Fattura da Londra anziché dalla Cina: il costo resta deducibile (se inerente)

13 Luglio 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 8 Giugno 2020 di Giorgio Emanuele Degani e Damiano Peruzza

ACCERTAMENTO

L’inesistenza soggettiva, se le operazioni sono reali, non pregiudica lo sgravio

Servono prove concrete di acquisto, consegna e pertinenza con il business

Per la Ctr Puglia 464/1/2020, depositata il 21 febbraio scorso (presidente Ancona, relatore Stragapede) il coinvolgimento, anche consapevole, del cessionario in operazioni soggettivamente inesistenti – in cui cioè le fatture sono emesse da un soggetto diverso dall’effettivo cedente – non esclude la deducibilità dei costi relativi a queste operazioni ai fini delle imposte sui redditi.

Con tale pronuncia, i giudici di appello hanno confermato la sentenza di primo grado, che ha annullato l’avviso di accertamento emesso dall’agenzia delle Entrate nei confronti di un contribuente e con il quale l’ufficio ha contestato maggiori imponibili in capo allo stesso per via della presunta falsità soggettiva delle fatture emesse da società clienti.

Fatture da Hong Kong e Cina

A seguito delle risultanze di una verifica fiscale, l’amministrazione finanziaria ha notificato un avviso di accertamento al contribuente con cui è stata contestata la falsità soggettiva di talune fatture emesse da cessionari stranieri nei suoi confronti.

In particolare, secondo l’ufficio, le fatture emesse da due società, una con sede a Hong Kong e l’altra in Gran Bretagna, sarebbero state riferibili ad altro soggetto con sede in Cina; ciò in quanto è stata riscontrata una sostanziale identità dei costi delle transazioni poste in essere. Dal che sarebbe conseguita l’interposizione fittizia di tali società tra il contribuente e il cedente cinese.

Secondo i giudici tributari, tanto di primo quanto di secondo grado, il contribuente non ha svolto alcuna attività illecita in quanto è stato provato in concreto che le operazioni commerciali contestate sono state effettive e reali.

Pertanto, mediante la produzione di copiosa documentazione (bollette doganali di importazione, distinte di pagamento, ordini, bolle di consegna merci, e così via), il contribuente ha dimostrato che i componenti negativi sottesi alle operazioni contestate sono stati regolarmente dedotti in quanto inerenti.

I requisiti della Cassazione

La pronuncia della Ctr Puglia appare coerente con l’orientamento giurisprudenziale di legittimità prevalente. In verità, nell’ipotesi in cui l’operazione si riferisca a soggetti diversi da quelli effettivi, la Corte di cassazione ritiene che:

  1. da un lato, va escluso il carattere fittizio degli elementi passivi laddove il destinatario della fattura abbia adempiuto al pagamento della prestazione, in quanto sussiste un effettivo esborso da parte del soggetto (tra le tante, si vedano le sentenze di Cassazione 27566/2018, 25249/2016 e 24426/2013);
  2. dall’altro, restano valide le regole generali in tema di deduzione dei componenti negativi del reddito, secondo cui la concreta deducibilità del costo è subordinata alla verifica dei requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi (da ultimo, le sentenze 10916/2020 e 32587/2019).

Ebbene, applicando questi principi, emerge come la difformità soggettiva della fattura non determina di per sé il venire meno dell’inerenza all’attività d’impresa dei costi, effettivamente sostenuti e documentati, sottesi all’operazione soggettivamente inesistente.

L’indeducibilità, dunque, può essere contestata solo alla luce delle regole generali individuate dalla normativa sui componenti negativi del reddito previste dal Testo unico per le imposte sui redditi, per come interpretate dalla giurisprudenza.

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Scambio di partecipazioni con la holding: non c’è abuso

13 Luglio 2020

Il Sole 24 Ore 9 Giugno 2020 di Francesco Paolo Fabbri

Non è abusiva l’operazione di scambio di partecipazioni tramite la quale la maggioranza assoluta del capitale di una Spa viene conferita in una holding di nuova costituzione. È quanto emerge dalla risposta all’interpello 170 del 9 giugno 2020. Nel caso esaminato dall’agenzia delle Entrate, alcuni soci di una Spa partecipata da una pluralità di persone fisiche, legate da vincoli di parentela di vario grado, decidono di conferire il 57,277% delle azioni della medesima società in una holding di famiglia appositamente costituita. A seguito di tale trasferimento delle azioni la holding deterrà quindi la stessa percentuale del capitale (57,277%), integrando il presupposto per l’applicazione del regime di “realizzo controllato” di cui all’articolo 177, comma 2, del Tuir. L’Agenzia conferma che l’operazione illustrata non dà luogo a un disegno abusivo ex articolo10-bis dello Statuto del contribuente, non realizzandosi alcun vantaggio fiscale indebito. Ciò in quanto sussistono tutti i presupposti normativi affinché le partecipazioni ricevute dai conferenti le azioni della Spa siano valutate (ai fini della determinazione del reddito dei medesimi conferenti) in base alla corrispondente quota delle voci di patrimonio netto formata dalla holding conferitaria per effetto del conferimento. Applicando tale criterio risulta del tutto legittimo che possa non emergere alcuna plusvalenza, in particolare qualora il valore di iscrizione delle partecipazioni conferite, al pari dell’incremento di patrimonio netto effettuato dalla società conferitaria, risulti pari all’ultimo valore fiscale – presso i soci conferenti – delle partecipazioni conferite. Tale regime di neutralità fiscale “indotta” dal comportamento contabile della società conferitaria è infatti un effetto implicitamente previsto dal legislatore, che in tal modo ha inteso agevolare le riorganizzazioni societarie. Questo, evidentemente, sia con riferimento alle operazioni di scambio che attuino un’aggregazione di imprese tra soggetti terzi, sia per quelle realizzate all’interno dello stesso gruppo per modificare gli assetti di “governance”, come nel caso di cui alla risposta a interpello n. 170/2020. Occorre segnalare un aspetto di interesse che emerge dal documento di prassi. In particolare, nella fattispecie in esame, nella quale i soggetti conferenti sono persone fisiche non imprenditori, l’Agenzia ha ritenuto di escludere tout court l’applicazione dell’articolo 177, comma 3, del Tuir, vista l’irrilevanza delle disposizioni di cui all’articolo 87 del Tuir.
L’articolo 177, comma 3, del Tuir, richiama infatti il comma 2 dell’articolo 175 del medesimo testo unico, che reca una norma di carattere antielusivo finalizzata ad evitare che lo scambio di partecipazioni possa essere “strumentalizzato” per trasformare partecipazioni plusvalenti estranee all’ambito applicativo della Pex (articolo 87 del Tuir) in quote partecipative idonee a fruire di tale regime di esenzione parziale.

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L’azienda chiusa per lockdown può non pagare l’affitto

13 Luglio 2020

Il Sole 24 Ore lunedì 15 Giugno 2020 di Antonino Porracciolo

IMMOBILI

Escluso l’inadempimento colpevole se si è stati colpiti dalle norme emergenziali

Il fermo dell’attività d’impresa dovuto alla decretazione d’urgenza emanata per evitare la diffusione del Covid-19 esclude l’inadempimento colpevole delle aziende che, a causa del blocco, non hanno potuto eseguire le prestazioni dovute. È quanto può leggersi in filigrana in due recenti decreti dei tribunali di Bologna (giudice Marco Gattuso) e di Rimini (giudice Silvia Rossi), rispettivamente del 12 e del 25 maggio.

Entrambe le controversie sono state promosse dalle conduttrici di immobili adibiti a uso commerciale per ottenere, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, una pronuncia d’urgenza che inibisse alle società locatrici di mettere all’incasso gli assegni detenuti a garanzia del pagamento dei canoni delle locazioni.

Le ricorrenti (difese dallo studio legale Angelini e Balzi) hanno puntato sul fatto che l’articolo 3, comma 6-bis, del decreto legge 6/2020 (convertito nella legge 13/2020) dispone che il rispetto delle misure di contenimento dirette a evitare il diffondersi del Covid-19 «è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del Codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti». Dunque, secondo le conduttrici, la norma esclude, per tutta la durata del lockdown, l’inadempimento nel pagamento dei canoni dovuti dalle imprese coinvolte nel blocco dell’attività. Blocco che si era verificato nelle vicende in esame, giacché un immobile era adibito a centro fitness ed estetica, mentre l’altro ospitava una struttura alberghiera.

Nell’accogliere provvisoriamente, con provvedimento pronunciato prima della convocazione delle parti (articolo 669-sexies, comma 2, del Codice di procedura civile), le richieste delle ricorrenti, i giudici danno atto che queste ultime avevano esposto di aver sospeso la propria attività a causa delle misure restrittive emanate per contrastare la diffusione del Covid-19; rilevano quindi che le stesse conduttrici avevano emesso assegni postdatati a garanzia dell’obbligazione di pagamento dei canoni.

In particolare, il giudice di Rimini afferma che sussiste il «fumus boni iuris» della pretesa della ricorrente (cioè la verosimile fondatezza del diritto) «alla luce delle disposizioni emergenziali e della situazione di fatto in cui si trova ora a operare l’attività di ricezione turistica». Inoltre, l’incasso degli assegni potrebbe provocare alle imprenditrici un pregiudizio irreparabile, giacché dal mancato pagamento dei titoli segue la segnalazione alla Centrale d’allarme interbancaria (Cai), e quindi la revoca di ogni autorizzazione a emettere assegni e il conseguente divieto per qualunque banca e ufficio postale di stipulare nuove convenzioni di assegno con il traente.

Così i tribunali hanno ordinato alle società locatrici di non mettere all’incasso gli assegni bancari detenuti a titolo di garanzia. In entrambi i procedimenti è stata quindi fissata l’udienza per la conferma, modifica o revoca del decreto (in base al comma 2 dell’articolo 669-sexies): al Tribunale di Rimini l’udienza si terrà da remoto, mentre a Bologna con il deposito di note scritte.

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Applicare i protocolli anti-Covid tutela il datore sui contagi

13 Luglio 2020

Il Sole 24 Ore 15 Giugno 2020 di Gabriele Taddia

I NODI DELLA RIPRESA SICUREZZA

L’articolo 29-bis inserito nel Dl Liquidità dà più peso al rispetto delle prescrizioni

L’obbligo di protezione dei lavoratori si assolve con le misure concordate

Con la conversione in legge del Dl 23/2020, il legislatore ha tentato di fornire una pur limitata risposta alle pressanti richieste delle imprese, di assicurare una qualche forma di tutela ai datori di lavoro rispetto al rischio di subire imputazioni penali o richieste risarcitorie da parte dei lavoratori a causa del contagio da Coronavirus, stante l’estrema difficoltà, soprattutto nella prima fase della diffusione del contagio, di fare riferimento a misure specifiche per i luoghi di lavoro e comunque nella grande difficoltà di stabilire se un lavoratore avesse subito il contagio effettivamente sul posto di lavoro, a causa di carenze organizzative dell’azienda, oppure altrove.

Ad alimentare le preoccupazioni datoriali aveva contribuito la disposizione dell’articolo 42 del Dl 18 del 17 marzo (il cura Italia): nei casi accertati (anche in base a presunzioni semplici) di infezioni da Coronavirus in occasione di lavoro, questi eventi sono da qualificare come infortuni sul lavoro.

La circolare Inail del 20 maggio aveva cercato di portare chiarezza sul punto, senza tuttavia fugare i legittimi timori di parte datoriale.

Con l’articolo 29-bis della legge di conversione del Dl 23/2020, pur non prevedendo una norma di salvaguardia penale di carattere generale, il legislatore ha affermato un principio importante in chiave di tutela del datore di lavoro: ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro adempiono all’obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori previsto dall’articolo 2087 del Codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso sottoscritto il 24 aprile 2020, e negli altri protocolli previsti all’articolo 1, comma 14, del Dl 33 del 16 maggio 2020, nonché tramite l’adozione e il mantenimento delle misure qui previste.

Se non trovano applicazione queste prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o negli accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali.

La previsione è importante perché l’articolo 2087 del Codice civile è una norma di chiusura del sistema prevenzionistico, in base alla quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, senza tuttavia specificare quali misure devono concretamente essere adottate. Questa norma è spesso utilizzata anche in campo penale per contestare l’eventuale carenza del sistema prevenzionistico adottato dal datore di lavoro.

Ora il legislatore, in relazione al rischio contagio Covid, per la prima volta statuisce che lo strumento attraverso il quale il datore di lavoro può dimostrare di aver adempiuto al proprio obbligo di tutelare i lavoratori, è rappresentato dall’adozione e dall’efficace mantenimento delle misure previste in primo luogo nel Protocollo Condiviso del 24 aprile, nonché nei protocolli di filiera (ad esempio edilizia, logistica, trasporti), nonché nei protocolli e nelle linee guida adottate dalle singole regioni o dalla Conferenza Stato-Regioni (o dalle Province autonome). Dunque, non si tratta una clausola di piena salvaguardia, ma di una disposizione sicuramente di grandissimo impatto anche sul piano della tutela penale poiché il datore di lavoro, in caso di contestazione, potrà contrapporre all’eventuale imputazione o richiesta risarcitoria la dimostrazione di aver adottato e applicato in modo rigoroso i protocolli previsti.

L’adozione dei protocolli è peraltro stata posta alla base della riapertura o della prosecuzione di alcune attività, da parte del Dpcm 26 aprile 2020, nel quale sono stati previsti come allegati il Protocollo di carattere generale del 24 aprile 2020 e le linee guida per cantieri, trasporti e logistica e trasporto pubblico. Mentre i protocolli per diverse attività che hanno ricevuto il via libera successivamente sono stati predisposti con indicazioni specifiche anche su base regionale (ristorazione, acconciatura–estetica, balneazione, strutture ricettive e molte altre). Infine, il Dl 33/2020 ha ribadito che il mancato rispetto dei contenuti dei protocolli determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

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Le «bugie» al notaio in sede di contratto integrano il reato di falso ideologico

13 Luglio 2020

Il Sole 24 Ore 22 Giugno 2020 di Angelo Busani

Contratti

Non si scherza con le dichiarazioni da rendere nel contesto di un contratto stipulato in uno studio notarile: infatti, integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico (punito con la reclusione fino a due anni dall’articolo 483 del Codice penale) la condotta del venditore (o del donante) di un contratto di compravendita o di donazione immobiliare, che dichiari falsamente al notaio rogante «la conformità dell’immobile oggetto di alienazione alle caratteristiche previste dalla concessione» rilasciata per la sua edificazione. Lo sancisce la Cassazione penale nella sentenza nr 16982 del 4 Giugno 2020, ribadendo un principio già in precedenza espresso nelle sentenze nr 11628/2011 e nr 5178/2017.

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L’azienda non può imporre il test sierologico al lavoratore

9 Giugno 2020

Il Sole 24 Ore 15 MAGGIO 2020 di Antonello Cherchi

VIRUS E RIPRESA PRIVACY

Il Garante: gli esami possono essere richiesti solo dal medico

L’azienda può conoscere solo la valutazione di idoneità alla mansione

Il datore di lavoro può offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in parte i costi, l’opportunità di effettuare i test sierologici, ma non può imporli. L’accertamento sanitario deve essere una scelta del dipendente oppure deve essere il medico a chiederlo. L’indicazione arriva dal Garante della privacy ed è particolarmente utile in un momento di riapertura delle attività produttive. Il chiarimento è stato fornito dall’Autorità sotto forma di Faq, delucidazione che si va ad aggiungere a quelle che il Garante aveva già dato qualche settimana fa (si veda Il Sole 24 Ore di lunedì 4 maggio).

Già in quell’occasione l’Authority aveva affrontato il problema del trattamento delle informazioni sanitarie dei dipendenti, sottolineando che non era consentita la registrazione del dato sulla temperatura corporea rilevata al lavoratore, ma solo del superamento della soglia prevista dalla normativa (37,5) che vieta l’ingresso al luogo di lavoro. Altro argomento affrontato era stato quello sulla possibilità, da parte del datore di lavoro, di comunicare al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza l’identità dei dipendenti contagiati dal virus. Un dato che, secondo il Garante, il rappresentante per la sicurezza non è tenuto a conoscere.

Il progressivo rientro al lavoro delle persone apre, però, continuamente nuovi scenari e origina nuovi interrogativi. Da qui il nuovo quesito sui test sierologici, rispetto al quale il Garante ha specificato che quel tipo di accertamento è possibile solo quando è disposto «dal medico competente e, in ogni caso, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie, anche in merito all’affidabilità e all’appropriatezza» dei test.

La richiesta non può, pertanto, partire dal datore di lavoro. «Solo il medico del lavoro infatti, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, può stabilire la necessità di particolari esami clinici e biologici. E sempre il medico competente – chiarisce il Garante – può suggerire l’adozione di mezzi diagnostici, quando li ritenga utili al fine del contenimento della diffusione del virus, nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie».

C’è, poi, un altro problema: una volta effettuato il test prescritto dal medico, il datore di lavoro può trattare le informazioni relative alla diagnosi o all’anamnesi familiare del dipendente? Anche in questo caso la risposta è negativa. Ciò che il datore di lavoro deve fare è gestire l’esito sul giudizio di idoneità del dipendente alla mansione svolta e alle eventuali prescrizioni o limitazioni che il medico competente può stabilire.

Fermo restando che «le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione della riammissione al lavoro del dipendente, devono essere posti in essere dal medico competente o da altro personale sanitario».

Detto questo, i lavoratori possono liberamente aderire alle campagne di screening avviate dalle autorità sanitarie a livello regionale relative ai test sierologici per verificare i contagi. E questo anche nel caso siano venuti a conoscenza della campagna di accertamento attraverso l’azienda, che può essere stata coinvolta dal dipartimento di prevenzione locale per promuovere gli screening tra i propri dipendenti.

Inoltre, i datori di lavoro possono offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in tutto o in parte i costi, l’effettuazione di test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private (per esempio attraverso la stipula o l’integrazione di polizze sanitarie o mediante apposite convenzioni con le strutture ). Anche in questo caso, però, vale la regola della libera scelta del lavoratore e si conferma l’impossibilità per l’azienda di conoscere l’esito dell’esame.

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La Ue mette all’angolo i sei paradisi fiscali europei

9 Giugno 2020

Il Sole 24 Ore 21 maggio 2020 di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi

Raccomandazioni. Il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni: «Non può esserci spazio per pianificazioni aggressive nell’Europa della solidarietà e dell’equità»

In Lussemburgo la quantità di società per numero di abitanti è da Guinness dei primati: una ogni 4,6 cittadini del Granducato. In Olanda ce n’è una ogni 7,4 abitanti e sono attive 55 società per ogni chilometro quadrato, spiagge e corsi d’acqua compresi. Per fare un paragone, in Italia sono solo 20 ogni mille metri quadrati e in Germania appena dieci.

Sembrano distorsioni senza conseguenze ma ogni anno – insieme a quelle che si verificano in Irlanda – provocano un danno di almeno 70 miliardi di euro alle entrate fiscali degli altri Paesi dell’Unione europea. «Alcuni elementi nei sistemi fiscali di alcuni Stati Ue sono ancora usati dalle aziende per fare pianificazioni aggressive. Non può esserci spazio per simili pratiche nell’Europa della solidarietà e dell’equità», ha rimarcato ieri il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, durante la presentazione delle raccomandazioni per i Paesi della Ue. Il riferimento è a sei Stati dell’Unione: Olanda, Lussemburgo, Irlanda, Malta, Cipro e Ungheria.

Nonostante già nel 2018 la Commissione Ue abbia messo sotto osservazione questi Paesi per la loro politica fiscale aggressiva, Bruxelles ha deciso di elevare il livello di allarme sulla concorrenza fiscale sleale all’interno della Ue. Del resto, anche nel recente accordo franco-tedesco sulla ripresa economica dopo l’epidemia da coronavirus l’obiettivo primario espressamente indicato è quello di «migliorare il quadro Ue per una fiscalità equa introducendo un’imposizione minima effettiva e una tassazione equa dell’economia digitale».

Nei rapporti sui singoli Paesi pubblicati ieri dalla Commissione europea, l’occhio cade sull’Olanda, che è al centro di polemiche politiche legate alla sua intransigenza sull’emissione di bond europei per la ripresa economica.

«Sebbene l’Olanda abbia preso provvedimenti per affrontare le pratiche di pianificazione fiscale aggressiva, l’elevato livello di dividendi, royalty e pagamenti di interessi effettuati attraverso il Paese suggerisce che le norme fiscali nazionali sono utilizzate dalle società che si impegnano nella pianificazione fiscale aggressiva», scrivono gli esperti della Commissione. Uno studio del 2019 del Bureau for economic policy analysis olandese mostra che tra il 2014 e il 2016 circa il 25% dei pagamenti dei dividendi e il 45% dei pagamenti di interessi dai Paesi Bassi ha avuto per destinazione giurisdizioni a bassa imposizione fiscale o veri e propri paradisi fiscali. Per i pagamenti di royalty questo rapporto ha raggiunto il 75% tra il 2008 e il 2010.

Per il Lussemburgo, la Commissione evidenzia che – secondo il Fondo monetario internazionale – è il primo Paese al mondo nel quale gli investimenti esteri diretti vengono effettuati attraverso “special purpose entities”, cioè società veicolo senza dipendenti né attività reali. Grazie alla sua politica fiscale, il Lussemburgo attrae investimenti per oltre il 5.766% del Pil, contro il 19% dell’Italia.

Anche l’Irlanda ha un campionario di elementi distorsivi della concorrenza all’interno della Ue. Tra tutti spicca, come scrive nel rapporto la Commissione europea, «l’elevata concentrazione delle imposte sulle società, con le prime dieci imprese che rappresentano il 45% del totale». Tra queste società ci sono tutte le più importanti web companies della Silicon Valley, come Apple, Google e Facebook. La Commissione sottolinea che è un rischio fare affidamento principalmente su queste 10 società per finanziare le spese correnti irlandesi.

Se Cipro è la patria dei passaporti venduti a ricchi investitori extracomunitari e Malta è invece il Paese dove c’è la possibilità di una «doppia non imposizione fiscale» su società e persone fisiche, l’Ungheria amplifica altri strumenti di distorsione. I grandi stock di capitale straniero – scrive la Commissione – insieme all’assenza di ritenuta alla fonte sui pagamenti di royalty, interessi e dividendi, «possono indicare rischi di una pianificazione fiscale aggressiva». Non solo. L’assenza di ritenute alla fonte sui redditi che escono dall’Ungheria e sono diretti verso i centri finanziari offshore, potrebbe fornire una via di fuga per profitti che lasciano l’Unione europea senza pagare la giusta quota di tasse.

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Confisca in Italia per la condanna da San Marino

9 Giugno 2020

Il Sole 24 Ore 05 MAGGIO 2020 di Antonio Iorio

AUTORICICLAGGIO

Ai fini del riconoscimento del delitto si fa riferimento alla data della sentenza

È legittima la confisca per equivalente in Italia, disposta dai giudici di San Marino a seguito di condanna per autoriciclaggio nei confronti di un imprenditore italiano.

Secondo la Cassazione (sentenza 13571 depositata ieri) la sentenza straniera infatti deve essere riconosciuta nel nostro Paese, anche se al momento della commissione dell’illecito all’estero la legislazione italiana non prevedeva il reato di autoriciclaggio. Ciò che rileva infatti è il riconoscimento del delitto al momento della sentenza.

La vicenda

Un imprenditore italiano era condannato nei vari gradi dall’autorità giudiziaria sammarinese per autoriciclaggio. In particolare aveva trasferito su conti in San Marino somme proventi da frodi fiscali e distrazioni da società fallite commesse in Italia. Nella banca sammarinese veniva rinvenuto anche un mandato fiduciario intestato all’imprenditore, ma le somme non erano reperite in quanto successivamente trasferite in Gran Bretagna.

In relazione a tale fiduciario mandato, l’imprenditore rispondeva di autoriciclaggio per il trasferimento delle predette somme dalla banca del Titano a quella inglese che, secondo i giudici sammarinesi, rappresentava il successivo impiego per «trasformare il danaro» ai fini della commissione dell’autoriciclaggio.

La sentenza prevedeva anche la confisca per equivalente di tali somme. La competente Corte di appello italiana, a richiesta delle autorità sammarinesi, disponeva il riconoscimento della sentenza definitiva al fine dell’esecuzione in Italia dell’ordine di confisca per equivalente nei confronti dell’imprenditore.

Il ricorso e la decisione

Avverso tale decisione l’interessato ricorreva per cassazione che lamentava, tra l’altro, la violazione della condizione della «doppia incriminabilità» prevista dall’articolo 733 del Cpp per il riconoscimento delle decisioni straniere. Nella specie, al momento della commissione dell’illecito (2013) l’autoriciclaggio non costituiva reato in Italia.

La Cassazione ha rigettato sul punto il ricorso rilevando che nelle procedure di cooperazione giudiziaria il principio di legalità deve essere rispettato dallo Stato richiedente (San Marino), per lo Stato ricevente è sufficiente che il fatto posto a base della richiesta costituisca reato nel proprio ordinamento al momento della decisione.

La difesa invocava, poi, l’applicazione del quarto comma dell’articolo 648 ter1 del Codice penale in base al quale, ai fini dell’autoriciclaggio, non sono punibili le condotte per cui il denaro è destinato al mero godimento personale.

Anche sotto questo profilo la Cassazione ha rigettato il ricorso rilevando che secondo le autorità sammarinesi, con le somme in questione, in realtà erano state compiute operazioni per ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

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Dal 1° luglio negli studi doppia spinta all’uso del Pos

9 Giugno 2020

Il Sole 24 Ore lunedì  18 MAGGIO 2020  di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

Pagamenti digitali. Spetterà un credito d’imposta del 30% sulle commissioni bancarie Contante utilizzabile solo sotto i 2mila euro

Dal 1° luglio negli studi doppia spinta all’uso del Pos

Per i professionisti impegnati nel processo di dematerializzazione dei propri studi si avvicina un’altra tappa. Dal 1° luglio prossimo, infatti, potranno beneficiare di un credito di imposta pari al 30% delle commissioni addebitate sui pagamenti ricevuti da consumatori finali con carte di credito, di debito e prepagate.

Con la stessa decorrenza viene anche ridotta a 1.999,99 euro la soglia per l’utilizzo del contante, in previsione dell’ulteriore abbattimento, dal 1° gennaio 2022, sino ai 999,999 euro.

Questi due elementi, di per sé, dovrebbero costituire o quantomeno rappresentare uno stimolo a completare quel processo di gestione sempre più automatizzato, integrato e dematerializzato dell’attività professionale, che riguarda anche la parte dei pagamenti elettronici: il tutto a prescindere dal fatto che non è prevista alcuna sanzione se non si garantisce al cliente la possibilità di pagare con strumenti tracciabili.

Il credito d’imposta

Installare un Pos e ricevere pagamenti elettronici tramite carte di debito o di credito o prepagate comporta il pagamento di commissioni agli intermediari. Per favorire l’utilizzo di mezzi alternativi al contante, diminuendo il relativo onere in capo a esercenti e professionisti, l’articolo 22 del decreto legge 124 del 2019 ha previsto il riconoscimento di un credito di imposta nella misura del 30% delle commissioni addebitate per le transazioni effettuate con carte di debito, di credito, prepagate o mediante altri strumenti di pagamento elettronici tracciabili.

Il credito spetta dal 1° luglio prossimo per le commissioni dovute in relazione a cessioni di beni e prestazioni di servizi rese unicamente nei confronti di consumatori finali, mentre l’obbligo di ricevere pagamenti elettronici – stabilito dall’articolo 15, comma 4, del decreto legge 179 del 2012 (cosiddetto decreto Sviluppo-bis) – non contiene una analoga esclusione relativamente ai soggetti passivi di imposta.

Ulteriore condizione per avvalersi del credito risiede nel limite dei ricavi o compensi relativi all’anno d’imposta precedente, i quali non devono essere stati di ammontare superiore a 400mila euro. Attenzione perché la stessa soglia si applica anche agli studi professionali e non solo ai professionisti che esercitano l’attività singolarmente.

Come calcolare il credito

Per determinare la misura di credito spettante, esercenti e professionisti riceveranno, con cadenza mensile e in via telematica, l’elenco delle transazioni effettuate e le informazioni relative alle commissioni addebitate da parte dei prestatori di servizi di pagamento, tenuti anche a comunicare all’Agenzia delle entrate le informazioni necessarie per controllare la spettanza del credito in capo ai beneficiari (si veda anche l’ articolo a fianco).

Più in dettaglio, secondo le modalità e i criteri stabiliti da Banca d’Italia con provvedimento del 21 aprile 2020 – pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» 111 del 30 aprile – i professionisti che abbiano stipulato un apposito contratto di convenzionamento per l’accettazione e il trattamento delle operazioni di pagamento con carta di debito, credito o altri strumenti tracciabili, si vedranno recapitare nella propria casella di Pec oppure pubblicare nell’online banking, tutta una serie di dati funzionali alla determinazione del credito spettante.

Le comunicazioni saranno trasmesse dagli intermediari entro il 20° giorno del mese successivo al periodo di riferimento e cioè a quello in cui sono stati ricevuti pagamenti tracciabili. Verrà ricevuto l’elenco delle operazioni di pagamento del periodo di riferimento, il loro numero e valore totale, con separata indicazione di quelle effettuate da consumatori finali, e un prospetto riepilogativo delle commissioni addebitate.

Secondo il provvedimento dell’Agenzia delle entrate 181301/2020 i professionisti, quando abbiano utilizzato il credito di imposta, dovranno conservare la relativa documentazione per un periodo di dieci anni decorrenti dall’anno in cui il credito è stato utilizzato.

Come utilizzare il credito

Il credito di imposta maturato è utilizzabile esclusivamente in compensazione, esponendolo nei modelli di pagamento F24, a decorrere dal mese successivo a quello in cui la spesa è stata sostenuta. Il credito deve inoltre essere indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta di maturazione e in quelli successivi sino a quello in cui se ne conclude l’utilizzo.

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Olanda, il jolly dei trattati contro le doppie imposizioni

9 Giugno 2020

Il Sole 24 Ore 05 MAGGIO 2020 di Antonio Merola

FISCO INTERNAZIONALE

Il sistema è compatibile con la giurisprudenza della Corte del Lussemburgo

Nei giorni in cui si discute se l’Olanda si configuri o meno come un “paradiso fiscale”, è utile domandarsi in che misura ciò sia consentito dalla normativa europea e se in tutto questo l’Italia abbia qualcosa da imparare. L’Olanda ha storicamente sviluppato un sistema economico fondato, più che sullo sfruttamento delle risorse naturali, sulla “intermediazione” nei traffici commerciali internazionali, con una legislazione fiscale di favore idonea proprio ad attrarre investimenti stranieri. Questa strategia è stata portata avanti anche attraverso la sottoscrizione di un ampio network di convenzioni contro le doppie imposizioni con Stati esteri, con lo scopo di eleggere l’Olanda a Paese intermedio per investire in Europa, specialmente da parte di multinazionali americane. Il potere di negoziare a proprio piacimento i Trattati con i singoli Paesi esteri si è rivelato un vero vantaggio competitivo per i Paesi Bassi. La situazione è anche migliorata con la Brexit, grazie alla quale il sistema olandese prevede di ospitare un gran numero di multinazionali britanniche nel proprio territorio. L’attrattiva dell’Olanda è ben sostenuta anche da uno sviluppo tecnologico avanzato e da un sistema finanziario consolidato. Il ruolo di “intermediario” dell’Olanda è ben tollerato dal sistema normativo Ue, grazie alla libertà di stabilimento delle società e della libera circolazione dei capitali, espressione del più generale principio di “non discriminazione”.

Cosa accade, invece, se i Trattati fiscali sottoscritti dall’Olanda prevedono benefici differenti a seconda del Paese di provenienza dell’investitore? Ebbene, non si tratterebbe di “discriminazione”, come più volte sostenuto dalla Corte di giustizia Ue (si veda D. case e Act Group Litigation case), perché ciò deriverebbe dal libero “esercizio” della potestà impositiva di uno Stato Ue.

Allo stesso modo, la Commissione Ue ritiene che il diverso trattamento fiscale, da parte di un Paese Ue, di un investitore estero in ragione della sua giurisdizione di provenienza, non falsi la “concorrenza” del Mercato unico (quindi nessun “aiuto di stato” illegittimo) qualora sia giustificato dall’applicazione di un trattato fiscale, anche quando i redditi a lui distribuiti non verranno tassati in nessun Paese (si veda Commissione sul caso Mc Donald’s – Lussemburgo). A dare ulteriore forza propulsiva al sistema olandese è stata la scelta adottata dall’Ue, con il Trattato di Lisbona, per favorire gli incentivi fiscali statali su ricerca e sviluppo (patent box), escludendoli dal novero degli “aiuti di stato” illegittimi, perché ritenuti fondamentali per aumentare la produttività e stimolare la crescita economica del Mercato unico.

Alla luce di questo scenario l’Italia dovrebbe chiedere all’Ue di introdurre un principio di “equità sostanziale” contro le “distorsioni” della concorrenza (riconducibili all’utilizzo dei trattati fiscali) attualmente “legalizzate”. D’altra parte, il nostro Paese dovrebbe accelerare su ricerca e sviluppo tecnologico perché in un’economia marcatamente digitale laddove, a livello internazionale, la creazione del valore tende a passare dalla “forza lavoro” alla “proprietà intellettuale”, i redditi non appartengono più ai singoli Stati e una “fiscalità liquida” tenta disperatamente di tassarli.

Doing business in San Marino

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