Categoria: Dall’Italia
Pensionati frontalieri: sentenza favorevole al ricorso, la rendita si tassa solo a San Marino
11 Ottobre 2024
Dalla Redazione di San Marino RTV 2 Ottobre 2024
Csir: “Soddisfatti per una prima vittoria, altrimenti rischio accanimento verso nonni di famiglia”
Una prima vittoria del Comitato sindacale interregionale sulla questione della doppia tassazione delle pensioni degli ex lavoratori frontalieri residenti in Italia. È la sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado a segnare la svolta. Un punto di chiarezza che si aspettava da tempo e che stabilisce che le rendite sono tassabili solo a San Marino e non anche Italia.
È questo l’esito dei ricorsi, per i quali arriva una prima risposta. In ultima istanza, il procedimento potrebbe arrivare alla Corte di Cassazione, affinché si esprima in via definitiva per i “casi” sammarinesi.
“Stiamo parlando di soggetti che hanno una certa età e sono padri e nonni di famiglia e si trovano queste cartelle esattoriali e non sanno come comportarsi. Se non è accanimento, questo allora cosa è?” si chiede Daniele Tomasetti, presidente CSIR. Intanto si attende l’esito di altri 3 ricorsi ma si stima che siamo circa 40 le persone che hanno ricevuto la cartella che contesta i redditi dal 2019 in poi nonostante la Convenzione bilaterale sulle doppie imposizioni che – secondo lo CSIR – servirebbe proprio a “evitare questa dinamica”.
Un clima di incertezza che genera effetti negativi. “Alla luce tutta questa querelle che si è generata intorno ai redditi da pensione noi riceviamo molte segnalazioni e molti lavoratori qualificati di cui il sistema ha bisogno che scelgono di non venire a San Marino proprio per questo motivo”.
Dallo Csir arriva anche un appello alle istituzioni sammarinesi ed italiane affinchè non si strumentalizzi la questione e si risolva invece con un confronto definitivo.
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Stop alle consulenze giuridiche per società o enti stabiliti in Russia
11 Ottobre 2024
Il Sole 24 Ore 3 Ottobre 2024 di Marina Castellaneta
Le misure restrittive nei confronti della Russia e di persone giuridiche stabilite in quel Paese travolgono anche i servizi di consulenza giuridica, se non collegati a un procedimento giudiziario. Di conseguenza, gli avvocati o altri professionisti che svolgono attività di consulenza non possono continuare quest’attività a vantaggio della Russia o di persone giuridiche ed enti stabiliti in Russia.
Lo ha affermato il Tribunale Ue con la sentenza depositata ieri (T-797/22) con la quale è stato respinto il ricorso di alcuni Ordini professionali di Bruxelles e di Parigi che avevano chiesto l’annullamento del Regolamento Ue 2022/1904 concernente misure restrittive in considerazione delle azioni della Russia che destabilizzano la situazione in Ucraina (nonché del regolamento 2023/427) che, tra le altre misure, vieta i servizi di consulenza giuridica. Alcuni Ordini professionali sostenevano che l’inclusione del divieto della consulenza giuridica violava alcuni diritti fondamentali e, in particolare, l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che assicura il diritto a un ricorso effettivo. Per i ricorrenti il divieto di fornire servizi avrebbe compromesso il diritto di difesa e di agire in giudizio che deve essere assicurato a ogni persona fisica e giuridica. Il Tribunale Ue ha respinto il ricorso affermando una nozione più ristretta del diritto di avere accesso a un avvocato e di beneficiare della sua consulenza. Per gli eurogiudici, infatti, l’articolo 47 della Carta deve essere riconosciuto «solo se esiste un collegamento con un procedimento giurisdizionale», indipendentemente dal fatto che il procedimento sia stato già avviato o che possa essere anticipato, «nella fase di valutazione, da parte dell’avvocato». L’attività di consulenza, in materia non contenziosa, nei casi in cui si sia in un «contesto privo di un collegamento con un procedimento giurisdizionale», è così al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto a un ricorso effettivo. Inoltre, per il Tribunale, le misure restrittive imposte dall’Unione non hanno violato il principio di proporzionalità: gli obiettivi stabiliti dai regolamenti ossia la protezione dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’indipendenza dell’Ucraina sono fondamentali per la sicurezza internazionale e sono conformi – scrive il Tribunale – agli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione, ammissibili anche se vi sono alcune conseguenze negative per gli operatori. Il divieto di consulenza giuridica – proseguono i giudici – è limitato perché circoscritto unicamente ai servizi giuridici forniti al governo russo o a persone giuridiche, entità ed organismi stabiliti in Russia e non nei confronti di persone fisiche. Il Tribunale ha escluso, inoltre, una violazione del principio dell’indipendenza dell’avvocato anche perché gli ordini professionali ricorrenti non hanno dimost+rato la violazione del principio e perché, in ogni caso, l’eventuale ingerenza nell’indipendenza degli avvocati «sarebbe giustificata e proporzionata».
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Neo residenti, la sfida è attrarre nuovi investitori
11 Ottobre 2024
Il Sole 24 Ore 21 Settembre 2024 di Carlo Angelo Pittatore
La normativa sui neo residenti ha lo scopo di attrarre cittadini benestanti residenti all’estero dai quali in ogni caso non saremmo in grado, nè avremmo motivo, di avere alcun incasso tributario in quanto i redditi sono prodotti al di fuori dell’Italia. La copertura fiscale riguarda esclusivamente redditi e patrimoni esteri e fino allo scorso 10 agosto permetteva al fisco italiano di incassare forfettariamente 100 mila euro all’anno, ora raddoppiata a 200 mila euro. La flat tax ha il suo principale effetto sui redditi finanziari prodotti all’estero, in quanto i redditi generati da immobili in assenza della flat tax godono usualmente di normative/trattati che evitano la doppia imposizione e quelli prodotti da lavoro al di fuori dall’Italia sono incoerenti con il cambio di residenza e soggetti a tassazione nel paese in cui sono generati. La flat tax evita la tassazione sui patrimoni finanziari esteri (Ivafe) e sugli immobili detenuti all’estero (Ivie). Il vantaggio per l’Italia oltre ai nuovi incassi fiscali è attrarre residenti ad elevato tenore di vita che consumeranno beni e servizi. La scelta dell’Italia per i nuovi residenti è motivata dalla qualità di vita superiore ad altri paesi a parità di efficacia fiscale: consumatori d’eccellenza attratti dai settori in cui ci distinguiamo quali turismo, enogastronomia, cultura, lusso, moda. La misura ha avuto successo in termini numerici e talvolta si è trasformata in investimenti in immobili di pregio in Italia. I valori immobiliari delle nostre città sono appetibili rispetto ad altre di analoghe dimensioni all’estero e abbiamo constatato acquisti per valori importanti. Le conseguenze per la nostra economia di questi investimenti sono imposte pagate (ipotecarie, catastali e registro), lavori di ristrutturazione e spesa negli ambiti in cui l’offerta italiana primeggia, dando molte occasioni di lavoro. Tuttavia la normativa, limitando forfettariamente la tassazione sui beni e redditi rimasti all’estero, non incide sul come spingerli a trasferire il loro patrimonio e ad investire in Italia.
Che patrimonio minimo possiamo immaginare perché fosse conveniente pagare 100 mila euro di flat tax? Per esempio un residente a Londra o Parigi che intenda risiedere in Italia, e sia proprietario di una casa del valore di tre milioni di euro, risparmierebbe 30 mila euro (Ivie), e avrebbe un break even di 70 mila euro per i redditi finanziari. Immaginando un rendimento costante del 5%, e l’attuale aliquota del 26%, il patrimonio di break even tra flat tax e tassazione ordinaria Italiana sarebbe 5,384 milioni. Gli otto e passa milioni ipotizzati erano lo zoccolo minimo per recuperare il pagamento della flat tax. Il raddoppio della tassazione richiede quindi un patrimonio estero, tra finanziario e immobiliare, superiore ai 16 milioni.
La dimensione dei patrimoni non ha una distribuzione lineare, bensi piramidale, più cresce il patrimonio più che proporzionalmente diminuiscono le teste. Aumentando la flat tax si perde una fascia di cittadini assai più numerosa rispetto a chi ha patrimoni superiori ai 16 milioni. Il raddoppio della tassazione probabilmente più che dimezzerà i flussi senza incrementare gli incassi per l’erario, ma con un crollo del nuovo consumo in Italia. Avremmo la metà di nuove persone nei ristoranti, nelle vie dello shopping, nel turismo di lusso, la metà di case di lusso affittate e comprate, la metà di auto di acquistate.
Immaginiamo soluzioni coerenti agli obiettivi di maggiori imposte e di maggiore ricchezza per l’Italia in alternativa al raddoppio della tassa. Per esempio utilizzare i 100 mila euro aggiuntivi come credito di imposta per coprire imposte generate dalla presenza in Italia: da investimenti immobiliari, con scomputo dell’Imu e delle cedolari secche pagate, da redditi finanziari sugli investimenti detenuti in Italia piuttosto che il bollo. Oppure ispiriamoci ai meccanismi di obbligo di investimento utilizzati per concedere l’investor visa a cittadini extra Ue. Si potrebbe esentare dal raddoppio chi compri un certo ammontare di titoli italiani: azioni, partecipazioni, obbligazioni o titoli di stato.
Una manovra che mira al raddoppio della cassa, improbabile in quanto riduce il target potenziale non è logica, meglio incentivare investimenti facoltosi in Italia. Finora abbiamo attratto nuovi residenti ad alto reddito per i loro consumi ma non li abbiamo incentivati ad investire, anzi li abbiamo penalizzati nel caso decidano di trasferire le loro finanze. Raddoppiando l’imposizione mettiamo solo un freno a nuovi arrivi.
Vice presidente Finnat Fiduciaria
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La cancellazione della società equivale alla morte del reo: estinto l’illecito
11 Ottobre 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 16 Settembre 2024 di Sandro Guerra
La cancellazione di una società dal Registro delle imprese è equiparabile alla morte del reo ed estingue l’illecito. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 25648, depositata il 1° luglio 2024 che è tornata ad occuparsi di un tema su cui la giurisprudenza si è divisa. Negli ultimi tempi si stava consolidando l’orientamento negativo che ora però questa pronuncia rimette in discussione, acuendo un contrasto che molto probabilmente richiederà l’intervento delle Sezioni unite.
Non si tratta infatti solo di una questione di principio perché l’equiparazione alla morte dell’imputato comporta l’estinzione dell’illecito e quindi l’improcedibilità dell’azione nei confronti dell’ente non più esistente.
Il sì all’equiparazione
Secondo la sentenza n. 25648 le formalità della cancellazione dal registro delle imprese comportano il venir meno della persona giuridica, con l’inevitabile conclusione che le si estendano le norme previste per l’imputato dal Codice di procedura penale, ai sensi dell’articolo 35 Dlgs 231/2001 («All’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili»), con conseguente impraticabilità di quelle sanzioni relative e connesse alla sua attività.
Questo perché con la riforma delle società di capitali e cooperativa attuata dal Dlgs 17 gennaio 2003, n. 6, la cancellazione ha assunto effetti costitutivi dell’estinzione irreversibile della società (articolo 2495, secondo comma, del Codice civile), anche in presenza di debiti rimasti insoddisfatti e rapporti non definiti.
La pronuncia ribadisce quindi le conclusioni cui era già approdata una parte della giurisprudenza di legittimità, sia pure con la precisazione che è solo l’estinzione fisiologica e non fraudolenta dell’ente che darebbe luogo ad un evento assimilabile a quello della morte dell’imputato (Cassazione penale, Sezione II, 7 ottobre 2019, n. 41082; Cassazione penale, Sezione V, 5 luglio 2021, n. 25492).
Il no all’equiparazione
In decisioni pù recenti, la questione era stata però risolta in termini diversi, sia in Cassazione che in Tribunale. Nel 2022 la Cassazione (in dichiarato dissenso rispetto alla sentenza 41082/2019) ha sostenuto che «le cause estintive dei reati sono notoriamente un numerus clausus, non estensibile», tanto più che quando il legislatore della responsabilità delle persone giuridiche ha inteso riferirsi a cause estintive degli illeciti «lo ha fatto espressamente», come all’articolo 8, secondo comma, Dlgs 231/2001 «allorché ha disciplinato l’amnistia», o all’articolo 67, «ove ha previsto l’adozione di sentenza di non doversi procedere in soli due casi: quando il reato dal quale dipende l’illecito amministrativo è prescritto; e quando la sanzione è estinta per prescrizione» (Cassazione penale, IV Sezione, 17 marzo 2022, n. 9006).
In una seconda e più recente sentenza, la Corte ha poi osservato che «la cancellazione potrebbe costituire un c ommodus discessus per sottrarsi alle conseguenze di una pronuncia giudiziaria» e, se è vero che essa potrebbe «certamente porre un problema di soddisfacimento del relativo credito», non vi sarebbe invece «un problema di accertamento della responsabilità dell’ente per fatti anteriori, responsabilità che nessuna norma autorizza a ritenere elisa per effetto della cancellazione dell’ente stesso» (Cassazione penale, II Sezione, 14 settembre 2023, n. 37655). Un solco, quest’ultimo, già tracciato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con la sentenza 2993 del 15 novembre 2022 (si veda Il Sole 24 Ore del 2 gennaio 2023), secondo la quale l’esigenza «di impedire che successive iniziative dei soggetti interessati sortiscano l’effetto di paralizzare la risposta dell’ordinamento all’illecito dell’ente» condurrebbe a ritenere irrilevante la cancellazione, in vista di «una fase esecutiva inevitabilmente fondata sulla fictio iuris della persistenza in vita del soggetto giuridico», ossia fingendo che l’ente sia ancora esistente.
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E-commerce in nero scoperto con l’incrocio delle banche dati
9 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore 6 Agosto 2024 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco
L’operazione. Acquisti online per 1,3 miliardi , con 300 milioni di Iva non versata nel 2017 e nel 2018, nel mirino della Gdf di Pescara
Una gigantesca evasione fiscale sulle vendite online di beni prodotti all’estero – soprattutto abbigliamento ed elettronica – è stata scoperta dalla Guardia di finanza di Pescara che ha individuato 850 aziende in debito di oltre 300 milioni di Iva non versata all’erario italiano.
L’inchiesta, che riguarda gli anni 2017 e 2018 – quando le vendite transnazionali B2C (business to consumer) avevano regole più elastiche e erano interessate da controlli più difficili – ha fatto emergere oltre 1,3 miliardi di euro di transazioni effettuate tramite il marketplac e di Amazon completamente in nero, su un totale di vendite intermediate di 3 miliardi: in sostanza il 47% del mercato era in evasione totale di Iva, con danno erariale di oltre 300 milioni.
I riscontri incrociati ottenuti dalle Fiamme Gialle hanno potuto contare anche sui dati delle transazioni recuperati dal data base di Amazon, considerato che i marketplace digitali dal 2021 sono diventati per legge dei co-obbligati dell’Iva, parti integranti delle transazioni concluse e non più semplici spettatori “neutrali” delle operazioni intermediate.
Il business illecito ha visto coinvolte imprese di vari Paesi non solo Ue (Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Polonia, Austria, Svezia, Estonia, Lituania) ma anche in Usa, Regno Unito, Canada e soprattutto Cina.
L’inchiesta delle Fiamme Gialle si è incentrata sull’analisi dei dati riguardanti le vendite online incrociati con le informazioni fornite dai gestori dei siti e-commerce, dati poi confrontati con le banche dati dell’amministrazione fiscale dove è possibile identificare e verificare la posizione dei contribuenti, quando esiste. I sospetti sono stati confermati dal fatto che di 850 operatori molto “attivi” in Italia non risultava traccia, avendo questi attentamente evitato di aprire una partita Iva. La normativa vigente all’epoca – modificata nel 2021 – nel caso di vendite in e-commerce a consumatori privati prevedeva che l’imposta venisse assolta direttamente dall’operatore commerciale nello Stato membro di destinazione (cioè in Italia) ma solo se il giro d’affari annuale qui superava i 35mila euro.
Pertanto le vendite effettuate via e-commerce dall’impresa con sede all’estero nei confronti del consumatore italiano erano considerate rilevanti per l’Iva solo se il venditore aveva superato la soglia di 35mila euro di vendite nell’anno solare in corso o in quello precedente (soglia nel tempo abbassata fino agli attuali 10mila euro). In quel caso il venditore era tenuto a nominare un rappresentante fiscale o a procedere all’identificazione diretta per assolvere gli obblighi Iva. In entrambi i casi, l’adempimento dell’obbligazione tributaria prevede che vengano assolti tutti gli obblighi, dalla documentazione alle registrazione, dichiarazione e versamento dell’imposta, come un qualsiasi contribuente.
La modalita? “spontanea” di identificazione per gli operatori esteri, che fino a pochi anni fa apriva spazi enormi per condotte illecite, è stata lo spunto investigativo che ha permesso alla Gdf di Pescara di “forzare” lo scrigno del nero digitale.
Le nuove regole in vigore dal 2021 nell’Ue – direttiva 2017/2455/Ue e il regolamento Ue 2017/2454 che implementa la cooperazione amministrativa e penale, strumenti utilizzati da questa indagine – hanno abbassato la soglia di esenzione a 10mila euro di giro d’affari/ anno, ma soprattutto hanno spostato in carico all’intermediario – cioè al marketplace – l’assolvimento dell’Iva (dichiarazione più pagamento). Il marketplace oggi è considerato come il soggetto passivo che acquista e cede i beni nei confronti di una persona che non è un soggetto passivo Iva (come nel caso del consumatore). Con le nuove regole è evidente la centralità del ruolo del marketplace all’interno nella catena commerciale e la sua posizione di solidarietà debitoria dell’Iva, confermata dal Dl 34/2019 (convertito nella legge 58/2019).
E mentre il comandante provinciale della Gdf di Pescara, Antonio Caputo, spiega che il lavoro investigativo è solo all’inizio («Individueremo ogni posizione debitoria»), gli evasori scoperti stanno presentandosi alla cassa per un tardivo e non spontaneo ravvedimento.
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Bonifici truffa con sim falsa: responsabili la banca e Tim
9 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore 13 Agosto 2024 di Alessandro Galimberti
MILANO
La responsabilità per la sicurezza dell’home banking è di tipo oggettivo; la banca può liberarsene solo provando che le operazioni contestate dal cliente sono dovute al suo specifico dolo o colpa grave.
Il Tribunale di Milano (VI civile, est. Anna Giorgia Carbone) condanna in solido la banca (Bper) e l’operatore telefonico (Tim) per non aver bloccato una serie di bonifici truffa, per circa 163 mila euro, subìti da due aziende milanesi durante le vacanze di fine anno del 2020.
Ad accorgersi di anomalìe nel funzionamento dell’interfaccia digitale, era stata una dipendente delle due società durante il check di fine anno: non riceveva più sul cellulare aziendale gli Otp (one time pin) con cui vengono autorizzate le operazioni comandate, una volta eseguito l’accesso sulla piattaforma. A seguito delle tempestive segnalazioni al servizio clienti della banca, il call centre dedicato aveva solo suggerito di reinstallare la app, operazione che non aveva risolto nulla. Solo nei giorni successivi era emersa la dinamica della truffa cosiddetta sim swap: i truffatori dopo aver carpito username e password dell’home banking aziendale (non è stato chiarito se mediante phishing o fuga interna di info sensibili), si erano presentati a un punto di assistenza Tim, ottenendo con incredibile facilità la duplicazione della tessera sim (sostituzione di persona con documenti falsi, mancata richiesta di restituzione della vecchia scheda o denuncia di smarrimento). In tal modo i codici di sicurezza Otp da quel momento erano stati inviati solo alla nuova scheda clonata, saldamente controllata dai truffatori digitali.
Bper – subentrata nel contratto originario a Banca Intesa – al processo ha obiettato la scarsa diligenza delle clienti – la password era nella disponibilità di vari dipendenti – ma la giudice, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza di legittimità, ha sottolineato che «la possibilità di una abusiva utilizzazione delle credenziali di accesso da parte di terzi rientra nel rischio d’impresa della banca intermediaria, sulla quale grava pertanto una responsabilità di tipo oggettivo», superabile solo dal dolo o colpa grave del cliente. Si tratta, peraltro, di responsabilità per trattamento dei dati personali (Cassazione 10638/2016), la cui prova liberatoria consiste solo nell’aver adottato «tutte le misure idonee ad evitare il danno secondo le conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, alla natura dei dati, alle caratteristiche specifiche del trattamento».
Aggiunge il Tribunale che «la banca era stata avvertita della sussistenza di anomalie sia il giorno stesso del fatto, sia il giorno immediatamente successivo, con molteplici telefonate al numero dedicato e alla consulente di fiducia della società. Tale comportamento è, quindi, di per sé sufficiente a destituire di ogni fondamento le difese» considerato poi che «l’istituto di credito non ha «adeguatamente provato l’allegata colpa grave del cliente, rinvenibile, in tesi, nell’avere omesso le necessarie cautele per la conservazione delle credenziali personali».
Alle società – assistite da Andrea Monti e Lorenzo Vigasio – spetta ora l’integrale risarcimento del danno attualizzato, a carico solidalmente della banca e dell’operatore telefonico. La prima aveva proposto «per buona volontà» una transazione al 50%, il secondo un “bonus” di 325 euro.
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Esterovestizione a prova stretta per la residenza di società estere
9 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore 23 Agosto 2024 di Alessandro Germani
Risulta sempre delicato comprendere quale possa essere la residenza fiscale di società estere che il fisco italiano può contestare ritenendo che la stessa sia da attribuire all’Italia. Ciò anche in casistiche – invero molto diffuse – di gruppi societari che abbiano delle controllate all’estero. In questo contesto la nuova norma relativa alla residenza di società ed enti ex articolo 73, comma 3 del Tuir, come modificata dal Dlgs 209/23 di attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale, dovrebbe aiutare a evitare questi inconvenienti.
Con riguardo alla nozione di residenza delle società prima delle modifiche apportate dalla legge delega va segnalata la sentenza della Cgt Lombardia di secondo grado del 27 luglio 2023 n. 2439/25/23. La fattispecie riguardava una controllante italiana attiva nella macellazione del bestiame e una sua controllata francese. La Guardia di finanza aveva contestato l’esterovestizione della società francese. Poi l’agenzia delle Entrate aveva corretto il tiro contestando che la società francese fosse una stabile organizzazione dell’entità controllante italiana. È evidente la finalità di queste attività accertative, che mirano a recuperare base imponibile nazionale. Tuttavia, la sentenza dei giudici milanesi conferma che il fatto di costituire una società di diritto estero in loco tendenzialmente risponde ad esigenze di business e non a motivazioni di evasione fiscale internazionale. Ciò a maggior ragione se la società francese ha approvato i propri bilanci, è amministrata da un organo amministrativo in loco, uno degli amministratori agisce sul mercato francese come testimoniato dagli estratti conto della carta di credito in merito ad alberghi, ristoranti, pedaggi autostradali, acquisto di carburante. Esiste un cost sharing agreement in essere con la capogruppo italiana per fornire servizi contabili, amministrativi e fiscali, la società francese ha inoltre conferito incarico di revisione ad una società locale.
Pertanto a tali fini non rileva l’impulso proveniente dalla controllante italiana, che corrisponde all’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento ma non fa venir meno l’indipendenza gestionale e operativa della partecipata francese.
La sentenza della Cassazione 20002 del 19 luglio 2024 ha confermato la tesi del fisco, che aveva contestato la residenza fiscale di una società residente in Romania controllata da una società italiana. L’Agenzia aveva considerato la società esterovestita per il periodo 2009, ovvero residente in Italia sulla base del vecchio criterio fondato sulla sede dell’amministrazione, ex articolo 73, comma 3 del Tuir nella versione ante modifiche della legge delega fiscale. Vengono riprese infatti alcune pronunce di Cassazione che hanno individuato la sede dell’amministrazione con la nozione civilistica di sede effettiva. L’aspetto importante ribadito dalla Cassazione 20002 consiste nel riaffermare un principio importante, cioè che la sede dell’amministrazione non può coincidere sic et simpliciter con il luogo in cui viene svolta la direzione e il coordinamento da parte della controllante. Ciò se avviene fisiologicamente non consente mai di considerare esterovestita la società controllata, perché ciò avviene solo se la controllante assuma il ruolo di vero e proprio amministratore indiretto della controllata, usurpandone l’impulso imprenditoriale (Cassazione 1544/2023).
Le due sentenze appaiono quindi importanti perché ambedue, su casi differenti, confermano il principio per cui se la società estera risponde ad esigenze di business in loco ed è controllata fisiologicamente dalla società italiana che esercita la propria direzione e coordinamento, ciò non è in grado di determinare alcun rilievo di esterovestizione. Che entra in gioco solo in situazioni per così dire “patologiche” di eterodirezione. Questo principio, valido per la formulazione dell’articolo 73, comma 3 ante modifiche, deve ritenersi valido anche dopo le modifiche apportate dal Dlgs 209/23, come confermato di recente anche dalla circolare Assonime 15 che ha trattato la tematica della nuova residenza fiscale delle società ed enti
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Fattura elettronica Ue vincolata solo per cessioni transfrontaliere
9 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2024 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce
Massima e costante attenzione da parte delle istituzioni europee per il pacchetto Vida: nonostante il rinvio al secondo semestre 2024 per la loro definitiva approvazione da parte della Commissione Ue sotto la presidenza ungherese, resta viva l’attenzione su un complesso di norme in grado di incidere profondamente sulla direttiva Iva 2006/112/CE traguardando l’innovazione digitale nelle procedure di fatturazione e di gestione degli scambi intra-unionali. Una visione complessiva di quella che dovrebbe essere la disciplina a regime, anche come tempistiche di avvio, risulta dalle risoluzioni legislative del Parlamento europeo, pubblicate in Gazzetta Ufficiale dell’Unione del 24 luglio 2024, con cui sono stati apportati importanti emendamenti in fase di approvazione delle norme Iva per l’era digitale e delle vendite a distanza di beni importati. La Commissione europea è chiamata ora a modificare le sue proposte, mentre il Consiglio notificherà al Parlamento se intenderà discostarsi o meno dal testo definitivo.
Fattura elettronica formato Ue
Con la risoluzione legislativa C/2024/4246 datata 22 novembre 2023, il Parlamento europeo è intervenuto sull’obbligo di fatturazione elettronica, da un lato modulandone la definizione e dall’altro suggerendo alcune esenzioni soggettive e oggettive e novità circa il contenuto (si veda l’altro articolo). Mentre la prima versione del pacchetto Vida modificava infatti l’articolo 217 della direttiva Iva imponendo un formato elettronico strutturato, tale da consentire il trattamento automatico della fattura, la risoluzione parlamentare introduce una fondamentale distinzione obbligando l’utilizzo del formato strutturato esclusivamente per le comunicazioni digitali Drr – Digital reporting requirements e cioè per inviare i dati relativi a cessioni e prestazioni transfrontaliere. Resta invece la nozione originaria di fattura elettronica per tutte le operazioni nazionali, che potranno essere gestite in qualsiasi formato elettronico. Di conseguenza anche l’articolo 218 come emendato, nel riconoscere la possibilità per gli Stati membri di imporre l’obbligo di emettere fatture elettroniche utilizzando le sintassi della normativa EN16931, e cioè l’Ubl – Universal business language e il Cii – Cross industries invoice, li autorizza comunque ad avvalersi di formati diversi oltre che a vietare l’emissione di documenti su carta dal 1° gennaio 2028. Questo emendamento ha un impatto diretto per l’Italia dove, per le operazioni interne, potrà quindi continuare a essere utilizzato l’attuale formato xml, sebbene dovrà essere possibile scambiarsi documenti anche nei tracciati europei. La proiezione internazionale delle imprese italiane, accompagnata dall’obbligo di fatturazione elettronica intra-unionale e di gestione dei Drr in formato europeo, porterà con tutta probabilità ad una maggiore propensione nell’utilizzo dei tracciati Ubl e Cii.
Sopravvive il modello Intrastat
Nonostante l’introduzione del Drr, secondo quando dispone l’emendamento 3-ter, dovrebbe inoltre essere mantenuta la raccolta dei dati con i modelli Intrastat in quanto ritenuti strumenti essenziali per le amministrazioni fiscali nella lotta contro le frodi Iva. Altra novità riguarda l’accettazione del destinatario a ricevere una fattura in formato elettronico, ad oggi prevista dalla direttiva come elemento necessario e per il quale l’Italia ha richiesto e ottenuto una deroga, analogamente alla Germania nella quale dal 1° gennaio 2025 inizierà una graduale transizione verso l’obbligo di fatturazione elettronica B2B. Con l’emendato articolo 232 della direttiva 2006/112/CE, sino al 31 dicembre 2027 il ricorso a una fattura elettronica sarà subordinato all’accordo del destinatario solamente per gli acquisti intracomunitari di beni e di prestazioni di servizi imponibili in uno Stato membro diverso da quello in cui è stabilito il fornitore o il prestatore. Gli Stati membri potranno infatti prevedere che per le restanti cessioni di beni e prestazioni di servizi il ricorso alla fatturazione elettronica da parte dei soggetti passivi stabiliti nel loro territorio non sia subordinato all’accordo del destinatario stabilito nel loro territorio. Dal 1° gennaio 2028 non sarà necessario alcun accordo neppure per le tipologie di operazioni intra-unionali.
GLI EMENDAMENTI
Le risoluzioni
Sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 24 luglio 2024 sono state pubblicate le risoluzioni legislative del Parlamento Ue, C/2024/4246, con cui il legislativo unionale ha emendato il pacchetto Vida. Nonostante il rinvio dell’esame delle norme Iva al secondo semestre 2024, sotto la presidenza ungherese, e in attesa dei rilievi del Consiglio, sono stati apportati importanti emendamenti in fase di approvazione delle norme Iva per l’era digitale e delle vendite a distanza di beni importati.
Definizione di e-fattura
Per fattura elettronica si intendono tutte le operazioni nazionali in qualsiasi formato elettronico (anche non strutturato). Utilizzo delle sintassi Ubl o Cii esclusivamente per le comunicazioni digitali Drr (Digital Reporting Requirements, dati relativi a cessioni e prestazioni transfrontaliere).
Facoltà per gli Stati membri
Gli Stati potranno imporre obbligo di e-fatture in formato EN16931 (Ubl e Cii). Possibili però formati diversi e divieto di documenti cartacei dal 1° gennaio 2028.
Sopravvive Intrastat
Nonostante la nuova reportistica, sarà mantenuta la raccolta dei dati con gli attuali modelli Intrastat, in quanto ritenuti strumenti essenziali per le amministrazioni fiscali nella lotta contro le frodi Iva.
Accettazione dei destinatari
L’accettazione dei destinatari di e-fattura – prevista dalla direttiva come elemento necessario e per il quale l’Italia ha richiesto e ottenuto una deroga – sarà necessaria sino al 31 dicembre 2027 limitatamente agli acquisti intracomunitari di beni e di prestazioni di servizi.
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I mutanti. La carica delle criptobische: le trappole web del risparmio azzardato
9 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore 24 Agosto 2024 di Stefano Elli
Le catene multilivello che svaniscono e ricompaiono con nomi diversi
Si chiama reboot, in italiano riavvio. Quando uno schema multilivello esaurisce la propria spinta propulsiva (cioè i soldi) lo si riavvia in altri luoghi e con altri nomi. E lo si fa ricominciare daccapo. È una specifica tecnica utilizzata per trattenere i clienti scottati dal crollo dello schema precedente in una sorta di insana fidelizzazione (gli psicologi la chiamano sindrome di Stoccolma).
Oggi è facilissimo farlo per tre ragioni: il debordante catalogo prodotti offerto dall’universo criptovalute (vere o presunte); la transnazionalità; e la rapidità degli scambi: il tutto contribuisce a creare l’ecosistema ideale per questo genere di rutilanti operazioni. Proprio a questa tipologia di accidenti della criptofinanza sembra appartenere l’ultimo caso di reboot: quello di Nrt (Neo Credit Token), della digital bank Lituana Banca Neo, del trust Neo Group e del programma di marketing referenziale Neo Circle.
I mutanti
Oggi Neo Circle non esiste più. È stata acquisita dall’azienda di Dubai Xera che a sua volta deriverebbe da altre tre catene: Safir International, Success Factory e The Blockchain Era. A monitorare le piroette di questi acrobati del web è il sito-testata online Decripto.org che da tre anni vigila sul mondo dei criptoscambi. Di queste – ricostruiscono gli esperti di Decripto.org – Safir era stata costruita intorno a Zeniq coin ed era stata acquisita proprio da Neo Group che l’aveva riavviata come Neo Zen Tech. Success Factory, a sua volta, era un reboot di DagCoin di Nils Grossberg ed è finita in fallimento nell’agosto dell’anno scorso. «The Blockchain Era è, tra questi, il caso più eclatante per il fatto che è durato pochissimo, nonostante le mirabolanti parole usate dai vari promotori al momento del suo lancio dalle ceneri di Wewe.global, The Blockchain Era era il suo quarto riavvio. Aggregate alla galassia figuravano anche le tre società LyoPay, LyoTrade e LyoWallet».
Come agisce Xera? «Attraverso le attività di un bot di trading guidato dal sistema di intelligenza artificiale battezzato Quantwize: investimento minimo 110 euro sollecitando puntate in Eurx che richiama nel nome un’altra criptovaluta oggi non più esistente».
E per quanto riguarda lo schema multilevel? «Si alimentava attraverso commissioni dirette realizzate grazie a una struttura di compensazioni unilevel, non mancano anche i bonus grazie ai quali è possibile entrare nella classifica gerarchica in base sia al volume degli investimenti realizzati personalmente, sia in base a quelli iniettati dai nuovi ingressi».
L’architettura
L’architettura utilizzata, dunque, è quasi sempre la stessa. Manuel Sassi Maramotti, banchiere di lungo corso che ha studiato la vicenda dall’interno, sta raccogliendo alcune centinaia di adesioni di clienti di una di queste reti a strascico, che intendono sporgere denuncia, spiega : «L’azienda inizia ad attirare i clienti con un percorso di “private sale” di token suddiviso in diversi round di acquisto. Poi il prezzo si alza e gli utenti vengono convinti che il token sarà utilizzato per acquistare prodotti e servizi nel proprio ecosistema digitale, diventando un “utility token”, moneta utilizzabile solo internamente. Nella terza fase si promette che il token sarà utilizzabile solo all’interno del circuito».
Chiamarlo risparmio tradito è improprio: più corretto sarebbe chiamarlo azzardo finito male. Ma l’enfasi dei procacciatori che da Dubai (sempre più spesso epicentro di queste avventure) si esibiscono nella pantomima del successo (il loro) sono un’esca allettante. Così ci si crede e si investe (o meglio: si punta) su strumenti parafinanziari sapientemente imbellettati per non apparire tali. E il motivo c’è: se apparissero tali si materializzerebbe la fattispecie dell’abusivismo finanziario. E in Italia collocare al pubblico strumenti finanziari senza autorizzazione della Consob e di Banca d’Italia non si può fare.
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La decisione della Corte di Cassazione agevola in caso di errore dell’Iban
9 Settembre 2024
Il Sole 24 Ore 3 Agosto 2024 di Federica Pezzatti
PAGAMENTI
Accoppiata pericolosa. Smartphone e pagamenti fraudolenti
È uno degli errori più comuni e anche facili da commettere: digitare un Iban sbagliato, facendo sì quindi che il denaro sia trasferito sul conto corrente di una persona diversa da quella alla quale si voleva inviare il denaro.
Quando capita di sbagliare il complicatissimo Iban di un bonifico spesso ci si trova a dover fare tentativi per recuperare la somma finita sul conto del destinatario sbagliato talvolta non riuscendoci.
Le cose dovrebbero cambiare dopo la recente ordinanza numero 17.415 di giugno 2024 della I Sezione della Corte di Cassazione che si è pronunciata in tema di responsabilità di una banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, per bonifici effettuati ad un errato beneficiario.
«Elemento di rilievo nella decisione è rappresentato dal fatto che la Corte ha precisato che la banca non solo deve adottare tutte le cautele necessarie al fine di eliminare il rischio di un’erronea individuazione del beneficiario – spiega l’avvocato Massimiliano Elia, partner dello studio Pavia e Ansaldo – ma deve anche prestare assistenza al vero beneficiario del bonifico individuando a chi è andato in concreto il pagamento eseguito con Iban non corretto. Infatti, anche se non rientra tra gli obblighi dell’istituto di credito verificare l’esattezza delle informazioni fornite dall’utente, grava comunque sulla banca la responsabilità da cosiddetto “contatto sociale qualificato”, nei confronti del beneficiario del bonifico rimasto insoddisfatto per l’errata indicazione dell’Iban».
Secondo la Corte, infatti, la disciplina specifica sui servizi di pagamento, per quanto riguarda la responsabilità dell’intermediario ai sensi degli articoli 24 e 25 del Dlgs n. 11/2010, attribuisce all’Iban la centrale funzione di filtro per determinare i casi in cui la responsabilità della mancata o inesatta esecuzione è attribuibile all’utente e quelli in cui si può procedere per accertare quale degli intermediari coinvolti nel procedimento abbia causato il malfunzionamento dell’operazione e come tale responsabile.
«Pertanto, qualora la banca abbia dato seguito all’operazione di pagamento in favore di un beneficiario erroneo, pur consapevole dell’incongruenza delle informazioni, potrà essere ritenuta responsabile nei confronti dell’utente del servizio non avendo assolto l’obbligo di conformare la propria condotta ai principi di buona fede e diligenza nell’esecuzione del contratto».
Fino a prima di questa sentenza in caso di inserimento di un Iban sbagliato, il denaro veniva trasferito sul conto indicato erroneamente.
Era tuttavia possibile che il sistema di internet banking, mediante un controllo automatico dei dati, si accorgessero della non corrispondenza tra l’Iban e il nome del beneficiario del bonifico.
In questi casi, la banca già procedeva al blocco del bonifico e allo storno dell’importo pagato.
Nel caso in cui però il sistema bancario non avesse ravvisato l’errore, era necessario un intervento in prima persona (che doveva essere anche tempestivo) da parte del correntista, il quale doveva procedere il più rapidamente possibile alla revoca del bonifico eseguito erroneamente. Infatti, sono previsti dei limiti temporali entro cui è possibile revocare un bonifico, che di solito sono inferiori rispetto al tempo medio necessario per l’accredito delle somme (ovvero 1-3 giorni lavorativi).
Quindi oggi, chi si accorge di aver effettuato un bonifico nei confronti di un beneficiario diverso da quello a cui si voleva inviare il denaro, deve immediatamente, o comunque nel più breve tempo possibile, procedere alla revoca del bonifico per impedire che lo stesso si perfezioni.
Ora il sistema bancario si dovrà attrezzare per supportare la clientela.