La fattura generica esclude la detrazione

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 26/08/2019 di Giorgio Emanuele Degani e Damiano Peruzza

IVA

Non basta fornire le lettere di incarico senza data certa e in sede di accertamento

Per la Ctp Milano 2897/05/2019 (presidente Bolognesi, relatore Chiametti), in presenza di una fattura di acquisto riportante una descrizione generica del servizio effettuato, non può essere operata la deduzione del costo ai fini delle imposte sui redditi, né può essere esercitata la detrazione dell’Iva afferente.

Nel caso in esame l’oggetto del servizio era stato indicato in fattura con le locuzioni «lavorazioni di terzi», senza dettaglio dei servizi prestati. Inoltre, a seguito di accesso dei funzionari e anche dopo il rilascio di processo verbale di constatazione, il contribuente destinatario di tali servizi non aveva prodotto alcuna documentazione esplicativa delle operazioni effettuate. Solo in sede di accertamento con adesione, erano state presentate le lettere di incarico relative ai servizi di procacciamento d’affari oggetto delle fatture, le ricevute dei bonifici bancari e le fatture di acquisto ricevute a loro volta dai fornitori.

Per la Ctp Milano, tuttavia, la condotta del contribuente non legittima la deduzione dei costi e la detraibilità dell’Iva, sia per la genericità dell’oggetto indicato in fattura, sia per l’assenza di elementi probatori di segno contrario offerti dalla parte. La condotta del contribuente viene censurata in quanto, in violazione dell’obbligo previsto dall’articolo 21, comma 1 lettera g), Dpr 633/1972, l’emittente della fattura aveva omesso di indicare in modo specifico la «natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione». L’oggetto dell’operazione è un elemento essenziale della fattura, sicché l’emittente ha l’obbligo di indicare con esattezza i beni o i servizi ceduti (e il destinatario è tenuto a essere vigile).

Secondo la Ctp, in linea con la Cassazione (27777/2017 e 21980/2015), la descrizione generica dell’operazione «non soddisfa le finalità conoscitive che la norma intende tutelare». Una fattura priva di tale requisito essenziale non costituisce elemento probatorio a favore delle parti e, in particolare, del cessionario che intende contabilizzare i costi e detrarre l’Iva afferente. E in presenza di una fattura generica – sia in formato cartaceo sia elettronica – l’assolvimento dell’onere probatorio incombente sul cessionario circa il servizio ricevuto sarà particolarmente difficile.

È certamente consentito che il contribuente possa dimostrare l’effettività del servizio ricevuto, a dispetto della genericità della fattura di acquisto, ma gli elementi richiesi in tali ipotesi devono essere tali da fornire la prova univoca del nesso tra l’operazione e il documento “generico”.

La Ctp, senza escludere in astratto la possibilità che tale prova venga fornita, l’ha tuttavia esclusa nel caso concreto, in quanto i documenti (in particolare le lettere d’incarico prodotte) sono stati ritenuti non idonei: oltre a non presentare data certa, erano stati presentati in ritardo, con conseguente operatività della preclusione di cui all’articolo 52, comma 5, Dpr 633/1972; inoltre i fornitori emittenti le fatture non risultavano aver presentato alcuna dichiarazione dei redditi nel periodo d’imposta accertato e in quelli precedenti.

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Elenco dettagliato di documenti per provare le vendite intra-Ue

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 22/08/2019 di Simona Ficola e Benedetto Santacroce

MERCI

Il 1° gennaio 2020 entrerà in vigore il regolamento Ue 1912/18

Finora senza disciplina il test di non imponibilità in capo al fornitore

Ultimi mesi di tempo per le aziende che operano nel mercato intraunionale per verificare i documenti di prova delle cessioni intracomunitarie. Il 1° gennaio 2020, infatti, entrerà in vigore il regolamento Ue 1912/18 che ha individuato documenti da cui si presume che i beni sono stati spediti o trasportati dal territorio di uno Stato membro a un altro Stato membro.

La questione della prova delle cessioni intracomunitarie si pone come un punto focale per l’espansione delle imprese all’estero. Infatti, le cessioni effettuate ai sensi dell’articolo 41 del decreto legge 331/93 – non imponibili – necessitano di avere la prova del trasporto della merce presso altro Stato membro.

Ebbene, sino ad ora, per le cessioni intraunionali, la prova della non imponibilità in capo al fornitore non era determinata per legge, sicché nei vari Stati si sono manifestati diversi orientamenti. Con riferimento al panorama nazionale, si è fatto riferimento alle interpretazioni (confronta risoluzioni 345/07 e 477/08) che, sostanzialmente, hanno individuato come prova primaria il documento di trasporto CMR, per tutte le spedizioni via terra; ovvero i documenti di trasporto tipici (AWB, B/L) per il trasporto aereo e nave. Tali prove devono essere monitorate e richieste, in primis ai clienti, nelle ipotesi di cessione EXW, ossia franco fabbrica/franco magazzino; quando, invece, il trasporto è a cura della società, la prova deve essere richiesta allo spedizioniere incaricato.

Il legislatore unionale è intervenuto sul tema con il citato regolamento Ue 1912/18, in cui ha fornito un elenco di documenti considerati validi come prova dell’avvenuta cessione intraunionale, in quanto atti a dimostrare che i beni sono stati spediti o trasportati dallo Stato membro di origine a quello di destinazione.

Si badi però che se è vero che l’individuazione puntuale della documentazione a supporto per la prova della cessione intraunionale costituisce un elemento di certezza in merito all’onere probatorio, è anche vero che costituisce un vincolo per l’impresa nel reperire l’esatta documentazione richiesta dalla norma.

In questo contesto, si pone peraltro un problema applicativo sulla corretta gestione della documentazione dettagliatamente individuata nel regolamento Ue che l’impresa deve essere in grado di reperire per evitare il rischio di veder disconosciuta l’operazione di cessione intraunionale qualora la stessa non fosse in possesso della prova dell’avvenuta uscita della merce dal territorio dello Stato.

In realtà, se approcciato attivamente e con anticipo, il sistema normativo fornisce all’operatore strumenti di certezza sino ad ora non individuati dalla norma, che consentono definizioni preventive e in sicurezza di temi che, in alternativa, rischiano di tramutarsi in oneri, in termini di imposta e sanzionatori, molto gravosi.

Peraltro, anticipando di fatto il legislatore, l’agenzia delle Entrate, con la risposta 100/2019, ha già dato pieno riconoscimento alle indicazioni fornite con il citato regolamento 1912/18/Ue. Infatti, la risposta, oltre a ripercorrere la giurisprudenza unionale e la prassi amministrativa interna in materia, per la prima volta richiama le nuove prescrizioni imposte a tutti gli operatori dell’Ue regolamento unionale. In definitiva, il tema si presenta estremamente attuale, fondamentale in termini di compliance e di chance commerciali con gli altri Stati membri è deve essere necessariamente valutato e monitorato dalle singole imprese, a seconda delle diverse esigenze di business.

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Maxi condanna per segreti violati

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore  6/08/2019 di Alessandro Galimberti

TRIBUNALE IMPRESE

Ex manager dovrà pagare 4,5 milioni alla società di cui era stato anche “ad”

milano

Manager condannato a risarcire 4,5 milioni di euro alla società – una multinazionale tedesca – di cui era stato “ad” e dipendente. Interessante sentenza del tribunale di Ancona – sezione specializzata in materia di impresa – in tema di violazione di segreti industriali, sia per il metodo di calcolo del danno, sia per le ulteriori prescrizioni contro il convenuto (tra cui 100mila euro di penale per ogni violazione dell’inibitoria). I fatti di causa, che verosimilmente occuperanno l’autorità giudiziaria per altri gradi, risalivano al 2012, dopo che l’amministratore della collegata italiana aveva lasciato la multinazionale. Contemporaneamente la società aveva avuto notizia di movimenti dell’ex dipendente nei mercati dell’Est asiatico, con il forte sospetto (anche documentale) di utilizzo di formule chimiche aziendali oggetto di tutela e a beneficio di società già clienti. Ne era seguita una perquisizione al domicilio dell’ex dipendente con sequestro di numerosi documenti “sensibili” che, a termini contrattuali, avrebbero dovuto essere restituiti da tempo.

Secondo i giudici lo sfruttamento abusivo dei dati tecnici riservati, mostra da parte dell’ex manager «l’intento parassitario di risparmiare sui costi e sui tempi per l’immediato avvio dell’attività, successiva alla sua uscita, in concorrenza con la medesima, e in specifica violazione di segreti tecnici e commerciali». Per il tribunale «il regime di leale concorrenza viene violato anche se si risparmia, con la sottrazione o utilizzazione di dati riservati, in termini di tempi e costi per una autonoma ricostruzione delle informazioni industriali necessarie o utili, con il conseguente compimento di atti concorrenziali sleali, in relazione a ogni acquisizione avvenuta per sottrazione e non per autonoma capacità di elaborazione». Nessun dubbio, infatti, che le informazioni segrete costituenti il know how di una impresa, frutto della ricerca e degli investimenti, sono a pieno titolo «diritti di proprietà industriale, pienamente tutelabili». Quanto alle modalità di calcolo del maxi risarcimento, i giudici hanno avuto riguardo al lucro cessante della parte danneggiata, che può essere determinato «in una somma pari alle cosiddette royalties che le parti avrebbero ragionevolmente concordato, in caso di acquisizione del diritto di sfruttamento del know how», e non invece in riferimento delle cifre appostate in bilancio per l’intangible.

Secondo la società, rappresentata a giudizio da Dla Piper «risultato importante che rende giustizia a chi investe in ricerca e nella protezione del know-how, e che testimonia l’attenzione crescente dell’autorità giudiziaria alla proprietà intellettuale».

 

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È reato di riciclaggio incassare assegni per conto terzi

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 15/08/2019 di Valerio Vallefuoco

CASSAZIONE

Punito il dipendente che «pulisce» il denaro sporco per il datore di lavoro

Commette il reato di riciclaggio chi monetizza diversi assegni bancari di cospicuo valore di soggetti terzi sul proprio conto corrente bancario per poi consegnare il denaro al proprio dante causa. Così la Corte di cassazione con la sentenza 35404/2019. I fatti riguardavano il dipendente di una società che su incarico del proprio datore di lavoro, l’amministratore della società per cui tale soggetto lavorava, ha versato su un suo conto corrente diversi assegni bancari poi risultati provenienti da attività truffaldine.

La Suprema Corte nel confermare la condanna dei giudici di merito ha ritenuto utile dover ribadire in questo caso la differenza tra il reato di ricettazione e quello di riciclaggio di cui all’articolo 648 bis del Codice penale. Quest’ultimo infatti è caratterizzato in relazione all’elemento materiale della condotta che si sostanzia nella sostituzione, nel trasferimento di beni o di denaro di provenienza delittuosa ovvero nel compimento di altre operazioni con la finalità di ostacolare l’identificazione dell’origine di tali beni o fondi.

Per quanto riguarda il cosiddetto elemento psicologico che caratterizza il reato di riciclaggio la Corte ha ritenuto sufficiente anche il solo dolo generico, ossia la consapevolezza di fare delle operazioni tese anche solo ad ostacolare potenzialmente la provenienza delittuosa dei beni. In questo senso la Corte ha richiamato alcuni precedenti specifici del 2017 (sentenza 30265/2017).

Si concretizza il reato di riciclaggio secondo la pronuncia della Cassazione sia nel caso in cui la condotta dell’imputato sia tesa in modo definitivo a impedire l’accertamento dell’origine illecita delle attività o dei beni sia quando tali condotte siano solo volte a rendere più difficile l’accertamento della provenienza del denaro sporco anche indipendentemente come nel caso specifico dalla possibilità di poter poi tracciare e rintracciare le operazioni bancarie.

Basandosi su questo ragionamento di principio la Suprema Corte ha ritenuto sufficiente per configurare il delitto di riciclaggio il solo fatto di accreditare sul proprio conto corrente assegni bancari di importo cospicuo da parte di un soggetto che senza alcuna valida giustificazione giuridica li ha poi monetizzati versando la provvista al proprio dante causa.

La Cassazione ha quindi confermato un suo orientamento recente (sentenza 21925 del 2018) che l’astratta individuabilità della provenienza delittuosa ovvero il suo accertamento non costituiscono l’evento punibile del reato di riciclaggio.

Questo precedente si inserisce in un solco ormai consolidato della giurisprudenza della Corte di cassazione che allarga le maglie della punibilità anche alle attività che seppur formalmente lecite possano anche solo potenzialmente ostacolare l’identificazione dell’origine illecita dei fondi e non mancherà di avere i suoi effetti anche nelle politiche di segnalazione di operazioni sospette da parte degli operatori bancarie finanziari.

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Omessa dichiarazione del prestanome se c’è dolo

10 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 29/08/2019 di Antonio Iorio

REATI TRIBUTARI

Necessario provare l’intento del mero amministratore di diritto di evadere

Nel reato di omessa presentazione della dichiarazione, il prestanome risponde solo se è provato il suo intento di evadere le imposte attraverso l’inadempimento dichiarativo. Non è infatti sufficiente ai fini della colpevolezza, la mera assunzione dell’incarico di amministratore di diritto. A precisarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 36474 depositata ieri. Il legale rappresentante, in realtà mero amministratore di diritto, di una società veniva condannato per il reato di omessa presentazione della dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili. La pena veniva confermata anche in grado di appello e l’imputato ricorreva in Cassazione. Con riferimento al reato di omessa presentazione della dichiarazione, la difesa censurava che la Corte di appello aveva confermato la colpevolezza solo per la sua qualità di amministratore di diritto della società, trascurando che mancava qualunque prova sulla sussistenza del dolo specifico. Il prestanome, infatti, poteva al più ritenersi colpevole degli inadempimenti, ma proprio per la sua estraneità alla gestione sociale, affidata all’amministratore di fatto, non poteva sussistere l’intento di evadere attraverso l’omissione della dichiarazione.

La Suprema corte ha ritenuto fondata la doglianza sul punto. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che nei reati omissivi, commessi in nome e per conto della società, l’amministratore di fatto è il soggetto attivo del delitto e il prestanome è il concorrente per non avere impedito l’evento illecito. L’amministratore di diritto, accettando la carica, ha accettato i rischi connessi al proprio ruolo, quale, ad esempio, impedire danni per la società stessa e per i terzi. Tuttavia, proprio perché nella maggior parte dei casi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza, i reati omissivi sono solo formalmente a egli imputabili, atteso che l’agente va individuato in chi effettivamente gestisce la società, essendo l’unico in grado di compiere (o meno) l’azione dovuta. La Cassazione ha così affermato che al prestanome può essere addebitato il reato a titolo di concorso con l’amministratore di fatto solo a condizione che ricorra anche l’elemento soggettivo proprio del singolo reato. In particolare, per il delitto di omessa presentazione oltre al dolo generico, cioè la coscienza di aver omesso l’adempimento, occorre la volontà di evasione, integrata dalla cosciente intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte attraverso la citata omessa presentazione. Il giudice di merito quindi, deve individuare, al di là della mera assunzione della carica, ulteriori elementi a dimostrazione dell’intento evasivo. Nella pronuncia è altresì specificato che a tal fine, è di per sé insufficiente l’astratta consapevolezza che attraverso l’omessa presentazione non si sarebbero versate le imposte dovute, poiché il prestanome poteva anche non essere a conoscenza della situazione fiscale della società.

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Credit Suisse, in Svizzera più digitale e meno filiali

9 Settembre 2019

Il Sole 24 Ore 27/08/2019 di L.D.

Anche Credit Suisse, al pari di altri grandi colossi bancari europei, punta a cavalcare la sfida digitale tirando il freno sullo sviluppo della rete fisica. Il gruppo elvetico ha dichiarato ieri che entro la fine del 2021 intende investire centinaia di milioni di franchi svizzeri in servizi digitali nella sua divisione svizzera, che – nei piani dell’istituto – non ha bisogno di una rete di filiali maggiore di quella dei suoi concorrenti. «Il raggiungimento di un successo a lungo termine non dipenderà dall’avere la più grande rete di filiali in futuro», ha affermato Thomas Gottstein, capo della divisione Swiss Universal Bank (Sub) del gruppo elvetico. Piuttosto, ha detto Gottstein, «avere la migliore offerta digitale, in combinazione con l’accesso al supporto da qualsiasi luogo e la migliore qualità del servizio, sarà il fattore decisivo». Nessuna indicazione sull’eventuale riorganizzazione della rete in Svizzera. Va detto che la banca con sede a Zurigo sta creando una nuova area commerciale, chiamata Direct Banking, rivolta a clienti retail e commerciali,che partirà al 1 ° settembre: obiettivo circa un milione di clienti al dettaglio, 60.000 clienti commerciali e oltre 500 dipendenti.

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Sms e mail pesano in giudizio come prova piena

5 Agosto 2019

Il Sole 24 Ore 18 LUGLIO 2019 di Patrizia Maciocchi

 PROCESSO CIVILE

Chi contesta deve dimostrare la non fedeltà del documento

Gli sms e le mail hanno piena efficacia di prova nel giudizio civile. Per il disconoscimento colui contro il quale sono prodotte deve dimostrare, con elementi concreti e in maniera circostanziata ed esplicita, la non rispondenza con la realtà. La Corte di cassazione, con la sentenza 19155, depositata ieri, si affida al principio di diritto affermato e respinge il ricorso di un padre separato “condannato” a pagare la sua quota di retta dell’asilo nido del figlio, sulla base di un sms nel quale aderiva all’iniziativa dell’iscrizione presa dalla madre del bambino.

La difesa dell’uomo critica la decisione dei giudici di merito di riconoscere il valore di prova piena, e non semplicemente indiziaria al solo elemento degli short message service, pur in presenza della contestazione della parte contro cui era stata prodotta, con conseguente errata valutazione del contenuto dei messaggi. Per la Cassazione però la decisione del Tribunale è corretta. Sia gli sms sia le e-mail, infatti, hanno lo stesso valore di prova che l’articolo 2712 del Codice civile attribuisce alla riproduzioni informatiche. La Suprema corte precisa che l’sms contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e di conseguenza forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotti non contesta la loro “fedeltà”. Tuttavia l’eventuale disconoscimento non ha gli stessi effetti previsti per la scrittura privata che non può essere utilizzata.

Nel caso degli sms il diretto interessato deve dimostrare la non rispondenza, ma il giudice può comunque accertarla, anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. Lo stesso vale per la e-mail: un documento elettronico che, anche se privo di firma, rientra a pieno titolo tra i mezzi di prova piena previsti dall’articolo 2712 del Codice civile. Nel caso esaminato non serve che il ricorrente dichiari di aver contestato l’unica produzione avversaria. Un’affermazione generica non utile a smontare un elemento, ormai ricondotto nell’alveo codicistico e dunque soggetto al rispetto delle preclusioni processuali.

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L’imposta estera pagata dal lavoratore frontaliero va detratta totalmente

5 Agosto 2019

Quotidiano del Fisco del 01 MAGGIO 2019 di Andrea Taglioni

L’imposta pagata all’estero dal lavoratore frontaliero è pienamente detraibile dall’imposta netta dovuta a prescindere che il reddito estero assoggettato a tassazione in Italia concorre parzialmente, per effetto della franchigia, alla formazione del reddito complessivo. Pertanto, quando l’ammontare del reddito estero assoggettato a tassazione in Italia non corrisponde a quello tassato nello Stato estero, l’imposta estera detraibile non deve essere ridotta in misura proporzionale. Ciò in considerazione del fatto che, all’infuori dell’applicazione delle retribuzioni convenzionali, nel caso di lavoro dipendente frontaliero, il relativo reddito complessivo prodotto all’estero non può che essere che quello determinato secondo le regole del Tuir. Quindi, se per determinare il reddito complessivo le norme italiane prevedono che venga tassata solo la parte eccedente la franchigia, questo non determina una diminuzione della base imponibile che fa scattare la riparametrazione delle imposte assolte all’estero. A stabilirlo è la Commissione tributaria Provinciale di Forlì con la sentenza n. 129/02/2019 (clicca qui per consultarla).

Al fine di evitare la doppia imposizione, i contribuenti che pagano imposte all’estero, hanno la possibilità di usufruire di un credito d’imposta. Quest’ultimo è riconosciuto se le imposte pagate nello Stato estero sono definitive, se sono relative a imposte sul reddito, o similari, e se il reddito estero concorre alla formazione del reddito complessivo italiano. Sussistendo tali condizioni, le imposte pagate sui redditi esteri sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione. In pratica, le imposte estere versate danno diritto al credito in Italia in proporzione all’incidenza del reddito estero su quello complessivo italiano.

Delineato il quadro normativo emergeva che l’agenzia delle Entrate rettificava la posizione fiscale del contribuente, lavoratore frontaliero, deducendo che allo stesso spettasse un minor credito d’imposta in quanto il reddito complessivo tassato in Italia, per effetto della franchigia, era inferiore a quello estero percepito. Per tale motivo, il parziale concorso del reddito estero alla formazione del reddito complessivo comportava che l’imposta estera detraibile doveva essere ridotta in misura corrispondente.
La tesi erariale non è stata condivisa dalla Commissione Tributaria la quale, verificato che non si trattava di retribuzione convenzionale, che si applica ai lavoratori dipendenti che prestano la propria attività lavorativa all’estero in maniera continuativa e che soggiornano nell’altro Stato per più di 183 giorni, ha escluso che l’imposta estera potesse essere ridotta proporzionalmente.
Questo perché, per il lavoratore residente in Italia, ma che presta l’attività lavorativa in uno Stato estero confinante, o in zone di frontiera con lo Stato italiano, il reddito complessivo non è quello sottoposto a tassazione nello stato estero ma quello che, in base alle norme italiane, concorre a formare la base imponibile.

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Documento elettronico anche con San Marino

5 Agosto 2019

Il Sole 24 Ore 10 LUGLIO 2019 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

Focus DECRETO CRESCITA: LE NOVITA’ FISCALI

Il nuovo obbligo. Resta l’esonero per minimi, forfettari, associazioni sportive dilettantistiche e operatori sanitari

Anche nei rapporti commerciali con operatori residenti o stabiliti a San Marino si introduce un obbligo di fatturazione elettronica analogamente a quanto accade per le operazioni tra soggetti residenti o stabiliti nel territorio nazionale: l’articolo 12 del decreto legge crescita, con la finalità dichiarata di semplificare gli adempimenti certificativi, sia per le operazioni attive che per quelle passive, introduce infatti l’e-fattura obbligatoria analogamente a quanto già previsto per le operazioni nazionali e con le medesime esclusioni soggettive ed oggettive.

Si tratta di una misura ritenuta dal Governo strategica e urgente, per la cui operatività occorrerà procedere alla modifica del decreto ministeriale del 24 dicembre 1993 il quale disciplina ai fini Iva i rapporti di scambio tra i due Paesi imponendo, tra gli altri, l’emissione di una fattura cartacea in quattro esemplari nei confronti di operatori aventi sede, residenza o domicilio nella Repubblica di San Marino. Le modifiche al decreto ministeriale saranno adottate in attuazione di un accordo tra i due Stati.

Con provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate saranno invece emanate le regole tecniche necessarie per l’attuazione dell’obbligo. A tale proposito si può al momento solamente ipotizzare che il Sistema di interscambio nazionale potrebbe essere reso accessibile anche gli operatori sanmarinesi o direttamente, previo loro accreditamento, oppure interfacciando lo SdI con il corrispondente sistema operativo locale. Ad ogni modo, la soluzione che verrà adottata costituirà un primo e fondamentale esperimento per testare l’apertura e l’interfacciamento dello SdI in prospettiva con altri sistemi europei e mondiali di fatturazione elettronica.

Adempimento. L’obbligo dal 1 gennaio 2019 di fatturazione elettronica in Italia tra operatori residenti e stabiliti, accompagnato alla libera circolazione delle merci tra Italia e San Marino rappresentano le ragioni per cui si intendono modificare le modalità di documentazione fiscale delle operazioni realizzate tra i due Stati come disciplinate dal decreto ministeriale del 24 dicembre 1993.

Anche nei rapporti commerciali tra Italia e San Marino viene perciò previsto l’obbligo di fatturazione in modalità elettronica, anziché attraverso l’utilizzo di una fattura emessa in formato cartaceo ed in quattro esemplari. In questo modo verranno semplificati gli adempimenti certificativi, allineandoli a quelli applicabili sul territorio italiano, e si introduce un efficace strumento di compliance nel corretto assolvimento dell’imposta nell’interesse di entrambi gli Stati.

In attesa della formalizzazione dell’accordo tra Italia e San Marino per la modifica dell’attuale decreto ministeriale, l’articolo 12 del decreto crescita conferma comunque le ipotesi di esonero soggettivo dall’emissione di fattura elettronica già previste per le operazioni tra soggetti residenti e stabiliti.

I soggetti in regime di vantaggio, i forfetari, le associazioni sportive dilettantistiche e gli operatori sanitari non saranno quindi tenuti ad emettere e-fatture: resta tuttavia da capire se continueranno per questa ragione ad operare le attuali regole con gestione cartacea dei documenti.

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Distacchi dall’estero sorvegliati speciali

5 Agosto 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 15 LUGLIO 2019 di Stefano Rossi

 CONTROLLI INL

Essenziale che il lavoratore abbia un legame organico con la società oltre confine

In caso di irregolarità l’addetto si considera dipendente dell’utilizzatore

Il distacco di lavoratori da un altro Paese all’Italia deve rispettare una serie di regole, per non essere contestato dagli ispettori e non configurarsi come una somministrazione di manodopera. L’Ispettorato nazionale del lavoro è tornato a occuparsi delle violazioni legate al distacco transnazionale, nella nota 5398 del 10 giugno 2019. Un fenomeno che si sta sviluppando negli ultimi anni, tanto che rientra a pieno titolo nella programmazione annuale dei controlli dello stesso Inl.

Nell’ultima nota, l’Ispettorato fa il punto sulle sanzioni in caso di violazioni nel distacco di lavoratori da un’impresa stabilita in un altro Stato dell’Unione europea in favore di una propria unità produttiva in Italia (in risposta alla richiesta di parere di un ufficio territoriale).

L’Inl ha chiarito che la sanzione si applica al solo distaccante estero, se il lavoratore è distaccato presso l’unità produttiva dell’azienda situata in Italia. L’Ispettorato ha precisato che l’unità produttiva di una determinata impresa può considerarsi una autonoma sede secondaria – nei confronti della quale poter applicare le sanzioni – solo se risulta iscritta nel Registro delle imprese ed è identificata in Italia attraverso un proprio rappresentante legale. Perciò non sarà sede secondaria il mero ufficio di rappresentanza, con funzioni esclusivamente promozionali e pubblicitarie, di raccolta informazioni, di ricerca scientifica o di mercato, o che svolga, ad esempio, un’attività preparatoria all’apertura di una filiale operativa.

Alla luce di ciò, l’appartenenza dell’unità locale alla stessa organizzazione imprenditoriale comporterà l’applicazione della sanzione per distacco illecito transnazionale alla sola impresa distaccante estera, dotata, quindi, di autonoma personalità giuridica.

Irregolarità e sanzioni

Con la circolare 1/2017, l’Ispettorato aveva dettato le linee guida per una corretta applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 3 del Dlgs 136/2016.

Nell’accertamento della legittimità del distacco transnazionale del lavoratore è necessario porre l’attenzione sul suo legame effettivo e organico con l’impresa del Paese di invio. Inoltre, l’impresa distaccante deve esercitare abitualmente la sua attività nello Stato membro di origine.

In caso di distacco non autentico il lavoratore è considerato a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione. In questo modo, i datori di lavoro italiani rischiano di vedersi applicare la normativa a tutela del lavoro subordinato, inclusa quella sui tempi di lavoro e sui minimi salariali. Resta invece esclusa l’automaticità dell’imputazione dei contributi previdenziali, poiché sarà necessario disconoscere, attraverso una particolare procedura, il modello A1 rilasciato dal Paese di provenienza del lavoratore. Si potranno invece quantificare gli imponibili contributivi, con conseguente notifica del verbale, i cui effetti saranno sospesi sino alla definizione della procedura di disconoscimento.

Un’altra rilevante conseguenza è l’applicazione della sanzione pecuniaria di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione, analogamente a quanto previsto in caso di appalto illecito. La sanzione non può essere inferiore a 5mila euro né superiore a 50mila euro. È esclusa l’applicazione della sanzione per lavoro nero poiché, seguendo l’interpretazione offerta dall’interpello 27/2014, la prestazione lavorativa è comunque tracciata attraverso il modello A1 fornito dalla società di servizi estera.

Responsabilità solidale

Nel caso di distacco transnazionale genuino, invece, l’articolo 4 del decreto prevede che il committente imprenditore o datore di lavoro risponda in solido con la società di servizi estera per i crediti retributivi (comprese le quote di trattamento di fine rapporto), contributivi e i premi assicurativi maturati nel periodo di esecuzione del contratto. La responsabilità solidale può essere attivata dal lavoratore entro due anni dalla cessazione del distacco e trova applicazione in tutti i settori produttivi.

La circolare 10/2018 dell’Inl ha esteso il regime della responsabilità solidale per i debiti contributivi anche in caso di appalto illecito. Tuttavia, in questo caso, prima di procedere al recupero contributivo nei confronti del trasgressore datore di lavoro italiano, sarà necessario disconoscere il modello A1. Con la circolare 3/2019 l’Ispettorato nazionale del lavoro ha esteso l’applicazione del reato di somministrazione fraudolenta anche all’ipotesi di distacco comunitario non genuino. In sostanza, se si accertano gli elementi della fraudolenza, sia il distaccante (società estera) sia il distaccatario (società italiana) sono soggetti all’ammenda di 20 euro per ogni lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione. La sanzione è applicabile dal 12 agosto 2018.

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