La rivalutazione di quote e terreni con sostitutiva all’11%

10 Dicembre 2019

Il Sole 24 Ore 6 NOVEMBRE 2019 di Gian Paolo Tosoni

Procedura più cara

La rivalutazione di quote e terreni con sostitutiva all’11%

Verrà riaperto il termine per la rideterminazione del valore delle partecipazioni societarie e dei terreni agricoli ed edificabili con effetti in materia di redditi diversi; lo prevede il disegno di legge di Bilancio 2020. Ma le sorprese non mancano mai: infatti l’imposta sostitutiva è fissata sempre nella misura dell’11% anche per le partecipazioni non qualificate e per i terreni agricoli ed edificabili, per i quali beni lo scorso anno, era del 10 per cento.

Il nuovo termine per redigere la perizia e procedere all’asseverazione è stabilito al 30 giugno 2020 con riferimento al possesso e ai valori correnti al 1° gennaio 2020.

Si ricorda che per le partecipazioni societarie (escluse quelle delle società quotate), la procedura della rivalutazione può essere eseguita anche dopo la cessione purché questa avvenga dopo il 1° gennaio 2020. Infatti nei trasferimenti di quote o di azioni non è necessario darne conto nell’atto di trasferimento. Al contrario per i terreni agricoli o edificabili le imposte sui trasferimenti e le imposte dirette sono dovute sul valore minimo risultante dalla perizia e quindi deve essere noto al momento del rogito di vendita. L’agenzia delle Entrate ha ribadito che nell’atto di trasferimento occorre riportare i dati della perizia.

La previsione di una sola misura di imposta sostitutiva all’11%toglie sostanzialmente la sola ragione di mantenere nell’articolo 67 del Tuir la distinzione fra partecipazioni qualificate e non qualificate, tenuto conto che per entrambe fin dal 2019 è a regime la tassazione della plusvalenza con l’aliquota di imposta sostitutiva del 26 per cento. Sotto il profilo dell’opportunità della rivalutazione delle quote occorre confrontare l’11% del valore complessivo lordo con il 26% della plusvalenza. Ne consegue che l’interesse alla rivalutazione generalmente sussiste in presenza di plusvalenze molto elevate in confronto al valore complessivo della partecipazione.

Per le aree edificabili, occorre ricordare che per la cessione di un terreno suscettibile di utilizzazione edificatoria (articolo 67, lettera b, del Tuir) è possibile determinare l’Irpef con la tassazione separata e che, in casi di redditività modesta, può fermarsi al 23% sulla plusvalenza; quindi il’11% sul valore lordo del terreno può essere superiore alla tassazione in dichiarazione.

Invece per i terreni compresi in un piano di lottizzazione, quindi in presenza di convenzione urbanistica sottoscritta, non è prevista la tassazione separata; tuttavia in questa ipotesi, qualora i terreni siano pervenuti a titolo gratuito si assume il valore che il terreno aveva alla data di inizio della lottizzazione e cioè alla firma della convenzione (articolo 68 del Tuir); quindi può essere un dato recente che non necessita di aggiornamento tramite perizia.

Si ricorda che questa procedura di rivalutazione è riservata a persone fisiche, società semplici ed enti non commerciali i quali in caso di cessione di partecipazioni o terreni edificabili oppure acquistati da meno di cinque anni realizzerebbero dei redditi diversi; la rivalutazione delle quote e terreni incide infatti soltanto in tale ambito e non anche relativamente ai redditi di capitale o di impresa.

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Il legame commerciale non prova la colpa

10 Dicembre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 25 NOVEMBRE 2019 di Marcello Maria De Vito

IVA

L’ufficio può bloccare la detraibilità solo se dimostra il dolo del titolare

L’ufficio può negare la detraibilità dell’Iva per operazioni soggettivamente inesistenti solo se prova che il contribuente sapeva o poteva sapere della frode. La prova del dolo o della colpa del soggetto che chiede la detrazione, non può essere sostituita con l’assunzione di una responsabilità oggettiva derivante dalla relazione commerciale, salvo che la modalità di tale relazione provino la malafede dei contraenti. Inoltre, il principio dell’autonomia tra processo tributario e penale, non osta al fatto che il giudice tributario possa valutare e fondare il proprio convincimento anche sugli aspetti vagliati dal giudice penale. Sono questi i principi affermati dalla Ctr Campania 4245/14/2019 (presidente Cortese, relatore Mancuso).

L’agenzia delle Entrate contestava a una società l’acquisto di merci soggettivamente inesistenti poichè vari elementi dimostravano che la società fosse a conoscenza della frode o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. La società impugnava l’atto davanti la Ctp, sottolineando l’assenza della prova in merito alla conoscenza o conoscibilità della frode. La Ctp accoglieva il ricorso ritenendo che gli elementi raccolti non consentissero il diniego di detrazione.

L’Agenzia appellava la sentenza, deducendo la conoscenza o conoscibilità della frode per i seguenti elementi:

la società aveva commissionato delle indagini dalle quali risultava che il fornitore era privo di risorse finanziarie;

aveva stipulato un’assicurazione a copertura del rischio di mancata consegna delle merci.

L’amministrazione, inoltre, criticava che la Ctp avesse accolto il ricorso sulla scorta dei provvedimenti assunti dal giudice penale, violando, in tal modo, il principio di autonomia tra i due processi.

La Ctr osserva che è possibile negare la detraibilità dell’Iva per operazioni soggettivamente inesistenti se è dimostrato, anche in via presuntiva, che il contribuente sapeva o poteva sapere della frode. La prova del dolo o della colpa, però, non può essere sostituita con l’assunzione di una responsabilità oggettiva derivante dalla relazione commerciale, salvo che le modalità di tale relazione non provino la malafede dei contraenti. Nel caso di specie la società ha dimostrato:

la consegna della merce e il pagamento del prezzo;

l’esistenza di acquisti con vari fornitori;

lo scarto percentuale modesto tra i prezzi delle merci contestate e quelli praticati da altri fornitori.

Tali elementi, conclude la Ctr, non fanno emergere la consapevolezza della società di partecipare alla frode. Sull’autonomia tra processo tributario e quello penale, invece, la Ctr precisa che il principio della separazione tra i processi, non consente affatto di negare al giudice tributario la possibilità di valutare e fondare il proprio convincimento anche sugli aspetti vagliati dal giudice penale. Pertanto, conclude la Ctr, l’appello va rigettato.

In linea con quanto affermato dai giudici, è consolidato il principio secondo il quale il giudice tributario può esaminare il contenuto delle prove acquisite nel procedimento e nel processo penale, ricostruendo il fatto in virtù delle stesse circostanze già oggetto di esame da parte del giudice penale, purché venga posto in essere un distinto procedimento valutativo degli elementi probatori secondo le regole vigenti in campo tributario (Cassazione 6918/2013).

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Social «aperti»: insulto a rischio di licenziamento

10 Dicembre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 25 NOVEMBRE 2019 di Giampiero Falasca

CONTENZIOSO

Social «aperti»: insulto a rischio di licenziamento

Il rilievo disciplinare aumenta se il profilo è accessibile a tutti

Sono contestabili dal datore i messaggi sconvenienti anche estranei al lavoro

L’uso disinvolto dei social media e dei sistemi di messaggistica digitale (WhatsApp, Telegram e simili) può portare in alcuni casi fino al licenziamento. I lavoratori troppo spesso dimenticano questo concetto. Tutto quello che viene scritto sui social, però, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato in sede disciplinare, se ha contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi, soprattutto quando questi contenuti sono indirizzati a una massa indistinta di persone.

Una frase razzista o sessista che genera un danno d’immagine all’azienda, un insulto pesante a un collega, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati: sono tutti esempi di come, con poche righe mal scritte sui social media(che si tratti di Twitter, LinkedIn, Facebook o affini), un dipendente può mettere a rischio il proprio posto di lavoro.

Rischio che non sempre si concretizza, perché la giurisprudenza sul tema ha un approccio ancora molto variabile: non mancano (e anzi sono la maggioranza) le decisioni che riconoscono la possibilità di licenziare per giusta causa chi pubblica frasi offensive verso l’azienda o i colleghi sui social, ma questa linea rigorosa è bilanciata da altre pronunce che fanno invece prevalere il diritto di critica, anche aspro, rispetto all’eventuale superamento dei limiti del decoro.

Un’altra distinzione emersa nella giurisprudenza più recente (si veda la sentenza del Tribunale di Firenze del 16 ottobre 2019, commentata sul Sole 24 Ore del 19 novembre) riguarda la platea che riceve eventuali messaggi offensivi: secondo questo orientamento, la rilevanza disciplinare dei messaggi cambia quando sono pubblicati su profili social aperti a tutti, o sono pubblicati su account o all’interno di chat telefoniche il cui accesso è filtrato e riservato.

Nel primo caso, l’eventuale contenuto offensivo del messaggio rileva sul piano disciplinare e, quindi, può essere contestato al lavoratore e utilizzato come motivo di licenziamento (qualora sussistano, ovviamente, gli elementi di gravità richiesti dalla legge). Nel secondo caso, la giurisprudenza equipara i messaggi inviati alla chat chiusa o pubblicati sul profilo ad accesso limitato alle forme di corrispondenza privata che, come tali, sono oggetto di tutela costituzionale e non possono essere usate per licenziare o sanzionare un dipendente.

Il tema delle comunicazioni sui social media interessa anche le relazioni industriali, con la diffusione delle “bacheche” digitali. Rispetto ai contenuti pubblicati su questi strumenti, i giudici tendono a distinguere tra l’esercizio del diritto di critica – assolutamente lecito e, anzi, oggetto di una tutela rinforzata per consentire l’espletamento del mandato sindacale – e la diffusione di informazioni e notizie false o di contenuto diffamatorio: in questa ipotesi, non basta la carica sindacale a salvare il lavoratore dal licenziamento (si veda la sentenza della Cassazione 10897/2018 e Il Sole 24 Ore del 2 settembre 2019).

In queste situazioni la giurisprudenza tende a bilanciare il diritto alla privacy, sancito dagli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori e dalle regole del Gdpr, con la necessità di consentire i controlli dei datori di lavoro sui profili social dei dipendenti, in presenza di determinate condizioni (una grossa apertura in questa direzione è venuta dalla sentenza della Cassazione 10955 del 27 maggio 2015, che ha ritenuto legittimo il controllo svolto sui social media dal datore verso un dipendente tramite un falso profilo).

La questione diventa più complessa quando i messaggi pubblicati sui social media, pur essendo particolarmente sconvenienti (testi razzisti, incitamento alla violenza o alla droga, e così via), non c’entrano nulla con il lavoro. La possibilità per il datore di lavoro di contestare sul piano disciplinare questi comportamenti non è scontata, e mancano ancora orientamenti consolidati sul tema.

È probabile, tuttavia, che la giurisprudenza tenderà ad applicare lo stesso ragionamento già applicato alle condotte che non rilevano direttamente sul rapporto di lavoro ma che possono minare il rapporto fiduciario con il lavoratore. Usando questo metro, il datore potrà contestare e sanzionare la pubblicazione di un post “sconveniente” solo se potrà dimostrare che questa condotta ha leso il rapporto fiduciario e ha provocato un danno all’organizzazione aziendale.

 

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Valida la cessione di quote della Srl ancora non iscritta nel registro

10 Dicembre 2019

Il Sole 24 Ore 13 NOVEMBRE 2019 di Antonino Porracciolo

DIRITTO DELL’ECONOMIA

Ininfluente lo scarto temporale tra costituzione e registrazione

Il Codice civile, per le società di capitali, vieta solo l’emissione di azioni

È valida ed efficace la cessione delle quote di partecipazione a una società di capitali già costituita ma non ancora iscritta nel registro delle imprese. Lo afferma il Tribunale di Palermo (presidente Ajello, relatore Turco) in una sentenza dello scorso 24 luglio.

Il caso

Con scrittura privata dell’aprile 2008 la convenuta cedeva al ricorrente una parte della propria partecipazione a una Srl costituita lo stesso giorno.

Poiché la cedente si rifiutava di presentarsi davanti a un notaio per trasferire l’accordo in un atto pubblico (o, almeno, per far autenticare le firme della scrittura), il cessionario aveva citato in giudizio la cedente per ottenere una pronuncia che lo dichiarasse titolare delle quote in discussione.

Dal canto suo, la convenuta eccepiva che non le era stato pagato il prezzo della cessione, e comunque che l’accordo era nullo perché alla data della scrittura privata la Srl non era ancora iscritta nel registro delle imprese .

La soluzione

Nell’accogliere la domanda, il tribunale osserva, innanzitutto, che l’atto pubblico di costituzione della Srl e il contratto di cessione delle quote erano stati sottoscritti lo stesso giorno, mentre l’iscrizione nel registro delle imprese era intervenuta successivamente; e tuttavia, si tratta di «discrasia temporale» – si legge nella sentenza – che non determina l’invalidità dell’accordo precedentemente raggiunto dalle parti in lite.

Infatti, l’articolo 2331 del Codice civile, che detta una disciplina per le Spa e quindi anche per le Srl (in base al rinvio contenuto nell’articolo 2463 dello stesso Codice), si limita a vietare l’emissione di azioni prima dell’iscrizione della società nel registro delle imprese, ma non impedisce «la cessione di quote/azioni». Anche se in questo caso – prosegue il tribunale di Palermo richiamando la sentenza 12712/2012 della Corte di cassazione – si ha più precisamente un trasferimento «della posizione contrattuale collegata al contratto sociale».

La ratifica

In definitiva, in epoca anteriore all’iscrizione nel registro delle imprese la società «esiste ma non ha capacità di agire», com’è dimostrato dal fatto che l’articolo 2331 del Codice civile dispone che per le operazioni compiute in nome della stessa società prima della stessa iscrizione sono responsabili («illimitatamente e solidalmente») coloro che hanno agito, il socio unico fondatore e i soci che «hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento dell’operazione». Ferma restando, comunque, la possibilità che la società deliberi di ratificare gli atti compiuti dopo la sua costituzione ma prima dell’iscrizione.

Né, d’altra parte, era rilevante la questione relativa al pagamento del prezzo pattuito per la cessione delle quote, giacché «la validità di un contratto prescinde dall’effettivo adempimento degli obblighi assunti dalle parti».

Così il tribunale, affermata l’autenticità della scrittura privata, ha dichiarato che l’attore è titolare delle quote della Srl che gli erano state cedute dalla convenuta.

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Curriculum falso, licenziamento anche senza danno

10 Dicembre 2019

Il Sole 24 Ore 15 NOVEMBRE 2019 di Giampiero Falasca

LAVORO

Violati i doveri di buona fede e correttezza durante la selezione

Il lavoratore che ha superato una selezione vantando titoli inesistenti non può chiedere il risarcimento del danno qualora l’azienda receda dal contratto a termine, nemmeno nel caso in cui tale recesso sia invalido.

Il tribunale di Trapani (sentenza 522 del 2 ottobre 2019) ha rigettato con questa argomentazione la richiesta di un dipendente che ha partecipato, di sua iniziativa, alla selezione avviata da un’agenzia per il lavoro che stava cercando un direttore generale per un cliente.

La selezione richiedeva alcuni requisiti specifici: una laurea in alcune materie (ingegneria, economia e commercio, economia e management aeronautico, giurisprudenza), la conoscenza della lingua inglese e un’esperienza nel settore di almeno cinque anni. Dopo pochi mesi l’azienda ha scoperto che il candidato selezionato, e assunto con contratto a termine di tre anni, aveva mentito sul titolo di studio (era laureato in lingue, materia non contemplata dal bando) e ha deciso di revocare la delibera con cui era stato conferito l’incarico.

Contro tale revoca il lavoratore ha proposto ricorso al tribunale, chiedendo la riqualificazione della delibera come licenziamento illegittimo e, di conseguenza, con il pagamento di tutti gli stipendi che avrebbe maturato sino al termine del rapporto.

Il tribunale ha riqualificato la delibera (che, secondo il giudice, deve essere considerata come un vero e proprio atto di licenziamento) ma ha comunque respinto le domande risarcitorie. Ciò in quanto, in un rapporto a termine, l’invalidità del recesso non produce in modo “automatico” la condanna al risarcimento del danno: si deve verificare se, effettivamente, nella sfera del lavoratore si sia determinato un danno emergente o un lucro cessante. Tale conseguenza non è stata riconosciuta in capo al ricorrente perché non aveva un titolo di studio coerente con quelli previsti dal bando di selezione, ed è risultato pacifico che fosse a conoscenza della necessità di tale requisito.

Questi elementi consentono di escludere la sussistenza o meno di un pregiudizio ingiusto nella sfera del ricorrente causato dal licenziamento illegittimo intimato dalla società datrice di lavoro. È evidente, osserva il giudice, che l’intero pregiudizio patito dal lavoratore deriva dal fatto che questi avesse scientemente partecipato, senza averne i requisiti, a una procedura selettiva rivolta ad altri soggetti.

Il ricorrente, cioè, sin dall’inizio sapeva di non avere i titoli necessari per partecipare alla selezione, quindi non può avanzare alcuna pretesa risarcitoria, in quanto l’intero danno è scaturito da una sua condotta che rappresenta comunque una violazione del dovere di correttezza e buona fede durante le trattative.

Questa pronuncia è molto interessante in quanto il principio che viene affermato può trovare applicazione – con i necessari adattamenti – nell’ambito di qualsiasi rapporto di lavoro (non solo a termine, ma anche a tempo indeterminato): l’esibizione di un curriculum basato su titoli inesistenti costituisce una violazione dei doveri di correttezza e buona fede. Violazione che può legittimare la scelta di interrompere il rapporto, una volta scoperto l’inganno, senza costi per il datore di lavoro.

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Con la stretta sulle false fatture rischiano contribuenti ignari

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore 25 OTTOBRE 2019 di Antonio Iorio

LE NUOVE REGOLE

Spesso in casi di documenti soggettivamente inesistenti l’utente finale non sa del reato

L’aumento della reclusione per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture rischia di penalizzare in modo esagerato, e verosimilmente immotivato, i numerosi imprenditori che, spesso senza esserne consapevoli, vengono coinvolti in casi di fatturazioni soggettivamente inesistenti.

Secondo la normativa penale (articolo 1 del decreto legislativo 74/2000) il delitto citato, e quello simmetrico di emissione di falsi documenti, scatta in tre ipotesi: fatture oggettivamente inesistenti riferita ad operazioni del tutto fittizie; sovrafatturazione riferita ad operazioni in parte prive di riscontro nella realtà; fatture soggettivamente inesistenti riferite ad operazioni in cui l’emittente o il beneficiario dell’operazione risultante dal documento non è quello reale.

Mentre nei primi due casi sono attestati cessioni o prestazioni mai avvenute, o poste in essere solo parzialmente, implicando l’ovvia consapevolezza dell’illecito da parte del contribuente che contabilizza le fatture, nel terzo caso spesso l’utilizzatore è ignaro dell’illecito. Quest’ultima contestazione, normalmente rilevata in occasione di controlli fiscali, scatta in genere quando il cedente o il prestatore non ha struttura idonea per effettuare l’operazione o quando a seguito di alcune operazioni scompare e non adempie a obblighi fiscali come dichiarazione o versamento.

L’acquirente, non potendo conoscere la correttezza fiscale del suo fornitore, è spesso ignaro delle sue violazioni. Il fisco, però gli contesta l’indebita detrazione dell’Iva.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale per simili contestazioni l’amministrazione ha l’onere iniziale di provare, anche in via presuntiva, l’interposizione fittizia del cedente ovvero la frode fiscale commessa a monte da altri soggetti. Compete poi all’acquirente provare la propria buona fede. In caso contrario l’Iva è indetraibile.

In genere la buona fede non viene valutata dall’amministrazione che presume la responsabilità dell’acquirente. Il Pvc e l’avviso di accertamento sono così inviati in Procura perché la condotta ipotizzata integra anche il reato di dichiarazione fraudolenta.

Il contribuente, così, viene sottoposto ad un procedimento penale senza comprenderne le ragioni: ha contabilizzato la fattura, ha ricevuto i beni o i servizi, ha pagato regolarmente il documento, con l’unica “irregolarità” (peraltro non prevista da norme di legge ma dalla giurisprudenza) che avrebbe dovuto accorgersi della sospetta posizione del fornitore.

Con le nuove norme in questi casi rischierà addirittura la reclusione da 4 a 8 anni. Sarà sufficiente infatti ricevere fatture per imponibili superiori a 100mila euro (che in concreto equivalgono ad una detrazione Iva di poco più di 22mila euro) per non beneficiare della nuova attenuante (reclusione da 18 mesi a 6 anni).

A ciò va aggiunto che normalmente, almeno la GdF, per questi reati, chiede quasi automaticamente il sequestro dei beni. È evidente che si rischia di addossare un onere esagerato ad imprenditori (medio/piccoli) e artigiani. A nulla rilevando che l’iter processuale porterà verosimilmente a un’assoluzione in quanto sono comunque affrontati rischi e spese considerevoli. È auspicabile, allora, che termini l’automatismo dei verificatori di trasmettere sempre la notizia di reato in Procura in presenza di mere presunzioni tributarie o che comunque ne venga data ampia evidenza. Da parte di Pm e Gip, si spera che, una volta rilevata la base presuntiva della contestazione, non vi siano remore a chiedere l’archiviazione. Il rischio, altrimenti, è di colpire gli imprenditori poco avveduti e non i veri evasori.

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Super Procura Ue contro frodi Iva e truffe comunitarie

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 21 OTTOBRE 2019 di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei

Il nuovo ente diventerà operativo entro la fine del 2020 e avrà sede a Lussemburgoma a svolgere le indagini in concreto saranno i Pm delegati nei territori nazionali

Il sistema europeo della giustizia penale

Arriva la super Procura europea che indagherà sui reati che danneggiano gli interessi finanziari dell’Unione: dalle frodi Iva alle truffe sui contributi Ue.

La legge di delegazione europea 2018 (pubblicata in Gazzetta ufficiale venerdì scorso e in vigore dal 2 novembre) dà al Governo nove mesi di tempo per adeguare le norme nazionali. L’obiettivo è arrivare pronti all’appuntamento del 21 novembre 2020, data a partire dalla quale la Procura europea potrà cominciare a operare.

Ma è tutta la giustizia penale a diventare sempre più europea. In base alla legge di delegazione 2018, il Governo dovrà anche rendere più stringente il mandato d’arresto europeo e adeguare le regole nazionali sul sequestro dei conti bancari per facilitare il recupero transfrontaliero dei crediti.

E cresce anche l’utilizzo degli strumenti esistenti: dagli interventi di “facilitazione” della cooperazione tra autorità giudiziarie fatti dall’agenzia Eurojust (dal 2015 al 2018 i casi seguiti sono saliti del 34%) ai mandati d’arresto europei (+8% di provvedimenti emessi dal 2015 al 2017), fino agli ordini europei di indagine penale, che hanno debuttato due anni fa.

La Procura europea

La nuova super Procura – prevista dal regolamento Ue 2017/1939 – è stata pensata per migliorare il contrasto alle frodi contro la Ue e ai reati connessi, come corruzione e riciclaggio, anche in collegamento con l’agenzia Europol. Ma la Commissione europea ha proposto di allargare l’ambito d’azione anche ai reati di terrorismo.

La Procura Ue è strutturata in un ufficio centrale, che ha sede a Lussemburgo ed è guidato dal Procuratore capo, in carica per sette anni: è stata nominata Laura Codru?a Kövesi, già a capo della direzione nazionale Anticorruzione rumena. A seguire le indagini saranno i «procuratori europei delegati», vale a dire Pm operativi nelle procure nazionali che però dipenderanno dalla Procura del Lussemburgo. «È un cambio di prospettiva rivoluzionario per l’organizzazione giudiziaria italiana», rileva Francesco Lo Voi, procuratore capo a Palermo ed ex membro di Eurojust. «Sono necessarie modifiche ordinamentali rilevanti. Ritengo inoltre che non potrà essere una riforma a costo zero perché i Pm europei avranno bisogno di personale e di risorse e dovranno avvalersi della polizia giudiziaria».

Sequestro dei beni e mandato d’arresto

Per facilitare il recupero dei crediti civili e commerciali transfrontalieri, il regolamento Ce 655/2014 ha introdotto una procedura (l’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari) che permette a un giudice di un Paese Ue di congelare il conto detenuto dal debitore in un altro Paese Ue (eccetto Danimarca e Regno Unito). È uno strumento rapido e incisivo soprattutto perché non prevede un’informazione preventiva al debitore, evitando così che utilizzi o occulti i fondi. La legge di delegazione dà al Governo sei mesi per adeguare le regole nazionali.

La legge prevede anche il rafforzamento del mandato d’arresto europeo. La disciplina attuale (legge 69/2005 ) andrà modificata trasformando in facoltativi alcuni motivi di rifiuto obbligatorio alla consegna del ricercato da parte delle autorità italiane. Fra questi, il caso in cui il mandato riguardi l’esecuzione di una pena per cittadini italiani che devono già scontarla in Italia. «È uno strumento che funziona molto bene» dice il procuratore di Napoli Giovanni Melillo.

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Corte di Strasburgo: sui luoghi di lavoro sono lecite le telecamere nascoste

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore di Marina Castellaneta

VIDEOSORVEGLIANZA

Installazione in un negozio spagnolo per evitare furti da parte dei dipendenti

Decisivo il sospetto di gravi irregolarità e l’esigenza di proteggere i propri beni

Il supermercato è un luogo aperto al pubblico e la videosorveglianza è stata di breve durata e limitata solo al luogo in cui si trovavano le casse, senza coinvolgere attività di natura privata dei lavoratori. Di conseguenza, la sorveglianza disposta dal datore di lavoro non contrasta con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito ieri, ribaltando il verdetto della Camera del 2018, la Grande Camera della Corte di Strasburgo nella causa López Ribalda e altri contro Spagna.

Il ricorso alla Corte era stato presentato da alcuni dipendenti di un supermercato per i quali l’installazione di alcune telecamere, decisa dal datore per individuare i responsabili del furto di prodotti, avvisando i dipendenti solo dell’esistenza di alcune telecamere, nascondendone altre, era contraria alla Convenzione. La Camera, con la sentenza del 2018, aveva accolto il ricorso ritenendo violato l’articolo 8 che assicura il rispetto della vita privata, ma aveva dato il via libera allo Stato sull’utilizzo dei filmati nel processo, in presenza di alcune condizioni.

Il Governo spagnolo aveva chiesto che il caso fosse portato dinanzi alla Grande Camera che ha dato ragione a Madrid. Prima di tutto, Strasburgo ha fissato i parametri per valutare se le misure di videosorveglianza disposte nei luoghi di lavoro siano proporzionali, chiarendo che i criteri fissata dalla Corte europea per il controllo di email (sentenza Barbelescu) sono applicabili alla videosorveglianza.

Per la Grande Camera, le autorità nazionali devono garantire un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco ossia il rispetto della privacy da un lato e, dall’altro lato, l’esigenza datoriale di proteggere i propri beni e assicurare il buon funzionamento dell’attività economica, soprattutto esercitando il proprio potere disciplinare.

In questa vicenda, i giudici spagnoli avevano effettuato un giusto bilanciamento anche perché la mancata informazione preliminare ai dipendenti sull’installazione di alcune telecamere era giustificata dal sospetto di gravi irregolarità e dalle perdite economiche per il datore di lavoro, circostanze che «possono essere considerate come giustificazioni serie» per una limitazione della privacy. E questo – osserva la Corte – soprattutto quando c’è il sospetto che si tratti di un’azione concertata tra più dipendenti. Possibile, poi, l’utilizzo dei filmati nel corso del processo quando non si tratta dell’unico elemento di prova.

La sentenza di Strasburgo non dovrebbe incidere sulla normativa italiana in materia di videocontrolli, possibili a determinate condizioni e per la quale fa da punto di riferimento l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) come modificato dal Dlgs 151/15.

Il nuovo testo consente, infatti, al datore di installare impianti audiovisivi e altri strumenti da cui derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, purché questi strumenti siano impiegati solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e la loro installazione sia avvenuta previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di accordo, sia stato ottenuto il via libera preventivo dell’Ispettorato nazionale del lavoro

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Il residente all’estero che lavora nella zona di confine paga le imposte sui redditi solo in Francia

11 Novembre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore 29 OTTOBRE 2019 di Antonio Longo

L’italiano residente in Francia che lavora nella zona di confine con l’Italia deve pagare le imposte sui redditi solo allo Stato francese. È questa la conclusione dell’Agenzia nella risposta a interpello 433/2019 di ieri.

L’istante è residente in Francia ed è iscritto all’Aire nei registri del Comune di Ventimiglia dal 2004. Nel 2017 viene assunto presso una società italiana e svolge la propria attività lavorativa in Italia. Ai fini fiscali italiani, sono residenti coloro che, per la maggior parte del periodo d’imposta, sono iscritti nelle anagrafi dei residenti oppure hanno in Italia il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. I tre requisiti sono alternativi per cui il verificarsi di uno solo di essi è sufficiente perché un soggetto sia considerato residente in Italia. Verificatasi la cancellazione dall’anagrafe italiana e la conseguente iscrizione all’Aire (condizione necessaria ma non sufficiente) occorre una valutazione d’insieme dei rapporti – personali ed economici – che il soggetto intrattiene nel nostro Paese per verificare se, nel periodo in cui è stato anagraficamente residente all’estero, possa essere considerato (anche) fiscalmente non residente.

Assumendo che l’istante sia residente in Francia (è questa una verifica fattuale che l’Agenzia non è tenuta a fare in sede di interpello), il paragrafo 4 dell’articolo 15 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia prevede che i redditi da lavoro dipendente di persone che abitano nella zona di frontiera di uno Stato e che lavorano nella zona di frontiera dell’altro Stato siano imponibili soltanto nello Stato di residenza.

In specie, dichiarandosi fiscalmente residente in Francia e svolgendo la propria attività lavorativa in Ventimiglia (zona di frontiera), l’istante assume lo status di frontaliere: il reddito prodotto sarà quindi tassato esclusivamente in Francia. Tuttavia, la società italiana sostituto di imposta, può, sotto la propria responsabilità, applicare il regime convenzionale previa presentazione, da parte del lavoratore, della documentazione idonea a dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla Convenzione (confronta, tra le altre, risoluzione 86/E/2006). Pertanto, il lavoratore che dovesse subire eventuali ritenute dal datore di lavoro italiano (nei casi di incertezza circa l’applicabilità del regime convenzionale di favore) potrà chiedere all’erario il rimborso delle maggiori imposte versate.

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Lussemburgo verso lo stop ai ruling firmati prima del 2015

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore 18 OTTOBRE 2019 di Raffaele Villa

 FISCO INTERNAZIONALE

Proposta del Governo nella Finanziaria 2020 trasmessa al Parlamento

In caso di approvazione andranno ripensati i comportamenti tributari

Il 14 ottobre il Governo lussemburghese ha trasmesso al Parlamento una proposta di disegno di legge finanziaria 2020 che prevede, tra l’altro, la cessazione a partire dal 1° gennaio 2020 dell’efficacia degli accordi fiscali preventivi (ruling) concordati con l’amministrazione finanziaria lussemburghese prima del 2015.

Tale proposta sembrerebbe, tra l’altro, in linea con la formalizzazione in un testo normativo (legge 19 dicembre 2014 e decreto 23 dicembre 2014) della procedura di accordo preventivo in vigore dal 1° gennaio 2015, per il quale è prevista una durata di massimo cinque anni. Infatti, prima di allora, la procedura di accordo era disciplinata meramente da una nota interna dell’autorità fiscale lussemburghese del 1989 e non sono rari casi di accordi ante 2015 aventi durata ultra-quinquennale.

In Lussemburgo, così come in altri Paesi (fra cui l’Italia), la finalità degli accordi preventivi con l’amministrazione finanziaria è per il contribuente quella di ottenere certezza circa il trattamento fiscale applicabile ad una particolare operazione, o insieme di operazioni, in base al diritto tributario vigente. Pertanto, il trattamento fiscale di una determinata operazione non dipende dalla presenza di un accordo preventivo che, al più, dovrebbe limitarsi a confermare il trattamento fiscale sulla base della normativa applicabile, senza tuttavia porsi in contrasto con quest’ultima. Certamente gli accordi preventivi possono costituire nella pratica un valido supporto al contribuente, ad esempio nei casi di normative poco chiare che rendono l’interpretazione da parte del contribuente particolarmente difficile ed incerta.

Sebbene in Lussemburgo non esista un obbligo di interpellare l’amministrazione finanziaria per ottenere certezza circa l’interpretazione della normativa fiscale locale, la richiesta di accordi preventivi è da anni la prassi di mercato, anche in relazione ad operazioni e strutture fiscali meno complesse per le quali non si pongono particolari dubbi interpretativi.

Peraltro, i contribuenti lussemburghesi non sono nuovi al tema della inefficacia degli accordi preventivi, i quali generalmente prevedono una efficacia temporale limitata e la cessazione dei propri effetti qualora si pongano in contrasto con normative lussemburghesi o internazionali sopravvenute.

Ciò premesso, assumendo che il disegno di legge finanziaria sia approvato nella sua formulazione attuale, è possibile ipotizzare che i contribuenti si troveranno a dover valutare, prima della scadenza originariamente concordata con l’amministrazione finanziaria lussemburghese, se, alla luce della normativa vigente, possano ancora fare affidamento sul trattamento fiscale che hanno applicato alle proprie operazioni e strutture sulla base degli accordi preventivi conclusi prima del 1° gennaio 2015, fermo restando che la modifica proposta dovrebbe avere efficacia solo per il futuro e, pertanto, salvare in ogni caso le condotte fiscali adottate sino ad oggi in conformità agli accordi (e allo ius superveniens).

Qualora il trattamento fiscale concordato rischi di porsi in contrasto con la normativa vigente, i contribuenti dovrebbero valutare la possibilità di chiedere all’amministrazione finanziaria lussemburghese un nuovo accordo preventivo (tra l’altro, soggetto allo scambio di informazioni con le amministrazioni finanziarie estere dell’Unione europea).

In conclusione, se è vero che questa modifica dovrebbe comportare il sostenimento di costi di compliance da parte dei contribuenti – quantomeno per la verifica della tenuta delle operazioni in assenza di ruling – è altrettanto vero che la stessa obbliga ad un ripensamento delle strutture in essere, oggi reso ancor più impellente tenuto conto dei recenti sviluppi di fiscalità internazionale (ad esempio Beps, Atad 1 e Atad 2).

Doing business in San Marino

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