Delle ritenute omesse risponde il cda

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 24 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Cassazione. I singoli componenti sono responsabili quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento

Del reato di omesso versamento delle ritenute può rispondere ciascun componente del consiglio di amministrazione della società: ognuno infatti, disponendo di poteri di firma libera e disgiunta, può autonomamente adempiere all’obbligazione tributaria a prescindere dalla suddivisione interna di specifiche competenze.
Ad affermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2741 depositata ieri.
Nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una società veniva disposto sequestro preventivo finalizzato alla confisca, su beni nelle loro disponibilità per il delitto di omesso il versamento delle ritenute della società.
La misura cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame. Avverso tale decisione, ricorrevano gli amministratori in Cassazione, lamentando tra i diversi motivi, l’errata estensione della responsabilità penale all’intero consiglio di amministrazione, anziché imputarla esclusivamente al legale rappresentante della società.
La Suprema corte, ritenendo infondata la doglianza, ha innanzitutto chiarito che la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate (nella versione ante modifiche del Dlgs 158/2015) nel maggior termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente. Il reato si consuma così alla scadenza del termine lungo e non prima, con la conseguenza che fino a tale momento, il comportamento omissivo del contribuente non ha alcuna rilevanza penale. Da ciò consegue che la responsabilità potrebbe anche ricadere su un soggetto diverso da chi ha omesso i versamenti delle ritenute: potrebbe infatti accadere che l’amministratore nel corso dell’anno, quando cioè avvengono gli omessi pagamenti, non sia il medesimo in carica all’atto della presentazione della dichiarazione.
Con riguardo poi alla sussistenza di un consiglio di amministrazione, i giudici di legittimità hanno precisato che i singoli componenti non sono chiamati a rispondere perché garanti dell’adempimento altrui, ma quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento. Trattandosi di una società a responsabilità limitata, se l’ordinaria amministrazione è affidata a più persone disgiuntamente, ciascuno è autonomamente e singolarmente in grado di porre in essere gli atti estintivi delle obbligazioni della società.
Il pagamento del debito tributario, peraltro, è un atto giuridico che qualunque amministratore può validamente compiere, non trattandosi di atto di gestione in senso stretto.
L’eventuale suddivisione interna delle competenze non è opponibile a terzi e comunque non limita la capacità del singolo membro di compiere atti giuridici, tanto più se il potere di ciascuno è con firma libera e disgiunta.
Ciascun amministratore poteva così compiere atti di ordinaria amministrazione di qualsiasi genere ed anche “estranei” al settore di propria competenza. Da qui il rigetto del ricorso.

 

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Lettere sulle attività estere «viziate» da dati indebiti

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 25 Gennaio 2018 di Marco Piazza

Adempimento spontaneo. Le comunicazioni dell’Agenzia riguardano il periodo d’imposta 2016

Nel Crs anche le informazioni sui rapporti intestati a intermediari

Lo scambio d’informazioni automatico con le amministrazioni finanziarie estere (secondo il cosiddetto Common reporting standard – Crs) comincia a dare i suoi risultati: sulla base del provvedimento dell’agenzia delle Entrate 299737/2017 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 22 dicembre 2017) sono state inviate migliaia di comunicazioni ai contribuenti che risultano detenere attività finanziarie all’estero non indicate nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, con lo scopo di promuovere il cosiddetto “adempimento spontaneo”.
Queste comunicazioni sono estremamente generiche. Non contengono alcun dato che consenta di identificare la tipologia di attività, l’entità e il luogo di detenzione. Non si tratta quindi di accertamenti contro cui ricorrere, a rischio di perdere qualche opportunità di difesa; né si tratta di atti introduttivi di attività di indagine nei confronti del contribuente.
Viene solamente avvertito il contribuente che risultano anomalie nella sua posizione fiscale, che può chiedere e fornire spiegazioni.
Le comunicazioni riguardano l’anno d’imposta 2016 (dichiarazione 2017). Pertanto è ancora possibile avvalersi del ravvedimento operoso.
L’obbligo di compilare il quadro RW non sussiste se le attività all’estero sono detenute per mezzo di intermediari finanziari italiani che, al verificarsi dei presupposti, prelevino eventuali ritenute ed imposte sostitutive dovute (articolo 4, comma 3 del Dl 167/90).
Ci si attendeva che i rapporti all’estero intestati ad intermediari finanziari italiani (cosiddette “istituzioni finanziarie”) per conto dei loro clienti non sarebbero stati oggetto di alcuna segnalazione da parte degli intermediari esteri: in linea di massima, lo scambio automatico d’informazioni non viene effettuato se il conto o il deposito è intestato ad una istituzione finanziaria. Qualche problema poteva sorgere per i rapporti in amministrazione fiduciaria senza intestazione oppure per i lavoratori in zone di frontiera, detentori – nello Stato estero in cui lavorano – di conti correnti con giacenza media non superiore a 5mila euro.
Quando invece il rapporto all’estero è intestato a una istituzione finanziaria di un paese collaborativo (specie italiana) la segnalazione non dovrebbe essere fatta.
È invece successo che molti intermediari esteri hanno comunicato anche i titolari effettivi dei rapporti intestati a banche e fiduciarie italiane per loro conto e che quindi, l’agenzia delle Entrate abbia riscontrato, in tantissimi casi, anomalie in realtà non esistenti.
I principali casi riguardano polizze vita, quote di fondi comuni d’investimento e azioni o quote di società estere.
Il contribuente in regola può:
• trascurare la comunicazione;
• chiedere alla direzione provinciale competente ulteriori informazioni per individuare l’investimento oggetto di segnalazione;
• dare all’Agenzia l’informazione che giustifica la mancata compilazione del quadro RW, ossia che le attività sono amministrate da un intermediario finanziario italiano.
L’ultima soluzione (si veda qui a fianco il facsimile da adattare al caso concreto) pare preferibile perché i dati dello scambio d’informazioni sono disponibili anche per la Guardia di Finanza.

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Il reato tributario prevale sulle false comunicazioni

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 29 Gennaio 2018 di Antonio Iorio

Se le false comunicazioni sociali sono state poste in essere al solo fine di evadere il fisco e integrano anche un reato tributario non è possibile ipotizzare il concorso fra i due delitti in quanto l’illecito fiscale è speciale rispetto a quello societario e quindi lo assorbe. Lo scopo della violazione, in altre parole, è rappresentato soltanto dall’illecito risparmio di imposta che assorbe quello più generale previsto dalla fattispecie penale societaria di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. È questa una della numerose, interessanti, indicazioni fornite dal Comando generale della Guardia di Finanza nella circolare 1/2018 sull’attività di controllo del Corpo.
La direttiva, a questo proposito, richiama l’attenzione sul possibile concorso tra reati di matrice tributaria e quelli di falso societario con riferimento, ovviamente, alle società di capitali. Viene evidenziato che l’occultamento di ricavi ovvero l’esposizione di costi “gonfiata” da parte di società possono generare, contestualmente, sia un bilancio d’esercizio, sia una denuncia dei redditi mendace. Così l’inserimento tra i costi di un onere inesistente comporta inevitabilmente l’indicazione di un fatto materiale non rispondente al vero. In questo caso ricorre, astrattamente, il caso tipico di concorso materiale tra i reati di false comunicazioni sociali e di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2 del Dlgs 74/2000, che si configura laddove gli elementi negativi inesistenti rilevati in bilancio e indicati nella dichiarazione fiscale derivino dall’utilizzo di fatture o altri documenti falsi.
La circolare ricorda però che il concorso implica il riscontro della sussistenza degli altri elementi costitutivi delle fattispecie penali esaminate, tra cui i diversi elementi soggettivi e i differenti momenti di consumazione. L’elemento soggettivo proprio della frode fiscale è il fine di evadere le imposte e di consentire a terzi l’evasione e risulta ben distinto da quello del falso in bilancio rappresentato dal conseguimento per sé o altri di un ingiusto profitto. Quindi se le false comunicazioni sociali hanno un’esclusiva finalità fiscale, si configurerà, in virtù del criterio di specialità, la sola frode fiscale; di contro, ove non sussista il fine di consentire a terzi l’evasione, ma si riscontri il solo elemento psicologico previsto per il reato societario, sarà configurabile solo la fattispecie del mendacio societario.

 

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No alle presunzioni per il pagamento delle royalties

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 27 Gennaio 2018 di Alessandro Galimberti

Ctp Milano. Rapporti infragruppo

Il pagamento di royalties per lo sfruttamento del marchio non può essere dedotto in via presuntiva dall’amministrazione se non risulta in contabilità, e comunque l’ufficio ha l’onere di provare l’effettiva corresponsione degli importi soggetti a ritenuta.
Una recente decisione della Commissione provinciale di Milano (n° 7134/23/17, depositata il 27 dicembre scorso) può diventare un punto di riferimento per tutte le filiali italiane di multinazionali che distribuiscono merci con marchio della casa madre. La Ctp ha infatti accolto il ricorso di una società milanese contro gli avvisi di accertamento per gli anni 2011-12-13-14 sugli omessi versamenti di ritenute per lo sfruttamento del marchio di proprietà di una società svizzera (importo complessivo di circa 340 mila euro).
Le Entrate avevano in sostanza considerato, nonostante la mancata evidenza in bilancio, che i rapporti tra la branca italiana e la casa madre svizzera fossero la prosecuzione di un accordo in vigore negli anni precedenti le contestazioni, in base al quale era riconosciuta alla società di diritto svizzero una royalty pari al 2,5%. In realtà, come emerso già in sede di contraddittorio e poi nel procedimento, a partire dal 2009 l’entità distributiva “AG” era stata accentrata in Svizzera «assumendo la duplice veste di titolare del trademark rights e di distributore accentrato del gruppo». In sostanza, argomenta la Ctp, non è qui utilizzabile la direttiva Ocse che presume l’incorporazione del compenso (royalty) nel prezzo fatturato solo quando «un’impresa vende a un’altra prodotti non finiti, mettendo a disposizione al tempo stesso la propria esperienza per un’ulteriore lavorazione di questi prodotti». Nel caso in esame, invece, la società italiana si era limitata a vendere prodotti finiti e totalmente “gestiti “oltre frontiera.
I giudici hanno così risolto la questione della (im)possibilità da parte degli uffici finanziari di pretendere le ritenute su royalties non risultanti dalla contabilità, ma accertate in via presuntiva come ricomprese nel prezzo delle merce distribuita in Italia con marchio appartenente alla casa madre estera. La Commissione ha escluso tale possibilità in quanto è “inammissibile” ipotizzare il pagamento di royalties alla casa madre quando la società controllata italiana limita la propria attività alla sola distribuzione e, in capo alla casa madre estera, la funzione di distribuzione coincide con la proprietà del marchio.
«Si tratta – argomenta il legale della ricorrente, Angelo Vozza – di sentenza interessante per tutte le filiali italiane di multinazionali che distribuiscono merci con marchio della casa madre perché, con un esame approfondito, dichiara illegittimo l’accertamento della ritenuta su una royalty presunta in modo del tutto irragionevole».

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Investimenti esteri nel quadro RW solo se fruttiferi

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 30 Gennaio 2018 di Antonio Zappi

Ctr Veneto. Il conto corrente

L’obbligo di compilazione del quadro RW non concerne qualsiasi investimento ed attività estera di natura finanziaria, ma solo quelli potenzialmente idonei a produrre redditi di fonte estera imponibili in Italia. A queste conclusioni è giunta la Ctr Veneto con la sentenza 70/2/2018 (presidente Russo, relatore Lapiccirella).
L’agenzia delle Entrate aveva contestato a due coniugi di non aver dichiarato nelle rispettive dichiarazioni una somma depositata in un conto corrente cointestato acceso presso una banca francese. A parere dell’Ufficio, la normativa sul monitoraggio fiscale (Dl 167/90) avrebbe richiesto ai contribuenti l’obbligo di dichiarare le consistenze finanziarie estere, in quanto la sola disponibilità delle medesime costituirebbe una presunzione legale di redditività. I contribuenti, invece, avevano provato che le somma giacente presso la banca transalpina fosse infruttifera ed improduttiva di interessi, sostenendo quindi che queste attività non fossero suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia.
Richiamando il disposto letterale dell’articolo 4 del citato Dl 167/90, i giudici veneti hanno confermato la sentenza di primo grado, accogliendo nel merito l’eccezione del contribuente che, nel giudizio di prime cure, era stata invece assorbita dal difetto di sottoscrizione dell’atto impugnato.
Per il Collegio lagunare, «la lettera della legge è chiara – debbono esistere redditi prodotti all’estero, che nel caso che occupa sono assenti – ma anche lo spirito della norma depone a favore di un obbligo dovuto almeno alla potenzialità reddituale – anche questa assente».
Quindi, un conto corrente infruttifero non può attribuire al contribuente alcuna potenzialità reddituale, poiché se il legislatore avesse voluto prevedere l’obbligo di dichiarazione per qualunque allocazione di risorse finanziarie estere avrebbe in tal senso formulato il disposto del citato 4. Tale circostanza, invece, non è avvenuta nemmeno con la riformulazione operata dalla legge 97/2013.
Il tenore letterale della norma, quindi, esclude l’obbligo di monitoraggio di ogni asset oltreconfine, prevedendone la necessità solo per quelli suscettibili di produrre un reddito imponibile in Italia. In sede interpretativa, invece, l’agenzia delle Entrate ritiene produttive di reddito da monitorare anche le citate attività finanziarie estere (circolari 38/2013 e 45/2010) e tra le rarissime sentenze che si sono occupate in passato della questione in argomento va segnalato un pronunciamento della Commissione tributaria di II grado di Bolzano (n. 48/2/14) che, anche in quel caso e poiché “in claris non fit interpretatio”, aveva statuito la non necessità di monitorare nel quadro RW un finanziamento infruttifero, confermando come il principio di legalità sancito in ambito tributario dall’articolo 3 Dlgs 472/97 ed il suo corollario principio di tassatività impongano una lettura molto rigorosa del chiaro disposto normativo.
Va infine segnalato che, per la novità della materia del contendere, i giudici veneziani hanno individuato un’idonea motivazione per derogare al principio di soccombenza e compensare tra le parti le spese di giudizio.

 

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L’esterovestizione non esonera dall’obbligo di dichiarazione Iva

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 23 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi

Cassazione. L’operazione non abusiva comporta l’adempimento

L’esterovestizione di una società non è un’operazione abusiva con la conseguenza che l’omessa presentazione della dichiarazione in Italia costituisce una fattispecie penalmente rilevante. A fornire questo importante chiarimento è la Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 2407 depositata ieri.
La vicenda nasce da una contestazione della Gdf con la quale veniva considerata esterovestita una società tedesca. Il legale rappresentante veniva così accusato di omessa dichiarazione Iva.
Il Gip disponeva un sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia nei confronti della società sia del suo amministratore, fino a concorrenza dell’imposta evasa. Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro e l’indagato, il legale rappresentante della società, proponeva ricorso per Cassazione.
Tra i motivi di doglianza, la difesa rilevava che la realtà tedesca non era stata indagata dalle relative autorità; quindi, al massimo poteva essere contestato, attesa la veridicità delle operazioni commerciali, un abuso del diritto di stabilimento della sede operativa, ma non il reato di omessa presentazione in Italia della dichiarazione. Non era configurabile alcun delitto, poiché nel nostro ordinamento è esclusa la rilevanza penale delle operazioni abusive (articolo 10 bis dello Statuto del contribuente).
I giudici di legittimità, richiamando giurisprudenza precedente, hanno innanzitutto ricordato che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale Iva da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se c’è una stabile organizzazione in Italia. Tale caratteristica si desume da elementi fattuali rilevanti quali la sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (la cosiddetta “alta amministrazione”) nonché della conduzione delle attività costituenti l’oggetto sociale.
Nella specie, in Italia era stata rinvenuta in sede di verifica tutta la documentazione contabile, bancaria (peraltro di conti correnti italiani) e commerciale e la bontà di tali prove era stata già valutata dal Tribunale con adeguata motivazione sul punto.
Con riferimento all’abuso del diritto, per la Suprema corte le operazioni abusive si configurano solo quando non violano disposizioni tributarie e penali tributarie; è una norma di applicazione solo residuale rispetto ad altre relative a comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione ed all’utilizzo di documentazione falsa. Perciò non può esistere abuso quando i fatti in contestazione integrano fattispecie penali connotate da elementi costitutivi specifici. Dai documenti in atti era indubbio che si trattasse di esterovestizione e pertanto che la società avesse dovuto rispettare gli obblighi fiscali italiani.

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Prestanome responsabile in concorso

9 Febbraio 2018

Il Sole 24 Ore 17 Gennaio 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Omessa dichiarazione. Per la Cassazione autore principale è l’amministratore di fatto

Il prestanome risponde in concorso con l’amministratore di fatto per il reato di omessa dichiarazione. È responsabile, infatti, di non aver impedito l’evento delittuoso. A confermare questo principio di diritto è stata la Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 1590/2018, depositata ieri.
La sentenza riguarda la vicenda del legale rappresentante di una società che veniva condannato per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, dalla quale era conseguita un’evasione di imposta penalmente rilevante.
La condanna di primo grado veniva confermata anche in appello e l’imputato ricorreva così in Cassazione. Lamentando, in estrema sintesi, un vizio di motivazione.
Più precisamente, nella sentenza di secondo grado non sarebbe emersa la valutazione delle prove riguardanti la consapevolezza della commissione del reato. L’imputato, infatti, non era l’amministratore di fatto della società e pertanto era concretamente estraneo alle scelte aziendali.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che il collegio territoriale aveva correttamente valutato la vicenda posta a base dell’intera contestazione.
La società era stata costituita per emettere fatture soggettivamente inesistenti, al fine di giustificare contabilmente gli acquisti di merce in nero effettuati da un’altra società del “gruppo”.
Dai documenti in atti, risultava che l’amministrazione di fatto delle società era affidata ad un terzo soggetto, diverso cioè dal legale rappresentante di diritto.
Dal disegno criminoso emergevano quindi l’omessa presentazione delle dichiarazioni e il mancato versamento dell’Iva, che erano preordinati all’evasione fiscale.
Con riguardo alla responsabilità, la Cassazione ha precisato che l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, poiché è il titolare effettivo della gestione sociale. È infatti l’unico soggetto che si trovi nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta.
L’amministratore di diritto, invece, è un mero prestanome. Per questo motivo, è responsabile a titolo di concorso per avere omesso di impedire l’evento. La Corte di cassazione, però, ha precisato che tale concorso interviene a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma. Quindi, nella fattispecie, occorre che il prestanome abbia agito con il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sull’Iva ovvero consentire l’evasione fiscale di terzi.
Tuttavia, poiché nella maggior parte delle ipotesi il prestanome non ha alcun potere di ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che è sufficiente il dolo eventuale.
Il prestanome, quindi, accettando la carica accetta anche i rischi connessi a tale carica.
Nella specie, il giudice territoriale aveva rilevato una forma di partecipazione attiva alla vita sociale da parte dell’amministratore di diritto, poiché risultava coinvolto nella gestione operando sui conti correnti bancari.
Era così consapevole dei meccanismi illeciti e peraltro, su tali considerazioni, l’imputato non aveva eccepito alcuna osservazione.

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Il Fisco estero prevale sulle presunzioni italiane

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 12 Dicembre 2017 di Massimo Romeo

Ctp di Milano. Se le informazioni fornite scagionano il contribuente

Le informazioni fornite dall’autorità fiscale straniera prevalgono sulle presunzioni del fisco italiano. L’intento elusivo deve essere provato in capo al contribuente accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi, tanto più laddove, nell’ambito dello scambio automatico di informazioni, l’autorità fiscale straniera abbia dichiarato il soggetto quale beneficiaria effettiva delle operazioni. Questo il principio che emerge dalla sentenza della Ctp di Milano 67292017 (presidente e relatore Ortolani).
Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici riguarda l’impugnazione da parte di una Spa di un avviso di accertamento per omesso versamento di ritenute su interessi corrisposti alla consociata (società veicolo), intermediaria di pagamenti aventi quali beneficiari effettivi soggetti domiciliati in Paesi black list e pertanto senza diritto all’esenzione da ritenuta prevista dal trattato contro le doppie imposizioni. La ricorrente, fra i vari motivi opposti, ha eccepito la mancata allegazione di documenti richiamati dal fisco nella motivazione dell’atto impositivo, l’infondatezza dell’avviso per aver dimostrato l’esistenza dei presupposti richiesti, nonché la mancata prova che non fosse beneficiaria effettiva.
L’ufficio ha difeso l’atto emesso focalizzando l’attenzione sulla società percipiente, qualificandola quale soggetto strumentale interposto per veicolare gli interessi corrisposti verso gli effettivi beneficiari residenti in Paesi a tassazione privilegiata o esente. La condotta elusiva è stata rilevata guardando sia ai flussi finanziari di raccolta e impiego tra loro correlati nel tempo e nelle dimensioni quanto alla provenienza, sia all’erogazione alla ricorrente quale beneficiaria dei finanziamenti, nonché per l’assenza di struttura e mezzi propri idonei in capo alla consociata tali da giustificare in via autonoma tale attività finanziaria.
Il collegio lombardo da un lato riconosce che l’attività di contrasto all’elusione è un principio immanente nelle leggi e nei trattati comunitari, per cui non è necessario che tale principio trovi una specifica ricezione nell’ordinamento interno; dall’altro che l’intento elusivo deve essere provato in capo al soggetto accertato e non affermato in modo generico e con presunzioni riferibili a soggetti terzi.
Sulla base di questi principi i giudici milanesi risolvono la controversia a favore della parte privata in tema dell’onere della prova. In sostanza, avendo il fisco italiano richiesto e ricevuto dall’autorità straniera informazioni circa la reale attività finanziaria con raccolta di fondi e impieghi svolta dalla consociata, e avendo chiarito che la società ungherese era il beneficiario effettivo delle attività di finanziamento italiano, sarebbe spettato all’ufficio fornire elementi diversi e ulteriori rispetto a quanto richiesto e risultante dalle indagini , in forma ufficiale e formale, svolte e comunicate dall’autorità fiscale estera.

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La Svizzera rilancia il segreto bancario

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore 14 Dicembre 2017 di Alessandro Galimberti

Un filtro alle richieste di dati – Sono 37 i Paesi che possono ancora opporre un veto totale

Milano. Non sarà ancora un vento di restaurazione, ma il raffreddamento di sensibilità sulla trasparenza fiscale internazionale – mantra degli ultimi 5 anni – è ormai un dato di fatto difficile da ignorare.
Dopo l’allerta dell’Ocse, che nel suo Implementation report di novembre segnalava il ritardo di decine di Paesi nell’adeguamento agli standard per il futuro scambio di informazioni (si veda il Sole 24 Ore del 6 dicembre scorso), ora la cronaca porta dritto in Svizzera. Domani il plenum dei due rami del Parlamento di Berna voterà un’interpretazione molto restrittiva del rilascio delle informazioni riguardanti cittadini stranieri con conti e investimenti nei suoi istituti finanziari, tornando in sostanza a rilanciare lo storico brand di cassaforte alpina di “segreti&riservatezza”. Le banche e gli altri intermediari dovranno avvisare in anticipo i correntisti/risparmiatori/investitori stranieri circa i dati che si accingono a inviare automaticamente alle loro autorità fiscali. Non a caso avvocati e professionisti stanno già mettendo a punto la strategia di rallentamento per via giudiziaria (ricorsi e opposizioni) del rilascio delle info, soprattutto in direzione Sud.
L’inversione di orientamento sul tema “trasparenza” non è comunque un’esclusiva d’oltralpe. Come si vede nella cartina mappamondo pubblicata a lato, dall’incrocio dei 148 Paesi che hanno siglato accordi multilaterali o bilaterali per lo scambio di informazioni fiscali, ben più della metà (90) mantengono una forma più o meno intensa di segreto bancario, e 37 di questi addirittura conservano il totale segreto bancario. Ancora più esplicita la posizione di altri 22 Paesi che non hanno siglato alcun tipo di accordo per lo scambio di informazioni fiscali.
Questa fotografia spiega meglio di ogni altra considerazione l’ultimo rapporto dell’Ocse (Implementation report on automatic exchange of information) secondo cui tra l’essere compliant nella legislazione e l’attivare gli scambi con le altre giurisdizioni c’è un saltum non da poco. L’atteggiamento temporeggiante è variegato, tra Paesi che non stanno raccogliendo i dati che poi dovrebbero trasmettere ai 100 e più partner «in quanto non interessati a ricevere informazioni», e altre giurisdizioni che stanno impiegando «tempi eccessivamente lunghi per mettere in opera le basi legali per il funzionamento dello scambio automatico e per gli accordi multilaterali» necessari a far “scorrere” le informazioni. Il 15 % della platea degli Stati, narra il rapporto, non ha neppure terminato l’allineamento con la legislazione internazionale, tra questi un buon numero dei paesi del Golfo (a cominciare da Quatar, Emirati, Kuwait, Brunei) e la Turchia che per varie ragioni non hanno ancora ratificato la Convenzione per lo scambio automatico. Altri paesi caraibici e “oceanici” sono ancora più indietro nei processi di risalita verso l’emersione, tanto che il Report conclude che «un certo numero di giurisdizioni ha mancato pietre miliari» sul percorso e ora ha timeline sfidanti, per usare un eufemismo.
Intanto però l’Europa, molto attiva in queste settimane sul piano del rilancio della fiscalità, ha approvato ieri le raccomandazioni sui reati fiscali. Si tratta di misure ispirate dai 211 suggerimenti formulati dalla Commissione speciale d’inchiesta del Parlamento europeo sul riciclaggio di denaro, l’elusione fiscale e l’evasione fiscale, che i deputati hanno approvato con 492 voti in favore, 50 contrari e 136 astensioni. Tra i piani d’azione spicca la creazione di registri pubblici dei titolari effettivi delle aziende, le sanzioni contro gli intermediari che favoriscono la pianificazione fiscale aggressiva e la richiesta di costituire una commissione permanente per indagare sulla fiscalità.

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L’ufficio non può sindacare l’utilità delle sponsorizzazioni

16 Gennaio 2018

Il Sole 24 Ore lunedì 18 Dicembre 2017 di Saverio Cinieri

Terzo settore. La deduzione delle somme versate allo sport dilettantistico

Sono sempre inerenti le spese di sponsorizzazione a favore di associazioni sportive dilettantistiche che svolgono attività riconosciute dalle federazioni sportive nazionali, se è rispettato il limite di spesa annuo di 200mila euro e se l’attività promozionale è svolta realmente. Si tratta di costi inerenti per presunzione legale assoluta. Ad affermare il principio è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 310/2/2017 depositata il 5 dicembre 2017 (presidente e relatore Montanari).
Il ricorso traeva origine da due avvisi di accertamento ai fini Ires, Irap e Iva emessi dalle Entrate per il 2012 e 2013, con i quali era stata contestata a una società la deduzione dei costi relativi ai contratti di sponsorizzazione stipulati tra la stessa e due associazioni.
I contratti puntavano a divulgare il marchio e i prodotti della società durante lo svolgimento dei campionati giovanili di calcio. L’ufficio aveva ritenuto mancante – nel caso concreto – il requisito dell’inerenza poiché, mentre la clientela della società era di tipo internazionale e di “anzianità” anteriore alla stipula dei contratti, la sponsorizzazione era avvenuta in occasione di eventi (le partite di calcio) a carattere locale senza, quindi, alcun reale vantaggio economico.
Nel ricorso in Ctp, il contribuente, oltre a confermare che le associazioni erano entrambe iscritte al Coni e svolgevano attività nei settori giovanili riconosciuti dalle federazioni sportive nazionali (l’ufficio aveva erroneamente affermato la mancanza di tale requisito per una di esse), ribadiva che le spese rientravano nei limiti di 200mila euro l’anno e i soggetti sponsorizzati avevano effettivamente posto in essere l’attività promozionale. Inoltre, i corrispettivi pagati alle associazioni erano congrui con il volume d’affari e l’attività di sponsorizzazione aveva favorito l’entrata della società nei mercati locali.
La Ctp ha ritenuto fondato il ricorso. Seguendo il consolidato principio di diritto della Cassazione, il collegio ha rilevato che la norma in questione (articolo 90, comma 8, della legge 289/2002) ha introdotto una presunzione legale assoluta di qualificazione, nei limiti di 200mila euro, come spese di pubblicità (inerenti e, quindi, deducibili) di quelle volte alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante il corrispettivo (Cassazione, 7202/17 e 5720/16). La presunzione sussiste al verificarsi di quattro condizioni:
il soggetto sponsorizzato deve essere una associazione sportiva dilettantistica;
l’ammontare massimo di spesa annuale deve rispettare il limite di 200mila euro;
la sponsorizzazione deve promuovere l’immagine e i prodotti dello sponsor;
il soggetto sponsorizzato deve effettivamente porre in essere una specifica attività promozionale (ad esempio, apponendo il marchio sulle divise, esibendo striscioni in campo da gioco eccetera; Cassazione, 8981/17 e 7202/2017).
Tutte condizioni che ricorrono nel caso oggetto della controversia rendendolo, pertanto, meritevole di accoglimento.

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