Conti Ubs, dai giudici svizzeri stop alle liste di nominativi

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 03 AGOSTO 2018 di Paolo Bernasconi

LOTTA ALL’EVASIONE

Accolto il principio in base al quale avere un conto estero non è indice di reato

Se la sentenza fosse confermata a rischio-blocco anche le richieste italiane

La magistratura svizzera ha bloccato la trasmissione delle liste collettive dei contribuenti francesi coinvolti nel caso dei conti Ubs. È stato infatti accolto il ricorso della banca contro la trasmissione dei nomi di oltre 40mila clienti di Ubs residenti in Francia, lista scoperta dal ministero pubblico tedesco durante le perquisizioni del maggio 2012 e nel luglio 2013 in Ubs Germania. Sulle liste trasmesse da Berlino a Parigi mancava solamente il nome, benché fosse indicato chiaramente che si trattava di clienti residenti in Francia. Secondo il fisco francese l’omessa dichiarazione fiscale aveva comportato una perdita di oltre 10 miliardi. L’amministrazione svizzera aveva chiesto ad Ubs i nominativi di questi clienti e aveva deciso di trasmetterli al fisco francese. Ubs ha così presentato ricorso al Tribunale amministrativo federale (Taf) che lo ha accolto, decidendo quindi di respingere la richiesta di assistenza francese. Di conseguenza, nessun nome verrà trasmesso al fisco francese. C’è però da aspettarsi che, come in altri casi recenti, il fisco svizzero ricorrerà al Tribunale federale svizzero, che più volte ha già sconfessato sentenze del Tribunale amministrativo federale.
Se venisse confermata, questa sentenza avrà ricadute sulle domande analoghe presentate da altri Paesi, tra cui l’Italia. La sentenza del Taf sostiene che il solo fatto di essere titolari o di disporre di un conto presso una banca svizzera non costituisce un indizio sufficiente tale da richiedere la trasmissione del nome per permettere al fisco straniero di verificare se i depositi siano stati dichiarati oppure, almeno, siano stati regolarizzati nell’ambito dei programmi di voluntary disclosure.
Per quanto riguarda il rischio dei contribuenti italiani, il diritto svizzero prevede requisiti estremamente elevati per accogliere le «domande di gruppo»riguardanti contribuenti che hanno messo in atto un medesimo modello di comportamento. La sentenza ha esteso questi requisiti restrittivi anche alle cosiddette “domande collettive”, che si fondano su liste dalle quali sia facile risalire con sicurezza al nome di titolari di conti bancari. Una simile domanda italiana è attualmente all’esame del Fisco svizzero riguardo al nome di oltre 9mila clienti della lista Credit Suisse reperita dalla Procura della Repubblica di Milano. Ma questa giurisprudenza potrebbe essere applicabile anche nel caso in cui l’agenzia delle Entrate dovesse richiedere alla Svizzera informazioni e documenti riguardanti le migliaia di contribuenti italiani che, a partire dal 2010, hanno trasferito la loro residenza in Canton Ticino. Anche riguardo a questi nomi, la giurisprudenza potrebbe quindi ritenere che il solo fatto di essersi trasferiti non costituisca motivo sufficiente per una richiesta di assistenza.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Per evitare la doppia tassazione residenza decisa dai trattati

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 28 AGOSTO 2018 di Marco Piazza

RESIDENZA FISCALE

Si applicano le tie break rules che puntano alla sostanza dei fatti

Alcune convenzioni hanno criteri più restrittivi, come quella con la Svizzera

Le convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia (in genere conformi al modello Ocse) contengono regole che consentono di risolvere i cosiddetti conflitti di residenza. Se, infatti, in base alla norma italiana e quella dell’altro Stato contrente, il soggetto si considera residente in entrambi gli Stati, per stabilire in quale Stato sia effettivamente residente si devono applicare le cosiddette tie break rules contenute nel trattato, secondo le quali – di norma – la persona si considera residente:
a) nello Stato in cui dispone di un’abitazione permanente;
b) se ha l’abitazione permanente in entrambi gli Stati, in quello in cui le sue relazioni personali ed economiche sono più strette;
c) se non si può individuare tale Stato, in quello in cui «soggiorna abitualmente»;
d) se soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati, in quello della cittadinanza;
e) e in caso di doppia cittadinanza: accordo fra le autorità competenti.
Stando ai trattati, quindi, se un persona fisica è considerata dalle nostre autorità fiscali residente in Italia per il solo fatto di non essersi cancellata dall’Anagrafe di residenti, ma è anche considerata residente nello Stato in cui è emigrato, in base alle leggi di quello Stato (perché vi ha stabilito, di fatto la dimora abituale o il centro degli affari e interessi), l’agenzia delle Entrate non può esimersi dall’applicare le tie break rules contenute nella convenzione, le quali sono basate principalmente su elementi di fatto e non formali.
La supremazia dei trattati è sancita dall’articolo 75 del Dpr 600 del 1973, secondo il quale, nell’applicazione delle imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia. Il principio è tutelato dall’articolo 117 della Costituzione e dalla giurisprudenza della Consulta (sentenze 348 e 349 del 2007).
Per questo, la più attenta giurisprudenza di merito non ha mancato di evidenziare come l’accertamento della residenza fiscale del contribuente non possa prescindere dall’applicazione delle tie break rules previste dai trattati (si vedano ad esempio le sentenze della Ctr Toscana, 506 del 20 febbraio 2017 e 840 del 13 marzo 2018 e quella della Cpt Firenze 131 del 12 gennaio 2016). Ecco quindi che anche l’emigrato che abbia dimenticato di iscriversi all’Aire potrà evitare di essere assoggettato a una doppia imposizione appellandosi alla convenzione fra l’Italia e lo Stato in cui ha trasferito la propria residenza.
Non sempre, però le convenzioni sono applicabili. Alcune presentano clausole contro l’abuso del trattato, per evitare che regole miranti ad evitare doppie imposizioni consentano in realtà di sottrarre ad imposizione i redditi in entrambi i Paesi.
Per esempio, l’articolo 4, paragrafo 5 della convenzione con la Svizzera stabilisce che non è considerata residente di uno Stato contraente, la persona che:
a) pur soddisfacendo le tie break rules, sia soltanto beneficiaria apparente di redditi in realtà di pertinenza di persone non residenti in quello Stato;
b) una persona fisica che non sia assoggettata alle imposte generalmente riscosse in quello Stato, per i redditi provenienti dall’altro Stato Contraente; situazione in cui normalmente si trovano i residenti in Svizzera che hanno optato per il regime cosiddetto “globalista” (si veda con motivazioni diverse, ma non nella sostanza, Cpt Genova, sentenza 620 del 24 marzo 2015).

 

 

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Srl, presunzione legittima sui conti dei familiari

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore del 2 Agosto 2018 di Alessandro Galimberti

Accertamento

E’ legittima l’imputazione a ricavi dell’attività d’impresa delle movimentazioni riscontrate sui conti correnti dei familiari del socio se la compagine sociale è particolarmente ristretta e se i familiari non hanno altri redditi. Spetta in questi casi al contribuente, su cui è ribaltato l’onera della prova, dimostrare in modo analitico che l’origine degli apporti patrimoniali sui conti dei congiunti ha genesi diversa da quella, appunto, dell’impresa. La Sezione tributaria della Cassazione (ordinanza 20408/18) ha annullato due decisioni della Ctr Campania che avevano respinto la pretesa delle Entrate sulla ripresa a tassazione dei movimenti accertati sul conto del padre di un socio e della nonna – ormai 87 enne – a fini Ivsa, Irap e Ires della Srl, oltre a irrogare sanzioni per la mancata ritenuta alla fonte della quota di utili spettanti allo stesso socio congiunto. Secondo la Ctr, l’Ufficio non aveva adeguatamente motivato l’imputazione a reddito d’impresa delle movimentazioni sui conti di terzi, ma la Cassazione rifacendosi a una serie omogenea di precedenti (14556/18; 4829/15; 27075/17 tra gli ultimi) ha argomentato che, a fronte del padre del socio che non aveva mai presentato dichiarazioni fiscali e dalla di lui madre 87 enne, è legittimo applicare la presunzione dell’articolo 32 del dpr 600/73, superabile solo da prove analitiche contrarie, e comunque a carico del contribuente.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Sottrazione fraudolenta con la finta separazione

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 09 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi e
Antonio Iorio

CASSAZIONE

Sussistenza del reato se la realtà documentata è diversa da quella effettiva

Si amplia la portata del reato di sottrazione fraudolenta: dopo il fondo patrimoniale, la scissione societaria e la cessione di azienda, anche la separazione consensuale dei coniugi può integrare il delitto. È quanto emerge dalla sentenza 32504/2018 della Cassazione del 16 luglio scorso.
Nella vicenda a base della decisione un contribuente nell’ambito di un accordo di separazione aveva trasferito un immobile di sua proprietà alle figlie minori a titolo di contributo del loro mantenimento.
L’amministrazione finanziaria dubitava della separazione sia sulla base dei contenuti risultanti dai profili di Facebook, sia per il fatto che sulla cassetta postale di un coniuge apparivano entrambi i nominativi.
Poiché la separazione era successiva alla notifica di un avviso di accertamento con il quale era ipotizzato il reato di dichiarazione infedele, l’Ufficio segnalava alla Procura anche l’ipotesi del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.
Il Gip del Tribunale ordinava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme di denaro e di immobili per equivalente al profitto dei reati. La misura era confermata anche in sede di riesame.
L’indagato ricorreva così in Cassazione eccependo tra gli altri, anche un vizio di motivazione della sentenza per il reato di sottrazione fraudolenta. Il ricorrente e la moglie, infatti, erano effettivamente separati e residenti in comuni diversi. Nessuna indicazione contraria poteva desumersi dai profili di Facebook, estratti peraltro dai funzionari dell’Agenzia delle entrate e non da organi investigativi, tanto meno dalla circostanza che il nome appariva sulla cassetta postale dell’altro coniuge. La separazione consensuale omologata ed i relativi accordi non possono essere simulati, con la conseguenza che ai fini del delitto manca la fraudolenza che nemmeno può ravvisarsi nell’epoca in cui tale separazione è stata attuata. Inoltre, il contribuente aveva tentato la procedura di accertamento con adesione e nessun atto coattivo per il recupero del credito era stato avviato.
I giudici di legittimità, respingendo il ricorso, hanno ricordato che la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri beni, così pregiudicando la possibile azione dell’Erario per il recupero delle somme. La condotta di alienazione simulata, alternativa agli atti fraudolenti, è attuata quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente alla effettiva volontà dei contraenti.
Sicuramente, nell’alienazione simulata rientrano anche i trasferimenti a titolo gratuito, poiché la norma non pone limiti in tal senso.
L’atto fraudolento invece è il comportamento idoneo a rappresentare a terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero.
In sintesi, la Cassazione ha affermato che il reato può essere integrato con ogni atto di disposizione del patrimonio che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario.
Con riferimento all’accordo di separazione, la Suprema Corte ha rilevato che la giurisprudenza civile in materia lo ha ritenuto non impugnabile per simulazione. Peraltro, i coniugi possono, senza l’intervento del giudice, far cessare gli effetti della sentenza con comportamenti univoci, incompatibili con lo stato di separazione.
La Cassazione ha così rilevato che il ripristino della comunione di vita e d’intenti materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale, fa venir meno gli effetti della separazione. In tale contesto, l’omologa, essendo venuti meno gli originari intenti di divisione, diventa improduttiva di effetti e non è vincolante per i coniugi per gli obblighi patrimoniali assunti.
La sussistenza della fraudolenza, secondo i giudici, era quindi riconducibile all’evidente dissociazione tra la realtà documentata con la separazione e quella effettiva, ossia l’unione dei coniugi.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Reati fiscali, sequestrabili i beni del legale rappresentante

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 25 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi e
Antonio Iorio

EVASIONE

La possibilità sancita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione

La misura quando è impossibile aggredire il profitto dell’illecito

I sequestri di beni mobili e immobili in presenza di reati tributari sono sempre più frequenti. In caso di condanna per un delitto fiscale, l’obbligatorietà della confisca di quanto evaso, anche per importi equivalenti, prevista dall’articolo 12 bis del Dlgs 74/2000, comporta che le procure procedano preventivamente al sequestro dei beni stessi.
Così, dinanzi a una contestazione di un reato tributario e in assenza del pagamento del dovuto, la Procura può già nelle more delle indagini, disporre il sequestro preventivo finalizzato a garantire la successiva confisca. Si tratta di una misura che riguarda i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato tributario, che non appartengono a persona estranea al reato (cosiddetta confisca diretta) ovvero, quando ciò non sia possibile, dei beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (confisca per equivalente).
Normalmente avviene nelle forme per equivalente, ed è riferita ad utilità patrimoniali, nella disponibilità del reo, di valore corrispondente all’evasione commessa.
Al riguardo la Cassazione ha precisato (sentenza 35786/ 2017) che non è necessaria per l’applicazione della misura cautelare la sussistenza del pericolo di dispersione del patrimonio: il giudice è così tenuto a verificare semplicemente che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca.
Una delle questioni più dibattute riguarda il soggetto nei cui confronti debba essere disposto il sequestro. La problematica è delicata perché, in presenza di violazioni tributarie costituenti delitto commesse da una società, il beneficio illecito di sovente non è conseguito dal rappresentante legale (in genere l’amministratore) ma dall’impresa e dai soci. Sul punto sono intervenute le Sezioni unite penali (sentenza 10561/2014) secondo cui il sequestro può essere disposto anche sui beni del legale rappresentante della società ma occorre distinguere il caso del sequestro “diretto” da quello per “equivalente”. Nella prima ipotesi la misura cautelare riguarda denaro o beni direttamente riconducibili al profitto del reato. Nella seconda ipotesi, invece, il vincolo “per equivalente” è correlato alla impossibilità di aggredire ciò che presenti un nesso di derivazione qualificata con il reato, con la conseguenza che si aggrediscono beni per un valore corrispondente.
Nei confronti di una società è consentito esclusivamente il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato. È escluso il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente relativo a beni della persona giuridica, salvo che quest’ultima non sia un mero schermo fittizio. Ai danni del rappresentante legale della società (il reo) sono ammesse invece entrambe le misure cautelari.
Per un orientamento più garantista della Corte, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto sui beni personali degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto (o i beni a esso riconducibili) non siano più nella disponibilità dell’ente anche in esito ad una valutazione sommaria (Cassazione 6053/2017).
In tale contesto, però la Cassazione (38723/ 2018) ha precisato che se al momento dell’emissione del provvedimento non venga compiuto l’accertamento delle disponibilità costituenti il profitto del reato in capo alla società, occorre disporre il sequestro cautelare in via subordinata sia nei confronti dell’ente sia del legale rappresentante. Solo così viene predisposto il titolo per riservare alla fase dell’esecuzione la ricerca dei beni da sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca diretta e in caso di mancato rinvenimento per equivalente.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

L’amministratore appena nominato «paga» per il vecchio

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 30 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi

OMESSA DICHIARAZIONE

Nuovo rappresentante legale obbligato a verificare contabilità e bilanci

Il nuovo amministratore risponde del reato di omessa dichiarazione anche per gli anni nei quali il legale rappresentante era diverso: si tratta, infatti, di una violazione facilmente riscontrabile al momento di assunzione dell’incarico. A fornire questo importante principio è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza 39230 depositata ieri.
Il legale rappresentante di una società veniva condannato per il reato di omessa dichiarazione Ires e Iva per il 2011 e per i precedenti periodi di imposta. Si difendeva eccependo che era stato nominato solo il 14 ottobre 2011 e pertanto non poteva rispondere delle omissioni commesse dal precedente amministratore. La Corte di appello confermava la condanna e il legale rappresentante ricorreva in Cassazione. I giudici di legittimità hanno preliminarmente rilevato che ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di omessa dichiarazione occorre il mancato adempimento dichiarativo con il fine di evadere le imposte e il superamento della soglia di punibilità.
Secondo la Cassazione l’amministratore che subentra nella carica ha l’onere di verificare la contabilità, i bilanci e le ultime dichiarazioni dei redditi, in caso contrario, non solo sarà chiamato a rispondere del reato del mancato versamento di imposte in precedenza non versate, ma anche del reato di omessa presentazione della dichiarazione. La responsabilità per i delitti tributari è di norma attribuita all’amministratore pro-tempore che rappresenta e gestisce l’ente e quindi, chi assume la carica di amministratore accetta volontariamente anche le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Nel momento in cui si assume la rappresentanza legale di una società di capitali, è indispensabile venga posta in essere un’attività ricognitiva finalizzata a rilevare almeno le più evidenti anomalie contabili e fiscali in modo da evitare, in futuro, contestazioni sull’operato altrui.
La Cassazione, in proposito, ha ritenuto necessario tali controlli in particolar modo per i reati per i quali con un minimo di diligenza, il subentrante sia in condizione di poter facilmente verificare la sussistenza di violazioni. Ad esempio, un omesso versamento di imposte dovute o l’omessa presentazione della dichiarazione, sono riscontrabili fin dal momento di assunzione dell’incarico. Diversamente, la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false non è immediatamente riscontrabile, poiché richiederebbe un’analisi difficilmente attuabile in tempi brevi.
La Suprema Corte ha altresì precisato che non poteva escludersi la responsabilità penale per il solo fatto che il nuovo amministratore avesse ripetutamente richiesto la documentazione contabile al precedente tuttavia senza riscontro, infatti, dell’inerzia di quest’ultimo, avrebbe dovuto presentare denuncia nei suoi confronti. La decisione è particolarmente rigorosa e impone, in sostanza, che il nuovo amministratore prima di assumere l’incarico verifichi le violazioni fiscali commesse in precedenza. In tale contesto, potrebbe rivelarsi particolarmente utile il ravvedimento operoso anche per i benefici sotto il profilo penale.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Furto di dati aziendali, così la stretta dei giudici

3 Agosto 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 2 LUGLIO 2018 di Valentina Pomares

Le sentenze ampliano la portata delle sanzioni fino al licenziamento La semplice copia senza divulgazione configura una condotta sleale

Tutela dei dati aziendali rafforzata. Nell’interpretazione dei giudici, infatti, hanno assunto via via rilevanza disciplinare non solo le più classiche ipotesi di divulgazione di informazioni riservate all’esterno del perimetro aziendale, ma anche le condotte che – seppur non si concretizzino in un danno all’attività datoriale – ledono comunque le prerogative di riservatezza del datore di lavoro, il cui perimetro è da interpretarsi in senso ampio ed elastico ricomprendendo anche informazioni e dati non protetti e nella disponibilità del lavoratore.
Nell’ampia giurisprudenza sull’appropriazione dei dati aziendali da parte del lavoratore, particolare importanza assume la pronuncia della Corte di cassazione n.25147 del 20 ottobre 2017 (si veda il Sole 24 Ore del 26 ottobre 2017), relativa a un dipendente che aveva ricopiato su una chiave Usb una mole consistente di documenti aziendali. I giudici hanno stabilito che é legittimo il licenziamento del dipendente e ciò indipendentemente dalla protezione delle informazioni attraverso una password e dalla loro divulgazione a terzi perché questa condotta viola il dovere di fedeltà sancito dall’articolo 2105 del Codice civile.
Questa decisione acquisisce particolare rilevanza alla luce dell’entrata in vigore del Gdpr che ha introdotto più stringenti adempimenti in materia di trattamento e sicurezza dei dati personali, ponendo così una rinnovata attenzione sul tema della riservatezza in ambito aziendale. In particolare, dato l’obbligo in capo alle aziende di porre in essere specifiche misure per garantire la sicurezza dei dati oggetto di trattamento (pena l’applicazione di esose sanzioni) si pone la necessità di individuare puntualmente le condotte dei dipendenti lesive degli obblighi di riservatezza e quindi rilevanti sotto il profilo disciplinare.
Il contesto
La sentenza si pone nell’ambito della giurisprudenza relativa ai casi in cui il lavoratore si appropri di informazioni aziendali; in questo contesto, tuttavia, non sempre è chiaro quando risulti integrata la violazione dell’articolo 2105 Codice civile, in particolar modo con riferimento sia alla natura dei dati/informazioni rilevanti, che alla necessità o meno di una divulgazione degli stessi. Nel caso di specie, il giudice ha interpretato i suddetti requisiti nel senso dell’irrilevanza sia della natura non riservata delle informazioni apprese che della mancata divulgazione delle stesse: la circostanza che per il dipendente l’accesso ai dati fosse libero, infatti, non lo autorizzava ad appropriarsene creandone copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro. Pertanto, la condotta del dipendente integrava violazione del dovere di fedeltà sancito dall’articolo 2105 Codice civile che si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenziale lesività.
Il precedente
Nella stessa direzione si pone una pronuncia della Corte di Cassazione (13 febbraio 2017, n. 3739) avente ad oggetto il caso di un lavoratore che si era abusivamente impossessato di appunti contenenti informazioni confidenziali, con la finalità di trasmetterle a un concorrente. In tale ipotesi, chiarivano i giudici, era irrilevante che la divulgazione all’esterno non fosse avvenuta perché impedita dall’intervento del datore di lavoro, dovendo ricondursi al dovere di fedeltà anche situazioni che non presentino tutti i requisiti dell’articolo 2105 Codice civile, atteso che il contenuto del suddetto obbligo è più ampio, dovendosi integrare questa norma con gli articoli 1175 e 1375 Codice civile, che impongono al lavoratore condotte rispettose di canoni generali di correttezza e buona fede.
La giurisprudenza
Con riferimento alla natura delle informazioni violate, un’interessante pronuncia di merito (Corte di appello di Ancona, 9 gennaio 2012, n. 1136) ha specificato come le informazioni la cui apprensione è rilevante ai fini della sussistenza della suddetta violazione sono quelle relative alle modalità produttive e al “know how” dell’azienda che – per il loro apporto e originalità – il datore di lavoro abbia interesse a preservare.
Dinanzi a tale inadempimento, proseguiva la Corte, le eventuali intenzioni del lavoratore, se non corroborate da circostanze obiettive, rilevano ben poco al fine di escludere la sussistenza di una condotta avente rilevanza disciplinare: infatti, seppur la valutazione delle intenzioni del lavoratore non può essere elusa, in quanto necessaria al fine di un corretto esercizio del potere disciplinare, tuttavia la violazione dei canoni di riservatezza costituisce di per sé un inadempimento, indipendente dal possibile esito di un “processo alle intenzioni”.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Ritenuta sui compensi in Italia del residente a San Marino

3 Agosto 2018

Il Sole 24 Ore 2 LUGLIO 2018 Esperto Risponde di Alfredo Calvano

Un medico dipendente e residente nella Repubblica di San Marino ha ricevuto una Certificazione unica per una prestazione effettuata in Italia, con ritenuta del 30 per cento. È obbligato a fare la dichiarazione dei redditi, perché ha redditi fondiari da immobili in locazione in Italia. È anche tenuto a inserire questa Certificazione unica in dichiarazione? In caso negativo, può inserirla ugualmente, in maniera da recuperare la ritenuta, poiché ha molte detrazioni che derivano da ristrutturazioni sugli immobili?
M.C.SIRACUSA
I compensi professionali conseguiti in Italia da un soggetto fiscalmente residente all’estero sono sottoposti – dal sostituto italiano – a ritenuta del 30% a titolo d’imposta, in base all’articolo 25, comma 2, Dpr 600/73. Questa modalità di tassazione alla fonte esonera il percettore dei compensi da ogni ulteriore incombenza dichiarativa e impositiva. Non c’è dunque la possibilità che egli possa optare, in alternativa, per l’imposizione ordinaria, allo scopo di recuperare la ritenuta a compensazione delle imposte dovute su ulteriori redditi conseguiti in Italia.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

La start–up a San Marino deve essere gestita in loco

3 Agosto 2018

Il Sole 24 Ore del 23 LUGLIO 2018 Esperto Risponde di Gabriele Ferlito

Sto creando una start–up nel settore foodtech e creerò contestualmente un sito e–commerce, per la vendita di prodotti alimentari, solo in Italia. Poiché San Marino dista solo pochi chilometri dalla città in cui vivo, e avendo letto che la Repubblica è stata cancellata dalla black list dell’agenzia delle Entrate, posso aprire la società a San Marino pur mantenendo la residenza in Italia? Mi hanno riferito che, per le aziende italiane che aprono come start–up a San Marino, esiste un’agevolazione quinquennale sulle tasse in loco, ma solo se la società ha sede nella Repubblica. Però non vorrei spostare la residenza. Esiste una normativa aggiornata al riguardo?
M.C.RIMINI
Con il Dm del 12 febbraio 2014 San Marino è stata esclusa dalla cosiddetta black list dei Paesi considerati a fiscalità privilegiata contenuta nel Dm 4 maggio 1999. Inoltre, nel luglio 2013 è stata ratificata la Convenzione sottoscritta tra Italia e San Marino per evitare le doppie imposizioni. A seguito di questi due interventi normativi, oggi San Marino è considerato un Paese trasparente e collaborativo sotto il profilo fiscale ed è pertanto venuta meno l’operatività di alcuni obblighi di comunicazione al Fisco italiano degli investimenti effettuati in loco, nonché di alcune norme fiscali di carattere presuntivo (come quella sulla residenza fiscale in Italia delle persone fisiche che l’hanno trasferita in un Paese della black list). Premesso questo, nulla vieta di costituire una società a San Marino (così come in qualsiasi altro Paese) nonostante i soci siano residenti in Italia ai fini fiscali. La società è in effetti un soggetto giuridico del tutto autonomo dai propri soci. Ad assumere maggiore rilevanza ai fini fiscali è, tuttavia, il fatto che la società sia effettivamente amministrata nel Paese in cui ha sede. In caso contrario, l’agenzia delle Entrate potrebbe considerare la società estera come residente ai fini fiscali in Italia, con conseguente recupero in Italia delle imposte e irrogazione delle relative sanzioni.

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica

Veto sull’aumento di capitale di Srl con il conferimento di criptovaluta

3 Agosto 2018

Il Sole 24 Ore 31 LUGLIO 2018 di Angelo Busani

TRIBUNALE DI BRESCIA

La moneta sotto esame scambiata in una piattaforma ristretta

Dubbi sul pignoramento: esistono dispositivi che bloccano l’esproprio

Non è legittimo l’aumento di capitale di una Srl mediante il conferimento di criptovaluta, in quanto «una moneta virtuale ancora in fase sostanzialmente embrionale (per il fatto che la sua quotazione «sulle principali piattaforme di conversione sarebbe un progetto» ancora «in cantiere») non presenta i requisiti minimi per essere assimilata a un bene suscettibile in concreto di una valutazione economica attendibile».
Lo decide il tribunale di Brescia (decreto 7556/2018 del 18 luglio 2018 nel procedimento di volontaria giurisdizione rg 2602/2018), respingendo l’istanza di omologazione della società che aveva effettuato l’operazione di aumento del capitale, a fronte del rifiuto di iscrizione opposto dal notaio incaricato di verbalizzare la decisione dei soci.
Il caso
Non si è trattato di un giudizio in astratto sull’idoneità delle criptovalute a essere oggetto di conferimento, bensì di un giudizio sul punto se il bene concretamente fatto oggetto di conferimento rispondesse alle caratteristiche prescritte dalla legge (l’articolo 2464 del Codice civile, per il quale «possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica»).
Nel caso concreto affrontato dal tribunale di Brescia, è stato dunque oggetto di giudizio un aumento di capitale sociale del valore di 1,4 milioni di euro, liberato mediante un conferimento in natura: per metà del valore, in opere d’arte e, per l’altra metà, appunto in una criptovaluta. Nella perizia giurata redatta a servizio del conferimento (articolo 2465 del Codice civile) era stata valorizzata la criptovaluta, era stata individuata la piattaforma sulla quale la criptovaluta era scambiabile ed era stato attestato che, in capo alla società conferitaria, era stata trasferita la disponibilità delle credenziali (transaction password) per l’utilizzo della criptovaluta.
Il tribunale (premettendo che, nel giudizio di omologa, non viene sindacato il merito delle affermazioni del perito, ma la completezza, la logicità, la coerenza e la ragionevolezza della perizia) ha ritenuto le motivazioni contenute nel ricorso per l’omologa «non convincenti» e la perizia dell’esperto non dotata di «un livello di completezza e affidabilità sufficiente» (il tribunale ha rilevato, tra l’altro, che il perito non aveva esplicitato i criteri di determinazione del valore della criptovaluta, essendosi limitato a «prestare una incondizionata adesione» al valore risultante dal sito ove la critpovaluta era utilizzata).
Le piattaforme di scambio
Al riguardo, il tribunale ha rilevato che la criptovaluta in questione non era presente in alcuna piattaforma di scambio tra criptovalute ovvero tra criptovalute e monete aventi corso legale, «con la conseguente impossibilità di fare affidamento su prezzi attendibili in quanto discendenti da dinamiche di mercato».
Inoltre, ha osservato che l’unica piattaforma ove la criptovaluta oggetto di conferimento veniva scambiata era un sito dedicato «alla fornitura di beni e servizi riconducibile ai medesimi soggetti ideatori della criptovaluta», nel cui «ristretto ambito» la criptovaluta fungeva da mezzo di pagamento accettato. Insomma, si sarebbe trattato di una caratteristica autoreferenziale, «incompatibile con il livello di diffusione e pubblicità di cui deve essere dotata una moneta virtuale che aspira a detenere una presenza effettiva sul mercato».
La valutazione
Il tribunale ha anche affermato che, affinché un dato bene sia idoneo a essere conferito nel capitale di una società, deve essere oggetto di valutazione, in un dato momento storico e deve, di conseguenza, esistere un mercato del bene in questione; e, ancora, che il bene deve essere suscettibile di esecuzione forzata da parte dei creditori sociali. Al riguardo, è vero che parte della dottrina giuridica afferma che la funzione di garanzia del capitale sociale andrebbe letta «in senso giuridico-contabile e non già» in senso «materiale», ma è anche vero – secondo il tribunale – che l’osservazione del bene conferito non può prescindere dalla concreta esigenza della sua economica valutabilità.
L’esecuzione

Doing business in San Marino

Scarica ora il libro in formato PDF

Scarica
Get in touch
x
x

Share to:

Copy link:

Copied to clipboard Copy