La chance delle obbligazioni per pagare i fornitori della Spa

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 10 agosto 2020 di Angelo Busani

OPERAZIONI FINANZIARIE

È possibile emettere titoli per strutturare il debito contratto per le commesse

La delibera societaria deve prevedere i tempi di restituzione del capitale

L’idea di strutturare il debito verso i fornitori con il loro collettivo coinvolgimento in un’operazione di finanza straordinaria – come raccontato nel servizio qui a destra – può essere un’intelligente soluzione per far fronte alle emergenze e alle turbolenze provocate da questo particolare periodo.

Le differenze fra Spa e Srl

L’emissione di obbligazioni da parte di una società per azioni è una soluzione tutto sommato abbastanza semplice. Una strategia più articolata può essere quella dell’emissione, sempre da parte di una Spa, di obbligazioni convertibili in azioni oppure di strumenti finanziari partecipativi (Sfp): in quest’ultimo caso, oltre a organizzare il rimborso del debito, si può giungere a coinvolgere i creditori nella governance stessa della società emittente, ad esempio mediante la nomina da parte dei titolari degli Sfp, di un membro del suo consiglio di amministrazione.

Più complicata è, invece, l’adozione di soluzioni analoghe nelle società a responsabilità limitata, in quanto, in questo caso, è bensì possibile l’emissione di titoli di debito: essi però possono essere destinati solo alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale» (articolo 2483, comma 2, del Codice civile).

Tornando alle obbligazioni emesse da una Spa, la delibera di emissione deve essere adottata dall’organo amministrativo (e cioè il consiglio di amministrazione o, nel sistema dualistico, il consiglio di gestione) a meno che lo statuto stabilisca, sul punto, la competenza dell’assemblea (in ogni caso, il verbale che reca la deliberazione deve essere redatto in forma notarile). La scelta della legge di affidare la competenza all’emissione di obbligazioni all’organo amministrativo dipende dal fatto che si tratta di un’operazione di finanziamento della società e, quindi, di una decisione che attiene alla gestione della società, materia dunque estranea alla competenza dei soci.

I limiti

La legge pone alcuni limiti all’emissione delle obbligazioni:

la società può emettere obbligazioni (necessariamente nominative) per una somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato;

il predetto limite può essere superato se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale (in questa ipotesi, in caso di successiva circolazione delle obbligazioni, chi le trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali);

non è soggetta al limite della somma di capitale e riserve l’emissione di obbligazioni che siano garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi; né l’emissione di obbligazioni destinate ad essere quotate in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione ovvero di obbligazioni convertibili.

La sottoscrizione dei fornitori

Quando si tratta di emettere obbligazioni destinate alla sottoscrizione dei fornitori della società emittente, al fine di incorporare i loro crediti relativi alle forniture effettuate, la delibera di emissione deve appunto prevedere che la sottoscrizione delle obbligazioni avvenga mediante compensazione del debito derivante dalla sottoscrizione con il credito derivante dalle forniture.

Inoltre la delibera di emissione:

deve prevedere i tempi di restituzione del capitale (il che può avvenire in un’unica soluzione oppure in una pluralità di tranches);

deve stabilire se le obbligazioni conferiscano il diritto al percepimento di interessi e, in caso positivo, stabilirne l’entità (in misura variabile o in misura fissa); tra l’altro, i tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società;

può prevedere che il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi può essere, in tutto o in parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società.

La tutela degli obbligazionisti verso la società emittente è affidata a un “rappresentante comune” che essi debbono nominare, una volta riuniti in un’apposita assemblea. L’assemblea degli obbligazionisti, inoltre, delibera sulle materie nelle quali gli obbligazionisti abbiano un interesse comune e, in particolare, sulle modificazioni delle condizioni del prestito che siano proposte dalla società emittente.

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La società trasferita all’estero deve pagare il dovuto al Fisco

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 7 agosto 2020 di Laura Ambrosi

CASSAZIONE

L’obbligazione sui debiti tributari resta anche dopo l’uscita dal registro imprese

Se la società si trasferisce all’estero, la cancellazione dal registro imprese non equivale alla perdita della personalità giuridica con la conseguenza che l’ente rimane obbligato anche dei debiti tributari. Ad affermarlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza 16775 depositata ieri.

Una società, trasferitasi all’estero, impugnava tardivamente un avviso di accertamento per asseriti vizi di notifica. In particolare la contribuente lamentava che l’atto fosse stato notificato al legale rappresentante della società nonostante si fosse cancellata dal registro imprese italiano. Inoltre, proprio in conseguenza della citata cancellazione, l’ente doveva comunque considerarsi estinto.

Entrambi i giudici di merito dichiaravano l’inammissibilità del gravame perché tardivo.

La società ricorreva così in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata interpretazione della norma.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che in tema di notifica l’articolo 145 del Codice di procedura civile consente alla parte interessata di scegliere, alternativamente, nel caso di persona giuridica, di eseguire la notificazione presso la sede sociale ovvero presso il suo legale rappresentante. Ne conseguiva così la correttezza della notifica nella specie.

Con riferimento invece alla cancellazione della società, la Suprema corte ha rilevato che il trasferimento all’estero non può essere equiparato alla cessazione e quindi all’estinzione del soggetto. La società, infatti, sia pure in altro stato, continua lo svolgimento della propria attività. La Cassazione ha rilevato che conferma in tal senso si ravvisa anche dal Codice civile (articoli 2347, comma primo lett. c) e 2473 comma primo) che attribuisce ai soci il diritto di recesso nel caso di trasferimento della sede all’estero.

È evidente quindi, che tale trasferimento rappresenti solo una continuazione della personalità giuridica, nonostante la cancellazione dal registro imprese italiano.

In conclusione, è stato affermato che tale cancellazione a seguito del trasferimento all’estero non determina alcun effetto estintivo e per i rapporti tributari rimangono ferme sia la titolarità passiva delle obbligazioni, sia la capacità processuale della persona giuridica.

La decisione è particolarmente interessante perché individua una sorta di deroga alla valenza costitutiva della cancellazione dal registro imprese. Dalla pronuncia, infatti, emerge che il trasferimento all’estero, pur comportando in senso formale la cancellazione dal registro imprese, non equivale all’estinzione dell’ente, il quale comunque rimane responsabile anche nell’ambito dei debiti tributari. In sostanza, quindi, il trasferimento all’estero è equiparabile ad un mero cambio di sede.

Tale conclusione induce a un’ulteriore riflessione: non di rado, il trasferimento estero è stato configurato dagli investigatori quale reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Alla luce dei principi ora affermati, quindi, salvo che sussistano altre condotte, difficilmente può configurarsi tale reato, atteso che l’ente è comunque tenuto a rispondere dei propri debiti così come se il trasferimento fosse avvenuto in Italia.

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I paradisi fiscali UE minacciano la stabilità dei mercati globali

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 8 agosto 2020 di Antonio Coppola e Matteo Maggiori (PhD Candidate, Harvard University, Department of Economics; Associate Professor, Stanford University, Graduate School of Business)

I paradisi fiscali UE minacciano la stabilità dei mercati globali

I Paesi Bassi e l’Irlanda sono nuovamente al centro dell’attenzione per il loro ruolo di paradisi fiscali europei. Entrambe le giurisdizioni attraggono le sedi legali di società che in realtà hanno scarsa presenza sul territorio nazionale. Il loro modello economico attira enormi capitali esteri, tassandoli poco o nulla in percentuale. Queste piccole percentuali generano comunque notevoli introiti quando applicate a imponibili molto alti. Il resto del ricavo viene dai servizi legali e finanziari offerti localmente alle società internazionali.

Questi regimi fiscali hanno reso i Paesi Bassi e l’Irlanda veicoli di “capitale fantasma”, ovvero capitale che ha questi Paesi come destinazione solo nominalmente. Gli Stati Uniti ufficialmente investono 449 miliardi di dollari in obbligazioni e azioni emesse da compagnie irlandesi e 518 miliardi in quelle olandesi. In realtà queste compagnie non sono né irlandesi né olandesi, ma semplicemente scatole legali vuote. In un recente studio con Brent Neiman della University of Chicago e Jesse Schreger della Columbia University abbiamo rintracciato questi capitali in giro per il mondo, passando dalle Isole Vergini Britanniche alle Cayman e oltre.

Il capitale investito in obbligazioni emesse da società olandesi finisce in destinazioni sorprendenti. Solo la metà rimane nei Paesi Bassi. Il 29% finisce altrove nell’Eurozona, il 4% negli Stati Uniti e il 3,5% in Brasile. Consideriamo il caso di Petrobras, il colosso petrolifero brasiliano che ha una controllata nei Paesi Bassi per l’emissione di debito. L’azienda ha scarsa presenza sul territorio olandese, ma pressoché la totalità dei capitali che attira da investitori esteri vengono raccolti da due controllate, una a Rotterdam e una nelle Isole Cayman.

La situazione irlandese è simile, ma i capitali sono più strettamente legati agli Stati Uniti. Il 58% del valore delle azioni esistenti sul mercato ed emesse da società irlandesi è in realtà da considerarsi emesso da imprese statunitensi. Molte multinazionali americane, come Medtronics, eseguono un’esterovestizione societaria, registrando la sede legale della società capogruppo in Irlanda per ridurre la tassazione dell’intero gruppo. Paradossalmente, gli investimenti nelle azioni di queste società da parte degli investitori statunitensi non vengono considerati investimenti domestici negli Stati Uniti, come lo sono in realtà, ma piuttosto come investimenti all’estero, in Irlanda. Di conseguenza, Dublino sembra attirare dagli Stati Uniti grandi investimenti azionari per 385 miliardi di dollari.

Per capire quanto speciali siano i Paesi Bassi e l’Irlanda in questo ambito, basta un confronto con la Germania e l’Italia. In entrambi i casi, la quasi totalità delle obbligazioni societarie emesse, ovvero il 97%, appartiene a compagnie nazionali. Queste statistiche delineano un modello economico molto differente.

L’opzione di abbassare le tasse societarie e le ritenute su obbligazioni e azioni è disponibile in teoria a tutti i Paesi. Uno sguardo al sistema finanziario globale rivela che i paradisi fiscali tendono a essere Paesi piccoli e con poche industrie a eccezione di quella finanziaria. Una possibile spiegazione è che un Paese più piccolo trova vantaggioso specializzarsi nell’attirare capitali fantasma tramite una tassazione bassa. Per Paesi più grandi questa tattica è più difficile perché il tentativo di attirare capitali esteri comporterebbe degli squilibri interni con i settori non-finanziari dell’economia. I paradisi fiscali scelgono di focalizzare l’economia verso il settore finanziario. Non è una scelta per tutti.

Molto si è scritto in questi giorni sulla perdita di ricavi fiscali che Paesi come Olanda e Irlanda causano al resto dell’Eurozona. Questo è un argomento importante, ma vogliamo soffermarci qui su altri due aspetti: l’impatto sulla stabilità finanziaria e quello sulla regolamentazione.

Nel cercare di minimizzare la tassazione, le multinazionali e gli investitori hanno creato una rete intricata di posizioni finanziarie. Basti pensare all’esempio di un fondo d’investimento italiano che compra le obbligazioni emesse dalla controllata di Petrobras nei Paesi Bassi. Questa a sua volta passa il capitale ad altre società del gruppo, in Brasile o altrove. Questo è solo un esempio, senz’altro non il più intricato, ma che permette di comprendere la distanza tra la società che emette il debito e le attività produttive che producono i ricavi che lo ripagheranno. Se si verificasse un’ondata di fallimenti societari globali, come potrebbe accadere nella scia della pandemia di Covid, non è chiaro con che facilità gli investitori potranno rifarsi sulle società. Specialmente viste le multiple giurisdizioni coinvolte.

Le società usano questi complessi flussi finanziari anche per aggirare la regolamentazione finanziaria. Un esempio è l’entrata in vigore nel 2016 del regolamento sugli abusi di mercato dell’Unione europea mirato a una maggiore trasparenza del mercato obbligazionario. Appena introdotta la nuova regolamentazione, diverse società particolarmente esposte alle nuove regole, come per esempio Aston Martin, hanno spostato l’emissione delle proprie obbligazioni nell’isola di Jersey. Jersey, anzi, ha attivamente promosso queste nuove emissioni, vantando la maggiore permissività della propria regolamentazione.

Le tensioni finanziarie rischiano di aggravarsi ulteriormente nello scenario post-Brexit. Londra potrebbe volere competere al ribasso con l’Eurozona, sia in termini di tassazione che di regolamentazione finanziaria. L’ascesa di una costellazione di paradisi fiscali dentro l’Eurozona o poco al di fuori è un rischio che le istituzioni comunitarie devono arginare. Un fallimento della politica economica in questo senso comporterebbe mercati finanziari sempre più iniqui e scarsamente controllabili.

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Vendite in nero, non va tralasciato il test sulle giacenze

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore  24 agosto 2020 di Stefano Mazzocchi

CONTROLLI

Il giudice ha valorizzato anche il parere di una società di revisione

Qualora ritenga che siano state poste in essere vendite “in nero”, l’ufficio dovrebbe preoccuparsi anche di svolgere una verifica sulle movimentazioni fisiche intervenute sulle merci in giacenza: lo ha sottolineato la Ctr Lombardia con la sentenza 1222/6/2020, depositata il 24 giugno scorso (presidente Catania, relatore Chiametti).

Al riguardo occorre rimarcare la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «la presunzione di cessione imponibile deve ritenersi operante non soltanto quando non sia rinvenuto il bene ma altresì nell’ipotesi di divergenza fra la consistenza riscontrata e quella dichiarata laddove anche, secondo l’id quod plerumque accidit, è ragionevole ritenere avvenuta la monetizzazione degli elementi patrimoniali non ulteriormente rientranti nella disponibilità del soggetto verificato» (sentenza 8852/2008).

L’assunto che precede appare confermato dalla quinta sezione tributaria della Suprema corte con la sentenza 22563/2012, secondo cui «il riscontro di differenze di magazzino, in sede di verifica, è idoneo a far presumere l’esistenza di ricavi corrispondenti alle merci non giacenti, indipendentemente dalla modestia o meno della differenza, in mancanza di normativa che preveda una soglia minima per l’esercizio del potere dell’ufficio di accertare una pretesa fiscale maggiore di quella dichiarata». Di tenore analogo anche la Cassazione 5869/2013, che ha confermato il principio secondo cui «le eventuali differenze quantitative, derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino (Dpr 600 del 1973, articolo 14, comma 1, lettera d)) o da altra documentazione obbligatoria e le consistenze delle rimanenze registrate, costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo (Cassazione 9628/2012)».

Sull’argomento giova ripercorrere altresì un passaggio della circolare 31/E/2006, laddove l’agenzia delle Entrate chiarì che, in presenza di differenze inventariali, «il verificatore è sempre chiamato a un’analisi complessiva della posizione economica, patrimoniale e gestionale dell’azienda controllata. Conseguentemente, se nel corso del controllo dovessero riscontrarsi le rettifiche contabili sopra descritte, sarà cura del verificatore non limitarsi alla ripresa a tassazione sic et simpliciter degli importi corrispondenti al valore delle predette differenze, ma esaminare il processo di formazione delle stesse e la loro natura fisiologica o patologica in relazione all’attività in concreto svolta dall’impresa e in relazione agli elementi e alle informazioni eventualmente forniti dal contribuente».

In altre parole: se è vero che le differenze in questione possono essere rilevate dal Fisco sulla base di un semplice controllo cartolare, è indubbio che non di rado la giurisprudenza di legittimità sembra essere andata oltre il dettato normativo, prescrivendo di fatto la necessità di una verifica “fisica” dei beni costituenti le rimanenze.

La pronuncia della Ctr in commento appare importante anche perché nell’occasione i giudici lombardi hanno respinto l’appello formulato dall’ufficio anche sulla base di un parere predisposto da una società di revisione: si tratta di un documento che – spiega la Ctr – anche se «può essere considerato di parte», «risulta essere completo ed esaustivo in quanto ha verificato parte della contabilità che andava ad interessare l’annualità (…)». Di conseguenza, «il contenuto contabile di tale elaborato peritale va a confermare le operazioni poste in essere dalla società stessa».

La pronuncia, quindi, rafforza quell’orientamento secondo cui il giudice tributario è tenuto a valorizzare anche le perizie tecniche di parte (Cassazione 11632/2017). Al riguardo si rammenta anche la Cassazione 31274/2018, secondo cui «la perizia di parte (tanto più nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche), può (…) costituire fonte di convincimento del giudice, il quale può porla a fondamento della decisione, a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente».

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Cinque lezioni da memorizzare per il futuro

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 26 agosto 2020 di Mariano Corso (Responsabile Scientifico Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano)

L’emergenza Covid-19 ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare. Milioni di lavoratori hanno sperimentato un diverso modo di lavorare, un’esperienza che è destinata a lasciare una traccia indelebile, perché ha abbattuto pregiudizi e cambiato attitudini e aspettative di imprese e persone verso l’organizzazione del lavoro. Per preservare la salute e al tempo stesso garantire continuità dei servizi, imprese e Pubbliche Amministrazioni hanno dovuto superare schemi e routine e far lavorare le loro persone da remoto.

Le organizzazioni che avevano già introdotto modelli di smart working si sono trovate indubbiamente avvantaggiate, le altre hanno dovuto improvvisare. Nessuno però era davvero preparato a una discontinuità che è stata radicale per tutti: prima del Coronavirus, infatti, lo smart working riguardava una percentuale molto contenuta dei lavoratori, appena 600.000 sui 18 milioni di dipendenti in Italia, e prevedeva un ricorso al lavoro a distanza in media di un solo giorno alla settimana che veniva prevalentemente riservato ad attività di concentrazione o lavoro individuale.

Con la pandemia tutto è cambiato: tra lockdown e successiva ripartenza oltre 6 milioni di lavoratori hanno sperimentato un lavoro da remoto a tempo pieno, trovandosi improvvisamente a dover svolgere a distanza ogni attività, comprese quelle di collaborazione e relazione interpersonale che in precedenza avevano sempre assunto richiedessero una copresenza fisica in ufficio.

Si è trattato di un gigantesco test organizzativo i cui esiti sono stati per certi versi sorprendenti: non solo il 68% di lavoratori ha dichiarato di essere riuscito a portare avanti tutte le attività, ma i livelli di efficacia, nonostante l’improvvisazione, sono stati valutati da manager e lavoratori come molto positivi, spesso superiori a quelli precedenti. Attratte dai benefici in termini di produttività e costi sperimentati, moltissime imprese e PA stanno ripensando i propri modelli organizzativi, inserendo in modo strutturale la possibilità di lavorare da remoto. Certamente non sono mancate le criticità, in gran parte attribuibili alla impreparazione e alla necessità di accompagnare e rendere più bilanciato e sostenibile il cambiamento.

Quello che in molti si sono trovati a sperimentare, spesso in maniera improvvisata, non è infatti il “vero” smart working, ma una forma di lavoro da remoto estremo e vincolato, nella quale sono venuti a mancare quei presupposti di volontarietà e flessibilità che sono alla base dello scambio tra autonomia nella scelta delle modalità di lavoro e responsabilizzazione sui risultati su cui si dovrebbe fondare ogni accordo di smart working.

Oggi a qualche mese dall’inizio della pandemia è possibile e opportuno fare un primo bilancio dell’applicazione dello smart working durante l’emergenza per trarne alcune lezioni da applicare nei prossimi mesi e nel futuro. Cinque sembrano le principali lesson learned che meritano attenzione:

1.La capacità di lavorare a distanza utilizzando strumenti e canali digitali è una condizione essenziale di resilienza per organizzazioni, le persone e il Paese nel suo insieme. L’applicazione dello smart working, seppure improvvisata, ha salvato una parte importante dell’economia del Paese. I danni avrebbero potuto essere molto più contenuti se si fosse arrivati all’emergenza maggiormente preparati dal punto di vista culturale, tecnologico e manageriale, tutte condizioni che oggi, a valle di questa esperienza, sarebbe irresponsabile non costruire.

2.L’adozione forzata dello smart working durante la pandemia ha dimostrato che un diverso modo di lavorare è possibile. Milioni di lavoratori hanno imparato quanto possa essere non solo possibile, ma anche efficace lavorare da remoto. Oggi si può e si deve fare tesoro di questa esperienza per disegnare nuovi modi di lavorare, più efficaci, resilienti e sostenibile.

  1. L’emergenza ha permesso di fare in pochi mesi un percorso accelerato di sviluppo di competenze digitali che in condizioni normali avrebbe richiesto anni. Le persone hanno imparato a utilizzare strumenti di collaborazione avanzati, a fruire di servizi digitali, a comunicare, formarsi e relazionarsi efficacemente attraverso canali digitali. Non si deve tornare indietro, ma cogliere questa disponibilità per diffondere maggiormente quelle competenze e attitudini digitali la cui carenza è riconosciuta come uno dei principali ostacoli alla modernizzazione del Paese.
  2. Molti lavoratori e manager hanno compreso l’importanza di una maggiore autonomia e responsabilizzazione sugli obiettivi. L’aspetto più apprezzato dai lavoratori è stata proprio la possibilità di organizzarsi in autonomia e misurarsi sui risultati piuttosto che su orari e adempimenti. Sulla base di questa esperienza si devono oggi ripensare i contratti di lavoro, fermi a logiche novecentesche di cui sempre più lavoratori e imprese non riconoscono il senso.
  3. Lo smart working rende possibili nuovi e più sostenibili modelli di vita ed urbanizzazione, apre nuove possibilità ad aree del nostro Paese fino ad oggi escluse dai principali circuiti economici nazionali e internazionali. Anche a livello locale diventa possibile riscoprire periferie, piccoli centri e territori extra urbani, con benefici potenzialmente enormi in termini sociali e ambientali. Attuare questo potenziale richiede però di colmare quei gap di infrastrutture di connettività che, se non rimossi, rischiano nel futuro di pesare ancora di più sulla possibilità di sviluppo.

Forti di queste lezioni è ora di passare al “vero” Smart Working, un modello capace di bilanciare lavoro in presenza e a distanza e di rendere le nostre organizzazioni più competitive e il nostro Paese più moderno, inclusivo e resiliente.

 

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Privacy, bocciato l’accordo Ue-Usa sui dati

7 Agosto 2020

Il Sole 24 Ore 17 luglio 2020 di Beda Romano

LA SENTENZA

La Corte europea: non dà garanzie sufficienti ai cittadini dell’Unione

La decisione complicherà ulteriormente le relazioni transatlantiche

Privacy e internet. I social media sono tra gli spazi dove si avverte maggiormente l’esigenza di proteggere i dati delle personeREUTERS

Bruxelles

Si complica ulteriormente il già difficile rapporto tra Stati Uniti e Unione europea. Ieri la magistratura comunitaria ha ritenuto invalido un accordo internazionale tra Washington e Bruxelles dedicato alla trasmissione di dati personali sui due lati dell’Atlantico. La Corte europea di Giustizia teme che l’intesa, nota con l’espressione inglese Privacy Shield e firmata nel 2016, possa mettere a repentaglio la privacy dei cittadini europei.

Secondo la Corte, l’accordo rende «possibili ingerenze nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono trasferiti» verso gli Stati Uniti. La magistratura comunitaria teme l’intrusione dei servizi di sorveglianza americana nelle banche dati situate in America. La decisione giudiziaria, che non può essere oggetto di appello, crea un vuoto giuridico in un ambito delicatissimo. Oltre 5.000 imprese – il 70% piccole e medie aziende – hanno sottoscritto nel tempo l’intesa Privacy Shield.

La sentenza giunge dopo un ricorso presentato da un giurista austriaco preoccupato in particolare dai dati personali degli europei raccolti da Facebook e custoditi negli Stati Uniti. «Mi sembra che la Corte abbia fatto propri tutti i miei rilievi», ha detto Max Schrems, lo stesso che era riuscito a ottenere nel 2015 l’annullamento di un precedente accordo tra gli Stati Uniti e l’Unione europea (il Safe Harbour), sempre per paure sul fronte della privacy.

«Gli Stati Uniti – ha aggiunto il giurista austriaco – dovranno modificare seriamente le loro leggi sulla sorveglianza se le imprese americane vorranno continuare ad avere un ruolo importante sul mercato europeo». Mentre molte associazioni di protezione dei consumatori hanno salutato la sentenza con soddisfazione («una vittoria per la vita privata», ha affermato Access Now), il segretario al Commercio Wilbur Ross ha detto «di sperare di limitare l’impatto economico sulle relazioni transatlantiche”.

Lo sguardo corre alle cosiddette clausole contrattuali standard. Si tratta di un modello di contratto ideato da Bruxelles e che può essere usato da qualsiasi impresa per esportare i propri dati verso una filiale, una casa madre o anche imprese terze. La Corte ieri ha considerato queste clausole accettabili purché le autorità nazionali incaricate della protezione dei dati diano il loro benestare e che le leggi del paese destinatario siano sufficientemente protettive della privacy.

Per l’esecutivo comunitario, la decisione giudiziaria è una nuova battuta d’arresto. Per fortuna le clausole contrattuali standard sono state salvaguardate dalla Corte e possono essere una soluzione alternativa, pur temporanea. Ha commentato il commissario alla Giustizia Didier Reynders: «Prenderò contatto con la mia controparte negli Stati Uniti per lavorare in modo costruttivo in vista di un meccanismo di trasferimento dei dati che sia solido e durevole».

La sentenza riguarda molte imprese multinazionali, a iniziare da Facebook. «Faremo in modo che i nostri inserzionisti, clienti e partner possano continuare a usufruire dei servizi di Facebook mantenendo i loro dati sicuri e protetti», ha dichiarato Eva Nagle, dirigente della società. «Le clausole sono utilizzate da migliaia di aziende in Europa, forniscono importanti garanzie per proteggere i dati dei cittadini dell’Unione».

La decisione giudiziaria giunge in un momento delicato nelle relazioni euro-americane. Negli anni, le tensioni si sono moltiplicate sul fronte commerciale, fiscale e anche militare (con la scelta di Washington di ridurre la presenza di truppe americane in Germania).

Non è un caso che l’associazione imprenditoriale Business Europe abbia ieri esortato le parti «a mettere a punto una strategia positiva».

L’Antitrust Ue ha inoltre avviato un’indagine nell’ambito di”Internet delle cose” su prodotti e servizi come Alexa o Siri, connessi alla rete e che possono essere controllati a distanza.

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Tassazione, Bruxelles prepara la fine dei regimi privilegiati

7 Agosto 2020

Il Sole 24 Ore 15 luglio 2020 di Beda Romano

FISCALITÀ

Verso il voto a maggioranza qualificata per porre fine agli squilibri nell’Unione

Oggi la sentenza della Corte europea sui 13 miliardi di Apple all’Irlanda

Vantaggi fiscali. Il logo di Apple con lo sfondo della bandiera irlandese: oggi la sentenza della Corte Ue

Bruxelles

Salvaguardare il mercato unico e la parità di condizioni d’accesso è diventato un aspetto cruciale della risposta comunitaria allo shock economico provocato dall’epidemia influenzale. Ciò è vero nel delicatissimo campo degli aiuti di Stato, ma anche in quello altrettanto delicato della fiscalità. In questo caso, il tema assume una dimensione particolare mentre i paesi membri sono alla ricerca di nuovo gettito fiscale per ridurre l’indebitamento.

La Corte europea di Giustizia dovrebbe pubblicare oggi una attesa sentenza dedicata al caso Apple. Nel 2016, la Commissione europea chiese alla società americana di rimborsare al governo irlandese un totale di 13 miliardi di euro. Bruxelles rimproverò a Dublino di avere fatto beneficiare Apple di aliquote fiscali bassissime, tali essere equiparate ad aiuti di Stato illegittimi. Il ricorso è stato presentato sia dalla società che dal governo.

Il caso è emblematico per via dell’ammontare in ballo. La Commissione vede nella vicenda un esempio di distorsione del mercato unico attraverso politiche fiscali eccessivamente generose. L’esecutivo comunitario ha imposto rimborsi anche ad altre aziende beneficiarie di aiuti di stato simili provenienti dall’Olanda o dal Lussemburgo. Lo shock economico provocato dall’epidemia influenzale ha reso la questione ancor più controversa, in un contesto peraltro di forte aumento dei debiti pubblici.

Si calcola che i più grandi paesi europei perdono miliardi di euro in gettito fiscale tutte le volte in cui loro aziende trasferiscono la sede in Stati membri nei quali il sistema fiscale è particolarmente generoso (si stima che l’Italia abbia perso fino a 21 miliardi nel 2019). Da anni, nelle sue raccomandazioni-paese, Bruxelles punta il dito contro l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, l’Irlanda, Malta, Cipro e l’Ungheria, chiedendo una riforma dei loro regimi fiscali perché favorirebbero abusi da parte delle singole imprese e provocherebbero distorsioni alla libera concorrenza.

Secondo il Financial Times, la Commissione europea sta riflettendo sull’ipotesi di usare l’articolo 116 dei Trattati che dà modo all’esecutivo comunitario di correggere distorsioni alla libera concorrenza nel mercato unico provocate dalle legislazioni nazionali attraverso l’adozione di direttive, la cui violazione verrebbe eventualmente sanzionata a livello europeo. Mentre le questioni fiscali richiedono tradizionalmente l’unanimità, in questo caso Bruxelles potrebbe adottare misure attraverso il voto alla maggioranza qualificata.

Interpellato ieri il portavoce della Commissione europea Dan Ferrie ha commentato: dall’inizio del suo mandato, la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen «ha chiarito che esplorerà modi per sfruttare appieno le disposizioni dei trattati che consentono l’adozione delle proposte fiscali a maggioranza qualificata anziché all’unanimità. La Commissione sta ora esaminando varie opzioni per mantenere questo impegno politico».

Intanto, sempre oggi, Bruxelles dovrebbe presentare una raccomandazione che permetterà ai paesi membri nel caso di non versare aiuti di Stato a imprese nazionali con una sede in un paradiso fiscale (extra-Unione europea). Si tratta in buona sostanza di una eccezione al principio di non discriminazione. Nello stesso modo, pur di garantire equa concorrenza nel mercato unico, la Commissione nei giorni scorsi ha ricordato che non è possibile condizionare l’aiuto di Stato a particolari decisioni d’investimento.

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Tassata la guida dell’auto con targa extra Ue

7 Agosto 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 6 luglio 2020 di Giorgio Emanuele Degani

DOGANE

Scattano dazi, Iva e confisca per l’utilizzo in Italia da parte di un residente

Integra la fattispecie di contrabbando l’utilizzo in Italia, da parte di un soggetto residente, di un autoveicolo a uso privato immatricolato in Svizzera (quindi con targa stranera) e di proprietà di una persona fisica straniera residente in un Paese extra Ue. Pertanto, la richiesta di pagamento dei dazi, dell’Iva e la confisca del veicolo sono legittime. A dirlo è la Ctp Brescia 221/3/2020 (presidente Maddalo, relatore Repossi).

Il reato di contrabbando nell’importazione di autoveicoli è stato depenalizzato dall’articolo 1, comma 1, Dlgs 8/2016. Con specifico riferimento agli autoveicoli ad uso privato, destinati ad usi non commerciali, gli articoli 232 e 233 delle disposizioni di applicazione del Codice doganale comunitario (regolamento Ce 2454/93) prevedono che, laddove i mezzi siano immatricolati al di fuori del territorio eurounionale, è prevista l’esenzione dal pagamento dei diritti di confine al ricorrere di due condizioni: che il veicolo sia immatricolato al di fuori del territorio doganale unionale, a nome di una persona stabilita non in uno Stato membro; che il mezzo sia utilizzato dall’intestatario (o da un congiunto entro il terzo grado di parentela parimenti stabilito al di fuori del territorio doganale unionale; o da un’altra persona anch’essa residente extra Ue purché debitamente autorizzata dal titolare; o, da ultimo, da una persona stabilita nel territorio unionale, a condizione che il titolare si trovi a bordo del veicolo).

Sussistendo ambedue le condizioni, il veicolo, varcando la frontiera del territorio doganale unionale, si considera ammesso temporaneamente per un massimo di sei mesi, anche non consecutivi, a decorrere dal primo ingresso: ciò comporta l’applicazione del regime di temporanea importazione, senza dover assolvere i dazi e l’Iva.

Il decreto Sicurezza 2018 (Dl 113/2018 convertito in legge 132/2018) ha modificato l’articolo 93 del Codice della strada, secondo cui è vietato a chi ha stabilito la residenza da oltre sessanta giorni in Italia condurre un veicolo con targa straniera.

Nel caso in esame la contestazione sollevata dalle Dogane trova il proprio fondamento in un verbale redatto dalla polizia locale, nella quale il conducente del veicolo, residente in Italia, ne dichiarava l’uso occasionale, senza però che il titolare si trovasse a bordo.

Senza aver fornito la prova di aver assolto i diritti di confine, il conducente assumeva che l’uso era avvenuto per ragioni di emergenza, ossia per il ricovero d’urgenza del figlio minore presso l’ospedale di un’altra città, ma nessuna documentazione veniva versata in atti. Al contrario, l’ufficio dimostrava che il conducente aveva un collegamento stabile con lo Stato italiano.

I giudici hanno rilevato quindi la legittimità della ripresa erariale, ritenendo prevalente la disciplina doganale sul Codice della strada.

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Srl, nulle le scelte «rilevanti» dell’amministratore non approvate dai soci

7 Agosto 2020

Il Sole 24 Ore 10 Giugno 2020 di Angelo Busani

È nullo il contratto stipulato dall’amministratore di una Srl quando si tratta di un atto che comporta una «sostanziale modificazione dello statuto sociale» e che non ha ottenuto il previo placet dei soci. Lo decide il Tribunale di Roma con la sentenza n. 1722 del 27 gennaio 2020, diffusa solo di recente, reiterando identiche decisioni che il Tribunale medesimo aveva adottato il 28 aprile 2011 e il 3 agosto 2018 (non consta invece, sul punto, altra giurisprudenza, tranne una sentenza del Tribunale di Piacenza del 14 marzo 2016 che ha deciso per l’annullabilità e non per la nullità).

I poteri limitati dell’amministratore

La decisione (che concerne un contratto con il quale una società veniva privata dell’intero suo patrimonio) trova argomento nella considerazione che l’articolo 2479, comma 2, n. 5), del Codice civile, attribuisce inderogabilmente ai soci l’assunzione della «decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale» o «una rilevante modificazione dei diritti dei soci»: ne consegue che l’amministratore violerebbe una norma imperativa se stipulasse il contratto non sottoposto a una preventiva favorevole decisione dei soci, con la conseguente nullità di questo contratto (ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile).

Né potrebbe opporsi, secondo il Tribunale, che, ai sensi dell’articolo 2475-bis del Codice civile, gli amministratori «hanno la rappresentanza generale della società» e che «le limitazioni ai poteri degli amministratori» «anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società», in quanto la riserva di competenza dei soci su queste decisioni risulta direttamente dalla legge e, trattandosi appunto di una limitazione legale, non si presta a trovare regolamentazione nell’articolo 2475-bis del codice civile, dal quale invece pacificamente si desume che non sono tacciabili di invalidità:

  • l’atto episodicamente compiuto dall’amministrazione al di fuori del perimetro dell’oggetto sociale (nel caso in esame si ha invece una modifica permanente dell’oggetto sociale);
  • l’atto compiuto dall’amministratore in eccesso rispetto ai suoi poteri;

a meno che non si dimostri (ma è notoriamente una probatio diabolica) l’intenzionale agire del terzo ai danni della società.

Gli effetti (negativi) verso i terzi

La decisione del Tribunale di Roma suscita perplessità in quanto rende rilevanti, all’esterno della società, questioni che la Riforma del 2003 ha chiaramente inteso confinare, in quanto ai loro effetti, all’interno della compagine sociale, proprio perché le patologie interne non si riverberino all’esterno, minando la serenità delle contrattazioni: in modo, cioè, che l’operato dell’amministratore, in dispregio alle limitazioni che il suo operato deve avere, non ridondi sui contratti che il medesimo stipula (e, quindi, coinvolgendo terzi estranei alla compagine sociale) ma abbia conseguenze solo a livello di responsabilità dell’amministratore verso la società amministrata (nonché i suoi soci e i suoi creditori) e a livello di giusta causa di revoca dell’amministratore dal suo incarico.

Anche perché non è facile, per i terzi estranei alla società, giudicare se il contratto stipulato dall’amministratore per conto della società che egli rappresenta comporti «una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale» «o una rilevante modificazione dei diritti dei soci»: ad esempio, nel caso esaminato dalla sentenza 1722/2020, si trattava di un’alienazione immobiliare concernente l’intero patrimonio della società e, dando credito alla sentenza, vorrebbe dire che il terzo contraente dovrebbe farsi carico di svolgere indagini sulla consistenza patrimoniale della società con la quale contrae, il che appare un onere francamente eccessivo.

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Antiriciclaggio, la Ue richiama l’Italia

7 Agosto 2020

Il Sole 24 Ore 3 luglio 2020 di Alessandro Galimberti

LOTTA AL DENARO SPORCO

La Commissione europea “stringe” sulle politiche antiriciclaggio, richiamando una serie di Paesi alla piena attuazione delle norme e avviando anche un pacchetto di procedure di infrazione.

Tra i destinatari delle comunicazioni c’è anche l’Italia, che ieri ha ricevuto un “parere motivato” – una sorta di avviso informale – per dare piena attuazione alla IV direttiva antiriciclaggio (anche se nel frattempo Roma ha già dato esecuzione pure alla V direttiva).

Insieme all’Italia, che ora avrà tre mesi per adeguarsi ai rilievi della Commissione ed evitare la messa in mora e poi l’eventuale procedura – ci sono anche Repubblica Ceca e Danimarca.

Lettere di costituzione in mora sono state invece recapitate al Lussemburgo, alla Slovacchia e alla Slovenia sempre per mancato o incompleto adeguamento alla IV direttiva antiriciclaggio, paesi che si avvicinano quindi al deferimento. Deferimento che invece da ieri è efficace per Austria, Belgio e Paesi Bassi, chiamati avanti la Corte di giustizia dell’Unione europea, con richiesta di sanzioni pecuniarie, per attuazione incompleta nel diritto nazionale sempre della 4ª direttiva antiriciclaggio.

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