La partecipazione minoritaria «salva» l’impresa dalle norme di transfer pricing

11 Gennaio 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 21 dicembre 2020 di Massimo Bellini

FISCO INTERNAZIONALE

La Ctr di Bolzano esclude l’applicazione e dà ragione all’azienda con 48% di quote

I mutui infruttiferi possono rispondere comunque alle logiche del mercato

Nella sentenza 55/2 del 4 dicembre 2020 i giudici della Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano (presidente Rispoli, relatore Fleischmann) si sono espressi sull’applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento a un finanziamento infruttifero tra società con vincolo di partecipazione del 48 per cento.

La vicenda

Il caso riguarda un contribuente italiano cui sono stati notificati tre avvisi di accertamento relativi agli anni 2016, 2017 e 2018 per violazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir, dovuta all’omessa applicazione di interessi su un finanziamento concesso ad una società cilena controllata al 48 per cento. In particolare, l’ufficio aveva ripreso a tassazione il valore degli interessi che sarebbero stati dovuti in applicazione del principio di libera concorrenza.

La decisione

I giudici di secondo grado hanno rigettato l’appello dell’ufficio contro la sentenza di primo grado, favorevole al contribuente. Le motivazioni riguardano sia il requisito soggettivo che oggettivo per l’applicazione della normativa di transfer pricing.

In relazione al primo aspetto, secondo i giudici la partecipazione del 48% è una partecipazione minoritaria che non consente di esercitare il controllo né di diritto né di fatto sulla società cilena. In particolare, la partecipata era amministrata da tre direttori che dovevano prendere decisioni all’unanimità, di cui solo uno era nominato dalla contribuente. L’esistenza di tale rapporto partecipativo consentiva di esercitare una certa influenza, ma non integrava il requisito del controllo. Per tali motivi le due società non potevano essere considerate come imprese associate facenti parte dello stesso gruppo e di conseguenza l’articolo 110, comma 7, del Tuir non era applicabile.

Il principio

Il principio è condivisibile. Non vi sono dubbi che una partecipazione inferiore al 50%, in assenza di ulteriori elementi, non integra il requisito soggettivo. Dovrebbe esserci infatti influenza dominante sulla base di vincoli azionari o contrattuali secondo quanto previsto dal Dm del 14 maggio 2018 o influenza sulle decisioni imprenditoriali secondo quanto indicato in precedenza dalla circolare 32/1980. Tali elementi dovevano essere provati dall’ufficio (Cassazione 28335/2018) ma non sembrano emergere dai fatti descritti nella sentenza.

Il requisito oggettivo

Anche se tali considerazioni bastano a risolvere la controversia vi è qualche perplessità sulla conclusione dei giudici in relazione al requisito oggettivo. Secondo la Ctr l’ufficio non ha provato l’esistenza di componenti reddituali ai quali sarebbe applicabile l’articolo 110, comma 7, del Tuir arrivando così a tassare proventi figurativi ed ipotetici. In senso contrario si è espressa di recente la Cassazione (21828/2020) secondo cui l’eventuale infruttuosità del finanziamento concordata tra le parti non esclude di per sé l’applicazione delle regole sui prezzi di trasferimento.

Più convincente è invece il passaggio in cui i giudici sottolineano che nel nostro ordinamento giuridico non vi è una presunzione assoluta di onerosità, per cui anche un finanziamento non oneroso può essere conforme con il principio di libera concorrenza. Vi possono infatti essere vari casi in cui la stipula di un prestito infruttifero risponde a logiche di mercato come facilitare lo sviluppo in nuovi mercati (Ctp Milano 7019/12/17).

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Arte, sport e cultura: per eventi e servizi si paga l’Iva nello Stato del committente

11 Gennaio 2021

Il Sole 24 Ore lunedì 21 dicembre 2020 di Raffaele Rizzardi e Benedetto Santacroce

Vanno considerate anche le norme sulle prestazioni relative agli immobili

L’eccezione principale è il caso di un servizio di locazione autonomo

Le manifestazioni artistiche, sportive, culturali e scientifiche, con le relative forniture di servizi, seguono regole di tassazione Iva che, negli ultimi anni, sono state oggetto di numerose pronunce della Corte di giustizia Ue e della prassi nazionale ed estera con risultati non sempre del tutto lineari, lasciando gli operatori in balia di interpretazioni locali non del tutto coerenti con il sistema unionale.

Lo sforzo che l’interprete è chiamato a realizzare per fornire una lettura integrata del sistema e delle richiamate pronunce deve partire dall’evoluzione della disposizione unionale, nonché dalla stretta relazione che esiste tra le disposizioni della Direttiva Iva (Dir 2006/112/Ce) che si occupano di queste manifestazioni e quelle che si occupano della tassazione delle prestazioni relative agli immobili. Proprio nella relazione tra queste disposizioni nascono le maggiori problematiche interpretative.

In particolare, mentre in riferimento alle prime la tassazione segue in via generale la tassazione nello Stato del committente (se non nel caso di accesso fisico alla manifestazione ovvero di prestazione realizzata nei confronti di un privato), nelle seconde la tassazione segue il luogo in cui si trova l’immobile.

Se volessimo individuare una chiave di lettura delle disposizioni unionali potremmo sintetizzare questi principi:

in tutti i casi in cui il prestatore fornisce l’evento, per così dire “chiavi in mano” al destinatario soggetto passivo, il servizio va tassato nello Stato membro del committente (in questo senso Risposta a interpello 35/E/2020, in senso contrario Principio di diritto 2/E/2018);

non va trascurata la volontà contrattuale delle parti che, in generale, in riferimento alla realizzazione di un evento, non intendono acquisire la mera disponibilità di un immobile (quale prestazione principale) e usufruire di ulteriori servizi (accessori), bensì sono interessati all’organizzazione dell’evento/manifestazione nella sua complessità. Quest’ultima fattispecie va dunque qualificata come servizio unitario, sebbene complesso (costituito in via principale dall’attività culturale, artistica, sportiva eccetera e in via secondaria da ulteriori servizi) territorialmente rilevante nel Paese di stabilimento del committente, in quanto – si ribadisce – sul piano normativo, la deroga alla regola generale della territorialità opera solo se la stessa è resa nei confronti di un destinatario soggetto privato;

i servizi relativi all’accesso all’evento implicano l’acquisto del diritto di entrare nel luogo in cui la manifestazione si svolge nonché di partecipare all’evento in un ruolo “passivo o semiattivo” (in senso conforme Corte di giustizia, sentenza C-647/17, per un corso di formazione professionale, in senso difforme Risposta a interpello 62/E/2020). Al contrario, la partecipazione attiva di un soggetto (artista, sportivo, eccetera) alla realizzazione dell’evento fuoriesce dalla regola di tassazione nel luogo in cui si svolge l’evento (dettata per l’accesso alla manifestazione) e tornano applicabili le regole generali in termini di territorialità dell’Iva.

In linea con questi principi, oltre alle citate posizioni della Corte di giustizia, si segnala l’articolata circolare 29 del 5 aprile 2011 della direzione generale delle finanze pubbliche francese che esemplificando le diverse ipotesi, sottolinea che la tassazione per essere riferita all’immobile (che solitamente è una componente tipica delle manifestazioni) deve avere per oggetto un servizio di locazione autonomamente considerato e non incluso in una prestazione unica di cui l’immobile non è per le parti e per la finalità del contratto un elemento predominante.

Principio-interpretazione-a cura del CTS Sole 24 Ore

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Dal 1° luglio addio alle soglie di protezione

11 Gennaio 2021

Il Sole 24 Ore 5 gennaio 2021 di Raffaele Rizzardi

LE VENDITE ALL’ESTERO

Lo sviluppo esponenziale delle vendite online ai privati, accentuato dalle difficoltà di movimento delle persone per l’emergenza sanitaria, ha portato non poche piccole e medie imprese a spedire merce in altri Stati membri superando la cosiddetta soglia di protezione, normalmente di 35mila euro per la sommatoria delle cessioni a non soggetti di imposta del singolo Stato, che comporta l’applicazione dell’Iva dello Stato di destinazione, con un adempimento oggi necessariamente di identificazione in quel Paese, computando l’aliquota Iva di tale Stato.

Se l’invio è invece rimasto nei limiti, le vendite dirette ai consumatori sono state assoggettate all’imposta dello Stato in cui è iniziata la spedizione, nel nostro caso l’Italia.

Dal 1° luglio prossimo verranno meno le soglie di protezione, salvo una di 10mila euro per l’insieme delle operazioni territorialmente rilevanti in tutti gli altri Stati. Potrebbe essere il caso di un artigiano edile, cui capita raramente di essere chiamato ad eseguire dei lavori su un edificio all’estero. Se sta in questi limiti la sua prestazione sarà effettuata con l’Iva italiana. Per chi vende online questo limite è del tutto inconsistente, e pertanto avrà, in primo luogo l’opportunità di non dover aprire partite Iva all’estero, utilizzando il sistema dello sportello unico, Oss (One stop shop), che consente di versare alla propria amministrazione finanziaria anche l’Iva di un altro Paese, ovviamente mettendo a disposizione i dati che consentono di individuare ciascuno Stato di destinazione della merce.

Il serio rovescio della medaglia riguarda l’individuazione dell’aliquota pertinente per il singolo prodotto in ciascuno degli altri 27 Paesi aderenti al regime Iva intraunionale.

Non abbiamo dimenticato la Brexit, lasciando invariato il numero degli attuali partners, in quanto le aliquote della Gran Bretagna dovranno essere applicate alle vendite con destinazione Irlanda del Nord.

La Commissione europea ha messo a disposizione un database “Vat search”, che richiede l’inserimento della voce doganale della Nomenclatura comune europea.

A quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore dell’Iva nel nostro Paese le tabelle delle aliquote ridotte continuano a indicare la vecchia voce doganale. Ma anche commutando il riferimento, abbiamo voluto fare una prova con il prodotto di cui parla la risposta ad interpello del 10 dicembre 2020, n. 579, da classificare nella Nc 2106 90. La risposta dell’Agenzia è per l’aliquota 10%, in base alla voce 80 – prodotti alimentari vari (v.d. ex 21.07) della tabella A, parte III, ma la consultazione europea indica l’aliquota ordinaria del 22%.

Il sistema dello sportello unico era partito nel 2003 solo per i servizi online, solo con l’aliquota ordinaria, e ci è voluto molto per la riduzione relativa a libri e periodici online.

Dal 1° luglio prossimo bisognerà conoscere l’aliquota in ciascuno Stato di ogni prodotto venduto ai consumatori. Ma dopo 12 mesi il problema tornerà con il nuovo regime delle vendite ai soggetti di imposta.

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Esterovestizione accertata con controllo indiretto dall’Italia

2 Dicembre 2020

Il Sole 24 Ore 14 novembre 2020 di Enrico Holzmiller

CTR LOMBARDIA

La Commissione ha deciso il caso considerando l’influenza dominante

Il tema dell’esterovestizione tocca da sempre un equilibrio delicato, tra la legittima libertà di stabilimento al di fuori dello Stato di residenza, e la necessità, da parte degli Stati, di evitare delocalizzazioni all’estero, strumentali al solo abbattimento della materia imponibile.

Il tema è stato oggetto della sentenza dalla Ctr Lombarda-Brescia n. 7078/16 (depositata lo scorso 12 giugno).

I giudici affrontano il caso di una società considerata esterovestita, con sede legale in Lussemburgo ma ritenuta soggetto di imposta italiana fittiziamente collocato all’estero.

La Ctr introduce il tema, richiamando gli elementi essenziali alla base della disposizione contenuta nell’articolo 73 Tuir, commi 3 e 5 bis. Il comma 5 bis prevede una presunzione relativa (superabile con elementi probanti di segno opposto) dell’esistenza di una localizzazione estera fittizia laddove «società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2559, comma 1, del Codice civile» in società italiane (ex articolo 73, comma 1, lettere a e b) alternativamente:

siano controllate, anche indirettamente, da residenti in Italia;

siano amministrate da un board composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia.

Partendo da questi presupposti, la Ctr rileva che la società lussemburghese (Alfa) rientra appieno in tale fattispecie, difatti:

la compagine sociale della stessa risulta posseduta da due holding (Beta e Gamma) di diritto olandese, a loro volta facenti capo ad una persona straniera ma residente stabilmente in Italia (Theta);

la società olandese ha il controllo di fatto di una srl italiana (Delta).

A sottolineare l’esistenza della presunzione circolare di cui al richiamato comma 5-bis, risulta che Beta abbia una sede secondaria in Italia, nello stesso domicilio della residente Delta. L’unico motivo di difesa da parte della società contribuente consiste nell’esistenza di una partecipazione diretta, di Alfa (Lux) in Delta (It) inferiore al 50%, con ciò non potendo sussistere – secondo la ricorrente – un controllo partecipativo che avalli la richiamata presunzione di esterovestizione.

La società ha fatto erroneamente affidamento sul tenore letterale della disposizione, ove il comma 5-bis, nel riferire in merito alla partecipazione detenuta dal soggetto estero (Alfa) nella società italiana (Delta), non esplicita che essa possa avvenire anche indirettamente, a differenza di quanto invece precisato alla successiva lettera “a” del medesimo comma, con riguardo alla compagine sociale (Theta) della società straniera (Alfa).

Va tuttavia considerato che il richiamo all’articolo 2359 del Codice civile, effettuato dall’articolo 73 Tuir, comma 5bis, ricomprende anche la cosiddetta influenza “dominante”, che non necessariamente deve evincersi in una partecipazione di controllo diretta. La Ctr, sulla base della ricostruzione ed in relazione all’esistenza di documenti extracontabili prodotti dall’Ufficio, arriva a definire l’esistenza di un controllo di fatto (di soggetti italiani nella società lussemburghese), confermando pertanto l’ipotesi di esterovestizione.

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Il marchio Ce significa China export: beni con segni mendaci in commercio

2 Dicembre 2020

Il Sole 24 Ore 19 novembre 2020 di Patrizia Maciocchi

CASSAZIONE

Non è ingannato solo il singolo ma è inquinato l’ordine economico

Il simbolo si differenzia solo nella distanza e grandezza delle due lettere

Per la vendita di prodotti con il marchio Ce, dove Ce sta in realtà per China export, scatta il reato di messa in commercio di beni con segni mendaci e non la frode in commercio. Il secondo reato riguarda, infatti, il singolo consumatore al quale viene venduto un oggetto al posto di un altro, nella prima ipotesi viene inquinato l’ordine economico, oltre all’inganno sugli standard di sicurezza rispettati. La Cassazione (sentenza 32388) dà un giro di vite sulla commercializzazione di oggetti con segni contraffatti. Alla base della decisione un sequestro di merce, per lo più giocattoli per bambini, con il noto marchio Ce, dove il “segno” era l’acronimo di China export. L’unica distinzione con il marchio comunitario sta nella proporzione dei caratteri e nella distanza tra le due lettere. Una differenza del tutto impercettibile alla vista dell’acquirente medio. I giudici di legittimità respingono la tesi della difesa, secondo la quale il reato da contestare era il semplice tentativo di frode in commercio, regolato dall’articolo 515 del codice penale e non l’immissione in commercio di prodotti con segni mendaci punito dall’articolo 517 del codice penale.

La Cassazione ammette che, secondo la casistica giudiziaria, il fatto integra l’ipotesi di frode in commercio (Cassazione 45916/2014). La qualificazione giuridica non esclude però – essendo possibile in astratto il concorso tra i due reati – la contestazione del reato disegnato dall’articolo 517.

Una via di maggior rigore che la Cassazione sceglie.

Nel caso di frode in commercio c’è la semplice consegna di un aliud pro alio con la conseguente violazione – che colpisce principalmente il singolo consumatore – del principio di leale esercizio dell’attività commerciale. Nella vendita di prodotti con segni mendaci è invece in gioco – al di là dell’ effettiva cessione – l’ordine economico, che deve essere garantito al di là dall’interesse del singolo. La Cassazione precisa che si tratta di prodotti ingannevoli in relazione alla loro «origine, provenienza e qualità, tali da costituire obiettivi fattori di inquinamento». Gli oggetti venduti erano tali da rassicurare sul rispetto degli standard di sicurezza in virtù del marchio. un “segno” che invece «non aveva alcuna effettività dimostrativa – in quanto solo callidamente similare al vero marchio Ce tanto da essere con esso facilmente confondibile».

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Valido il patto che vincola l’ingresso di nuovi soci

30 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 20 novembre 2020 di Mario Notari

Università Bocconi, presidente commissione Società del Consiglio notarile di Milano

DIRITTO DELLE IMPRESE

Massima dei notai di Milano interpreta il valore degli accordi parasociali

Gli statuti delle società di capitali possono subordinare l’ingresso di nuovi soci alla preventiva approvazione di un determinato patto parasociale, concluso in precedenza da altri soci. È questo il passaggio più significativo di uno dei nuovi orientamenti interpretativi del Consiglio notarile di Milano, che si pone nel solco di una serie di “massime” che hanno progressivamente attribuito rilevanza applicativa ai patti parasociali negli statuti di Spa e Srl.

A partire dalla riforma del 2003, infatti, è stata avvertita una forte esigenza di far emergere alla luce del sole gli accordi che sino a quel momento venivano riservati esclusivamente ai patti parasociali. Ciò per due motivi: da un lato, quanto meno per le Spa, è stato introdotto un limite di durata dei patti parasociali di cinque anni; dall’altro, si è via via cercato di rendere più vincolanti i patti parasociali, che tramite il loro inserimento nello statuto sociale acquisiscono la cosiddetta efficacia “reale”, diventando cioè vincolanti anche nei confronti della società e dei terzi acquirenti.

Di conseguenza, si è progressivamente ampliata la prassi di prevedere anche nello statuto i medesimi accordi che formano oggetto dei patti parasociali. Tutto ciò anche grazie alla maggiore elasticità del diritto societario derivante dalla riforma, nonché alle interpretazioni evolutive di diversi istituti delle società di capitali, alle quali ha fortemente contribuito anche la Commissione Società dei notai milanesi.

La massima citata (n. 194) prende in esame una via di mezzo tra gli accordi solo parasociali e quelli che assumono la natura di vere proprie clausole statutarie. In alcune circostanze, infatti, si riscontra l’esigenza, per un verso, di preservare la natura parasociale di tali accordi – anche solo per ragioni di riservatezza – e per altro verso di vincolare comunque tutti coloro che vogliono diventare soci ai contenuti di tali accordi. Ecco dunque che viene affermata la legittimità di clausole statutarie le quali, pur non recependo gli accordi parasociali, vincolano la circolazione delle azioni o delle quote all’accettazione di tali accordi da parte di coloro che intendono diventare soci. Viene così creato un “collegamento” vincolante tra lo statuto sociale e i patti parasociali, pur mantenendo la natura giuridica (e la riservatezza) di questi ultimi.

Analoghe esigenze stanno alla base di un’altra massima approvata dai notai milanesi ( 195). Si afferma infatti la validità di due frequenti clausole negli accordi di club deal o di investimenti di private equity o di joint venture: quella che prevede il “voto determinante” di un singolo amministratore nelle deliberazioni del cda e quella che richiede, per alcune particolari deliberazioni del cda, il voto unanime di tutti i consiglieri in carica. Anche in questo caso, sulla base di analitiche e rigorose argomentazioni, si giunge alla conclusione della ammissibilità di siffatte clausole, che avvicinano così il diritto societario alla moderna pratica degli affari.

Queste massime, insieme alle altre approvate contestualmente, verranno presentate nel corso di un webinar organizzato Consiglio notarile di Milano, in programma oggi, dedicato ai 20 anni della Commissione società.

 

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Il denaro non giustificato non equivale a riciclaggio

30 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 17 novembre 2020 di Valerio Vallefuoco

CASSAZIONE

Il reato presupposto va ben individuato, non basta il sospetto

Sentenza garantista della Cassazione, numero 32112 pubblicata ieri , in tema di sequestro penale di somme di denaro anche rilevanti detenute in modo ingiustificato.

Secondo la Suprema corte, essere in possesso di un’ingente quantità di denaro, anche se non si è in grado giustificarne la disponibilità e quindi la provenienza, non può delineare automaticamente il reato di riciclaggio e il conseguente sequestro del contante, anche se il soggetto che ne sia trovato in possesso, l’abbia occultata, sia considerato un nullatenente e abbia dei precedenti penali.

Nel caso di specie, il corpo dei Carabinieri operava il sequestro di una somma pari a 65.870 euro che era stata precedentemente nascosta da due soggetti, pregiudicati e nullatenenti.

Il Tribunale, investito della richiesta di riesame avverso il decreto di convalida del pubblico ministero, riteneva che la disponibilità ingiustificata di una somma di denaro di considerevole importo, le modalità di occultamento, la condizione di impossidenza dei proventi e i precedenti iscritti a loro carico costituissero validi elementi atti a dimostrare la provenienza illecita di quanto sequestrato, integrando il fumus del delitto di riciclaggio.

Di diverso avviso è stata la Suprema corte che ha ribadito, in via preliminare, la necessaria imprescindibilità, ai fini della corretta applicazione delle misure cautelari reali, della verifica delle risultanze processuali e dall’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti .

Il principio sostenuto dalla Corte di cassazione penale si basa sulla ricostruzione del reato di riciclaggio che prevede espressamente l’individuazione di un reato presupposto indicando in caso di sequestro l’origine del bene da sottoporre al vincolo in quanto di provenienza delittuosa .

Secondo i giudici non possono risultare sufficienti i richiami a meri indici sintomatici privi di specificità in ordine all’origine della disponibilità dei beni oggetto di sequestro e suscettibili di provare solo un semplice possesso ingiustificato di denaro.

Pertanto un sequestro preventivo di cose che si presumono pertinenti al reato di riciclaggio deve essere supportato da elementi di fatto acquisiti e scrutinati riferibili a un reato presupposto che dovrà almeno essere astrattamente configurabile e precisamente individuato. Per la Cassazione penale, pertanto, per giustificare un sequestro di somme non è sufficiente la sola supposizione dell’esistenza del reato presupposto dalla mera effettuazione di operazioni asseritamente sospette degli indagati ma serve una sostanza probatoria concreta. Secondo la Suprema corte non può essere considerata attività di riciclaggio il mero possesso di denaro, in quanto inidoneo a integrare da solo l’attività diretta alla sostituzione ed al trasferimento o ad altre operazioni intese a occultare la provenienza delittuosa del denaro.

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Sconti intercompany legittimi se ancorati a motivi commerciali

30 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 9 novembre 2020 di Marco Nessi e Roberto Torelli

TRANSFER PRICING

Se contabilizzati rientrano nella base imponibile della società

L’amministrazione finanziaria non può riclassificare arbitrariamente gli sconti commerciali tra le componenti finanziarie sulla base di argomentazioni generaliste. Analogamente, il prestito di personale non può essere riqualificato in un trasferimento di asset materiali senza specifiche e concrete motivazioni. Sono questi i principi espressi dalla Ctp di Milano nella sentenza 1138/2/2020 del 9 giugno scorso (presidente Pilello, relatore Guidi).

Nel caso esaminato, l’ufficio aveva rilevato, nei confronti di una società italiana appartenente a un gruppo industriale cino/ungherese con sede a Shanghai, una maggiore Ires dovuta in relazione all’anno 2013, contestando l’indeducibilità di una parte dei costi sostenuti per acquisti di beni provenienti dalla casa madre. In particolare, dopo avere convertito gli sconti commerciali offerti alla casa madre in sconti finanziari correlati alla riduzione dei termini di pagamento, l’ufficio ha rideterminato ai fini dell’applicazione della disciplina del transfer pricing il margine operativo in diminuzione rispetto al margine mediano delle società comparabili, con conseguente aumento della base imponibile ai fini Ires.

Inoltre, è stata contestata l’esistenza di ricavi non tassati per riaddebiti (maggiorati da un mark up) effettuati dalla società nei confronti della casa madre per l’utilizzo di personale proprio messo a disposizione del gruppo all’estero in occasione di trasferte. Tale prestazione è stata riqualificata in un trasferimento di asset immateriali, con il riconoscimento da parte della casa madre del diritto di royalties sul fatturato complessivo invece che il mero riaddebito di costi sulle trasferte.

I giudici di primo grado hanno accolto il ricorso. Con riferimento alla prima contestazione è stato osservato che lo sconto commerciale praticato dalla società poteva trovare la sua logica in una motivazione di tipo commerciale, quale la volontà di favorire la vendita dei prodotti e aumentare le fette di mercato. Inoltre la normativa tributaria non prevede l’illegittimità degli sconti concessi a società del gruppo che operano in esclusiva. Al contrario, è lo stesso articolo 9 del Tuir, richiamato dall’articolo 110, comma 7, a fissare i principi cardine per l’individuazione del valore normale dei beni e servizi, prevedendo la necessità di tenere conto degli sconti d’uso, senza alcuna eccezione.

Inoltre, la società aveva adeguatamente evidenziato che la concessione degli sconti costituiva una prassi del mercato di riferimento e rispondeva a una logica commerciale. Infine, è stato osservato che, a prescindere dalle valutazioni in merito alla relativa natura, gli sconti in esame erano stati pur sempre contabilizzati come componenti positivi di reddito e avevano concorso alla determinazione della base imponibile Ires e Irap della società.

Sul secondo rilievo è stata sottolineata la genericità del fatto di avere individuato un prestito di personale ritenuto qualificato senza specifici e concreti approfondimenti. Per questi motivi il collegio ha ritenuto corretta l’adozione del metodo del cost plus in quanto in linea con i valori di mercato e tale da determinare una remunerazione dei servizi resi in linea con i valori di mercato.

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Contratti validi anche se l’amministratore ha violato i limiti previsti dallo statuto

20 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 9 novembre 2020 di Giovanbattista Tona

Nessuna conseguenza sull’efficacia degli accordi sottoscritti con terzi

Anche nelle Srl è possibile ripartire in moto diseguale i poteri di rappresentanza

Le limitazioni ai poteri degli amministratori delle società non sono opponibili ai terzi e quindi se l’amministratore stipula un contratto senza osservare le regole impostegli dallo statuto, l’accordo rimane comunque efficace e vincolante per la società. Anche nelle Srl è comunque possibile attribuire il potere di rappresentanza solo ad alcuni amministratori o comunque ripartirlo in modo diverso dal quanto stabilito dall’articolo 2475 del Codice civile.

Lo ha stabilito la sezione specializzata in materia di imprese del Tribunale di Roma con una sentenza del 10 settembre scorso.

La ripartizione nelle Srl

Il caso riguardava un’azione promossa da alcuni soci di una società a responsabilità limitata che chiedevano dichiararsi inefficace un contratto stipulato dal presidente del consiglio di amministrazione con il legale rappresentante di un’altra società, perché ritenevano che costui non avesse il potere di impegnare la società in quell’accordo.

Lo statuto prevedeva per alcune tipologie di contratti (e tra queste vi era il contratto di cui si chiedeva dichiararsi l’inefficacia) l’obbligo della congiunta sottoscrizione del presidente del consiglio di amministrazione e di almeno uno dei due vicepresidenti.

Su questo aspetto i giudici romani hanno ritenuto possibile – anche nelle società a responsabilità limitata – attribuire il potere di rappresentanza soltanto ad alcuni amministratori ovvero ripartirlo in maniera diversa rispetto a quanto stabilito dall’articolo 2475-bis del Codice civile, secondo il quale esso spetta a tutti gli amministratori senza distinzioni e che troverebbe applicazione nel silenzio dello statuto o dell’atto di nomina.

I poteri di rappresentanza

In tema di rappresentanza, il tribunale ha, invece, dato concreta applicazione al principio introdotto dal decreto legislativo n. 6 del 2003 sui poteri di rappresentanza dell’amministratore sia per le società per azioni (articolo 2384 del Codice civile) sia per le società a responsabilità limitata (articolo 2475-bis dello stesso Codice).

Secondo queste norme, il potere di rappresentanza degli amministratori è generale e le limitazioni eventualmente fissate dall’atto costitutivo, dallo statuto, dall’atto di nomina o da una decisione degli organi competenti, anche se pubblicati, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della società.

La regola generale

In materia di rappresentanza volontaria, vige in realtà la regola valida sia per le persone fisiche che per quelle giuridiche, contenuta nell’articolo 1388 del Codice civile, secondo la quale il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produce effetti direttamente in capo al rappresentato solo se è stato stipulato nei limiti delle facoltà conferitegli dal rappresentato.

Il contratto, concluso da soggetto che sia privo di potere rappresentativo o che abbia ecceduto i limiti del potere conferitogli, è quindi inefficace e potrà produrre effetti solo se lo ratifica l’interessato. Nel caso in cui non lo ratifichi, il contratto rimane inefficace e il terzo non può farlo valere direttamente nei confronti del “falso” rappresentato. Se invece lo ratifica gli effetti si dispiegheranno in modo retroattivo, perché il contratto era ab origine valido (ma non efficace) e la mancanza di potere rappresentativo da parte di chi lo aveva stipulato ne aveva fatto una fattispecie negoziale in itinere, che si perfeziona con la ratifica.

E quelle per le società

Nelle società invece il potere di rappresentanza non deriva da una investitura ad hoc, come nella rappresentanza volontaria, ma deriva da una qualifica legale.

Nelle società a responsabilità limitata esso spetta a tutti gli amministratori senza distinzioni e quindi deriva dalla legge, costituendo una qualità legale intrinseca dell’ufficio di amministratore.

Nelle società per azioni esso invece spetta solo agli amministratori ai quali il potere rappresentativo sia stato specificamente conferito in forza di statuto o di deliberazione del competente organo sociale.

Il rilievo dei limiti al potere rappresentativo si esaurisce però sul piano dei rapporti interni alla società e può giustificare la revoca dell’amministratore dall’incarico o l’azione di responsabilità nei suoi confronti o ancora la denuncia al collegio sindacale, se esistente.

Nessuna automatica conseguenza invece può produrre sui contratti stipulati con i terzi, che rimangono validi ed efficaci, poiché le limitazioni e le ripartizioni del potere di rappresentanza rimangono una mera scelta organizzativa non opponibile alle controparti negoziali.

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Made in Italy, scontro sui 20mila marchi clonati da imprese cinesi

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Michele Romano

IMPRESE SOTTO TIRO DISTRETTO CALZATURIERO

Made in Italy, scontro sui 20mila marchi clonati da imprese cinesi

Tosi: «Gli imprenditori calzaturieri hanno bisogno d’interventi del governo»

La denuncia dei produttori marchigiani di scarpe riguarda molti settori

Alta gamma.  Lo show room di un calzaturificio 

«La Cina non può essere il nuovo Eldorado. Per lo meno non lo è alle condizioni attuali, perché è un paese che non rispetta il copyright, i loghi, la manifattura italiana». Parlano i calzaturieri del fermano-maceratese, ma i problemi sono identici a quelli denunciati da altri produttori italiani del comparto e comuni anche a diversi settori del made in Italy: la Cina è un mercato dove le Pmi non riescono ad accedere, una sorta di labirinto per gli imprenditori alle prese con quella che è diventata una prassi diffusa: chi entra in quel mercato rischia di affrontare costose azioni legali che cancellano la maggior parte dei marchi tranne quelli cinesi. Dalle testimonianze di molti imprenditori risulta chiarissima la prassi di soggetti cinesi che depositano in malafede nel loro paese registrazioni di marchi (sono oltre 20 mila quelli certificati) e segni distintivi delle aziende italiane per il proprio business. «Per noi – spiega Dino Corvari, titolare del calzaturificio con sede a Montegranaro – è stato impossibile registrare il marchio perché secondo i cinesi assonante con un altro già registrato, ovvero “cor vari” (in due parole, ndr.). Inutile ogni trattativa». La verifica di anteriorità diventa così impossibile.

Il settore calzaturiero italiano fattura oltre 14,2 miliardi di euro e occupa 75 mila addetti (quello marchigiano pesava nel 2019 per circa il 32%) e l’85% della produzione è destinata all’estero, ma solo l’1,2% è diretto in Cina e riguarda principalmente i grandi gruppi della moda e chi produce per loro. Eppure, quella cinese è la più numerosa comunità high-spending a livello globale, numeri che avrebbero la forza di assorbire il crollo che il settore della moda, e in particolare la calzatura, hanno avuto in Russia e nei paesi Csi dopo vent’anni d’oro. «Se togliamo le grandi griffe, la Cina vale oggi per le Marche meno di quanto esportiamo in Austria, che ha solo otto milioni di abitanti», chiarisce Graziano Mazza, ceo di Premiata, fondata cento anni fa dal nonno, a Montegranaro nel Fermano, ed oggi brand mondiale delle sneaker. Ha più di un sassolino nelle sue scarpe e riguarda proprio la Cina: «Noi apriamo la Via della Seta e loro alzano barriere protettive». Lo ha sperimentato in prima persona.

Il marchio Premiata lo ha registrato in Cina per tutte le classi merceologiche, ad esclusione del prodotto scarpe, perché lo aveva già fatto un imprenditore di quel paese, portando una prova di utilizzo di 100 dollari. Una volta scoperta l’anomalia, l’azienda di Montegranaro ha iniziato la sua battaglia legale per difendere la proprietà del marchio. Un’odissea legale iniziata oltre 12 anni fa, costata finora 400 mila euro e segnata solo da verdetti contrari, in attesa dell’ultima sentenza, quella della Suprema Corte di Pechino. «Usurpano il marchio per poi copiare prodotti (scarpe, fondi, modelli e quant’altro, ndr.), immagine, modello di business», dice Mazza. Praticamente tutto, comprese le immagini del quartier generale di Montegranaro. La stima del volume di affari è di circa 300 mila paia scarpe per stagione (un business che vale 30 milioni di dollari) «tutte copiate dalle collezioni originali e poi vendute nei negozi monobrand Premiata, ovviamente abusivi, aperti dal gruppo cinese». Prove evidenti, ma non sufficienti per il sistema legale di quel Paese, che sta addirittura cancellando e invalidando anche i marchi già registrati e certificati dall’ufficio marchi-brevetti cinesi: oggi è tutto nelle mani del copiatore.

Non è un caso isolato. Giorgio Fabiani, titolare del calzaturificio omonimo Fabiani di Fermo, aveva un partner in Cina che acquistava le sue scarpe, per poi smettere per copiare i modelli e il suo marchio: «L’ho scoperto, ho dato mandato a uno studio legale italiano. Tempo e risorse per nulla: ho solo individuato dove si trovava la fabbrica. Ma la legislazione locale tutela solo gli autoctoni». In alcuni casi viene data la possibilità alle aziende italiane di reimpossessarsi del marchio, ma solo tramite transazione commerciale e pagando ingenti somme di denaro. «Esportavamo da tempo in Cina, quando ci hanno fatto notare che il nostro marchio era già stato registrato – racconta Mary Gestroemi, titolare del calzaturificio Mary di Fermo -. Quando abbiamo contattato l’interlocutore voleva rivendercelo per 50 mila euro». L’imprenditore fermano ha però rinunciato a quella che definisce “estorsione legalizzata” e non ha potuto utilizzare per cinque anni il suo marchio: ne è tornato in possesso solo perché in Cina non era stato mai utilizzato.

«Gli imprenditori calzaturieri hanno bisogno di un solerte e deciso intervento del nostro governo – dice Giuseppe Tosi, direttore di Confindustria Centro Adriatico -. Questa è l’unica strada per invertire questa situazione». L’esperienza americana insegna. Per far sì che New Balance, uno dei più grandi produttori al mondo di calzature sportive, si riappropriasse del proprio marchio in Cina, dopo lunghe e dispendiose battaglie legali perse, è intervenuto il governo americano e nel 2018 la situazione si è risolta. «Vogliamo più stato e non sentirci solo quando siamo all’estero», è l’appello finale di Mazza. C’è un’altra grana che rende debole il rapporto commerciale tra Italia e Cina e che vede in prima linea i calzaturieri marchigiani nel sollecitare una soluzione: la reciprocità dei dazi. Le imprese cinesi che possono importare i prodotti devono essere munite della licenza di commercio estero (Foreign Trade Rights), rilasciata dal ministero del Commercio estero (Moftec) per monitorare il flusso di merci in entrata e in uscita dal paese. In questo campo c’è una simbolica reciprocità: l’export italiano e l’import cinese hanno una tassa del 17%. «Ma c’è l’inghippo – spiega Valentino Fenni, presidente dei calzaturieri di Confindustria Centro Adriatico -: le imprese italiane che esportano le proprie calzature in Cina devono transitare attraverso gli importatori cinesi autorizzati con una maggiorazione sul costo effettivo del prodotto che fa lievitare la tassa al 30%: significa appesantire il nostro rapporto commerciale con Pechino, che è già al limite per via del costo della manodopera, della tasse e del prezzo dell’energia, dando un colpo definitivo all’export dell’intera fascia media della nostra produzione».

Doing business in San Marino

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