L’assenza dall’Aire non prevale sulla sostanza

5 Agosto 2019

Il Sole 24 Ore 03 LUGLIO 2019  di Marco Piazza

ITALIANI ALL’ESTERO

L’Agenzia smonta la presunzione della Suprema corte

Quando un soggetto risulti fiscalmente residente sia in Italia sia in un altro Stato con il quale operi una convenzione contro le doppie imposizioni, il conflitto di residenza – causato dalla normativa interna di ciascuno Stato – è risolto applicando le disposizioni contenute nel trattato.

Così, per stabilire la residenza di una persona fisica che pur essendo realmente emigrata abbia omesso di cancellarsi dall’anagrafe dei residenti, la persona si considera residente, in base alle convenzioni conformi al modello Ocse:

  1. a) nello Stato in cui dispone di un’abitazione permanente;
  2. b) se ha l’abitazione permanente in entrambi gli Stati, in quello in cui le sue relazioni personali ed economiche sono più strette;
  3. c) se non si può individuare tale Stato, in quello in cui “soggiorna abitualmente”;
  4. d) se soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati, in quello della cittadinanza;
  5. e) in caso di doppia cittadinanza: accordo fra le autorità competenti.

Si tratta di un principio pacifico, ma è molto importante che sia stato ribadito nella recente risposta 203 del 2019 perché una certa equivoca giurisprudenza della Cassazione ha indotto alcuni uffici a ritenere erroneamente che la mancata iscrizione all’anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero costituisca presunzione assoluta di residenza in Italia.

A partire dalla sentenza 1215 /1998, viene costantemente replicata la massima che l’iscrizione «nelle anagrafi della popolazione residente» deve ritenersi, in materia fiscale, dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta. In altri termini in materia fiscale la forma è destinata a prevalere sulla sostanza nell’ipotesi in cui la residenza venga collegata al presupposto anagrafico.

A questa pronuncia si sono rifatte diverse successive sentenze dello stesso Collegio, fra le quali la 1783 del 1999; la 9319 del 2006, la 677 del 2015, la 21970 del 2015 e di recente l’ordinanza 16634 del 2018.

Ma quattro di queste sentenze riguardano soggetti emigrati in Stati con i quali era in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni (Stati Uniti nella sentenza 1783; Svizzera nella sentenza 677; Romania nella sentenza 21970 e Regno Unito, nella sentenza 16634) circostanza, questa determinante, ma del tutto trascurata sia nella descrizione dei fatti sia nella motivazione.

Peraltro, più attenta giurisprudenza di merito non ha mancato di evidenziare come l’accertamento della residenza fiscale del contribuente non possa prescindere dall’applicazione delle tie break rules previste dai trattati (si veda ad esempio Commissione tributaria regionale della Toscana, 506 del 20 febbraio 2017 e 840 del 13 marzo 2018; Commissione regionale dell’Aquila, 614 del 5 luglio 2017; di Pescara, 475 del 17 maggio 2017; di Brescia 4207 del 31 luglio 2014; della Commissione provinciale di Firenze 131 del 12 gennaio 2016).

La chiara risposta dell’agenza delle Entrate, 203 del 2019 dovrebbe ora evitare all’origine che siano sollevate, in caso di questo tipo, contestazioni infondate, con risparmio di tempo e costi sia per l’Agenzia sia per i contribuenti.

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Donazione di denaro dall’estero senza obbligo di registrazione

4 Agosto 2019

Quotidiano del Fisco 25 LUGLIO 2019 di Angelo Busani

Se un donante residente all’estero dona a favore di un beneficiario, residente in Italia, una somma di denaro depositata all’estero, il denaro oggetto della donazione tramite bonifico non si presume quale bene esistente nel territorio dello Stato: di conseguenza, non essendo questo atto di donazione soggetto a imposta di donazione per mancanza del presupposto di territorialità, non sussiste l’obbligo di registrazione in termine fisso dell’atto di donazione formato all’estero. È questa la risposta 310 del 24 luglio che l’agenzia delle Entrate ha fornito rispetto a un’istanza di interpello.

Il caso

Il ragionamento per giungere a questa conclusione parte dalla considerazione secondo cui, se il donante non risulta residente in Italia al momento della donazione, rilevano ai fini dell’applicazione dell’imposta di donazione solamente i beni e diritti esistenti sul territorio nazionale (articolo 2 Dlgs 346/1990, testo unico dell’imposta di donazione).

C’è poi da osservare che l’articolo 55 del testo unico stabilisce che le regole di registrazione degli atti di donazione sono le stesse che si applicano per la registrazione degli atti assoggettati all’imposta di registro; e che per l’articolo 2 del Dpr 131/1986 (testo unico dell’imposta di registro) sono soggetti a registrazione in Italia, tra gli altri, «gli atti formati all’estero che comportano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di altri diritti reali, anche di garanzia, su beni immobili o aziende esistenti nel territorio dello Stato».

L’ultimo riferimento normativo da prendere in considerazione è il comma 1-bis all’articolo 55 del Dlgs 346/1990, secondo il quale «sono soggetti a registrazione in termine fisso anche gli atti aventi ad oggetto donazioni, dirette o indirette, formati all’estero nei confronti di beneficiari residenti nello Stato» (norma introdotta nel 2000 per evitare che atti formati all’estero, aventi a oggetto beni diversi dagli immobili e dalle aziende, eludessero l’imposta di donazione).

La soluzione

Per effetto di questo panorama normativo sono rilevanti, ai fini dell’imposta sulle donazioni, e devono essere assoggettati a registrazione in termine fisso in Italia, gli atti formati all’estero aventi a oggetto beni diversi da immobili e aziende esistenti nel territorio italiano:

se il donante è residente in Italia;

se il donante non è residente in Italia, quando i beni donati sono esistenti nel territorio dello Stato.

Per stabilire, dunque, se l’atto di donazione con bonifico da parte di un donante residente all’estero sia da assoggettare a tassazione in Italia, occorre esaminare se il bene oggetto di donazione possa essere considerato quale bene esistente nel territorio dello Stato.

Nella risposta 310 l’agenzia osserva che il denaro allocato all’estero (da trasferire in Italia con bonifico) non è compreso tra i beni che si presumono esistenti nel territorio dello Stato in quanto, per presumere l’esistenza nel territorio dello Stato del denaro, occorre che l’autore del bonifico (alla stessa stregua dell’emittente di un assegno bancario) sia residente in Italia.

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Non è tassabile la cessione di marchi da parte di un privato

4 Agosto 2019

Quotidiano del Fisco  del 19 LUGLIO 2019  di Giuseppe Rebecca

La cessione di un marchio da parte di un privato non è tassabile. Così si è espressa la Ctr Veneto con la sentenza 524/5/2019in riforma della pronuncia di primo grado. In realtà è dall’entrata in vigore del Tuir che si discute se la cessione di un marchio (o di un brevetto) da parte di un privato sia da assoggettare ad imposte, quale reddito diverso. E questo per effetto della mancata esplicita previsione normativa, al contrario del precedente Dpr 597, ove appunto se ne trattava.

Il caso specifico esaminato dalla Ctr Veneto si riferisce tra l’altro, a un conferimento di marchio, ritenuto tassabile dall’agenzia delle Entrate. La Commissione regionale così si è espressa: «L’assoggettamento ad imposizione fiscale dell’incremento di ricchezza derivante, come nella fattispecie, dalla cessione o utilizzazione economica dei marchi concessi da privati, non appare, dopo le innovazioni introdotte dal Dlgs 480/92, espressamente disciplinato dal legislatore». E anche a voler accettare la tesi dell’ufficio, il collegio ritiene che la cessione dei marchi non possa essere equiparata all’assunzione di un obbligo di fare, non fare e permettere, che è presupposto necessario e sufficiente per ricomprendere il relativo corrispettivo tra i redditi diversi indicati dall’articolo 67 del Tuir, che ne prevede l’assoggettamento a tassazione.

Tale presupposto, infatti, non sussiste nella fattispecie, per due ordini di ragioni.
Innanzitutto non era stata data prova dell’incremento di ricchezza derivante da tale cessione, che solo quella teoricamente avrebbe potuto essere tassata. Dall’altra, la cessione non può essere assimilata alla concessione d’uso, il che porterebbe alla tassazione ex articolo 67, in quanto la concessione presuppone la proprietà, mentre nel caso specifico è proprio la proprietà che viene ceduta. In base all’articolo 23 della Costituzione «nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» (sempre della Ctr).Ed ecco che la Ctr ha accettato il ricorso del contribuente.

Precedentemente, nello stesso senso, anche se forse non adeguatamente motivata, si era espressa la sentenza della Commissione tributaria di Trento n. 193 del 1° dicembre 2017.

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Per le targhe estere la stretta si allenta

9 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 6 GIUGNO 2019 di Maurizio Caprino

CIRCOLARE DEL VIMINALE

Il divieto di guidare si decide sulla residenza anagrafica, non su quella normale

Si allenta la stretta sull’esterovestizione dei veicoli: ai fini del divieto per i residenti in Italia di guidare mezzi con targa estera, vale solo la residenza anagrafica e non quella formale. Lo afferma il ministero dell’Interno, con la circolare 300/A/4983/19/149/2018/06 del 4 giugno. Un’interpretazione che riguarda verosimilmente poche situazioni tra quelle che emergono quotidianamente e non affronta le questioni più critiche sollevate in questi primi mesi di applicazione della stretta.

La struttura tecnica del ministero (in questo caso, la direzione centrale delle Specialità della Polizia) ne appare ben consapevole. Tanto che nella circolare dice che è «in corso di predisposizione» una modifica normativa alla stretta, introdotta da dicembre con la legge 132/2018 di conversione del decreto sicurezza (Dl 113/2018).

In attesa che la legge venga cambiata, la circolare si limita a stabilire che gli agenti devono fare riferimento alla sola residenza anagrafica e non anche a quella normale, prevista dalle normative europee per chi rimane in uno Stato membro per almeno 185 giorni e citata dalla precedente circolare sull’esterovestizione dei veicoli, datata 10 gennaio 2019.

Questo perché, con le «criticità operative» emerse, «si è posta l’esigenza di limitare opportunamente il rigore del divieto», introdotto dalla legge 132/2018 nell’articolo 93 del Codice della strada. Ma in realtà è raro che gli agenti contestino infrazioni sulla base della residenza normale, che è difficile da accertare su strada.

Inoltre, le proteste più frequenti sono venute dalle comunità rumene, da San Marino e Vaticano e dai gelatieri della zona dolomitica che in estate lavorano in Germania. E in tutti questi casi risulta che i problemi riguardassero soprattutto persone che in Italia hanno la residenza anagrafica, non quella normale.

Nel caso di San Marino e Vaticano, invece, il problema deriva dal fatto che rientrano fra gli Stati extracomunitari e quindi per i dipendenti italiani delle loro aziende non vale la deroga prevista dall’articolo 93 per quelli di aziende comunitarie. Un’eventuale modifica normativa dovrebbe riguardare esplicitamente questi due Stati. E, preferibilmente, dovrebbe chiudere la porta a noleggi e leasing con operatori comunitari, che attualmente sono del tutto liberi, consentendo molti abusi.

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La nomina del sindaco o del revisore diventa obbligatoria per 80mila Srl

9 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 08 GIUGNO 2019 di Nicola Cavalluzzo

CRISI DI IMPRESA

Nello sblocca cantieri passa il compromesso che raddoppia i parametri

Taglio di quasi il 50% dei soggetti vincolati: 140mila con le vecchie soglie

Il Ddl di conversione del decreto sblocca cantieri, nella versione uscita dal Senato, mette la parola fine alla querelle sui parametri che obbligano le Srl alla nomina dell’organo di controllo interno. Come anticipato su «IL Sole 24 Ore» di ieri, alla fine ha prevalso la soluzione che prevede il raddoppio dei parametri attualmente indicati nel nuovo codice della crisi di impresa: pertanto, l’obbligo di nomina del revisore ed, eventualmente, anche dell’organo di controllo monocratico o collegiale, scatterà allorché, per due esercizi consecutivi, verrà superato almeno uno di questi limiti:

totale dell’attivo dello stato patrimoniale, 4 milioni di euro;

ricavi delle vendite e delle prestazioni, 4 milioni di euro;

dipendenti occupati in media nell’esercizio 20 unità. Immutati gli altri parametri e quindi occorrerà provvedere alla nomina del revisore e/o dell’organo di controllo nel caso in cui la società sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato o controlli una società obbligata alla revisione legale dei conti.

Immutata anche la regola che sancisce il venir meno dell’organo di controllo interno, che cesserà quando per tre esercizi consecutivi non sia superato alcuno dei predetti limiti. Quest’ultima disposizione finalmente allinea la durata in carica dell’organo di controllo con il periodo nel quale i parametri numerici non sono superati.

Il raddoppio dei limiti viene incontro all’esigenza di evitare di imporre controlli a società di modeste dimensioni, la cui struttura amministrativa non è in grado di predisporre in tempi così brevi un sistema amministrativo e contabile tale da soddisfare gli obblighi di legge. Di contro, un eccessivo innalzamento dei limiti avrebbe di fatto svuotato di interesse il nuovo codice che, innovando rispetto al passato, punta a creare un sistema di allerta interna che possa intercettare tempestivamente i segnali della crisi. Anche il Cndcec si è espresso in senso favorevole al raddoppio dei limiti, ritenendo che tale adeguamento possa nel contempo tranquillizzare le imprese di piccole dimensioni senza stravolgere gli obiettivi del codice.

Come emerge da uno studio del Cerved, l’accoglimento di questa proposta comporta una riduzione di circa il 50% delle società soggette all’obbligo di nomina dell’organo di controllo. Le società coinvolte saranno poco meno di 80mila, a differenza delle circa 140mila ricomprese nelle soglie originali identificate dalla riforma (due milioni di attivo e di ricavi; dieci dipendenti).

Con il recepimento di queste novità, tutte le Srl che hanno nominato l’organo di controllo sulla base dei limiti dimezzati potranno effettuarne la revoca per giusta causa. L’emendamento lascia irrisolto il dubbio sul quando procedere alla nomina dell’organo di controllo o del revisore. Infatti, già con l’assemblea di approvazione del bilancio 2018, le Srl dovrebbero valutare l’opportunità di provvedere senza attendere il maggior termine di nove mesi indicato nel nuovo codice. Infatti, il termine lungo sembrerebbe applicabile solo in presenza della necessità di adeguare lo statuto. In questo modo si consentirebbe all’organo di controllo di analizzare da subito i processi aziendali ovvero di richiederne l’implementazione.

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Responsabilità da decreto 231 anche per i reati tributari

8 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 26 GIUGNO 2019 di Giovanni Negri 

DIRITTO DELL’ECONOMIA

Nella legge di delegazione europea la previsione dell’estensione alle frodi Iva

Decisiva la necessità di recepimento della direttiva Pif

Società responsabili per frodi Iva commesse dai dipendenti. Aprendo così la strada per l’applicazione del decreto 231/01 nel penale tributario. A prevederlo è la legge di delegazione europea, ormai pronta per essere esaminata dall’Aula del Senato per il via libera definitivo. Più nel dettaglio, la legge affida al Governo il recepimento della direttiva Pif (protezione di interessi finanziari, la 2017/1371) che ha per oggetto la definizione di reati e di sanzioni contro le frodi che compromettono gli interessi finanziari dell’Unione con particolare riferimento all’Iva.

La necessità del recepimento mette in agenda il tema cruciale della responsabilità degli enti, uno di quelli più centrali, insieme alla forza esimente dei modelli (tuttora inevasa) e l’inclusione dei reati colposi (questo invece già in atto con i reati in violazione della sicurezza del lavoro). Da molto tempo, infatti, si discute dell’allargamento all’intero settore fiscale. Almeno dal 2007, a dire la verità, quando la commissione ministeriale guidata dall’attuale Procuratore di Mialano Francesco Greco (ma all’interno della quale l’anima, allora meno sbiadita, di Mani Pulite, era rappresentata anche da Paolo Ielo, oggi alla Procura di Roma, e Piercamillo Davigo, attuale consigliere del Csm) ne aveva già messa nero su bianco l’inserimento nella lista dei reati presupposto.

Non se ne fece nulla per la fine anticipata del Governo Prodi ma la questione è corsa sottotraccia in tutti questi anni, tra qualche interpretazione creativa da parte dei tribunali, utilizzando come leva reati affini come la truffa ai danni dello Stato e chiusure assolute da parte della Cassazione. Va poi detto, sul piano giurisprudenziale, che i reati tributari, mai inclusi in via principale, possono invece essere tra quelli che danno luogo alla responsabilità da decreto 231 quando rientrano nel piano criminale di un’associazione internazionale: l’associazione per delinquere, infatti, articolo 416 del Codice penale rientra infatti tra i reati presupposto a pieno titolo.

In ogni caso, il disegno di legge che si avvia all’approvazione definitiva scioglie i nodi, almeno sul fronte cruciale delle frodi Iva, lasciando tuttavia impregiudicato, lo sottolineava la stessa relazione, la valutazione del ministero della Giustizia sull’opportunità di comprendere tutto il penale tributario nel perimetro della responsabilità amministrativa degli enti. Insomma, aperta un breccia, potrebbe poi seguire la caduta di tutto il muro.

Di certo la riflessione non potrà avere tempi lunghi, anche perché sul piano formale il tempo per il recepimento della direttiva sta per scadere, visto che è fissato alla settimana prossima, al 6 luglio, per la precisione, e aprire un altro fronte con l’Europa anche sulla cooperazione in materia penale non pare consigliabile, almeno nel breve periodo.

A monte, l’articolo 6 della Direttiva contiene disposizioni sulla responsabilità delle persone giuridiche per le condotte illecite commesse anche a proprio vantaggio da parte dei dipendenti in generale e dei vertici aziendali in particolare. L’articolo 9 della Direttiva prevede poi l’adozione da parte degli Stati membri delle misure necessarie perché la persona giuridica riconosciuta responsabile ai sensi dell’articolo 6 sia sottoposta a sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, che comprendono sanzioni pecuniarie penali o non penali e che possono comprendere anche altre misure come : a) l’esclusione dal godimento di un beneficio o di un aiuto pubblico; b) l’esclusione temporanea o permanente dalle procedure di gara pubblica; c) l’interdizione temporanea o permanente di esercitare un’attività commerciale; d) l’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria; e) provvedimenti giudiziari di scioglimento; f) la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato.

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Ritenute sui dividendi, il certificato di residenza francese salva la holding

8 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 24 GIUGNO 2019 di Fabrizio Cancelliere e Gabriele Ferlito

Una società holding non può fornire gli stessi indizi di operatività di una società commerciale ai fini della verifica del requisito del beneficiario effettivo, necessario per l’applicazione della direttiva “madre-figlia”. Lo ha affermato la Ctp Milano con la sentenza 2237/1/2019 (presidente Roggero, relatore Chiametti) che accoglie il ricorso di una società italiana, controllata di una società francese, contro l’atto impositivo con cui l’agenzia delle Entrate contestava l’esenzione da ritenuta applicata sui dividendi “in uscita” pagati alla controllante.

Ma andiamo con ordine. L’agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento nei confronti di una società italiana facente parte di un gruppo multinazionale. Tra i vari rilievi, l’Agenzia contestava alla società l’omessa applicazione della ritenuta sui dividendi corrisposti nell’anno 2013 alla propria casa madre francese. A detta dell’ufficio, la non imponibilità in Italia dei dividendi “in uscita”, prevista dall’articolo 27-bis del Dpr 600/1973, attuativo dei princìpi la direttiva “madre-figlia”, non poteva essere applicata perché la società francese non rappresentava la beneficiaria effettiva delle somme, ma costituiva un soggetto meramente interposto nella catena partecipativa, che proseguiva, in realtà, fino alla capogruppo avente sede nelle isole Bermuda. In altri termini, per il Fisco la società francese costituiva solo una “costruzione di puro artificio” con lo scopo di dirottare fuori dall’Ue, sotto forma di interessi passivi, i dividendi erogati dalla società italiana, con evidente beneficio fiscale.

La società impugna l’avviso di accertamento, sia facendo valere principi di diritto, tra cui la libertà di stabilimento per le holding “pure” (cioè che svolgono attività di mera detenzione di partecipazioni), sia fornendo elementi concreti utili a provare la “sostanza economica” della società holding francese. In particolare, sotto il profilo fattuale, la società forniva elementi a conferma delle funzioni infragruppo svolte dalla controllante nonché della complessiva logica economico-imprenditoriale che alcuni anni prima aveva guidato la riorganizzazione del gruppo e l’elezione della società francese quale holding a capo di circa 40 società nell’area Emea.

La Ctp accoglie il ricorso della società ritenendo infondata la ricostruzione dell’ufficio principalmente sotto un profilo fattuale, rilevando, nel solco tracciato dalla Suprema corte, che la valutazione della sostanza economica di una società deve essere effettuata caso per caso, in funzione delle attività dalla stessa concretamente svolte. Nel caso in esame, partendo dall’assunto secondo cui ad una società holding non possono essere richiesti gli stessi indizi di operatività di una società commerciale, i giudici riconoscono la “sostanza economica” della holding francese e la bontà delle ragioni sottese al complesso progetto di riorganizzazione che aveva portato alla sua costituzione. Infatti, tale riorganizzazione ha consentito al gruppo di rafforzare la propria presenza nell’area Emea apportando crescita e innovazione in ogni settore di attività. Su queste basi, la Ctp qualifica la holding francese come “beneficiario effettivo” delle somme in contestazione e di conseguenza annulla l’avviso di accertamento e condanna l’ufficio al pagamento della spese di lite.

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La svolta del Titano: accordo con l’Ue per uscire dal tunnel

8 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore domenica 23 GIUGNO 2019 di Alessandro Galimberti 

Dieci anni dopo l’inizio della drammatica crisi finanziaria San Marino è al bivio. Chiuso l’ex paradiso fiscale la Rocca sta per diventare associato all’Unione per entrare nel mercato comune. E per sperare nel Qe di Draghi

UN PAESE CHE CAMBIa La repubblica più antica del mondo

Repubblica di san marino

La rigenerazione di San Marino – la repubblica più antica al mondo, come orgogliosamente rivendicano qui, 1718 anni di libertà e autodeterminazione – è a un punto di svolta. Uscita dalla scomoda e forse mai abbastanza rimpianta condizione di paradiso fiscale già dieci anni fa (white list per l’Ocse, dal 2014 lo è a tutti gli effetti anche per l’Italia), il futuro del Titano oggi dipende più che mai dall’Europa. Per i 28mila Sanmarinesi doc, a cui aggiungere 5mila italiani residenti, qualche centinaio di stranieri assorbiti e soprattutto 6mila lavoratori frontalieri marchigiano/romagnoli, l’accordo di associazione con l’Ue diventa una questione vitale. Lo è per le peculiarità della piccola Repubblica, che sui suoi 61 kmq conta industrie (una decina con più di 400 dipendenti), aziende agricole (in pieno sviluppo le coltivazioni biologiche), logistica, ma soprattutto un sistema bancario che in due lustri ha visto sovvertire il banco, da catalizzatore di fortune globali – meglio dire italiane – a grande malato in cerca di una via d’uscita. A fronte di un Pil sceso a 1,4 miliardi di euro (11 anni fa raggiunse il picco di 2,75 miliardi di dollari, oggi è a 1,65) e con un debito pubblico ufficialmente attorno al 25% – e con garanzie di restare sotto il 27,5% nonostante la frenata del Pil – il tema vero sottostante è l’intervento dello Stato per far fronte al rischio di collasso del sistema bancario. Tra Npl da piazzare sul mercato e buchi da ripianare, in molti qui sussurrano che le dimensioni reali della crisi finanziaria di San Marino somigliano terribilmente al perimetro del Pil, 1,4 miliardi di euro.

In questo scenario sempre più complicato, le trattative assai ardue per concentrare il numero di banche – accorpandole con un faticoso tratto di penna su decenni di rivalità – l’approvazione del recentissimo progetto di legge sulla risoluzione delle crisi bancarie (lo scorso 14 giugno) e gli sforzi per rimodellare modelli di business finanziari sono, alla fine, solo il corollario di una necessità stringente, quella di diventare “più” europei.

San Marino infatti, nonostante la geografia totalmente integrata con l’Italia, è oggi “paese terzo” rispetto ai 28 (o 27?), con i quali condivide solo un accordo di cooperazione doganale (1991) e la Convenzione monetaria del 2000, rivista nel 2012, che autorizza, tra l’altro, il Titano a utilizzare l’euro come moneta ufficiale dello Stato. Però oggi, dieci anni dopo l’uscita forzata dalla comoda dimensione di paradiso, questo cordiale rapporto di vicinanza non basta più. Dal 2015 San Marino, insieme agli apparenti (ma solo apparenti) cugini del Principato di Monaco e del Principato di Andorra ha iniziato il percorso di avvicinamento a Bruxelles, chiarendo però dall’inizio di non voler diventare membro Ue, ma solo di ambire a concludere un «Accordo di associazione» caratterizzato da «diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari» (articolo 217 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Il Titano ha un disperato bisogno di Europa, «ma desidera essere considerato nelle sue pec uliarità – dice il Segretario di Stato agli affari esteri, Nicola Renzi – Abbiamo bisogno di individuare limitazioni ad alcuni delle libertà che altrimenti travolgerebbero i nostri Paesi così piccoli, dalla libertà di stabilimento delle persone fisiche alla libera circolazione dei lavoratori fino alla libera prestazione dei servizi». Servono insomma quote “tetto” prestabilite nell’ambito di una sperimentazione temporalmente definita, servirebbe anche una «maggior elasticità e un periodo di adattamento ai parametri del Pil, della disoccupazione, del contenimento della popolazione residente».

La strada però è già tracciata, sono sicuri a queste latitudini, non solo, il rapporto Aguilar dell’11 febbraio scorso «Progetto di raccomandazione del Parlamento europeo» dice chiaramente che questi tre Paesi «hanno rispettato tutti gli impegni sulla trasparenza, sull’equità fiscale e sulle misure anti-Beps», che San Marino è «in difficoltà ad esportare verso Stati Ue» per restrizioni ormai non più giustificabili e che quindi il nuovo Parlamento continentale dovrebbe accogliere i tre nuovi associati. Sulla tempistica, il presidente uscente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, a inizio primavera aveva parlato della «volontà di arrivare entro ottobre 2019 alla parafatura dell’accordo, o almeno a una dichiarazione politica in tal senso».

«Ciò che San Marino oggi desidera, e per cui sta lavorando assiduamente, è un level playing field con i competitori e con il mercato europeo – chiosa il ministro degli esteri del Titano – Crediamo fermamente nella libera prestazione dei servizi (cioè la possibilità degli operatori finanziari di esercitare all’estero, ndr) e siamo così coerenti da essere già compliant con il 90% degli obblighi internazionali, dall’antiriciclaggio a Basilea 3, ma senza beneficiare dei diritti». Quali? La Lps libera prestazione dei servizi, appunto, «ma anche il Quantitative easing» con la disponibilità di offrire in cambio la sorveglianza bancaria «che vogliamo, ma dopo aver contrattato le due cose di cui sopra».

Il bazooka di Draghi rappresenterebbe la vera ancora di salvezza per un Paese aggrappato a un mondo che non c’è più e all’idea di sè portata via dalla crisi mondiale del decennio scorso.

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Dividendi esteri, il netto frontiera passa dalla banca

8 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 14 GIUGNO 2019 di Marco Piazza

attività finanziarie

La strada per evitare la dichiarazione al lordo in caso di imposta al 26%

La conferma (si veda Il Sole 24 Ore del 31 maggio scorso) che i dividendi esteri soggetti all’imposta secca del 26%, se percepiti senza l’intervento di intermediari finanziari italiani, devono essere dichiarati nel loro importo lordo e non al netto delle imposte subite all’estero (cosiddetto «netto frontiera», previsto dall’articolo 27, comma 4-bis del Dpr 600/1973) ha prodotto una immediata reazione dei contribuenti.

Molti, infatti, per poter subire la tassazione sul «netto frontiera», stanno chiedendo alle banche di intervenire nella riscossione dell’utile anche in relazione a partecipazioni non affidate in custodia o amministrazione alla banca stessa (monitorati nel quadro RW della dichiarazione).

Questa possibilità è ammessa dalla circolare 19/E del 2014, par. 9, secondo la quale i sostituti d’imposta che intervengono nella riscossione dei redditi derivanti da attività finanziarie estere applicano le ritenute alla fonte e le imposte sostitutive «dietro specifico incarico a cura del contribuente». Per l’intervento della banca è sufficiente, quindi, che il contribuente le conferisca l’incarico di operare la ritenuta in sede di percezione del dividendo per conto del cliente.

Poiché, però, l’intermediario ? non avendo mai detenuto le azioni in deposito ? non è in grado di determinare autonomamente il regime fiscale applicabile e l’ammontare imponibile, il contribuente dovrà fornirgli la documentazione necessaria che, in alcuni casi, può essere consistente, data la numerosità dei vincoli e delle condizioni di legge. Infatti, occorre:

accertare che il dividendo non sia ammesso in deduzione dal reddito imponibile dell’emittente (articolo 44, comma 2 lettera a) del Testo unico);

verificare che l’importo percepito non derivi dalla distribuzione di riserve di capitale tenendo conto della presunzione di cui all’articolo 47, comma 1 del Testo unico;

accertare che non sia proveniente da un’entità a fiscalità privilegiata, secondo l’articolo 47-bis del Testo unico tenendo conto del regime transitorio previsto dall’articolo 1, comma 1007 della legge 205 del 2017, della risposta 4) in materia di fiscalità internazionale al Telefisco 2019 e del Principio di diritto 17 del 2019;

nel caso sia proveniente da un’entità a fiscalità privilegiata, accertarsi che sia applicabile l’esimente di cui all’articolo 47, comma 2, lettera b dell’articolo 47-bis (che dalla partecipazione non sia conseguito l’effetto di localizzare i redditi in paesi a fiscalità privilegiata o che l’utile sia formato da redditi già tassati per trasparenza nell’ambito della disciplina Cfc all’articolo 167 del Tuir);

infine, verificare se il dividendo è formato con redditi prodotti fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2017, perché in questo caso l’imposta sostitutiva si applica solo se la partecipazione non è qualificata.

Attività, tutte queste, che le banche, di norma strutturate per effettuare operazioni di routine, non sempre riescono ad eseguire.

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Sponsor, foto e giornali provano la prestazione

8 Luglio 2019

Il Sole 24 Ore 06 GIUGNO 2019 di Alessandro Borgoglio

La documentazione fotografica e giornalistica attestante la sponsorizzazione di una scuderia di rally automobilistici, unitamente alla contabilità regolare, alla presenza di contratti di sponsorizzazione e bonifici di pagamento sono elementi sufficienti a provare l’effettuazione delle prestazioni e, quindi, a consentire la deducibilità dei relativi costi da parte dello sponsor. Così si è pronunciata la Ctr Emilia-Romagna 627/1/2019(presidente e relatore Lamberti).

A una Srl era stata contestata la deducibilità delle spese di sponsorizzazione di una scuderia automobilistica partecipante a campionati di rally, in quanto le operazioni sottese alle fatture passive sarebbero state inesistenti, quantomeno parzialmente: secondo l’ufficio, infatti, la scuderia aveva emesso fatture gonfiate. Dalle indagini penali nei confronti della scuderia era emerso che uno dei soggetti coinvolti aveva confessato la prassi di preparare «pacchetti di risparmio fiscale» per gli sponsor, con fatture di sponsorizzazione gonfiate e restituzione in contanti di una parte dei bonifici effettuati.

Nonostante ciò, la Ctr ha ritenuto sufficienti i bonifici, la contabilità regolare e gli articoli di giornali e le fotografie esibite dalla Srl, a dimostrazione dell’apposizione del suo marchio sulle vetture della scuderia sponsorizzata, per attestare l’esistenza piena delle operazioni contestate dal Fisco, la deducibilità degli importi fatturati e la detrazione dell’Iva afferente (in senso conforme Ctp di Forlì 277/1/2013 e Ctp Treviso 38/4/13).

Invero, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in caso di contestazione di operazioni inesistenti, grava sul contribuente la prova contraria, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (ex pluris, Cassazione 11155/2019 e 9588/2019; Ctr L’Aquila 151/6/2019).

L’ufficio, inoltre, aveva anche contestato la sovrafatturazione sulla base dell’inverosimiglianza delle sponsorizzazioni effettuate (40mila-80mila euro) in rapporto agli utili della Srl (9mila-14mila euro), il che evidentemente rendeva antieconomica la gestione aziendale. Secondo il collegio di merito, tale antieconomicità avrebbe dovuto essere sorretta da ulteriori elementi probatori, nella specie insussistenti.

Anche questa conclusione, però, si contrappone nettamente alla consolidata giurisprudenza di legittimità, per cui è sufficiente la contestazione di antieconomicità per far scattare il ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente, senza che siano necessari ulteriori elementi (ex pluris, Cassazione 8845/2019, 43/2019, 16635/2018).

Infine, il Fisco aveva anche contestato la mancanza di inerenza, atteso che la Srl sponsor non operava nel settore automobilistico e non avrebbe ricevuto nessun vantaggio economico dalla sponsorizzazione della scuderia di rally. Anche questa eccezione è stata bocciata dai giudici di merito; eppure la Cassazione ha ripetutamente stabilito che, qualora non vi sia alcun nesso tra l’attività sponsorizzata e quella posta in essere dallo sponsor, le spese di sponsorizzazione non possono considerarsi di pubblicità ed essere dedotte secondo la relativa disciplina (si vedano Cassazione 20154/2016, 3433/2012 e 25100/2014; Ctp Milano 3819/47/15).

Doing business in San Marino

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