Niente riciclaggio sulle somme restituite per false fatture

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Antonio Iorio 

La restituzione delle somme precedentemente pagate da parte di coloro che hanno ricevuto fatture false non configura il reato di riciclaggio in quanto tali importi non rappresentato il profitto del reato fiscale e quindi non possono considerarsi di provenienza delittuosa. A fornire questa interpretazione è la Cassazione con la sentenza 30206/2020 depositata il 30 ottobre.

Il giudice per l’udienza preliminare emetteva sentenza di proscioglimento nei confronti di alcune persone imputate di riciclaggio e reimpiego (articoli 648-bis e 648-ter del Codice penale). La contestazione traeva origine da alcuni assegni che un coimputato accusato di avere emesso fatture inesistenti consegnava agli imputati a giustificazione degli importi fittizi.

Secondo il giudice tali somme non costituivano il profitto del reato fiscale, che doveva invece essere individuato nel risparmio di imposta. Pertanto le condotte di “gestione” di tali assegni (riconsegna tramite girata o sostituzione con assegni circolari) non potevano integrare i reati di riciclaggio e reimpiego, dato che tali illeciti avrebbero dovuto avere come oggetto il “profitto” del reato fiscale.

La sentenza veniva impugnata dal pubblico ministero che non contestava l’individuazione nel solo risparmio di imposta nel profitto dei reati fiscali, tuttavia riteneva legittimo l’inquadramento giuridico ipotizzato dalla Procura essendo innegabile l’ausilio fornito dagli imputati alla consumazione degli illeciti tributari.

La Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso. Secondo i giudici è incontestato che il profitto del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di false fatture (articolo 2 del Dlgs 74 del 2000) sia costituito dal risparmio di imposta e, segnatamente dall’utilità che si ricava dalla indicazione di tali fatture nella dichiarazione.

Non costituiscono invece il profitto le somme fittiziamente fatte pervenire per dare parvenza di effettività all’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Di conseguenza, non trattandosi di somme di provenienza delittuosa, non è configurabile il reato di riciclaggio

La sentenza evidenzia poi che si tratta di un orientamento consolidato anche attraverso la pronuncia (Cassazione 41499/2013) secondo la quale non integra il delitto di riciclaggio l’operazione consistita nel versamento sul proprio conto corrente di un assegno bancario giustificativo del pagamento di una fattura ed il successivo prelievo di una parte della somma versata con la restituzione all’emittente il titolo, funzionale ad ostacolare l’identificazione del delitto di fatture per operazioni inesistenti. La Corte ha così rilevato la carenza del presupposto per ritenere configurabile il delitto di riciclaggio e cioè la provenienza da delitto del denaro versato sul conto

Nella specie le condotte contestate non si risolvevano nella manipolazione del profitto a fini di dissimulazione o di reimpiego (articoli 648-bis e 648-ter del Codice penale), essendo piuttosto funzionali a consentire la consumazione del reato previsto dall’articolo 2 del Dlgs 74 del 2000. In astratto, sarebbe stato quindi ipotizzabile un concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta da escludere nella vicenda in esame stante il decorso del termine di prescrizione.

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Solo i nuovi frontalieri in Svizzera verso la tassazione in Italia

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 9 Ottobre 2020 di Roberto Bianchi

Nel corso del mese di ottobre dovrebbe prendere forma il nuovo accordo tributario tra Italia e Svizzera che andrà a rinnovare l’intesa del 3 ottobre 1974 (legge 386/1975), dal quale scaturirà la nuova tassazione dei lavoratori frontalieri oltre al nuovo corso dei ristorni riconosciuti agli Enti locali di confine.

Ogni cittadino italiano residente in qualsivoglia regione del territorio nazionale dispone della facoltà di richiedere e ottenere l’autorizzazione (permesso G) quale lavoratore frontaliere in Svizzera mantenendo, tuttavia, l’obbligo di fare quotidianamente rientro nel nostro paese. Tali elementi, che concernono l’ambito civilistico dei permessi di lavoro all’interno della Confederazione elvetica, necessitano di essere coniugati con gli aspetti tributari che afferiscono a tale lavoratore.

In base al paragrafo 4 dell’articolo 15 della Convenzione avverso le doppie imposizioni vigente tra Italia e Svizzera (legge 943/1978), il regime tributario applicabile ai redditi conseguiti dai lavoratori frontalieri dipendenti risulta essere disciplinato dal menzionato accordo tra Italia e Svizzera relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine.

Vengono qualificati come «lavoratori frontalieri in Svizzera», ai fini della specifica disciplina convenzionale, i soggetti che risultano essere residenti in un Comune italiano il cui territorio risulti compreso, in tutto in parte, nella fascia di 20 chilometri dal confine con uno dei Cantoni del Ticino, dei Grigioni e del Vallese, ove si recano per svolgere un’attività di lavoro dipendente, sebbene non vi sia la necessità che l’attività venga prestata in un Cantone “frontista” rispetto al Comune di residenza (risoluzione 38/E/2017).

L’articolo 1 del richiamato accordo bilaterale del 3 ottobre 1974, prevede attualmente che «i salari, gli stipendi e gli altri elementi che fanno parte della remunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta».

Al fine di “contemperare” tale aspetto, il successivo articolo 2 stabilisce che i Cantoni svizzeri confinanti con l’Italia sono tenuti a versare ogni anno, a beneficio dei Comuni italiani di confine, una parte del gettito fiscale proveniente dalla imposizione delle remunerazioni dei frontalieri italiani quale compensazione finanziaria delle spese sostenute dagli enti locali in Italia a favore dei frontalieri che risiedono nel loro territorio ma che svolgono l’attività di lavoro dipendente in Svizzera (assoggettata a tassazione esclusivamente nella Confederazione elvetica).

Il nuovo accordo, che supererà definitivamente quello menzionato, dovrà individuare un equilibrio tra i nuovi e i vecchi frontalieri e, per questi ultimi si prospetta l’introduzione di un regime speciale mentre per i nuovi frontalieri l’accordo dovrebbe prevedere il pagamento delle imposte in Italia.

L’intesa in fase di perfezionamento dovrà prevedere, pertanto, lo scambio delle informazioni afferenti i lavoratori frontalieri considerato che l’agenzia delle Entrate, al fine di governare lo specifico regime di tassazione che dovrebbe essere posto al centro del nuovo accordo, dovrà disporre di informazioni adeguate.

Attualmente la Svizzera comunica all’Amministrazione finanziaria italiana esclusivamente il numero dei lavoratori frontalieri suddivisi per singolo Comune di residenza.

Non va sottaciuto che, nel corso del mese di ottobre, il presidente del Governo di Bellinzona dovrebbe rappresentare al ministro federale dell’Economia la decisione ticinese di dar corso alla «clausola di uscita» in merito alla facoltà di rescissione unilaterale dell’accordo tra Svizzera e Italia relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri e alla compensazione finanziaria a favore dei Comuni italiani di confine.

La questione centrale è tuttavia rappresentata dalla capacità del nuovo accordo di continuare ad assicurare i ristorni agli enti locali di confine, senza i quali difficilmente l’intesa potrà garantire un equilibrio stabile tra i due Paesi.

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La rinuncia all’eredità cancella la responsabilità per i debiti tributari del defunto

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Angelo Busani

La rinuncia all’eredità, per effetto della sua caratteristica retroattività al momento dell’apertura della successione (articolo 521 del Codice civile), rende il chiamato all’eredità non responsabile del debito tributario del defunto, anche se la rinuncia intervenga dopo che, in epoca successiva all’apertura della successione, venga notificato un avviso di liquidazione, il quale sia poi divenuto definitivo per mancata impugnazione: la ragione è che, per regola generale, la responsabilità per i debiti ereditari (compresi quelli tributari) grava su chi, accettando l’eredità, assume la qualità di erede e non grava sul “semplice” chiamato all’eredità.

Lo decide laCassazione nell’ordinanza 24317 del 3 novembre 2020, nella quale, altresì, vengono altresì sanciti alcuni altri importanti principi:
a) se l’Amministrazione intende far valere l’intervenuta accettazione tacita dell’eredità (la quale impedirebbe l’esercizio della facoltà di rinuncia all’eredità), deve fornirne la prova (si pensi al caso del chiamato all’eredità che venda un bene ereditario o paghi un debito del defunto);
b) al chiamato rinunciante deve essere parificato il chiamato che non abbia accettato l’eredità, né espressamente né tacitamente, nei dieci anni successivi all’apertura della successione, poiché il decorso di detto decennio comporta la prescrizione del diritto di accettare l’eredità e, quindi, impedisce al chiamato di assumere la qualità di erede (rinunciare all’eredità dopo il decorso di tale decennio non produce alcun effetto e avrebbe solo una valenza meramente chiarificatoria);
c) all’eredità non può rinunciare il chiamato che decada dal diritto di rinuncia per effetto del possesso dei beni ereditari intrattenuto per un periodo superiore a tre mesi dopo l’apertura della successione, poiché, in tal caso, si produce un’irreversibile situazione di accettazione dell’eredità che non può essere posta nel nulla da una rinuncia (la quale, dunque, si rivelerebbe tardiva e anche in tal caso sarebbe improduttiva di effetto).

Tutto quanto fin qui riportato necessita di una precisazione quando il debito tributario sia quello afferente all’imposta di successione, in quanto, in questa ipotesi, per esigenze di certezza e di speditezza nella riscossione di detta imposta, è disposto che:
•i chiamati all’eredità sono esonerati dall’obbligo della dichiarazione di successione se, anteriormente alla scadenza del termine stabilito al termine per presentarla (di regola, un anno dall’apertura della successione) hanno rinunziato all’eredità e ne hanno informato per raccomandata l’agenzia delle Entrate (articolo 28, comma 5, del Dlgs 346/1990, il Tus, testo unico dell’imposta di successione);
•fino a quando l’eredità non sia stata accettata, i chiamati all’eredità rispondono solidalmente dell’imposta nel limite del valore dei beni ereditari rispettivamente posseduti (articolo 36, comma 3, Tus);
•al fine del calcolo dell’imposta (e cioè per l’individuazione dell’aliquota e della franchigia eventualmente applicabile), vi è da osservare la regola secondo cui l’imposta è determinata, fino a quando l’eredità non è stata accettata, considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato (articolo 7, comma 4, Tus).

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Con la Dac 7 obbligo di informazioni esteso alle piattaforme online e royalties

9 Novembre 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 26 ottobre 2020

SCAMBI AUTOMATICI

La Ue prepara la nuova direttiva per una tassazione equa e semplice pro-ripresa

Proseguono le iniziative per promuovere la cooperazione e la trasparenza fiscale all’interno dell’Unione europea. Anche se in molti Paesi, Italia compresa, non sono ancora scattati gli obblighi previsti dalla Dac 6, l’Ue sta già lavorando alla Dac 7. Lo scorso 15 luglio la Commissione europea ha infatti proposto nuove modifiche alla direttiva sulla cooperazione amministrativa nel settore fiscale 2011/16/Ue, promuovendo l’adozione di un pacchetto di riforme per una tassazione equa e semplice a sostegno della ripresa dell’Ue. La Dac 7 rappresenta una parte di un’ampia e ambiziosa agenda fiscale dell’Ue per i prossimi anni. Le principali proposte di modifica alla direttiva sono le seguenti.

Piattaforme digitali

Una delle modifiche più importanti proposte dalla Dac 7 prevede l’estensione dell’obbligo di scambio automatico di informazioni agli operatori delle piattaforme digitali residenti, localizzati o costituiti secondo le leggi dell’Ue. Le norme si applicheranno anche alle piattaforme non comunitarie che facilitano vendite effettuate da soggetti Ue o locazioni di immobili ivi localizzati.

L’emendamento proposto impone ai gestori delle piattaforme digitali l’obbligo di comunicare alle amministrazioni fiscali di ciascuno Stato membro il reddito percepito dai rispettivi utenti. Le attività commerciali (“attività pertinenti”) coperte dagli obblighi di comunicazione sono l’affitto di beni immobili, i servizi personali, la vendita di beni, l’affitto di qualsiasi mezzo di trasporto, gli investimenti e i prestiti nell’ambito del crowdfunding.

La definizione di piattaforma è molto ampia in quanto comprende qualsiasi software, compresi i siti web accessibili agli utenti che consentono ai venditori di essere collegati con altri utenti allo scopo di svolgere le attività pertinenti. Sono esclusi i software che consentono esclusivamente pagamenti, catalogazione o la pubblicità di attività pertinenti e la possibilità di reindirizzare o trasferire utenti verso una piattaforma.

Verifiche fiscali

I controlli multilaterali tra Stati avranno una sempre maggiore importanza per evitare la doppia tassazione sui temi di fiscalità internazionale, quali ad esempio i prezzi di trasferimento. In Italia l’articolo 31-bis del Dpr 600/73 prevede la possibilità di controlli simultanei dell’amministrazione finanziaria con altri stati membri, ciascuno nel proprio territorio al fine di scambiare informazioni, e disciplina la presenza nelle indagini di funzionari stranieri in base alla direttiva 2011/16/Ue. Vi sono poi accordi specifici con altre amministrazioni: convenzioni contro le doppie imposizioni, «Tax Exchange Information Agreement» e l’accordo con l’amministrazione bavarese per le verifiche congiunte.

La Dac 7 propone di rafforzare i meccanismi esistenti al fine di garantirne l’effettiva applicazione, prevedendo che le risposte alle richieste della presenza di funzionari o di svolgimenti di controlli simultanei vengano fornite in 30 giorni.

Viene inoltre inserito un nuovo articolo (n.12 bis) sui controlli congiunti su attività transfrontaliere, ovvero indagini amministrative condotte congiuntamente dalle autorità competenti di due o più Stati membri, per esaminare casi legati a una o più persone di interesse comune. È previsto che le autorità debbano concordare sui fatti e sulle circostanze del caso ed adoperarsi per raggiungere una posizione fiscale condivisa. Non sembra tuttavia esservi un obbligo di accordo, il che potrebbe essere fonte di notevole incertezza per i contribuenti. Le conclusioni della verifica sono inserite in una relazione finale che ha un valore giuridico equivalente a quello degli strumenti nazionali (es. Pvc in Italia).

Scambio di informazioni

Viene inserita la possibilità per le amministrazioni di fare richieste collettive di informazioni in base ad un insieme comune di caratteristiche dei soggetti per cui è fatta la richiesta. Per garantire l’efficacia dello scambio di informazioni ed evitare ingiustificati rifiuti è previsto che l’autorità richiedente fornisca le motivazioni ed il fine fiscale per cui le informazioni sono richieste (cosiddetta “prevedibile pertinenza”). La prevedibile pertinenza non si applica nei casi in cui la richiesta sia inviata in seguito allo scambio di informazioni su ruling transfrontalieri o accordi preventivi sui prezzi di trasferimento, Apa (già disciplinati dalla direttiva).

Royalties

La proposta prevede di aggiungere le royalties tra le categorie di reddito di cui all’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva, che sono soggette a scambio automatico obbligatorio di informazioni tra gli Stati membri. Viene in tal modo ribadita l’importanza di attenzionare i redditi derivanti dallo sfruttamento della proprietà intellettuale, in quanto facilmente si prestano ad accordi per il trasferimento degli utili da una giurisdizione ad un’altra per via della elevata mobilità delle attività sottostanti.

Qualora la proposta venisse approvata l’entrata in vigore delle disposizioni sarebbe il 1 gennaio 2022.

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Antieconomicità valutata sull’intera operazione

12 Ottobre 2020

Il Sole 24 Ore 1 ottobre 2020 di Antonio Iorio

CASSAZIONE

Ai fini dell’indeducibilità non conta neppure il compimento effettivo

La valutazione di antieconomicità relativa ad un costo ritenuto indeducibile dall’amministrazione finanziaria in quanto esoso, deve considerare l’intera operazione cui è riferito, ancorchè poi, in tutto o in parte, non si sia conclusa. È questo, in estrema sintesi, il principio espresso dalla Cassazione nella sentenza numero 20859 depositata ieri.

A una società immobiliare era disconosciuto il costo di una provvigione di sei milioni di euro corrisposta ad una società per la vendita di una porzione di immobile (valore 18 milioni) con opzione sulla restante parte (valore totale 65 milioni. La provvigione doveva essere corrisposta per metà alla sottoscrizione del preliminare di vendita e per metà al rogito. Tuttavia il preliminare regolarmente stipulato era risolto con restituzione della caparra. Nonostante la mancata conclusione del contratto definitivo, alla società, che aveva svolto l’intermediazione, venivano corrisposti tre milioni (metà della pattuita provvigione).

Secondo l’Agenzia, tale costo era del tutto sproporzionato ed esoso e quindi assolutamente contrario ai canoni economici . Ritenendo corretta invece una provvigione calcolata su una percentuale del 3%, l’ufficio riconosceva il costo per 540mila euro (3% dei 18 milioni) e riprendeva a tassazione la somma restante indebitamente dedotta. Mentre la Ctp accoglieva il ricorso presentato dalla contribuente, la Commissione regionale riformava la decisione di primo grado, confermando la legittimità dell’accertamento dell’Ufficio. Secondo i giudici dell’appello, la rettifica doveva ritenersi fondata in ragione della antieconomicità dell’operazione assolutamente contraria ai canoni dell’economia. Era eccessivo, in sostanza, il pagamento di un importo superiore alla percentuale del 3% risultante dagli usi e consuetudini di cui alla Camera di commercio per le intermediazioni immobiliari. Nel ricorso per Cassazione la contribuente lamentava, tra l’altro, che i giudici al pari dell’Ufficio, non avessero opportunamente motivato le ragioni circa la correttezza di una percentuale del 3% per l’intermediazione, senza poi considerare l’operazione nel suo complesso ricomprendente anche un’opzione di acquisto dell’intero immobile.

La Suprema corte, condividendo la tesi difensiva, ha evidenziato la necessità di ricomprendere anche l’opzione di vendita dell’intero immobile (per un prezzo di circa 65 milioni di euro) ai fini del conseguimento del giudizio di antieconomicità del costo sostenuto, rispetto alla complessiva operazione economica.

Stante un evidente vizio motivazionale rispetto a tali circostanze, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso della contribuente.

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Sulle criptovalute l’anonimato agevola il rischio criminalità

12 Ottobre 2020

Il Sole 24 Ore domenica 20 settembre 2020 di Valerio Vallefuoco

ALLARME INTERNAZIONALE SUL MOLTIPLICARSI DELLA TIPOLOGIA DI OPERAZIONI CHE UTILIZZANO LE MONETE DIGITALI PER SCHERMARE I PROVENTI OTTENUTI DA VARIE FATTISPECIE DI REATO, DALL’EVASIONE FISCALE AL TRAFFICO DI DROGA

IL DOSSIER DEL GRUPPO D’AZI0NE FINANZIARIA VALUTE VIRTUALI E RICICLAGGIO

Tracciabilità.  La confusione tra monete diverse risulta determinante nel aumentare il filtro di opacità.

Continua il forte impegno internazionale del Gruppo d’azione finanziaria (Gafi) alla lotta al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo attraverso i cosidetti virtual asset. Dopo la revisione dell’implementazione dei suoi standard riveduti sulle valute virtuali e sui fornitori di servizi di valuta virtuale, avvenuta il 7 luglio 2020, il Gafi ha completato la sua analisi del nuovo fenomeno pubblicando lo scorso 14 settembre 2020 un Report sugli indicatori di anomalia sulle valute virtuali.

Come è ormai sempre più noto infatti gli asset virtuali utilizzano una tecnologia innovativa per trasferire rapidamente il valore in tutto il mondo e hanno molti potenziali vantaggi, tra cui la possibilità di effettuare pagamenti più veloci e meno costosi. Ma l’anonimato ad essi associato attira anche i criminali, che hanno utilizzato le criptovalute per riciclare i proventi di una serie di reati come il traffico di droga, il contrabbando illegale di armi, la frode, l’evasione fiscale, gli attacchi informatici, l’evasione delle sanzioni, ed addirittura lo sfruttamento dei minori e la tratta di esseri umani. Anche alcuni gruppi terroristici hanno utilizzato questo strumento per finanziare le proprie azioni.

Il documento si evidenzia nel panorama internazionale per la sua praticità ed accuratezza: in particolare sono presenti casistiche dedicate dove i soggetti obbligati sono vivamente consigliati di alzare la cosidetta bandierina rossa (red flag indicators) sulle operazioni sospette. Tale casistica dal taglio pratico si confronta con diversi precedenti e ricerche di cui alcune italiane per far capire agli operatori come certe pratiche sono da considerarsi sospette al verificarsi di alcune condizioni predeterminate.

Gli indici di anomalia

Il rapporto è stato basato su oltre 100 casi di studio raccolti dai membri della rete globale del Gafi ed evidenzia i più importanti indicatori di anomalia che potrebbero suggerire un comportamento criminale. Gli indicatori chiave dello studio si concentrano essenzialmente sulle caratteristiche tecnologiche che aumentano l’anonimato, come l’uso di siti web di scambio peer-to-peer, servizi di mixing o tumbling o criptocurrencies potenziate per l’anonimato. Queste pratiche denominate Bitcoin tumbling, note anche come Bitcoin mixing o Bitcoin laudering, consistono nel processo di utilizzo di un servizio di terze parti per interrompere la connessione tra un indirizzo Bitcoin di invio di monete virtuali e gli indirizzi a cui vengono inviate.

Dal momento che la blockchain Bitcoin è una sorta di libro mastro pubblico che registra ogni transazione, la miscelazione di monete è fondamentale per tutti colo che non voglia rendere pubblico dove inviano e memorizzano il loro BTC, o da dove lo ricevono. In cambio della miscelazione di valute digitali, i servizi prendono una commissione che va dall’1% al 5% del valore delle valute digitali che vengono mescolate. I mixer incanalano le valute digitali attraverso centinaia di portafogli e le dividono in modo che il tracciamento sia difficile e dispendioso in termini di tempo.

Rischio geografico

Sempre il Rapporto Gafi ha posto l’attenzione sui rischi geografici, evidenziando che i criminali possono sfruttare Paesi con misure nazionali deboli o assenti proprio sugli asset virtuali. Sono considerati sospetti anche alcuni modelli di transazione irregolari, insoliti o non comuni che possono suggerire un’attività criminale. Nel Report sono state poste in risalto le dimensioni delle operazioni-transazioni, in particolare se l’importo e la frequenza non hanno una spiegazione logica di business.

Sono stati inoltre analizzati nello specifico alcuni profili di mittente o di destinatario delle operazioni evidenziando che alcuni specifici comportamenti insoliti possano suggerire un’attività criminale. Sono stati considerati anomali, tra l’altro, i casi in cui un cliente fornisca le credenziali di identificazione o le credenziali dell’account (per esempio un indirizzo IP non standard o i flash cookie) condivisi da un altro account, ovvero siano sorte delle discrepanze tra gli indirizzi IP associati al profilo del cliente e gli indirizzi IP da cui venivano avviate le transazioni.

Indirizzi sotto esame

Sotto esame anche il fatto che l’indirizzo di provenienza delle valute virtuali appartenesse ad un cliente che appariva su forum pubblici associati ad attività illegali ovvero che il cliente fosse conosciuto attraverso informazioni pubblicamente disponibili alle forze dell’ordine a causa di precedenti associazioni criminali.

Infine sono state analizzate specifiche origini dei fondi e delle ricchezze che possono essere collegati ad attività criminali. In questo senso dovrebbero destare sospetto secondo il Gafi tutte quelle transazioni con indirizzi di valuta virtuale o carte di credito che sono collegate a carte di credito note per frode, estorsione, o schemi di ricatto informatico, indirizzi sanzionati, darknet mercati, o altri siti web illeciti. Dovrebbero, per esempio, essere considerate anomale quelle transazioni in criptovalute provenienti da o destinate ai servizi di gioco d’azzardo online.

Carte di credito sospette

Attenzionato anche l’uso di una o più carte di credito e/o di debito collegate a un portafoglio virtuale per ritirare grandi quantità di valuta legale (operazioni cripto-to-plastic), o fondi per l’acquisto di bitcoin provengono da depositi in contanti in carte di credito. Ovvero anche i depositi su un conto o un indirizzo di portafoglio virtuale che siano significativamente più alti del normale con una fonte di fondi sconosciuta, seguita dalla conversione in valuta legale. La mancanza di trasparenza o informazioni insufficienti sull’origine e sui proprietari dei fondi è sempre considerata sospetta, come ad esempio le operazioni che prevedono l’utilizzo di società fittizie o di tali fondi inseriti in un’offerta di monete iniziali (Ico) in cui i dati personali degli investitori possono non essere disponibili o transazioni in entrata dal sistema di pagamento online attraverso carte di credito/prepagate seguite da prelievo immediato.

In generale secondo il report sono da verificare tutte quelle operazioni la cui fonte di ricchezza di un cliente derivi dagli investimenti in criptovalute , Ico, o Ico fraudolente. Da ultimo vanno segnalate le operazioni in cui le fonti di ricchezza di un cliente vengano attinte in modo sproporzionato da portafogli virtuali provenienti da altri prestatori di servizi per asset virtuali (Vasp) che non dispongono di controlli antiriciclaggio e antiterrorismo adeguati agli standard Gafi.

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Cliente identificato con i dati provenienti da una fonte affidabile

12 Ottobre 2020

Il Sole 24 Ore 17 settembre 2020 di Valerio Vallefuoco

ANTIRICICLAGGIO

Il decreto semplificazioni denominato “misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione” convertito in legge lo scorso 11 settembre , interviene anche sulla vigente legge antiriciclaggio. Le novità riguardano gli obblighi di adeguata verifica della clientela e potrebbero comportare un alleggerimento degli oneri in capo ai soggetti obbligati.

Con la riforma, cambia, infatti, parzialmente il contenuto di tali obblighi per la parte relativa all’identificazione del cliente e dell’esecutore, ossia del soggetto delegato ad operare in nome e per conto del cliente stesso. In particolare, la norma così come riformulata, consente che l’identificazione del cliente e dell’esecutore e la verifica della loro identità avvenga sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente. Pertanto, non dovrà più trattarsi necessariamente di un documento d’identità o di altro documento di riconoscimento equipollente ma di qualsiasi documento che offra un sufficiente grado di attendibilità.

Novità anche per l’identificazione dei clienti in possesso di un’identità digitale. La nuova norma nel ribadire la validità di questo tipo di identificazione ne estende le possibilità applicative a tutti i casi in cui i clienti siano in possesso di un’identità digitale, con un livello di garanzia almeno significativo, in luogo del livello massimo di sicurezza prima richiesto.

Viene poi introdotta una nuova modalità di adempimento degli obblighi di adeguata verifica senza la presenza fisica del cliente. Il decreto semplificazioni ha, infatti, aggiunto all’articolo 19, del decreto antiriciclaggio, il nuovo comma 4 bis, per cui l’obbligo di identificazione si considera assolto anche senza la presenza fisica «per i clienti che, previa identificazione elettronica basata su credenziali che assicurano i requisiti previsti dall’articolo 4 del Regolamento Delegato (Ue) 2018/389 della Commissione del 27 novembre 2017, dispongono un bonifico verso un conto di pagamento intestato al soggetto tenuto all’obbligo di identificazione». Tuttavia, questa modalità di identificazione e verifica dell’identità, per espressa previsione, può essere utilizzata solo per i rapporti relativi a carte di pagamento e dispositivi analoghi, nonché a strumenti di pagamento basati su dispositivi di telecomunicazione, digitali o informatici, con esclusione dei casi in cui tali carte, dispositivi o strumenti siano utilizzabili per generare l’informazione necessaria a effettuare direttamente un bonifico o un addebito diretto verso e da un conto di pagamento.

Infine, la riforma limita la verifica dell’identità del cliente, del titolare effettivo e dell’esecutore da effettuarsi mediante riscontro della veridicità dei dati identificativi contenuti nei documenti e delle informazioni acquisiti all’atto dell’identificazione, solo alle ipotesi in cui in relazione ad essi, sussistano dubbi, incertezze o incongruenze.

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Bonus 110% residente all’estero iscritto all’AIRE

12 Ottobre 2020

Il Sole 24 Ore 11 settembre 2020 di Alessandro Borgoglio

DOMANDE E RISPOSTE

Risiedo all’estero, sono iscritto all’Aire e avevo intenzione di acquistare una casa di vacanza in Italia. Non essendo contribuente fiscale in Italia, mi chiedevo se posso approfittare del 110%, cedendo il credito d’imposta.

La risposta è positiva. Il superbonus riguarda tutti i contribuenti, residenti e non residenti, che sostengano le spese per l’esecuzione degli interventi agevolati. Questi, in luogo dell’utilizzo diretto della detrazione, possono optare per un contributo, sotto forma di sconto sul corrispettivo dovuto o per la cessione di un credito d’imposta di importo corrispondente alla detrazione ad altri soggetti, ivi inclusi gli istituti di credito e gli altri intermediari finanziari. Se la persona fisica non residente non ha imposta dovuta in Italia, potrà comunque scegliere una di queste opzioni. 

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La tassa fissa decolla: quadruplicati i nuovi residenti in Italia

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 27 agosto 2020 di Cristiano Dell’Oste

REDDITI ESTERI

Nel 2019, terzo anno di applicazione, sfruttata da 421 nuovi residenti

Sono 421 i “Paperoni” che hanno trasferito la residenza in Italia per sfruttare la tassa fissa da 100mila euro introdotta con la manovra 2017. Il dato è riferito all’anno d’imposta 2019 ed è quadruplicato rispetto ai 99 beneficiari del primo anno di applicazione.

I loro nomi sono un segreto ben custodito dai consulenti che ne hanno curato le pratiche, ma il regime agevolato è disegnato per attrarre soprattutto ricchi rentier stranieri e qualche italiano “di ritorno” dopo un lungo periodo all’estero (servono, infatti, almeno nove anni di residenza al di fuori del nostro Paese nei dieci periodi d’imposta precedenti l’opzione).

Spesso impropriamente definita flat tax, quella prevista per i Paperoni è in realtà un’imposta fissa, pari appunto a 100mila euro all’anno. Dura fino a un massimo di 15 anni e sostituisce l’Irpef sui redditi prodotti all’estero, e questo spiega perché sia particolarmente appetibile per chi mantiene oltreconfine patrimoni, imprese e attività. Non sempre rientrano nel target della tassa fissa, invece, i calciatori e gli altri sportivi professionisti stranieri che vengono a giocare in Italia: se non hanno molti redditi esteri, per loro può essere più vantaggiosa la detassazione del 50% introdotta dal decreto Crescita del 2019 (Dl 34), applicabile per cinque anni dal trasferimento nel nostro Paese e rinnovabile a certe condizioni per altri cinque anni.

L’imposta fissa può essere applicata anche ai familiari del beneficiario, che pagano 25mila euro a testa. Tecnicamente, la scelta avviene nella dichiarazione dei redditi riferita al periodo d’imposta in cui il familiare trasferisce la residenza fiscale in Italia o in quella successiva. Ma c’è anche un’istanza preventiva di interpello probatorio alle Entrate, per verificare se si ha diritto al regime.

Il gettito per l’Erario riferito al 2019 è di almeno 42,1 milioni (più la quota dei familiari, il cui numero non è noto). Si tratta di una cifra tutto sommato modesta, ma l’obiettivo della tassa fissa non è mai stato quello di fare cassa, quanto piuttosto quello di far arrivare in Italia “super-consumatori” ad alta capacità di spesa, con effetti positivi sull’Iva e sull’indotto, in particolare del lusso. Effetti, comunque, ancora tutti da misurare e che potrebbero essere stati duramente ridotti dal lockdown dei mesi scorsi.

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Amazon risponde per i danni causati dai prodotti venduti

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 21 agosto 2020 di Alessandro Galimberti e Andrea Monti

DIRITTO DELLA RETE

Rivoluzionaria sentenza su e-commerce della Corte d’Appello della California

Amazon responsabile per la difettosità (e per i danni) del prodotto venduto sul suo marketplace. Con una sentenza destinata a condizionare molte giurisdizioni, la Corte d’appello della California (Cal. Ct. App., 4th Dist., No. D075738 – Bolger vs Amazon.com Inc.) rompe il tabù della intangibilità degli Ott digitali.

Il caso, semplice nello sviluppo dei fatti (una batteria per laptop esplosa in faccia all’acquirente mesi dopo l’acquisto), ha comportato però un lungo excursus del giudice – che peraltro ha ribaltato il primo grado – nella regolamentazione nazionale, e di riflesso europea, sugli intermediari digitali.

Nella prospettiva “italiana” tre sono i punti interessanti. Il primo è di puro merito: i criteri per l’imputazione dei danni da responsabilità da prodotto definiti dalla giurisprudenza statunitense sono analoghi a quelli stabili dal Codice del consumo. I principi sono quindi traslabili nel nostro sistema.Il secondo punto è che, diversamente da quanto potrebbe sembrare, la sentenza riafferma la non responsabilità (“neutralità”) degli operatori e-commerce, ma, nel caso specifico, Amazon.com non può avvalersene. È vero infatti che il gestore di una piattaforma non può essere responsabile di ciò che fanno gli utenti, ma, se diventa parte della loro attività, assume oneri e onori. Amazon.com, scrive il giudice Usa, è a tutti gli effetti un elemento (fondamentale) della catena verticale del processo di vendita produttore-utente finale: gestisce in via esclusiva la comunicazione con il cliente, la messa a disposizione del prodotto, la logistica della consegna, il pagamento e la “garanzia dalla A alla Z”. Dunque è evidente che il suo ruolo implica un’autonoma responsabilità (peraltro, conformemente ai principi espressi dalla direttiva e-commerce dell’Ue).

«Dato il suo ruolo -dice la Corte – Amazon è parte integrante della catena di produzione e marketing e deve sostenere i costi dei danni provocati da prodotti difettosi». Particolarmente rilevante è il punto nel quale la Corte supera il concetto di responsabilità come legato al produttore o al venditore (e dunque, sostiene Amazon, non al fornitore dei servizi associati alla vendita) affermando che «la dottrina della stretta responsabilità in California supera queste tecnicalità e risarcisce l’attore per i danni provocati da prodotti difettosi». Questa è una differenza sostanziale con il Codice del consumo italiano che, invece, limita le azioni appunto nei confronti dei soli venditori e produttori. Sarà interessante vedere, se un contenzioso simile dovesse nascere anche in Italia, se la giurisprudenza seguirà quella statunitense interpretando estensivamente la nozione di “seller”.

Il terzo punto è la rilevanza dell’affidamento generato da Amazon.com nel cliente finale. Poco importa il titolo giuridico della relazione commerciale: «I prodotti venduti su Amazon godono di una “implicita dichiarazione di sicurezza”, che rende applicabile la previsione di una stretta responsabilità». In altri termini, e anche questo principio è spendibile davanti alle nostre corti, non è il solo (unilaterale) contratto a disciplinare i rapporti con il contraente debole, ma anche l’affidamento generato dalla condotta complessiva dell’operatore di e-commerce.

Doing business in San Marino

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