Spa, l’assemblea non può imporre agli azionisti di ripianare il rosso

18 Gennaio 2019

Il Sole 24 Ore 01 DICEMBRE 2018 di Antonino Porracciolo

TRIBUNALE DI ROMA

Eventuali patti parasociali inutilizzabili perché efficaci solo tra chi li ha firmati

La soluzione è la riduzione di capitale e l’aumento al minimo previsto dal Codice

L’assemblea della società per azioni non può imporre agli azionisti l’obbligo di coprire le perdite sociali o effettuare finanziamenti per ripianare il bilancio in rosso. Lo afferma il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia d’impresa (presidente Cardinali, relatore Buonocore), nella sentenza n. 13522 dello scorso 30 giugno.
La vicenda
Il processo scaturisce dall’impugnazione della delibera di una società per azioni, con cui si era stabilito che le perdite di bilancio, pari a 670mila euro al 31 dicembre 2014, fossero ripartite tra i soci, come previsto dai patti parasociali. La ricorrente, socia della Spa, ha chiesto una pronuncia di nullità dell’atto, sostenendo che l’assemblea non potesse obbligare i soci al versamento delle somme necessarie a ripianare le perdite di esercizio.
La decisione
Nell’accogliere la domanda, il Tribunale di Roma ricorda, innanzitutto, che la disciplina delle Spa «è ispirata al principio della “responsabilità limitata” dei soci», sui quali il rischio d’impresa grava «nei limiti della frazione di capitale sottoscritta e dei conferimenti eseguiti in sede di costituzione della società o, anche, in occasione di successive delibere di aumento del capitale».
Quindi – prosegue il giudice capitolino –, nel caso in cui la società abbia riportato perdite di esercizio che riducano il capitale al di sotto del minimo legale, gli organi sociali non possono «imporre ai singoli azionisti l’erogazione delle somme necessarie per la relativa copertura».
Infatti, per questa ipotesi l’articolo 2447 del Codice civile dispone che gli amministratori debbano convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento a una cifra non inferiore al minimo stabilito dall’articolo 2327 del Codice civile.
Peraltro, anche dopo tale delibera, i soci hanno la facoltà «e non l’obbligo di sottoscrivere – in tutto o in parte – le azioni loro offerte in opzione»; così come possono decidere di erogare un finanziamento che comunque resta un atto «rimesso alla libera determinazione e al potere dell’interessato».
«Patti» fuori gioco
Né, per ripianare le perdite di esercizio, l’assemblea può imporre ai soci l’obbligo di effettuare versamenti in base al contenuto di patti parasociali con cui gli stessi soci si siano reciprocamente impegnati a fornire alla società i mezzi economici necessari per far fronte alle situazioni di crisi. Infatti, si tratta di accordi che producono effetti solo tra coloro che li hanno firmati, e che dunque «non sono opponibili alla società né possono essere da quest’ultima invocati». E, in caso di violazione di tali patti, si può parlare solo di «meri obblighi risarcitori» a carico del socio inadempiente e unicamente a favore «degli altri soci contraenti».
Così il Tribunale di Roma ha dichiarato invalida la delibera impugnata e ha condannato la Spa a rimborsare alla ricorrente le spese processuali.

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Il residente in Cina non paga per le plusvalenze in Italia

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore del 17 settembre 2018 di Fabrizio Cancelliere

Fisco Internazionale

Sono fiscalmente residente in Cina. Ho delle plusvalenze su titoli detenuti presso una banca italiana. La banca non applica la ritenuta del 26% (regime dichiarativo), in quanto sono residente estero, e afferma che dovrei dichiarare le plusvalenze e pagare la relativa tassa in Cina, in base alla tassazione locale. In Cina, tuttavia, i redditi prodotti fuori dal Paese non sono tassati. Significa che, nel mio caso, non dovrei pagare alcuna tassa sulle plusvalenze?
C.P.MILANO
La soluzione è corretta, visto che le plusvalenze su partecipazioni non qualificate realizzate nel 2018 da un soggetto residente in uno Stato “white list” qual è la Cina, non sono imponibili in Italia, in base all’articolo 5, comma 5, del Dlgs 461/97.

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Legittimo esaminare i depositi dei genitori del contribuente

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore 12 SETTEMBRE 2018 di Laura Ambrosi

INDAGINI FINANZIARIE

Soprattutto in presenza di una delega e del legame con la propria attività

È legittimo l’accertamento fondato sulle indagini bancarie dei conti correnti dei genitori del contribuente a maggior ragione se su questi esiste una delega a operare e per alcuni movimenti è stata confermata la riconducibilità alla propria attività. A fornire questo chiarimento è la corte di Cassazione con l’ordinanza numero 22089 depositata ieri. L’agenzia delle Entrate notificava a un professionista un avviso di accertamento fondato, oltre che sulle risultanze di documentazione extracontabile rinvenuta in sede di accesso, anche sulle movimentazioni bancarie. In proposito, erano state verificati i conti correnti sia intestati al contribuente sia ai suoi genitori, sul quale disponeva di delega ad operare.
Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che annullava la pretesa in primo grado. L’Agenzia proponeva così appello che veniva accolto limitatamente ad alcuni movimenti su uno dei conti intestati ai genitori i quali erano stati espressamente riconosciuti dal contribuente come riconducibili all’attività professionale.
L’Agenzia ricorreva in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, un’errata applicazione della norma in tema di indagini bancarie.
I giudici di legittimità, in accoglimento del ricorso, hanno innanzitutto confermato che per superare la presunzione posta a carico del contribuente non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che sia fornita prova analitica della riferibilità ovvero estraneità di ogni singola movimentazione rispetto ai redditi dichiarati.
Il rapporto di stretta contiguità familiare consente, peraltro, di applicare la presunzione anche per le movimentazioni intestate a parenti per le quali il contribuente non fornisca specifiche giustificazioni. La Cassazione, in proposito, ha precisato che la ratio di tale estensione è radicata nella circostanza che è particolarmente elevata la probabilità che sui conti bancari di soci o di familiari si possano versare somme del soggetto sottoposto a verifica.
Nella specie, la Suprema corte ha rilevato che la Ctr aveva immotivatamente escluso la riferibilità al contribuente per le somme rinvenute sui conti dei genitori.
L’esclusione risultava ingiustificata anche alla luce del fatto che il contribuente aveva la delega ad operare su tali conti e che egli stesso aveva confermato l’utilizzo professionale, relativamente a quattro operazioni.
La decisione conferma il rigoroso orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di indagini finanziarie.
Tuttavia, pur se non esplicitamente, la pronuncia pare dare rilievo al fine della riconducibilità al contribuente dei conti correnti di terzi, alla sussistenza della delega e delle movimentazioni confermate dall’interessato come riferibili all’attività. L’Ufficio quindi aveva giustificato l’estensione del controllo ai conti di tali soggetti.
Va segnalato che lo scorso febbraio la Cassazione (ordinanza 2536/2018) ha affermato che è illegittimo l’accertamento fondato sulle indagine bancarie sui conti correnti dei soci, se l’Ufficio non ha provato la riconducibilità dei movimenti privati all’ente.

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Il bilancio decide l’azione verso i sindaci

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore 6 SETTEMBRE 2018 di Patrizia Maciocchi

SOCIETÀ

La prescrizione decorre dal manifestarso delle perdite

Nell’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci per la cattiva gestione della società, la prescrizione decorre da quando nel bilancio è riportata una perdita ingente percepibile da tutti i creditori. Né ad escludere le “colpe” dei sindaci basta il fatto che abbiano indicato nelle loro relazioni lo squilibrio patrimoniale, la sottocapitalizzazione, l’indebitamento e l’inadeguatezza dei fondi di ammortamento. Un’iniziativa “inutile” se poi il risultato è un bilancio in attivo, anche se raggiunto con artifizi, che attesta l’esistenza di utili la cui distribuzione tra i soci viene deliberata dall’assemblea. Il tutto senza obiezioni da parte degli organi sociali di gestione e di controllo.
Con la sentenza 21662/2018, la Cassazione conferma la maxi sanzione di circa un milione e mezzo di euro – in seguito all’azione di responsabilità promossa dal fallimento – a carico di amministratori e sindaci di una società cooperativa a responsabilità limitata. I giudici respingono un ricorso giocato soprattutto sul filo della prescrizione. Secondo i sindaci, infatti, l’orologio della prescrizione non doveva partire dal ’93, come affermato dalla Corte d’appello, ma dal 1990, anno in cui l’insufficienza patrimoniale era già evidente, grazie alla relazione nella quale era indicata la non corretta valutazione di alcune voci. Una situazione nota alle banche addirittura dall’89.
La Cassazione però non è d’accordo. A iniziare dalla consapevolezza del dissesto che non può riguardare solo gli istituti di credito ma deve essere comune a tutti i creditori e ai terzi in genere. I giudici chiariscono che non basta che il bilancio, scrupolosamente letto, evidenzi delle perdite, per rendere i creditori consapevoli dell’insufficienza patrimoniale. E questo proprio in conseguenza delle “regole” stesse (articolo 2426 del Codice civile) di redazione del documento contabile. I valori espressi nelle voci possono, infatti, non coincidere con quelli di mercato, essendo a volte superiori, altre inferiori. Il bilancio – ricorda la Suprema corte è la cartina di “tornasole”, il documento principe per informare creditori e terzi sulla situazione della società. Ed è dunque evidente che l’indicazione di un attivo o di un pareggio costituisce una notizia rassicurante e affidabile. E non basta l’alert dei sindaci nella relazione, se questi poi non si attivano per impedire agli amministratori di violare i principi contabili.

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Obbligo di controllo anche per consiglieri privi di deleghe

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 24 SETTEMBRE 2018 di Enrico Comparotto e Martino Vinco

La vigilanza

Devono attivarsi per scongiurare le condotte dannose per la società

Nell’articolato sistema di controllo caratterizzante le società di capitali, particolare rilevanza assume la questione relativa ai doveri di vigilanza incombenti sull’amministratore privo di deleghe e sulle connesse responsabilità. Con la sentenza n. 9973 del 23 aprile 2018 e, più diffusamente, con la precedente pronuncia n. 31204 del 29 dicembre 2017, la suprema Corte ha rimarcato i limiti in cui l’amministratore non esecutivo deve rispondere in solido per le vicende di mala gestio poste in essere dai membri del consiglio di amministrazione assegnati di delega.
Sul punto la riforma del 2003 ha inciso profondamente sull’inquadramento della responsabilità dell’amministratore privo di deleghe, che prima era unicamente incentrata sulle disposizioni previste dall’articolo 2392, secondo comma, del Codice civile, e veniva intesa «come omessa vigilanza sul generale andamento della gestione». Tale inquadramento aveva come conseguenza che gli amministratori cui non fossero stati assegnati autonomi poteri gestori avrebbero potuto sottrarsi dal regime sanzionatorio solo laddove avessero esercitato un controllo integrale sull’operato degli organi delegati.
Nella nuova disciplina il generale obbligo di vigilanza è stato invece sostituito, secondo una previsione più aderente al dovere di diligenza in capo agli amministratori, dall’obbligo per gli amministratori non delegati ad «agire informati», ciò comportando in primo luogo un dovere-potere di richiedere periodicamente agli organi delegati informazioni relative alla gestione della società (articolo 2381, ultimo comma del Codice civile). Precisa tuttavia la suprema Corte che tale obbligo non si esaurisce nella mera acquisizione di notizie, essendo comunque gli amministratori investiti di una serie di prerogative di natura reattiva ed impeditiva, quali ad esempio la revoca della delibera illegittima o l’impugnazione della stessa, l’avocazione dei poteri, la denunzia di fatti illeciti alla pubblica autorità.
Superando l’elemento oggettivo della mera carica ricoperta, il nuovo assetto normativo ha infatti in maniera esplicita posto l’accento sull’elemento della colpa, che secondo la Cassazione può consistere o nell’inadeguata conoscenza del fatto altrui o nel non essersi l’amministratore privo di delega utilmente attivato, con la diligenza richiesta dall’incarico, al fine di evitare l’evento pregiudizievole.
L’amministratore non operativo non avrà quindi modo di invocare quale “esimente” della propria responsabilità il fatto di non aver rilevato i segnali dell’altrui illecita gestione, nell’ipotesi in cui gli stessi siano percepibili con la diligenza qualificata richiesta dalla propria carica, avendo presente che l’imputazione per colpa richiede la mera conoscibilità dell’evento.
Il ruolo di controllo dell’amministratore non esecutivo viene in definitiva inteso dalla Cassazione come «obbligo di informazione attiva e passiva, nonché di conseguente attivazione, al fine di scongiurare le condotte dei delegati da cui possa derivare un danno alla società, quel che è definito il dovere di agire informato» (sentenza 22848/2015).

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La nuova rotta sui costi inerenti non coinvolge l’antieconomicità

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 3 SETTEMBRE 2018 di Gianfranco Ferranti

LA CASSAZIONE

Le spese devono riferirsi all’attività d’impresa, anche se in proiezione futura

Le Entrate possono tuttavia contestarne la congruità se risultano antieconomiche

La Cassazione ha cambiato idea sul fondamento del principio di inerenza, ma ne ha lasciata invariata la nozione e confermato l’orientamento in materia di antieconomicità.
È stato, infatti, affermato che, anche se tale principio non è stabilito normativamente ma è “immanente” alla nozione di reddito e implica comunque un giudizio solo qualitativo in ordine alle spese dedotte, gli uffici delle Entrate mantengono il potere di sindacarne la congruità in caso di comportamenti antieconomici.
Il nuovo orientamento
La Suprema corte ha per la prima volta smentito, nelle ordinanze 450 e 3170 del 2018, il precedente costante orientamento interpretativo secondo il quale il principio di inerenza sarebbe stabilito dall’articolo 109, comma 5, del Tuir. In base a tale norma, le spese e gli altri componenti negativi, diversi dagli interessi passivi, «sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi». La Cassazione ha ora correttamente affermato che questa disposizione si riferisce al «diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti» e che il principio di inerenza è, invece, «inespresso» e immanente alla nozione di reddito d’impresa e la sua valutazione impone un giudizio «qualitativo» e non “quantitativo”. Nella sentenza 3198/2015 era stata già adottata un’interpretazione analoga ai fini del reddito di lavoro autonomo (sempre in mancanza di una espressa previsione normativa).
Ad analoghe conclusioni sono successivamente pervenute le ordinanze 6288, 8893, 10242, 12416, 13882 e 20113 del 2018.
L’antieconomicità
L’affermazione che l’inerenza non implica una valutazione «quantitativa» delle spese ha fatto sorgere il dubbio che non fosse più possibile per gli uffici sindacare la congruità delle stesse.
Nella ordinanza 450/2018 era stato, però, già affermato che l’antieconomicità, pur non essendo espressione dell’inerenza, costituisce un indice rilevatore della mancanza della stessa. Nella sentenza 14579/2018 (relativa ai costi infragruppo) è stato precisato che tale criterio, apparentemente estromesso, continua comunque ad assumere rilevanza.
Nella sentenza 18904/2018 (concernente la concessione di un rilevante sconto a una società cliente appartenente allo stesso gruppo) è stato poi stabilito che:
ai fini delle imposte sui redditi la valutazione di antieconomicità «legittima e fonda il potere dell’Amministrazione finanziaria di accertamento ex art. 39, primo comma, lett. d, dPR n. 600 del 1973», anche se l’ufficio non può sindacare le scelte imprenditoriali;
in base alla consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Cassazione l’inerenza del costo ai fini Iva «non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e attività d’impresa».
L’orientamento giurisprudenziale sopra illustrato non appare del tutto coerente e sarebbe stato preferibile stabilire che il potere di sindacare la congruità dei corrispettivi non può mai essere ricondotto al principio di inerenza. Il comportamento antieconomico può, invece, continuare ad assumere rilevanza in presenza di altre circostanze o argomentazioni probatorie che consentono di effettuare l’accertamento analitico-induttivo di cui all’articolo 39, dimostrando, sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che il corrispettivo diverge da quello contabilizzato (come peraltro confermato dalla stessa Cassazione nelle recenti ordinanze 3285/2018 e 16635/2018 e nella sentenza 13596/2018).

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La presunzione dell’esterovestizione può diventare indizio di un reato

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore 27 SETTEMBRE 2018 di Laura Ambrosi

CASSAZIONE

È necessario che la natura fittizia della sede in Italia sia ricostruita con dati di fatto

Gli indizi utilizzati ai fini fiscali per presumere l’esterovestizione di una società possono essere idonei anche ai fini penali se consentono, in base ad un ragionamento logico e non contraddittorio, di concludere che la sede effettiva della impresa non sia all’estero ma in Italia. Ne consegue che la titolarità di un rapporto di conto corrente in Italia utilizzato per gran parte delle operazioni, l’assenza di un contratto di locazione dei locali della sede estera per tutto il periodo di operatività della società, lo svolgimento in Italia da parte del rappresentante legale di una contemporanea attività, possono legittimamente contribuire al convincimento del giudice penale circa la natura solo fittizia della sede all’estero.
A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 41683 depositata ieri.
Nei confronti di una società sammarinese veniva ipotizzata l’effettiva sede in Italia: oltre alle conseguenze di natura fiscale, il legale rappresentante era perseguito penalmente per omessa presentazione della dichiarazione e per occultamento o distruzione di scritture contabili. In particolare, quest’ultimo delitto derivava dal rinvenimento di alcuni documenti fiscali della società presso terzi che non erano stati invece forniti all’amministrazione finanziaria né erano reperibili presso la sede estera.
Il rappresentante legale era assolto per l’omessa dichiarazione, stante il mancato superamento della soglia di punibilità, mentre era condannato nei due gradi di giudizio per l’occultamento delle scritture contabili. Ricorreva pertanto in cassazione lamentando, tra l’altro, che per giungere alla condanna il giudice penale di fatto aveva applicato le presunzioni tributarie previste dalla normativa fiscale in tema di esterovestizione prive di valore in sede penale.
La Cassazione ha respinto il ricorso rilevando che la decisione della Corte di appello in realtà aveva desunto la natura fittizia della sede legale della società da precisi dati di fatto: la titolarità di rapporti di conto corrente bancario sia in Italia che a San Marino, con l’utilizzo di quelli accesi in Italia per la gran parte delle operazioni; la testimonianza dell’unica dipendente della società che aveva riferito di aver avuto esclusivamente contatti con un avvocato e non con il legale rappresentante; il contemporaneo svolgimento da parte dell’imputato di un’attività in Italia ove era stata aperta una seconda sede; l’esibizione di un contratto di locazione finanziaria di soli due anni di un capannone a San Marino a fronte di una operatività societaria di circa nove anni; la documentazione mancante non depositata presso la sede estera della società.
I giudici di legittimità hanno così rilevato che, ai fini della contestazione della esterovestizione, non erano state utilizzate presunzioni tributarie di matrice civilistica, ma indizi di matrice penalistica. In altre parole, il giudice di merito non aveva fatto ricorso ad alcuna presunzione tributaria, ma aveva ricostruito in modo autonomo e dettagliato i fatti, desumendo con ragionamento per nulla contraddittorio né illogico che la sede effettiva della società sammarinese fosse situata in Italia. Da qui la conferma della condanna.

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L’Iva è collegata all’immobile

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore 25 SETTEMBRE 2018 di Gian Paolo Tosoni

il Principio di diritto n. 2 delle entrate

Il caso riguarda un soggetto non residente che organizza congressi o eventi simili

Un soggetto non residente che organizza un congresso o eventi simili in Italia, che richieda l’utilizzo di un immobile, assolve l’Iva in Italia. Lo precisano le Entrate con il «Principio di diritto n. 2» pubblicato ieri nella nuova sezione del sito internet. Il caso riguarda la concessione a titolo oneroso dell’uso di beni immobili situati in Italia destinati alla attività congressuale e alla organizzazione di eventi; inevitabilmente tale attività richiede anche la prestazione di servizi. Immaginiamo l’accoglienza e l’assistenza anche con personale dedicato. La nota cita i servizi in occasione di eventi sportivi che si presumono forniti sempre unitamente alla concessione in uso di immobili.
L’Agenzia, sulla base del regolamento Ue n. 1042/2013, articolo 31 bis, ha precisato che qualora la prestazione di servizio abbia come elemento essenziale e indispensabile la concessione in uso dell’immobile e i servizi prestati sono in via accessoria, scatta l’applicazione dell’Iva nello Stato in cui si trova l’immobile in base all’articolo 7-quater del decreto Iva. L’accessorietà dei servizi, che presentano un nesso diretto con l’immobile, è misurata anche in relazione al loro valore economico. In sostanza, deve emergere che la concessione in uso del fabbricato è fondamentale per la prestazione del servizio, mentre le prestazioni accessorie devono essere funzionali (ancillari) alla concessione in uso dell’immobile. Essendo quindi la prestazione territorialmente rilevante in Italia, il soggetto non residente che deve assolvere l’Iva a favore del prestatore nazionale potrà chiedere il rimborso ai sensi dell’articolo 38 bis 2 o 38 ter del Dpr 633/72 a seconda che il committente sia un operatore economico residente nella Ue oppure in altri Stati extra Ue. Queste prestazioni presentano similitudini con l’organizzazione di fiere che però con le modifiche del regolamento Ue 1042, sono soggette a Iva nel Paese del committente rientrando nei servizi generici (circolare 26/6/2014).

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La fattura elettronica non prova il contratto

9 Novembre 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 24 SETTEMBRE 2018 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce

La giurisprudenza ha negato al documento un valore probatorio dei rapporti giuridici costituiti: essendo una dichiarazione potrà rappresentare solo l’indizio dell’esistenza di una relazione commerciale

La fatturazione elettronica è adatta a migliorare le capacità di controllo e contrasto all’evasione, ma è anche e soprattutto un utile strumento di semplificazione amministrativa, contabile e gestionale, mantenendo tra le parti un ruolo servente rispetto alla costituzione del rapporto giuridico. Questo dovrebbe essere un aspetto di assoluto interesse per i contribuenti, chiamati a sfruttare un obbligo per trasformarlo in un’opportunità.
Molte delle domande inviate dai lettori alla casella email efattura@ilsole24ore.com si interrogano sul valore giuridico della fattura eleettronica. Ebbene, il valore giuridico di una fattura non cambia in ragione dello strumento di produzione, cartaceo o elettronico che sia. Tuttavia molti dei processi aziendali a rilevanza civilistica e commerciale sono stati strutturati e ruotano intorno al momento di emissione o di ricezione del documento contabile fattura. Si pensi all’erogazione di finanziamenti o all’avvio di pagamenti rateali o all’invididuazione del momento da cui decorrono termini di versamento o di esecuzione della prestazione contrattuale.
La circostanza che la fattura dovrà essere gestita – in ricezione e in emissione – in modalità esclusivamente elettronica determina come conseguenza quella della tracciabilità completa e automatizzata a fini fiscali di tutte le fasi del ciclo dell’ordine, ricordando comunque che nessun adempimento prescritto da norma di matrice fiscale è stato modificato.
Ad esempio, le regole circa la liquidazione dell’imposta, la contabilizzazione e la registrazione dei documenti, oppure l’esercizio del diritto alla detrazione, non sono cambiate rispetto alla gestione cartacea del documento. L’utilizzo di strumenti elettronici aumenta solamente il grado di compliance fiscale rispetto a tali regole operative. Prescindono quindi dalla natura analogica o elettronica del documento non solo le fasi del ciclo attivo e passivo, ma anche eventuali ulteriori processi allo stesso correlati di natura civilistica e commerciale.
Al riguardo è pacifica la posizione riscontrabile nella giurisprudenza di legittimità, oltre che di merito, circa il valore probatorio della fattura in relazione alla valida costituzione del rapporto giuridico certificato dal documento fiscale. La Cassazione, con la sentenza n.9542 del 18 aprile 2018, ha riconfermato da ultimo il proprio consolidato orientamento secondo cui la fattura commerciale – in quanto documento a formazione unilaterale e alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto – si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo: in pratica, consiste nella dichiarazione, indirizzata all’altra parte, di fatti concernenti un rapporto già costituito. Quando tale rapporto è in contestazione, la fattura non può costituire valido elemento di prova delle prestazioni eseguite ma, al più, un mero indizio. La fattura non è quindi costitutiva di un rapporto commerciale ma, al contrario, dal punto di vista civilistico è una dichiarazione, a formazione peraltro unilaterale, di fatti relativi ad un rapporto già costituito. In altri termini non è la fattura di per sé a determinare sussistenza e validità di un rapporto commerciale di per sé già formato e giuridicamente vincolante.
Queste considerazioni generali possono essere declinate rispetto alla fattura elettronica su due livelli.
Da un lato l’emissione in formato elettronico tramite un’infrastruttura pubblica evita incertezze sui tempi di ricezione del documento o sulla stessa ricezione.
Dall’altro lato, però, il valore giuridico della fattura resta quello di un atto unilaterale. Quindi, con l’occasione della fatturazione elettronica, è opportuno riconsiderare anche l’impatto e la rilevanza attribuita al documento fattura in determinati processi commerciali, i quali trovano fondamento e origine nell’accordo e nel contratto che le parti, a monte dell’operazione, hanno raggiunto e di cui la fattura costituisce solamente attestazione a rilevanza fiscale.
Subordinare l’avvio di processi aziendali e commerciali alla valida emissione della fattura vuol dire sottoporre ad una sorta di condizione sospensiva alcune attività che invece di per sé, in quanto originano da un contratto o da un accordo, sono già valide ed efficaci.

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Nella vendita di beni e servizi l’Iva segue l’attività principale

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 01 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi

CASSAZIONE

Il caso dell’impresa italiana che commercializza prodotti di un soggetto Ue

Se a fronte di un compenso determinato unitariamente, un soggetto italiano si impegna sia a vendere i prodotti di una impresa Ue, sia a offrire servizi accessori, ai fini Iva si configura un’unica operazione, con la conseguente applicazione per tutti i servizi del trattamento fiscale previsto per l’attività principale, nella specie in regime di esenzione.
A confermare questo interessante principio è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 20234 depositata ieri.
Una società italiana svolgeva attività di promozione e vendita di prodotti informatici (hardware e software) per conto di un soggetto estero. Emetteva così fatture senza Iva e, trovandosi in una posizione creditoria, presentava richiesta di rimborso. L’agenzia delle Entrate rigettava la richiesta. La società italiana impugnava il diniego e i giudici di merito, in entrambi i gradi, confermavano la legittimità del rimborso.
In particolare, secondo la Ctr, si era in presenza di un contratto di agenzia (e non di mandato come sostenuto dall’Ufficio) con la conseguenza che tutte le fatture emesse alla società Ue non dovevano essere soggette a Iva. Analogo regime andava applicato alle prestazioni accessorie poste a carico dell’impresa italiana, in quanto nella promozi one dei contratti per conto del proponente rientravano molteplici attività volte a sostenere, incrementare e invogliare l’acquisto del prodotto offerto.
L’Agenzia ricorreva per Cassazione lamentando, tra l’altro, la diversa qualificazione del contratto (di mandato e non di agenzia) tra le due società. I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso. Secondo l’ordinanza 20234, ha innanzitutto poca rilevanza la qualificazione giuridica del contratto essendo indubbio che la società italiana si interponesse tra l’impresa estera e l’acquirente finale e che lo scopo dei contraenti era la commercializzazione dei prodotti esteri. Tutti gli altri servizi avevano il solo fine di favorire la vendita del prodotto principale.
Il contratto stipulato aveva un’unica finalità, tanto è che il compenso pattuito era unitario rispetto all’attività complessivamente considerata, e non già per singoli servizi offerti. Tali prestazioni (amministrative e tecniche) infatti rientrano nel concetto di servizi accessori essendo unico l’obiettivo economico prefissato dai contraenti e unico anche l’interesse dei destinatari della prestazione, i quali senza i servizi accessori, non acquisterebbero il prodotto principale.
In conclusione, secondo la Cassazione, se il contratto con cui un soggetto italiano si impegna, per un compenso unitariamente determinato, a commercializzare prodotti di altro soggetto appartenente a Paese Ue, offrendo anche altri servizi tecnici e amministrativi costituenti il mezzo per la migliore fruizione dei prodotti commercializzati, ai fini Iva si configura un’unica operazione economica non potendosi scindere l’intermediazione dalle altre prestazioni da ritenersi accessorie. Ne consegue che il regime Iva applicabile è quello relativo al servizio principale nella specie di esenzione.

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