Il costo antieconomico non diventa indeducibile

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 16 Settembre 2017 di Antonio Iorio

Cassazione. Le scelte aziendali spettano all’imprenditore

L’opportunità di un costo, e quindi la sua eventuale antieconomicità, non può essere sindacata dall’amministrazione in termini di indeducibilità, perché si tratta di valutazioni della strategia commerciale riservate all’esclusivo giudizio dell’imprenditore.
Ad affermare questo importante principio è la Corte di cassazione con la sentenza 21405 depositata ieri.
L’Agenzia delle entrate disconosceva ad una società la deducibilità di un cospicuo costo perché ritenuto antieconomico. Più precisamente, la contribuente aveva risolto un contratto di servizi con una società del gruppo per fornitura di attività di marketing, sottoscrivendo uno specifico accordo. In base a tale atto l’impresa sottoposta al controllo fiscale si faceva carico di tutte le spese sostenute dalla società di marketing.
L’Agenzia riteneva che la nuova somma concordata fosse superiore al corrispettivo previsto nel contratto iniziale, tanto è che se lo avesse proseguito sino a scadenza avrebbe avuto minori oneri.
Ne conseguiva, così, che secondo l’amministrazione i maggiori costi assunti, seppur giustificabili nell’economia di un gruppo, non potevano considerarsi inerenti, poiché sostenuti in favore di un soggetto che non aveva alcun titolo per pretendere somme ulteriori rispetto al corrispettivo originariamente pattuito. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito confermava l’illegittimità della rettifica. L’Agenzia ricorreva così in Cassazione lamentando un’errata interpretazione da parte del giudice di appello.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato un orientamento secondo il quale i comportamenti antieconomici rappresentano elementi indiziari gravi, precisi e concordanti che legittimano il recupero a tassazione dei relativi costi. L’amministrazione, però, non può valutare anche la necessità o l’opportunità di tali costi rispetto all’oggetto dell’attività.
Si tratta, infatti, di una valutazione della strategia commerciale riservata all’esclusivo giudizio dell’imprenditore.
Nella specie, l’antieconomicità derivava esclusivamente dalla considerazione da parte dell’Agenzia dell’accordo risolutivo sottoscritto tra le società del gruppo che risultava oggettivamente di valore superiore rispetto alla mera prosecuzione del contratto originario.
Tuttavia, senza ulteriori elementi rilevatori di una finalità estranea alla gestione aziendale, la scelta della società non poteva essere sindacata.
La decisione appare particolarmente importante poiché rimarca il ruolo dell’imprenditore nelle scelte aziendali.
Secondo il principio affermato ora dalla Cassazione l’eventuale comportamento ritenuto antieconomico da parte dell’Ufficio non può di per sé determinare l’indeducibilità di un costo, con la conseguenza che occorrono altri elementi dai quali desumere l’effettivo intento di evadere.

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Inerenza in bilico su polizze e parcelle

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 11 Settembre 2017 di Gianfranco Ferranti

Reddito d’impresa. La Cassazione boccia lo sgravio della spesa per la Rc infortuni dei dirigenti dato che il risarcimento va alla società

La Corte detta i confini per la deducibilità dei costi assicurativi e il rimborso delle spese legali

Non sono inerenti, secondo la Cassazione, le spese sostenute dalla società per la difesa legale di dipendenti e amministratori e i premi pagati dalla società per le polizze contro gli infortuni. L’inerenza delle spese continua a far discutere – anche in giudizio – e su questi temi si sono concentrate alcune delle pronunce più recenti.
La Corte ha anche affermato che il contribuente non può provare l’inerenza dimostrando soltanto la legittimità dell’erogazione effettuata, in quanto l’assenza di un obbligo giuridico è indizio di antieconomicità della spesa, superabile dimostrando la sua funzionalità agli obiettivi dell’impresa (sentenza 1544/2017, relativa a costi non stabiliti per contratto).
La difesa dei dipendenti…
La Cassazione ha esaminato (sentenza 6185/2017) il caso del rimborso da parte dell’impresa delle spese sostenute da propri dipendenti per difendersi in sede penale dalla querela sporta da altri dipendenti. Il giudice di merito le aveva considerate deducibili perché l’azienda aveva inteso «tutelare i propri interessi e la propria posizione tanto sul piano patrimoniale che sul piano morale e sociale». Ma la Cassazione pur riconoscendo che «la contribuente abbia agito per un proprio interesse» non ha ritenuto la spesa inerente «in assenza di qualsiasi correlazione» con un’attività «potenzialmente idonea a produrre utili».
Si ritiene che tale correlazione sussisterebbe qualora fosse concretamente provata l’esistenza, ad esempio, di un danno “reputazionale” derivante alla società dall’esito del processo.
…e degli amministratori
La giurisprudenza di legittimità si è espressa in senso analogo rispetto alle spese per la difesa penale degli amministratori, negandone la deducibilità anche se il capo di imputazione concerneva “fatti compiuti nello svolgimento dell’incarico” (sentenze 3737 e 23089/2012, conformi alla Sezioni unite 10680/1994). Quest’ultima sentenza ha ritenuto deducibili “soltanto le spese sostenute dall’amministratore per attività svolte a causa del mandato ricevuto e non semplicemente… in occasione del mandato stesso» e che l’illecito penale non rientri tra le attività per le quali il mandatario può rivalersi sul mandante, anche se l’accusa si rivela infondata.
Si ritiene, quindi, che l’inerenza della spesa sussista in presenza, ad esempio, di un reato fiscale commesso dall’amministratore (o dal manager) che ha sottoscritto la dichiarazione dei redditi, qualora tale funzione sia contrattualmente prevista.
Le polizze assicurative
La Cassazione ha, altresì, affermato, nella sentenza 28004/2009, l’indeducibilità dei premi pagati dalla società per polizze assicurative relative agli infortuni «del personale con qualifica di dirigente, di impiegato e di quadro», perché tali costi «pur se inerenti alla gestione dell’impresa», non sarebbero «diretti alla produzione di reddito, né sono spese poste a vantaggio dei lavoratori come i costi per assicurazione prevista da norma cogente, rimanendo, al verificarsi dell’evento assicurato, il risarcimento di esclusiva spettanza della società». Tale motivazione appare contraddittoria laddove nega la deducibilità di costi previsti da un accordo sindacale e riconosciuti come inerenti alla gestione dell’impresa.
L’Adc ha, invece, sostenuto, nella norma di comportamento 154/2004, la deducibilità dei premi delle polizze stipulate per il rischio di morte o di invalidità degli amministratori – qualora la beneficiaria sia la società – perché si tratta di eventi da cui deriverebbero conseguenze negative per l’attività di quest’ultima (così Ctr Veneto, sentenza 1183/2/16, e Ctp Agrigento, 1840/7/15).
È un orientamento condivisibile e indirettamente confermato dalle Entrate nella risoluzione 178/E/2003, in cui si afferma che i premi pagati dalla società per le polizze sulla responsabilità civile di amministratori e dipendenti non concorrono a formare il reddito dei beneficiari, in quanto spese sostenute nell’esclusivo interesse del datore di lavoro.

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Società estinte, niente retroattività

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 5 Settembre 2017 di Laura Ambrosi
Accertamento. Per la Cassazione l’ex liquidatore non può presentare ricorso perché privo di capacità processuale
Stop all’avviso per i soggetti cancellati prima del 13 dicembre 2014
È illegittimo l’accertamento emesso nei confronti di una società cancellata dal registro imprese: si tratta infatti di un soggetto inesistente e come tale non può essere destinatario di alcun provvedimento. La nuova norma, peraltro, ha valenza solo per le cancellazioni decorrenti dal 13 dicembre 2014. L’ex liquidatore non può comunque proporre ricorso avverso il provvedimento ricevuto poiché privo di capacità processuale. A confermare questo orientamento è l’ordinanza 20752/2017 della Corte di cassazione depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate ha notificato un accertamento ad una società estinta ed al suo ex liquidatore. Il provvedimento veniva impugnato da parte di entrambi ed annullato dal giudice di merito. In particolare, la commissione regionale, pur respingendo l’eccezione di inammissibilità del ricorso, ha rilevato che l’ente proprio perché estinto non poteva essere destinatario di alcun atto, ma andava comunque riconosciuto il diritto di difesa.
L’agenzia delle Entrate ha presentato così ricorso in Cassazione lamentando che, secondo la nuova norma, l’estinzione aveva efficacia solo decorso un quinquennio. Inoltre, l’ufficio ha dedotto in ogni caso che il ricorso doveva essere dichiarato inammissibile fin dal primo grado, atteso che proposto da soggetto ormai estinto e privo di capacità processuale.
La Suprema corte, confermando la decisione di appello, ha innanzitutto ricordato che la nuova norma sulle società estinte non è retroattiva e pertanto ha valenza solo ed esclusivamente per le cancellazioni presentate a decorrere dal 13 dicembre 2014 (Cassazione 6743/2015). I giudici di legittimità hanno così rilevato che effettivamente la Ctr avrebbe dovuto accogliere l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio promosso dall’ex liquidatore della società cancellata, attesa la carenza di capacità processuale.
La decisione conferma l’orientamento ormai consolidato sul punto sull’inesistenza degli atti notificati al soggetto estinto.
La nuova norma, infatti, non ha alcun valore per il passato con la conseguenza che in vigenza delle vecchie regole, la società cancellata non può essere destinataria di alcun provvedimento. In passato, la Cassazione in merito al ruolo dell’ex liquidatore aveva già chiarito che il ricorso dallo stesso proposto avverso una cartella di pagamento è inammissibile ed il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio la nullità dell’atto impositivo perché intestato a soggetto estinto (28187/2013).
Tuttavia, in tale occasione era stato anche precisato che la cartella di pagamento non poteva essere emessa e che quindi anche qualora non fosse stata impugnata dall’ex liquidatore non avrebbe prodotto alcuna conseguenza: nessuna esecuzione forzata, infatti, sarebbe stata possibile nei confronti di una società “inesistente”.
La Cassazione osservava poi che, in ogni caso, non può essere negato il diritto di difesa al soggetto che riceve un atto dal quale, benché in astratto, potrebbe conseguirgli un pregiudizio. Per completezza, si segnala che la giurisprudenza di legittimità ha recentemente chiarito che l’estinzione della società non fa venir meno la legittimazione attiva e passiva dei soci in giudizio, anche se la pretesa del fisco resta comunque vincolata a quanto eventualmente percepito nel riparto dell’attivo di liquidazione (sentenza 15035/2017).

 

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Rafforzata la tutela dei marchi

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 14 Settembre 2017 di Bernardo Bruno

Diritto dell’economia. Nulla la registrazione solo «ostruzionistica»

Nullo il marchio comunitario registrato in mala fede al solo fine di impedire a chi lo abbia precedentemente utilizzato e diffuso di continuare a fruirne. Lo ha ribadito la recente sentenza n. 20715, con cui la Corte di cassazione ha altresì evidenziato che «ai fini della nullità in questione, rileva l’uso altrui del medesimo segno anche in un solo Stato membro». Il marchio, indispensabile ad identificare origine e qualità di un prodotto e garantirne la riconoscibilità piena, è meritevole di tutela giuridica anche prima della formale registrazione, in virtù dell’uso di fatto con cui l’utilizzatore ne diffonde la notorietà nel mercato di riferimento. Negli ultimi anni talune aziende, traendo vantaggio dalla mancata registrazione del segno altrui, ne avanzavano richiesta in altri Stati comunitari, in pregiudizio a chi ne avevano precedentemente diffuso la notorietà. L’11 giugno 2009 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciando una storica sentenza nell’ambito del processo Lindt, è intervenuta a sanzionare condotte improntate alla mala fede, individuando tre fattori utili da indagare: a) la conoscenza dell’esistenza di un terzo utilizzatore di un prodotto identico in almeno uno Stato membro; b) l’intenzione del richiedente di impedire al terzo di continuare ad utilizzare il segno; c) un grado di tutela giuridica attribuito al marchio del terzo e a quello di cui era richiesta la registrazione. La particolare formulazione della pronuncia del Tribunale europeo, tuttavia, ha incentivato, nel tempo, interpretazioni tutt’altro che univoche circa i presupposti della malafede, inducendo alcuni ad attribuire alla portata del divieto valore prettamente territoriale. Nella vertenza in esame, promossa davanti alla Cassazione, è stata infatti proposta una lettura restrittiva del provvedimento della Corte di Giustizia, tesa a delimitare la mala fede del richiedente alla sola ipotesi in cui la registrazione del marchio fosse richiesta nello stesso Paese di diffusione, (con esclusione, dunque, delle domande proposte in altri Stati comunitari). La Suprema Corte ha assunto una posizione netta in merito, escludendo qualsiasi restrizione interpretativa. I giudici di legittimità hanno dichiarato nulla la registrazione di un marchio già utilizzato di fatto in un Paese diverso da quello in cui la richiesta è stata presentata, rilevando l’intento di ostacolare il libero ingresso del concorrente nel mercato straniero. Citando la Corte di Giustizia Europea, i giudici nazionali hanno chiarito che l’intenzione di impedire ad un terzo di commercializzare un prodotto può, in talune circostanze, caratterizzare la malafede del richiedente, circostanze che ricorrono quando «il richiedente ha fatto registrare come marchio comunitario un segno senza l’intenzione di utilizzarlo, unicamente al fine di impedire che un terzo entri nel mercato». La pronuncia ha il pregio di offrire una chiara interpretazione della materia, sancendo la portata extraterritoriale del divieto di registrazione in mala fede del marchio e scoraggiando condotte finalizzate a boicottare l’approccio a nuovi mercati ultranazionali da parte di concorrenti commerciali.

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Associazioni sportive, ok alla deduzione

10 Ottobre 2017

Il Sole 24 Ore 15 Settembre 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione. Per i giudici si tratta di spese di pubblicità se i corrispettivi servono alla promozione e c’è stata una vera attività

Non occorre dimostrare l’inerenza delle somme corrisposte fino a 200mila euro

Le somme corrisposte alle associazioni sportive dilettantistiche entro i 200mila euro sono spese di pubblicità deducibili interamente nell’anno: si tratta, infatti, di una presunzione legale assoluta voluta dal legislatore, con la conseguenza che non occorre dimostrare l’inerenza di tali oneri. A confermare questo orientamento è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 21333 depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate aveva notificato a un’impresa un avviso di accertamento con il quale disconosceva la deducibilità di alcune spese di sponsorizzazione a due associazioni dilettantistiche.
Secondo l’ufficio i costi non erano inerenti l’attività, tanto più che le due associazioni erano poco conosciute in ambito territoriale, con la conseguenza che la sponsorizzazione, nonostante l’elevata cifra pagata, era stata verosimilmente inutile. Il provvedimento era stato impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito aveva confermato l’illegittimità della pretesa. L’Agenzia si era rivolta alla Cassazione lamentando un’errata interpretazione della norma.
La Suprema Corte, respongendo la pretesa dell’amministrazione, ha confermato l’orientamento ormai costante sul punto.
L’articolo 90 della legge n. 289/2002 ha previsto che il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni che svolgono attività nei settori giovanili riconosciute dalle federazioni sportive o da enti di promozione sportiva, costituisce per il soggetto erogante una spesa di pubblicità, nel limite annuo di 200mila euro.
I giudici di legittimità hanno rilevato che si tratta di una presunzione legale assoluta di qualificazione, nei limiti dei 200mila euro, di spese di pubblicità. È pertanto la norma a classificarle come inerenti e congrue all’esercizio dell’attività commerciale, senza che sia necessario alcun riscontro in tal senso.
La decisione conferma l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (n. 7202/17 e 5720/2016) sulla corretta interpretazione della norma.
Va segnalato che la stessa Agenzia con la circolare n. 21/2003 aveva già condiviso tale interpretazione affermando che la norma ha introdotto una presunzione assoluta circa la natura di tali spese.
In sintesi, quindi, è la legge a prevederne l’integrale deducibilità nell’anno e a tal fine occorre verificare che:
i corrispettivi erogati siano destinati alla promozione dell’immagine/prodotto dell’impresa;
il soggetto ricevente sia una «compagine sportiva dilettantistica» che si impegni a promuovere il marchio/prodotto;
vi sia concretamente stata l’attività promozionale (ad esempio apposizione del marchio sulle divise, esibizione di striscioni e/o tabelloni sul campo).
Va detto che sono numerosi i casi di rettifiche fondate su questa contestazione soprattutto se i verificatori rilevano che l’importo speso per la pubblicità è sproporzionato rispetto all’utile dell’impresa. Viene in genere contestata, a questo riguardo, una antieconomicità del costo. Vi è ora da sperare che, alla luce del costante orientamento giurisprudenziale, gli uffici rivedano le proprie posizioni e soprattutto abbandonino gli eventuali contenziosi in corso.

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Sponsor, non conta la spesa elevata

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 28 Agosto 2017 di Marcello Maria De Vito

Reddito d’impresa. Bastano le foto delle gare sportive in cui compare il logo a provare l’effettività dell’investimento effettuato

Non si può presumere l’inesistenza della prestazione solo perché l’importo è sproporzionato

La prova dell’effettività sponsorizzazioni compete al contribuente e, in proposito, sono dirimenti le fotografie delle gare nelle quali compare il logo dello sponsor. D’altro canto, l’agenzia delle Entrate non può presumere la parziale inesistenza delle sponsorizzazioni sulla base del loro elevato ammontare rispetto all’efficacia pubblicitaria degli eventi, poiché resta nell’ambito della discrezionalità imprenditoriale valutare l’adeguatezza del ritorno pubblicitario rispetto agli investimenti effettuati. Sono questi i principi statuiti dalla Ctr Lombardia con la sentenza 1727/11/2017 (presidente Buono, relatore Blandini).
L’Agenzia contestava a una società l’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, emesse da un soggetto operante nel settore delle corse automobilistiche. L’ufficio affermava che tali fatture venivano solo formalmente pagate a mezzo bonifici, dal momento che il soggetto sponsorizzato, ricevuto il bonifico, prelevava contanti che l’Agenzia presumeva restituiti agli sponsor.
La società sponsor ricorreva alla Ctp di Milano, che accoglieva il ricorso affermando che non vi era alcuna prova certa dell’inesistenza delle prestazioni e/o della reale incongruenza tra le prestazioni rese e quelle fatturate.
Il Fisco appellava la sentenza, affermando che l’accertamento si fondava sul meccanismo fraudolento realizzato dal soggetto sponsorizzato, ribadendo il fatto che i prelievi in contanti facevano presumere la restituzione del denaro agli sponsor.
L’ufficio lamentava, altresì, che la Ctp aveva ritenuto provate le sponsorizzazioni grazie alle dichiarazioni di terzi, in violazione del divieto di prova testimoniale.
La Ctr respinge l’appello dell’ufficio, smontando sotto vari profili la ricostruzione e le argomentazioni dell’ufficio:
innanzitutto, va rilevato che il contribuente ha provato l’effettività delle prestazioni, producendo fotografie, filmati delle gare ed estratti di quotidiani nazionali in cui erano ben presenti le vetture con il logo sponsorizzato;
in secondo luogo, le dichiarazioni di terzi, pur non potendo assurgere a testimonianza, hanno pur sempre un rilevante valore indiziario;
infine, la presunzione di restituzione agli sponsor di parte delle sponsorizzazioni, fondata sull’elevato ammontare della spesa rispetto all’efficacia pubblicitaria, non compare negli avvisi di accertamento. E comunque, puntualizza la Ctr, resta nell’ambito della discrezionalità imprenditoriale valutare l’adeguatezza del ritorno pubblicitario rispetto agli investimenti.
È poi corretta, secondo la Ctr, l’affermazione della Ctp seconda la quale è contraddittorio da un lato asserire che le prestazioni siano inesistenti e dall’altra supporre che siano state sovrafatturate.
La commissione di secondo grado, inoltre, sottolinea che gli avvisi di accertamento si fondano su attività ispettive svolte a carico di un soggetto terzo, le cui risultanze non sono state adeguatamente riprodotte nell’atto impugnato, se si eccettuano le mere affermazioni di «sponsorizzazioni mai rese o solo in parte rese» risultanti da un Pvc non portato a conoscenza del contribuente.
A questa decisione è seguita, solo qualche giorno più tardi, una sentenza dello stesso tenore (la 1877 del 18 aprile 2017) pronunciata dalla stessa Ctr della Lombardia.

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Nel gruppo lecito il finanziamento infruttifero

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 23 Agosto 2017 di Massimo Romeo

Ctp Milano. Riconosciuto il carattere accessorio delle operazioni compiute ai fini Iva

La Commissione tributaria provinciale di Milano con la sentenza 4656 del 10 luglio 2017 (presidente Ortolani – relatore Moro) accoglie le doglianze della società ricorrente e annulla le riprese dell’Ufficio ai fini Ires riconoscendo la liceità del contratto, in ambito infragruppo, del finanziamento infruttifero di interessi e ai fini Iva, con riferimento al requisito soggettivo, il carattere accessorio delle operazioni compiute.
La società contribuente, operante nel settore industriale della fabbricazione e distribuzione di prodotti per l’agricoltura, impugnava un avviso di accertamento per diverse annualità con il quale l’agenzia delle Entrate, in seguito ad un processo verbale di constatazione, aveva ripreso a tassazione l’omessa contabilizzazione di ricavi per l’antieconomicità di un prestito infruttifero di interessi erogato alla società partecipata e risultante da un regolare contratto sottoscritto. La ricorrente attribuiva l’onerosità degli interessi sostenuti alla inadeguata consistenza patrimoniale della società controllata per ottenere finanziamenti dal sistema creditizio; a supporto richiama giurisprudenza di legittimità (Cassazione 27087/14) e di merito (Ctp Reggio Emilia e Ctr Piemonte/Lombardia) in base alla quale la concessione di finanziamento infruttifero in ambito infragruppo è scelta imprenditoriale legittima equiparabile a conferimento di capitale.
L’Ufficio ribadiva la legittimità del proprio operato e l’evidente antieconomicità dell’operazione in quanto la controllante non aveva ottenuto alcun provento a fronte di oneri finanziari rilevanti sostenuti per l’accesso al credito bancario.
Sul fronte Iva l’Ufficio altresì contestava l’indebita detrazione per il mancato inserimento nel calcolo Prorata di operazioni attive esenti quali le cessioni di partecipazioni che la ricorrente aveva considerato non rientranti nell’attività propria dell’impresa o accessorie ad operazioni imponibili; la motivazione dell’atto impositivo si fondava sull’assenza di occasionalità e accessorietà in quanto emergeva un’attività tipica di una holding che normalmente affianca all’ attività di produzione industriale i finanziamenti, le compravendite di quote di partecipazione, l’accentramento di costi con successivo riaddebito , prestazioni di servizi riferite alle controllate.
Parte ricorrente sosteneva invece che la vendita di partecipazioni era del tutto occasionale e strumentale allo svolgimento dell’attività industriale, non poteva generare prorata come, fra l’altro, aveva affermato l’agenzia delle Entrate in risposta ad una consulenza giuridica (n. 954-49/2014).
I giudici milanesi per risolvere la controversia ai fini Ires si rifanno all’articolo 1815 del Codice civile e all’articolo 89 comma 5 del Testo unico delle imposte sui redditi. In materia civilistica è prevista la corresponsione degli interessi al mutuante salvo diversa volontà delle parti.
In materia fiscale viene lasciata libera autonomia alle parti di determinare la fruttuosità o l’infruttuosità di interessi del finanziamento concesso.
Ai fini Iva, poi, il Collegio richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia della Ue che ha precisato in più occasioni che un’operazione deve considerarsi accessoria ad una principale quando non costituisce per la clientela un fine a se stante ma un mezzo per fruire delle migliori condizioni della fornitura principale resa dal soggetto Iva; precisazioni che i giudici considerano qualificanti del caso in esame.
Le operazioni sotto la lente del fisco si riferivano infatti a cessioni di quote di partecipazione ad altre società con successivo trasferimento del know-how ad altra società del gruppo che si occupava della produzione del prodotto; pertanto, concludono i giudici, non erano state effettuate tipicamente dal soggetto Iva ma solo in via del tutto occasionale e non rientravano nell’attività propriamente ed effettivamente svolta dalla società ricorrente.

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Con il «Maat» più armi al Fisco

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 22 Agosto 2017 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco

Cooperazione internazionale. La Convenzione multilaterale consente indagini più approfondite e retroattive

Possibile la riscossione diretta all’estero, anche a carico degli eredi

Retroattività degli accertamenti fino a tre anni precedenti l’entrata in vigore degli accordi, riscossione diretta all’estero dell’imposta evasa e anche a carico degli eredi.
In attesa dei primi effetti dello scambio automatico di informazioni (non prima del 2018), la strategia della lotta all’evasione internazionale potrebbe passare attraverso uno strumento ancora più incisivo: la Convenzione multilaterale sull’assistenza amministrativa (Maat). In una platea di 112 Stati – dal più piccolo paradiso alle piazze storiche, Svizzera, Monaco e Liechtenstein inclusi, ma ancora fuori gli Usa – valgono infatti oggi le regole molto elastiche del Maat, che disciplinano l’ “ingaggio” e il funzionamento degli strumenti principali per la lotta all’evasione: lo scambio di informazioni (a richiesta, di gruppo o automatico), le verifiche fiscali congiunte e simultanee sia in Italia sia all’estero; l’assistenza delle amministrazioni straniere aderenti alla riscossione all’estero anche attraverso provvedimenti conservativi a garanzia del credito erariale; ed infine una disciplina uniforme della notifica degli atti di accertamento di riscossione e dei documenti.
Nella convenzione multilaterale viene confermata la totale abolizione del segreto bancario, finanziario, fiduciario, assicurativo e di mandatari in genere. La facoltà per le amministrazioni finanziarie di poter effettuare una verifica fiscale simultanea e all’estero è un’assoluta novità estesa ad un accordo multilaterale e potrebbe rivelarsi estremamente efficace in indagini finanziarie complesse su attività detenute in più Stati.
Il Maat è uno strumento attuativo e integrativo delle convenzioni già in essere, tendente a uniformare e semplificare le procedure che prima d’ora scontavano la continua diversità delle singole discipline normative nazionali, in cui vengono indicati i contenuti essenziali della domanda di assistenza e disciplinata anche la procedura da utilizzare, nonché i diritti dei contribuenti.
La riscossione dei crediti fiscali esce rafforzata dall’applicazione del Maat, che in particolare prevede l’equiparazione giuridica tra i crediti fiscali dello Stato richiedente e di quello ricevente. Basta solo che vi sia un titolo idoneo alla riscossione, ma se lo Stato richiedente agisce contro un suo residente domiciliato “fuori”, il titolo il credito non può essere più fermato.
Per quanto riguarda il recupero di imposte o tasse nei confronti di persone decedute o nei confronti degli eredi, sarà possibile nei limiti della successione, ovvero nei limiti dei beni ricevuti dagli eredi.
Uno degli aspetti più importanti degli accordi Maat resta comunque la decorrenza. Secondo la convenzione, l’entrata in vigore si calcola dal momento della ratifica, ma per fatti penalmente rilevanti (e quindi anche per reati tributari) riguardanti lo Stato richiedente, la richiesta di informazioni può avere retroattività fino al terzo anno antecedente l’entrata in vigore. Per mere finalità di esempio, per Monaco si avrà una retroattività al 1° aprile 2014 (l’entrata in vigore della Convenzione data al 1° aprile scorso).
Questa modalità di accertamento potrebbe essere estesa a tutti gli altri Paesi aderenti (Svizzera, Liechtenstein, San Marino, Emirati Arabi, Libano e Bahamas eccetera) a seconda dell’entrata in vigore delle rispettive ratifiche della Convenzione ,superando di fatto anche i limiti temporali dei precedenti accordi bilaterali – sempre che i fatti per cui si richiede lo scambio di informazioni abbiano rilievo penale (o penal/tributario).

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Senza confusione sì all’uso del domain name

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 24 Agosto 2017 di Patrizia Maciocchi

Cassazione. Il titolare del marchio registrato prima non può vietare l’utilizzo se i servizi offerti sono diversi

Roma

Il titolare del marchio registrato prima non può vietare l’uso del domain name, se non c’è rischio di confondere i prodotti o i servizi. La Cassazione, con la sentenza 20189 respinge il ricorso di una Spa, attiva nel settore immobiliare, teso a bloccare l’uso di un nome a dominio. Alla base del “veto” e della richiesta di riassegnazione in proprio favore del domain name c’era la titolarità del marchio Etnapolis precedentemente registrato. Un segno troppo simile al domain name, etnapolis.it e etnapolis.com la cui registrazione era stata chiesta da un imprenditore siciliano titolare di una virtual communication agency, che forniva alle imprese servizi gestiti direttamente on line. Il target di riferimento era vario: dallo svago allo sviluppo di software ed hardware.
Per la Corte d’appello l’oggettiva diversità della classi merceologiche non poteva essere superata né dal richiamo all’uso pubblicitario del marchio, fatto dal ricorrente, né dall’affermata, ma non dimostrata, rinomanza del segno preesistente a livello nazionale.
La natura forte o debole del marchio è, infatti, rilevante nel caso di contraffazione tra due marchi non identici, mentre nel caso esaminato vale la legittimità della registrazione del segno come nome a dominio.
Secondo la difesa del ricorrente l’uso del nome a dominio andrebbe invece considerato illecito, anche quando c’è solo la possibilità che il pubblico associ il titolare del domain name al titolare del marchio già registrato, rendendo di fatto impossibile per quest’ultimo utilizzare il brand originario su Internet.
I giudici ricordano che già la legge marchi (929/1942), in seguito alla riforma del ’92 prendeva in considerazione i segni “atipici” in grado di confliggere con quelli già in uso. La norma chiariva che i titolari dei marchi non possono vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del loro nome o del loro indirizzo purché l’uso non sia in funzione di marchio ma solo descrittiva. Previsione dalla quale si desume che anche un indirizzo può essere un marchio quando, come nel caso del nome a dominio, ne ricorrono i presupposti. Un’interpretazione che ha trovato conferma nel Codice della proprietà industriale (Dlgs 30/2005) che considera espressamente tra i segni distintivi anche il domain name.
Il titolare del brand originario non può far valere alcun automatismo nel vietare il diritto all’uso del nome a dominio. Sarà il giudice a decidere, basandosi non solo sull’identità dei segni e sulla loro confondibilità ma anche su identità e confondibilità dei prodotti, esclusa nel caso esaminato. La ricorrente non ha provato il rischio confusione e non si può ritenere che ogni marchio sia accompagnato dalla notorietà. Tale interpretazione sarebbe in contrasto con il principio di specialità del marchio e in conflitto con l’articolo 20 del Codice della proprietà industriale che fa scattare l’”esclusiva” solo in caso di segni identici per prodotti uguali o affini.

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Il Testo unico attende adeguamenti

31 Agosto 2017

Il Sole 24 Ore 21 Agosto 2017 di Francesco Avella

Le «eccezioni negative». Applicazione delle novità subordinata alle decisioni dei singoli Stati

Le novità in materia di eccezioni negative di stabile organizzazione si applicheranno a un Accordo fiscale coperto soltanto se anche l’altro Stato contraente abbia optato per applicarle (paragrafi 7 e 8 dell’articolo 13 della Multilaterale Beps).
Benché molti Stati abbiano optato in tal senso, si registrano alcune illustri eccezioni, come Cina, Malta e Svizzera – che hanno scelto di non applicare in toto l’articolo 13 – e come Irlanda e San Marino – che hanno scelto di applicare differenti disposizioni dell’articolo 13. Per le Convenzioni concluse dall’Italia con tali Paesi, le novità in materia di eccezioni negative non saranno dunque applicabili e quindi nulla cambierà.
Le novità, peraltro, potrebbero non concretizzarsi nemmeno nei rapporti con gli Stati che hanno optato per l’applicazione delle medesime previsioni scelte dall’Italia. La concreta efficacia delle modifiche apportate dall’articolo 13 della Multilaterale Beps sembra infatti condizionata ad analoghe modifiche da apportare all’articolo 162 del Tuir. Non può trascurarsi, infatti, che la funzione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni è limitare la potestà impositiva rispetto a quanto previsto nella normativa nazionale: ciò implica, quanto alla nozione di stabile organizzazione, che le Convenzioni assumono rilevanza soltanto laddove la definizione convenzionale sia più restrittiva di quella contenuta nella normativa nazionale; al contrario, se la definizione contenuta nella norma nazionale non conduce a riscontrare l’esistenza di una stabile organizzazione e, dunque, non legittima la tassazione in Italia del reddito d’impresa del non residente, l’applicazione delle Convenzioni non può espandere la potestà impositiva dell’Italia e quindi non può consentire all’Italia di tassare qualcosa che non tasserebbe per norma interna, nemmeno se la definizione convenzionale di stabile organizzazione è più ampia di quella nazionale (si veda anche l’articolo 169 del Tuir).
Il legislatore dovrà pertanto intervenire sull’articolo 162 del Tuir in maniera analoga al contenuto dell’articolo 13 della Multilaterale Beps, anche in considerazione del fatto che la disposizione nazionale venne introdotta nell’ordinamento italiano nel 2003 ispirandosi a una definizione di stabile organizzazione – quella contenuta nel Modello di Convenzione Ocse di allora – non più attuale alla luce delle evoluzioni Beps.

Doing business in San Marino

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