessato ricorreva per cassazione, evidenziando, in estrema sintesi, che era direttore amministrativo, anche se dotato di poteri di firma delle dichiarazioni fiscali. In sostanza era un semplice dipendente della società, senza poteri di rappresentanza che non aveva tratto alcun beneficio dalla violazione contestata.

In ogni caso non vi era prova che avesse presentato le dichiarazioni fiscali oggetto di contestazione: nella società si erano avvicendati vari amministratori che avrebbero potuto procedere a tale adempimento. Infine veniva rilevato che si era anche insinuato nel fallimento della società per retribuzioni non ricevute

La Corte di cassazione ha respinto il ricorso confermando la misura cautelare.

Secondo i giudici di legittimità l’interessato non aveva considerato che il tribunale del riesame aveva in realtà valutato anche altre circostanze.

Innanzitutto egli in ambito societario impartiva le direttive ai fini della registrazione e del pagamento delle fatture, inoltre era presente ad incontri nei quali uno dei partecipanti ammetteva che i lavori pagati non corrispondevano a quelli eseguiti e veniva indicato da un testimone quale responsabile della falsità in sede di approvazione dei bilanci

La cassazione ha così ritenuto irrilevante la circostanza lamentata dall’interessato che non vi fosse prova dell’apposizione della firma dell’indagato sulle dichiarazioni fiscali in quanto non presenti in atti

La pronuncia della Suprema corte, che evidentemente attiene una misura cautelare e quindi non è un’affermazione della colpevolezza dell’indagato, tuttavia deve far riflettere sulla circostanza, spesso non ben ponderata, che in prima battuta nei reati dichiarativi la responsabilità dell’illecito penale ricade su colui che ha sottoscritto la dichiarazione.

Nella specie dalla lettura della sentenza sembra emergere che l’interessato avesse effettivamente la delega per tale atto ancorché poi si sia difeso rilevando che l’accusa non avesse allegato tali dichiarazioni ponendo così in dubbio verosimilmente anche la stessa sottoscrizione.

Secondo l’orientamento della Suprema corte colui che sottoscrive la dichiarazione è in prima battuta il responsabile del reato, in quanto si presume la consapevolezza di quanto dichiarato, tanto più se da altri elementi (dichiarazioni testimoniali di terzi e sua partecipazione a riunioni) era confermata la sua consapevolezza.

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Utili esteri, per il Fisco vale l’anno di maturazione

9 Febbraio 2021

Il Sole 24 Ore 13 gennaio 2021 di Alessandro Germani

PAESI WHITE LIST

Dal 2018 i dividendi ordinari sono tassati a titolo d’imposta al 26%

Alessandro Germani

In caso di utili distribuiti da una società estera, occorre verificare se nel periodo di formazione dell’utile la stessa si qualifichi residente in uno Stato a fiscalità ordinaria o meno, secondo le regole vigenti nelle rispettive annualità di imposta.

La società, residente in Svizzera, ha versato le imposte sui redditi, sia a livello federale che a livello cantonale e comunale, nella misura ordinaria, senza beneficiare di alcun regime speciale.

A seguito di una scissione a favore di una società Alfa il socio persona fisica riceve degli utili, prodotti fra il 2012 e il 2019 e vuole conoscerne la tassazione, ovvero se debbono intendersi provenienti da paesi a fiscalità privilegiata o a tassazione ordinaria.

Per gli utili di fonte estera, l’articolo 47 del Tuir stabilisce un regime fiscale differente a seconda che la società emittente sia residente in un paese a fiscalità privilegiata oppure ordinaria. Nel primo caso l’utile concorre integralmente alla formazione del reddito imponibile del socio residente, a meno che non sia stato già imputato al socio per trasparenza concorrendo a formare il reddito.

La ritenuta alla fonte sarà a titolo d’acconto (salvo per la partecipazione quotata) e verrà poi indicata dal contribuente nel quadro RL del Modello Redditi PF. Gli utili derivanti da paesi a fiscalità ordinaria fino al 2017 erano assoggettati parzialmente a tassazione, mentre dal 2018 sia per le partecipazioni qualificate sia per le non qualificate è prevista la tassazione a titolo d’imposta con aliquota del 26per cento.

Ciò vale anche per gli utili di fonte estera derivanti da soggetti residenti in Paesi che non sono considerati a regime fiscale privilegiato. Per tali utili occorre individuare dunque la provenienza, considerato che la norma sui paesi a fiscalità privilegiata si è modificata più volte (attualmente articolo 47-bis comma 1 del Tuir a seguito del recepimento della direttiva Atad). In più la legge di bilancio 2018 ha stabilito che non si considerano provenienti da un paradiso fiscale i dividendi distribuiti da una società a fiscalità privilegiata che corrispondono a utili “formati” in annualità in cui la società estera era considerata a fiscalità ordinaria, secondo le regole vigenti nel medesimo periodo di “formazione” dell’utile. Il contribuente dovrà dunque verificare se nel periodo di “formazione” dell’utile, ovvero dal 2012 al 2019, la società si qualifica residente in uno Stato a fiscalità ordinaria secondo le regole vigenti nelle rispettive annualità di imposta, nel quale caso gli utili sono assoggettati a ritenuta d’imposta. Ad esempio, per il triennio 2016-2018 si deve verificare che il livello nominale di tassazione della Svizzera non fosse inferiore al 50% di quello italiano. Idem per il 2019 va effettuato lo stesso check sulle aliquote nominali, unitamente alla verifica del requisito del controllo (articolo 2359 del Codice civile), a in base all’articolo 167 comma 2 del Tuir. Per tutti e sette gli anni la Svizzera non è a fiscalità privilegiata.

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Vendite online, anche la piattaforma risponde per la violazione dei marchi

9 Febbraio 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 18 gennaio 2021 di Gianluca De Cristofaro

PROPRIETÀ INTELLETTUALE

Il gestore del marketplace è responsabile degli illeciti commessi da terzi

Secondo i giudici di Milano ha un ruolo attivo: si occupa di clienti e promozioni

Il Tribunale di Milano riconosce la responsabilità per contraffazione di marchio di un noto marketplace considerandolo hosting provider attivo, con riferimento alle vendite effettuate da terzi sulla propria piattaforma. Una decisione importante che si inserisce in un quadro giurisprudenziale ancora oscillante e che sembra andare nella direzione di escludere il regime di esenzione dalla responsabilità prevista dal Dlgs 70/2003 (articolo 16).

La responsabilità del provider

La Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano, con ordinanza cautelare del 19 ottobre 2020, ha deciso un procedimento d’urgenza promosso da due produttori di articoli di profumeria di alta gamma (che avevano implementato un sistema di distribuzione selettiva a tutela del prestigio dei marchi distribuiti) nei confronti della piattaforma Amazon attraverso la quale erano commercializzate – sia direttamente dal gestore, sia tramite venditori terzi – le proprie fragranze.

Il Tribunale, dopo aver valutato la liceità del sistema di distribuzione selettiva delle fragranze (appurando che le modalità di vendita sul marketplace ne ledevano il prestigio), ha prima accertato la vendita diretta dei profumi da parte del provider – stabilendone la responsabilità per contraffazione di marchio –, e, in seguito, ha esaminato le modalità operative relative ai servizi di vendita offerti dal provider, rilevando che quest’ultimo:

gestisce un servizio clienti per le inserzioni di vendita di terzi (unico servizio di cui il cliente dispone per interfacciarsi con il venditore);

svolge attività promozionale anche tramite inserzioni su siti terzi;

permette ai consumatori di ritenere esistente un legame tra la piattaforma e le aziende produttrici dei prodotti venduti sulla stessa.

Secondo il Tribunale, l’insieme di queste azioni attribuisce al gestore della piattaforma – nella sua veste di hosting provider – un ruolo attivo, escludendolo dall’esenzione di responsabilità previsto dall’articolo 16 del Dlgs 70/2003 solo in caso di servizio «consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio», definito negli ultimi anni dalla giurisprudenza “passivo”. L’attività del gestore del marketplace, infatti, non si è limitata alla prestazione di un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, per la quale la piattaforma non conosce, né controlla, le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i servizi.

Il Tribunale ha quindi ritenuto il provider responsabile di contraffazione di marchio anche quando svolge il ruolo di intermediario tra il consumatore e i venditori terzi che sfruttano la piattaforma per la propria attività commerciale, inibendo l’ulteriore commercializzazione delle fragranze tramite il proprio marketplace.

La giurisprudenza

La decisione di Milano arriva pochi mesi dopo una sentenza della Corte di giustizia europea del 2 aprile 2020 che, all’opposto, aveva riconosciuto la natura di hosting provider passivo di Amazon (C-567/18, Coty c. Amazon). In quel caso, tuttavia, la Corte si era limitata a considerare (alla luce però delle circostanze di fatto delineate dal giudice del rinvio) la mera attività di stoccaggio svolta dalla piattaforma.

L’indagine del Tribunale di Milano ha, invece, esaminato nel dettaglio le attività svolte in concreto dal gestore del noto marketplace al fine di individuare la linea di confine tra prestatore di servizi della società dell’informazione neutrale e non neutrale.

La responsabilità del provider è, ormai, da tempo al centro del dibattito giurisprudenziale (e non solo), ma è quantomai attuale; la regolamentazione della responsabilità delle piattaforme è anche oggetto del Digital Service Act, parte della proposta presentata dalla Commissione europea lo scorso 15 dicembre per regolamentare l’offerta di servizi digitali.

La distinzione tra hosting “attivo” e “passivo” passa, ormai e inevitabilmente, sempre più da una verifica in concreto e caso per caso della condotta e delle attività svolte dai provider. Così, alcune decisioni di merito hanno ritenuto attiva la condotta del provider sulla base di attività quali organizzazione di un servizio clienti, controllo sui prodotti, profilazione e manipolazione del materiale caricato dall’utente (Tribunale di Milano, ordinanza del 13 luglio 2020; Tribunale di Roma, sentenze del 12 luglio 2019 e del 10 gennaio 2019); altre hanno invece ritenuto passivo il ruolo del provider sulla scorta della mera ospitalità di contenuti, senza manipolazione dei dati (Tribunale di Milano, sentenza del 17 giugno 2020; Cassazione, sentenza del 19 marzo 2019; Tribunale di Torino, sentenza 7 aprile 2017).

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Stabile organizzazione anche le attività di supporto

12 Gennaio 2021

Il Sole 24 Ore 2 dicembre 2020 di Cecilia Breviglieri e Maricla Pennesi

CASSAZIONE

Le attività devono dare vita a un ciclo completo con risultati rilevanti

La Corte di cassazione, con l’ordinanza 21693 dell’8 ottobre 2020, ha recentemente affermato che si configura la stabile organizzazione di una società estera sul territorio italiano se, per il tramite di un amministratore di fatto, vengono svolte una pluralità di attività da rappresentare un ciclo completo con un proprio risultato economicamente rilevante per il soggetto estero.

Lo svolgimento dell’attività d’impresa deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendo anche tutte quelle prestazioni di servizi o, più in generale, qualunque attività riferibile all’interesse economico del soggetto estero sul territorio italiano.

Pertanto una volta individuata in via sostanziale l’esistenza di una stabile organizzazione, quand’anche vi fossero attività preparatorie o accessorie queste sarebbero comunque da ricomprendere nell’insieme di operazioni che rappresentano l’attività di impresa, in una sorta di vis attractiva, ricondotta a unità dalla rilevanza economica nell’interesse della società estera.

La Suprema corte, nell’ordinanza, ribadisce i criteri cardine per l’individuazione, su base sostanziale e fattuale, di una stabile organizzazione; infatti chiarisce che l’articolo 162 del Tuir (per gli esercizi ante 2004 si deve far riferimento al contenuto sostanzialmente analogo all’articolo 20 del Tuir vigente ratione temporis, come integrato dall’articolo 5 del commentario Ocse) prevede che l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia di un’impresa estera ricorre:

  • quando ci sia una sede localizzata sul territorio stabile e connessa a un esercizio normale di attività economica d’impresa idonea a produrre reddito;
  • quando l’attività viene svolta per il tramite di un rappresentante dotato del potere di concludere contratti per conto dell’impresa non residente nel territorio dello Stato.

Nel ribadire i principi base, la Corte di cassazione si spinge oltre a qualificare le attività ausiliarie e preparatorie e il discrimen per essere qualificate come tali, sostenendo che ai fini della definizione di attività meramente ancillari è necessario che le stesse siano rivolte esclusivamente all’impresa e al suo funzionamento interno, senza rappresentare un centro d’imputazione autonoma di reddito.

Pertanto non possono essere qualificate tali le prestazioni di servizi effettuate nei confronti di terzi (clienti) ovvero a favore di altre imprese facenti parte del gruppo.

Attività diverse da casa madre

Degna di nota l’ulteriore annotazione da parte della Cassazione in cui si sottolinea che una sede fissa per essere considerata una stabile organizzazione deve essere utilizzata dall’impresa residente per l’esercizio in tutto o in parte della “sua” impresa, il che non implica necessariamente che l’attività da svolgere per mezzo della sede debba essere del tutto simile a quella della casa madre, essendo, invece, requisito fondamentale che sia svolta una qualunque attività d’impresa comparabile o del tutto diversa da quella esercitata dal soggetto estero purchè riconducibile all’interesse economico diretto dello stesso con il conseguente ottenimento di un autonomo risultato tassabile.

A questo quadro di attività funzionalmente interconnesse si aggiunge un elemento fondante l’intera contestazione ovvero il ruolo assunto, in Italia, dall’amministratore di fatto, il quale poneva in essere una serie di attività riconducibili al ruolo di “agente” ( comma 6 articolo 162 Tuir) per conto della casa madre, quali il perfezionamento di contratti di acquisto e vendita, il reimpiego di denaro ottenuto dall’attività caratteristica di investimenti, finanziamenti e mutui a beneficio suo o di soggetti terzi, e attività di acquisto per conto delle consociate.

L’emissione delle fatture

Non solo. La stessa persona emetteva fatture per conto della società nei confronti dei clienti italiani, apponeva la propria firma nel siglare i contratti e i documenti rilevanti, procedendo alla conservazione degli stessi nell’interesse del soggetto estero, curava i rapporti con gli intermediari bancari presso cui erano accesi i conti correnti societari, pagava i fornitori emettendo assegni sia sui conti bancari della società sia come persona fisica e dava disposizioni per l’incasso delle fatture.

La Corte conclude con quello che dovrebbe essere un auspicabile invito all’analisi concreta dei rischi fiscali in relazione ai fenomeni di stabile organizzazione occulta ovvero a esaminare tutti i fatti rilevanti e decisivi ai fini della valutazione della natura dell’attività svolta nel contesto del modello di business del soggetto estero tenendo conto delle peculiarità ed articolazioni dello stesso sul territorio italiano nonché ai soggetti in esso attivamente coinvolti nella realizzazione del risultato economico.

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Brexit, il rappresentante fiscale dribbla gli effetti Iva più pesanti

11 Gennaio 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 28 dicembre 2020 Matteo Balzanelli e Massimo Sirri

IMPOSTE INDIRETTE

Alcuni fornitori Uk scelgono di registrarsi in uno Stato Ue per agevolare i propri clienti

L’iter può essere usato anche per le cessioni «assimilate» alle intraUe

Per agevolare i propri clienti nel dopo Brexit, i fornitori britannici possono decidere di “registrarsi” ai fini Iva, nominando un rappresentante fiscale in un qualsiasi Stato membro. Una soluzione che resta valida anche dopo l’accordo del 24 dicembre tra Regno Unito e Unione europea e che offre il vantaggio di eseguire nello Stato Ue prescelto l’importazione dei beni provenienti da Uk o da altri Paesi extraUe, così da realizzare poi una cessione intracomunitaria nei confronti del cessionario soggetto passivo Ue.

È allora bene che gli operatori nazionali siano a conoscenza delle regole che governano tali operazioni.

  1. Innanzitutto, va ricordato che l’introduzione di beni nel territorio dell’Ue con relativa immissione in libera pratica può avvenire senza pagamento dell’imposta, fruendo della possibilità riconosciuta dall’articolo 143 direttiva 2006/112 di “sospendere” il pagamento dell’Iva all’importazione se i beni sono destinati a proseguire verso altro Stato membro nel quale sarà assolto il tributo.
  2. Una volta scelto il paese Ue in cui sdoganare i beni di provenienza extracomunitaria, gli operatori Uk lì nomineranno un rappresentante fiscale per dar corso all’immissione senza pagamento dell’imposta e al successivo trasferimento intraUe. In tal modo, pur rifornendosi da un fornitore inglese, l’acquirente nazionale continua a effettuare acquisti intracomunitari soggetti a Iva con applicazione del reverse charge.
  3. Dal punto di vista reddituale, il fornitore resta extraUe. Il cessionario nazionale tuttavia, ai fini Iva, deve integrare e registrare la fattura emessa dal rappresentante fiscale e collaborare con tale soggetto per fornire la prova dell’avvenuto trasferimento dei beni dallo Stato d’immissione in libera pratica all’Italia.

Per prassi dello Stato d’importazione, tuttavia, potrebbe darsi che il rappresentante non sia tenuto a emettere fattura e possa limitarsi a compilare l’elenco riepilogativo delle cessioni. Tale mancanza va sanata dal cessionario nazionale con autofattura da regolarizzazione ex articolo 46, comma 5, Dl 331/93, indicando l’identificativo Iva del rappresentante fiscale che dev’essere quindi noto all’acquirente.

  1. In ogni caso, è opportuno che il cessionario nazionale si faccia rilasciare idonea documentazione (compresa quella doganale, se possibile) che comprovi la regolarità dell’intera operazione.

La cessione assimilata

La procedura illustrata può essere seguita anche se i beni immessi in libera pratica non formano oggetto di una successiva “vera” cessione intraUe, ma di un trasferimento per esigenze del fornitore Uk, il quale potrebbe voler disporre dei beni in Italia, magari presso un proprio deposito. In tal caso, si avrebbe una cessione intracomunitaria “assimilata” dal rappresentante (di Uk) nello Stato d’importazione ad altro rappresentante (di Uk) in Italia, il quale assolverà comunque l’imposta in reverse.

Il rappresentante in Italia

L’operatore inglese potrebbe anche decidere di nominare un rappresentante fiscale in Italia per ivi immettere in libera pratica beni provenienti da fuori Ue. In questo caso, se i beni sono destinati al trasferimento in altro Stato membro, l’articolo 67, Dpr 633/72 prevede una procedura analoga a quella sopra descritta.

In base al comma 2-ter di tale norma e diversamente da quanto prevede la direttiva, è tuttavia richiesto che il bene sia oggetto di una vera cessione intraUe (che il rappresentante dovrà regolarmente fatturare) e che il cessionario sia effettivamente stabilito in altro Paese Ue.

Se i beni non sono destinati ad altro Stato comunitario, ma restano in Italia, l’imposta è assolta (salvo deposito Iva o plafond) dal rappresentante inglese presso la dogana nazionale. Tale soggetto non emetterà però fattura per la successiva vendita a soggetti passivi Iva nazionali, trattandosi pur sempre di un acquisto da extraUe da autofatturare a cura del cessionario nazionale.

Quale che sia lo Stato comunitario scelto, il rappresentante fiscale dell’operatore Uk potrebbe essere coinvolto in operazioni complesse (triangolari o vendite a catena). Vanno quindi rispettate le regole previste per tali operazioni e le indicazioni della giurisprudenza comunitaria.

Per esempio, in caso di rappresentante fiscale nominato in Italia che “acquisti” beni presso un fornitore Ue per cederli a un cliente soggetto passivo nazionale, occorre prestare attenzione al trasporto dei beni. Se il trasferimento in Italia è eseguito dal cessionario residente, il fornitore inglese, sebbene già registrato in Italia, dovrebbe infatti nominare un rappresentante fiscale anche nello Stato Ue di partenza dei beni per realizzare una cessione intracomunitaria nei confronti del soggetto nazionale (sentenza C-628/16).

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