Scambio dati con filtro del giudice

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 17 Maggio 2017 di Stefano Oliva, Riccardo Padovan e Benedetto Santacroce

Corte Ue. Il vaglio giurisdizionale si può indirizzare sulla «prevedibile pertinenza» delle domande con l’indagine tributaria in corso

Ammissibile il controllo sulle richieste di informazioni fiscali provenienti da altri Stati

L’attivazione di una richiesta di cooperazione fiscale deve contenere gli elementi che consentano allo Stato richiesto di comprendere se la stessa rispetta tutti i vincoli di legittimità imposti dalle regole convenzionali; se ciò non risulta chiaro il diritto europeo deve garantire una reale tutela del contribuente. Questo principio è stato fissato dalla Corte di giustizia con la sentenza C-682/15 di ieri.
Il giudizio trae origine da una richiesta di informazioni inoltrata, in forza della direttiva 2011/16, dall’amministrazione finanziaria francese verso quella lussemburghese, conseguente ad una verifica circa la sussistenza dei requisiti previsti per l’esenzione della ritenuta alla fonte su un dividendo pagato da una società transalpina alla sua controllante lussemburghese.
A seguito di tale richiesta il fisco lussemburghese ingiungeva alla società controllante di fornire talune informazioni richieste dall’amministrazione francese; la società rispondeva omettendo i dati relativi ai propri soci ritenendo che tali informazioni non fossero «prevedibilmente pertinenti» – nell’accezione della direttiva 2011/16 – alla verifica fiscale posta in essere dalle autorità francesi.
A fronte del diniego, l’autorità fiscale lussemburghese irrogava una sanzione amministrativa, avverso la quale la società ricorreva al tribunale amministrativo; all’esito del quale i giudici di prime cure riducevano parzialmente la sanzione, respingendolo nel merito non ritenendo di doversi pronunciare sulla domanda di annullamento.
La società proponeva allora appello alla corte amministrativa di secondo grado adducendo il motivo che il diniego opposto dal tribunale amministrativo (in base alla norma interna lussemburghese) di verificare la fondatezza della decisione di ingiunzione, fosse lesivo del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo, così come garantito dall’articolo 6 della Cedu. I giudici amministrativi hanno ritenuto di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte di giustizia la questione, sulla base del presupposto della rilevanza anche in tale ambito dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che riflette i medesimi principi espressi dall’articolo 6 della Cedu.
La Corte, con la sentenza, ha in primo luogo ricondotto, ai sensi dell’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, le misure coercitive irrogate tra quelle che gli Stati membri adottano per assicurare il buon funzionamento della cooperazione amministrativa all’attuazione degli obblighi della Direttiva 2011/16.
La Corte ha altresì statuito che l’articolo 47 della Carta va interpretato nel senso che un soggetto, cui è stata inflitta una sanzione – per non aver ottemperato ad un’ingiunzione di fornire informazioni nel contesto dell’assistenza amministrativa in forza della Direttiva 2011/16 – ha diritto a contestare la legittimità della stessa con un ricorso giurisdizionale effettivo.
La Corte prosegue ricordando che tale decisione di ingiunzione può essere legittima (articolo 1, paragrafo 1, e articolo 5 della Direttiva 2011/16) qualora le informazioni richieste dall’autorità fiscale estera sono «prevedibilmente pertinenti», riflettendo, in tal modo, la medesima nozione utilizzata dall’articolo 26 del modello di convenzione Ocse.
Da ultimo la sentenza evidenzia che, per assicurare l’effettività di tale rimedio, il giudice nazionale deve essere competente sia a modificare quantitativamente la sanzione inflitta, sia a verificare la legittimità di tale decisione; per questo dovrà aver accesso completo alla richiesta di informazioni, indipendentemente dal suo carattere di segretezza. Viceversa il soggetto destinatario della richiesta non disporrà di un diritto di accesso completo, ma solamente alle informazioni minime previste dall’articolo 20, paragrafo 2, della Direttiva 2011/16, ovvero all’identità del contribuente coinvolto e al fine fiscale delle informazioni richieste.

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Aumento di capitale con compensazione del credito del socio

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 25 Maggio 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. Per una Srl

Sì alla compensazione della somma dovuta per l’aumento di capitale con un controcredito vantato verso la società. Lo afferma il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di imprese (presidente Scerrato, relatore Romano), in un’ordinanza dello scorso 6 febbraio.
Questi i fatti. Nell’aprile 2016 l’assemblea di una Srl aveva deliberato l’aumento da 10mila a 85 mila euro. Un socio aveva esercitato il diritto di opzione, chiedendo che il relativo debito fosse compensato con un suo credito verso la società per un precedente finanziamento. L’amministratore aveva però escluso che i due debiti si potessero compensare; così aveva iscritto nel Registro imprese la delibera di variazione del capitale senza tener conto della sottoscrizione del socio creditore, la cui quota di partecipazione al capitale sociale era quindi scesa dal 33,33% al 5,56%.
Il socio si era allora rivolto al giudice monocratico del Tribunale per ottenere, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, un provvedimento che disponesse l’esecuzione della delibera di aumento del capitale con compensazione col suo credito; il socio ricorrente aveva inoltre chiesto di ordinare al legale rappresentante della società di depositare nel registro delle imprese una dichiarazione che attestasse il suo acquisto di quote. Con ordinanza del settembre 2016 il tribunale aveva accolto la richiesta del ricorrente.
La Srl ha quindi presentato il reclamo previsto dall’articolo 669-terdecies del Codice di procedura civile, sostenendo che l’aumento di capitale era stato deliberato per reperire, con assoluta urgenza, la liquidità necessaria a effettuare il pagamento della rata di un mutuo prossima alla scadenza. Sicché – concludeva la società – lo scopo della delibera sarebbe stato vanificato se si fosse consentita la compensazione richiesta dal socio.
Nel respingere il reclamo, il collegio afferma, innanzitutto, che «l’obbligo del socio di conferire in danaro il valore delle azioni sottoscritte in occasione di un aumento del capitale sociale è un debito pecuniario, che può essere estinto per compensazione con un credito pecuniario vantato» nei confronti della società. Peraltro, l’aumento di capitale sottoscritto con estinzione per compensazione non è contrario all’interesse della società, giacché determina il venir meno del debito della stessa compagine verso il socio e, in definitiva, «un aumento della garanzia patrimoniale generica» offerta ai creditori. Né, comunque, la possibilità che il debito sia estinto per compensazione richiede un’espressa previsione nella decisione di aumento del capitale.
Nel caso in esame, la delibera era stata approvata per trovare la liquidità necessaria a pagare la rata di un prestito e a ristrutturare alcuni impianti. Ma tale esigenza, «sebbene in qualche modo esplicitata», era rimasta «confinata nell’ambito dei motivi», giacché l’assemblea dei soci non aveva predisposto «i meccanismi giuridici per impedire» la compensazione dei due crediti. Infatti, «se i soci avessero voluto che l’operazione sul capitale facesse confluire nelle casse societarie esclusivamente liquidità da utilizzare per i pagamenti», l’assemblea avrebbe «potuto (e dovuto) escludere la compensabilità dell’apporto di capitale con i crediti vantati dai soci». Poiché la delibera non conteneva alcuna previsione sul punto, si applica la regola generale che consente la compensazione.
Così il Tribunale ha confermato l’ordinanza impugnata.

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Dal 1° agosto la caccia al «non pentito»

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore del 29 Maggio 2017 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco

I trattati. Alla chiusura della Vd 2.0 l’Agenzia partirà con le liste selettive e da settembre lo scambio automatico

Per la seconda e definitiva chiamata all’emersione volontaria del nero estero restano ancora due mesi e due giorni. Poi, chiusa definitivamente la finestra delle voluntary disclosure, dal 1° agosto l’Agenzia passerà alla fase della caccia all’evasore non pentito, utilizzando in prima battuta i trattati bilaterali (group request) e subito dopo lo scambio automatico di informazioni (afflusso dati dal 1° settembre 2017 per gli early adopter, un anno dopo per gli altri).
La stagione delle group request – cioè le liste selettive di gruppo inviate alle altre amministrazioni collaborative (bilaterali), per esempio: “chi ha chiuso o azzerato i conti in Svizzera nel 2015” – durerà in sostanza il tempo necessario per l’avvio dello scambio automatico di informazioni, che sarà la vera arma globale contro la fuga del nero (alla rete di trasparenza internazionale aderiscono ormai più di 100 paesi). Lo scambio automatico, a differenza delle richieste di gruppo, funzionerà senza alcun intervento di impulso “esterno”: tutti gli intermediari dei paesi aderenti al cosidetto Crs (Common reporting standard) invieranno in automatico all’Agenzia i dati dei contribuenti con asset nelle loro giurisdizioni. Quanto al cambio di cittadinanza utilizzato per ragioni di opportunità/fuga fiscale (e cioè sottrarsi allo scambio automatico), può diventare un indizio che l’Agenzia sfrutterà per chiedere l’assistenza amministrativa del paese “rifugio”.
La tabella pubblicata a lato dimostra che la fuga del nero è diventata molto più complicata che in passato: i 17 paesi indicati, selezionati tra i 111 delle liste Ocse, rappresentavano fino a un paio d’anni fa le mete preferite degli amanti del segreto bancario (o meglio, del segreto fiscale), ma al più tardi tra 15 mesi dovranno svelare automaticamente al fisco italiano nomi e capitali dei “rifugiati”.
Gli strumenti della trasparenza internazionale sono gli accordi bilaterali tra cui le Convenzioni sulla doppia tassazione (Cdta) – che prevedono il recepimento dell’articolo 26 del modello Ocse sullo scambio di informazioni a richiesta con l’abolizione del segreto bancario e fiduciario – e gli accordi bilaterali sullo scambio di informazioni (Tiea) con la lista degli Stati convenzionati che consentono un adeguato scambio di informazioni (cosiddetta white list) prevista dal Dm 4 settembre 1996 e aggiornata dal Dm del 9 agosto 2016. Strategica, infine, è la lista Ocse dei Paesi (oltre 100) che a livello internazionale hanno adottato il modello comune per lo scambio automatico di informazioni (Common Reporting Standard). A fare da strumento applicativo sarà invece la Convenzione multilaterale sulla cooperazione amministrativa (Maat), adottata da quasi tutti gli Stati già parte degli accordi bilaterali e multilaterali sullo scambio di informazioni a richiesta e automatico. Il Maat consente la comunicazione spontanea, a richiesta singola o di gruppo e lo scambio automatico, con la possibilità di verifiche fiscali all’estero e la riscossione in loco dei tributi “fuggiti”. Il tutto, finalmente, con modalità standard per tutti gli Stati aderenti.

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Società estinte, confini incerti sulla responsabilità degli ex soci

7 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 15 Maggio 2017 di Fabrizio Cancelliere e Gabriele Ferlito
Cassazione. Il caso della mancata distribuzione dell’attivo
L’estinzione di una società di capitali nel corso del giudizio continua a far discutere. Con la sentenza 9094/2017 la Cassazione ha riconosciuto l’interesse del fisco ad agire contro gli ex soci quando la chiusura della società durante il processo avviene a seguito di una liquidazione che si conclude senza ripartizione di attivo tra i soci (si veda il Sole 24 Ore dell’8 aprile). La pronuncia crea una situazione di incertezza, alla luce della oscillante giurisprudenza della stessa Corte.
Ma andiamo con ordine. Rispetto ai debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società di capitali dal Registro imprese, il Codice civile (articolo 2495, comma 2) stabilisce che i creditori possono agire nei confronti degli ex soci fino a concorrenza di quanto dagli stessi riscosso in base al bilancio di liquidazione. Tale chiamata in responsabilità dei soci operata determina un fenomeno di tipo successorio, come riconosciuto dalle Sezioni unite con due sentenze analoghe emesse il 12 marzo 2013, la 6070 e la 6072.
In alcune recenti pronunce (sentenza 2444/2017; ordinanza 13259/2015), la Corte ha sostenuto la tesi che limita il meccanismo successorio all’ipotesi in cui gli ex soci soci abbiano goduto di un qualche riparto ad esito della liquidazione. Secondo questa interpretazione, gli ex soci subentrano dal lato passivo del rapporto di imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso al termine della liquidazione, pertanto l’accertamento di tali circostanze è il presupposto della assunzione, in capo a loro, della qualità di successori e, quindi, della legittimazione passiva ai fini della prosecuzione del processo. Secondo questa posizione:
sono inammissibili l’appello o il ricorso per Cassazione proposti dal fisco nei confronti degli ex soci di una società medio tempore estinta senza alcuna ripartizione di attivo;
il creditore che voglia agire nei confronti dell’ex socio che abbia ricevuto un qualche riparto è tenuto a dimostrare che vi sia stata la distribuzione dell’attivo e che tale attivo è stato riscosso, fermo restando il principio dell’onere della prova su chi intende fare valere un diritto.
Con la sentenza 9094 la Suprema corte ha censurato tale orientamento. I giudici, richiamando le Sezioni unite 6070 e 6072, hanno affermato che la mancata ripartizione di attivo tra i soci non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione intrapresa verso la società. Invero, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex articolo 2495. Qualora tale limite dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di fare valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò inciderebbe sull’interesse ad agire, ma il creditore potrebbe comunque avere interesse a proseguire il giudizio se vi fosse la possibilità per i soci di succedere in eventuali rapporti attivi della società non definiti al termine della liquidazione, ad esempio:
sopravvenienze attive derivanti da crediti della società incerti e illiquidi al momento della liquidazione (la cui mancata inclusione nel bilancio di liquidazione può essere giustificata da una più rapida conclusione della stessa);
beni o diritti non compresi nel bilancio di liquidazione, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa.
Resta da capire se tale possibilità può essere considerata automatica o se andrà documentata dal creditore, profilo che potrebbe aprire altre discussioni.

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Le indagini bancarie da sole non fanno l’accertamento

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 20 Aprile 2017 di Antonio Iorio

Cassazione/1. Per l’omesso versamento Iva «paga» l’amministratore subentrante

Risponde del reato di omesso versamento Iva il nuovo amministratore subentrato dopo la presentazione della dichiarazione firmata dal precedente rappresentante legale. A chiarirlo è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 18834 depositata ieri.
Il legale rappresentante di una società veniva condannato per l’omesso versamento dell’Iva risultante a debito nella dichiarazione presentata. Avverso la sentenza l’imputato presentava ricorso per Cassazione rilevando, tra i diversi motivi, l’assenza di responsabilità penale atteso che la dichiarazione dell’Iva non evidenziava alcun debito di imposta, oltre, in ogni caso, a essere stata sottoscritta dal precedente legale rappresentante. Il giudice territoriale, secondo la difesa, aveva omesso ogni valutazione.
In base all’articolo 10-ter del Dlgs 74/2000 il delitto di omesso versamento Iva si commette se entro il termine per il pagamento dell’acconto dell’anno successivo (27 dicembre) non venga versato il debito risultante dalla dichiarazione annuale.
I giudici di legittimità hanno precisato che la responsabilità per i reati tributari è, di norma, attribuita all’amministratore, individuato secondo le norme civilistiche, che rappresenta e gestisce l’ente. Questi soggetti sono tenuti a presentare e sottoscrivere le dichiarazioni obbligatorie e ad adempiere ai relativi obblighi fiscali. Chi assume la carica di amministratore, quindi, si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze.
Nel caso di sostituzione dell’amministratore in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione, ma prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento dell’obbligo tributario di versamento, sussiste la responsabilità per i reati tributari connessi all’omesso versamento di imposte dovute, di colui che succede nella carica (Cassazione, sentenze 34927/2015, 39687/2014). Ne consegue così che il nuovo amministratore è tenuto a una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi per cui ove ciò non avvenga, risponde del reato del mancato versamento chi subentra. L’assenza di tale preventivo controllo comporta la responsabilità quantomeno a titolo di dolo eventuale.
Nella specie, differentemente da quanto sostenuto dalla difesa, il debito Iva risultava nella dichiarazione sottoscritta dal precedente amministratore e pertanto prima di assumere la carica, l’imputato avrebbe dovuto chiedere visione dell’eventuale attestato di versamento periodico delle imposte al fine di verificare l’esecuzione dell’adempimento.

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Il prestanome «paga» insieme all’amministratore di fatto

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 21 Aprile 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione/2. Chi accetta la carica di rappresentante legale si assume i rischi connessi

Il prestanome risponde insieme all’amministratore di fatto dei reati tributari posti in essere a meno che non provi di essere privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione dell’impresa. A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 18924 depositata ieri.
A seguito di indagini svolte dalla Guardia di Finanza su una frode Iva perpetrata da alcune società estere e italiane, attraverso cui veniva detratta l’imposta per l’acquisto di beni senza che il venditore (fittizio) la versasse, venivano denunciati per false fatturazioni e altri delitti tributari sia gli amministratori di fatto, sia i rappresentanti legali (ancorché ritenuti in alcuni casi dei semplici prestanome) delle aziende coinvolte. Dopo la condanna nei due gradi di giudizio, gli imputati ricorrevano in cassazione. Tra le eccezioni sollevate, chi era stato ritenuto amministratore di fatto rilevava l’assenza della formale rappresentanza legale dell’azienda, mentre chi era stato indicato quale prestanome eccepiva il mancato coinvolgimento nella gestione imprenditoriale.
La Suprema Corte ha ricordato, innanzitutto, che il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita, con la conseguente equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti dalla carica. Tale interpretazione è confermata dall’articolo 2639 del Codice civile che, per i reati societari, dispone l’equiparazione al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge, di chi esercita in materia continuativa e significativa i poteri inerenti alla qualifica o funzione. Nonostante riguardi i reati societari, tale norma, rileva la sentenza, è la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori dell’ordinamento. Si configura così non solo il concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri nel senso che l’autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto.
La responsabilità penale dei prestanome è invece radicata nell’articolo 40, comma 2, del Codice penale, secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Infatti, il prestanome, assumendo consapevolmente la veste di rappresentante legale, copre attraverso la violazione del dovere di vigilanza che incombe su di lui le condotte illecite del reale amministratore. Nella specie, secondo i giudici di legittimità, la difesa si era concentrata sull’insussistenza di elementi probatori in ordine ai rapporti tra prestanome e società, mentre aveva tralasciato il mancato esercizio del dovere di controllo che competeva per legge all’amministratore di diritto per provare di essere privo di qualunque potere di ingerenza nella gestione della società nonostante ne fosse formalmente l’amministratore.
Ne consegue che il prestanome, accettando la carica, assume anche i rischi a questa connessi esponendosi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi compiano operazioni legali attraverso la copertura ricevuta. Da qui il rigetto del ricorso e l’affermazione della responsabilità anche dell’amministratore di diritto a titolo di concorso con quello di fatto non solo in virtù della posizione formale rivestita, ma anche per la condotta omissiva consistente nel non aver impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè il mancato esercizio dei poteri gestori e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto.

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Il rischio Brexit sul riciclaggio globale

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore Plus 8 Aprile 2017 di Stefano Elli

L’uscita dell’Inghilterra dall’Ue e il potenziale dumping normativo della Gran Bretagna e del Commonwealth

Hanno sempre funzionato a pieno regime. A dispetto delle quattro direttive antiriciclaggio emanate dalla Ue (l’ultima dovrà essere recepita entro il giugno 2017) a dispetto dei continui moniti dei vari organismi internazionali (Gafi, Ocse, Moneyval). I paradisi fiscali legati al governo di Sua Maestà britannica hanno continuato imperterriti a cubare denaro di incerta provenienza, fornendo teste di legno, società anonime, caselle postali e, soprattutto, segretezza. Ma senza allontanarci troppo, anche Londra appare un luogo privilegiato e gettonatissimo da chi vuole accumulare ingenti risorse senza figurare in prima persona. Non c’è inchiesta italiana sul white collar crime che non veda coinvolte pattuglie di società britanniche dalla proprietà oscurata.
E questo è accaduto fino a questo momento: cioè con la Gran Bretagna membro effettivo dell’Unione Europea. E poi? Quando ne sarà uscita? Quando si sarà sottratta ai vincoli imposti dalla partecipazione alla Comunità?
Il rischio concreto è che a fronte di una migrazione in territori comunitari delle maggiori insegne bancarie britanniche, per nulla intenzionate a perdere quote di mercato nel business del risparmio gestito, sulla piazza di Londra si concentrino operazioni e operatori sottratti a ogni tipo di controllo. Che il problema sia serissimo lo testimonia, per fare un solo esempio, il venir meno dell’obbligo, in capo all’Uk, di recepire le norme europee. «La quarta direttiva antiriciclaggio -spiega Fabrizio Vedana, vicedirettore generale di Unione Fiduciaria – prevede, per gli intermediari comunitari l’obbligo di istituire e alimentare il registro dei titolari effettivi delle società e dei trust. Del tutto evidente che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue fa cadere sul nascere ogni ragionamento sul punto». Rischio potenziale? Nessun obbligo a carico delle società britanniche e prevedibile migrazione di massa verso Londra di soggetti a rischio riciclaggio. Il secondo problema è di natura fiscale. A spiegarlo è di nuovo Vedana: «La direttiva Ue 107 del 2014 è stata recepita dall’Italia dalla legge 95 del 2015: si chiama Common reporting standard. Che cosa prevede? Che gli intermediari finanziari comunitari comunichino subito alle rispettive amministrazioni fiscali i dati di cittadini stranieri che aprano rapporti economici (conti correnti e altro) sul loro territorio. Le amministrazioni fiscali, dal canto loro, allertano in automatico i loro omologhi nei Paesi di provenienza dei cittadini stranieri». Nel dopo Brexit non vi sarà alcun obbligo di comunicare alcunché a chicchessia. Rischio potenziale? Afflusso di massa a Londra di capitali in evasione fiscale. «Di certo la fame di “tane” sicure, con il venire meno della copertura della sicura Svizzera e di San Marino, fiaccate dal combinato disposto dei tre scudi fiscali e della voluntary disclosure, rende indispensabile alle organizzazioni criminali la ricerca di basi sicure dove potere appoggiare il denaro, metterlo al riparo e reimpiegarlo – spiega Gian Gaetano Bellavia, commercialista e consulente tecnico di molte procure della Repubblica -. Quello britannico è un sistema tradizionalmente efficiente, radicato, ramificato, ben collegato e socialmente accettato. Assolutamente perfetto per i riciclatori di tutto il mondo che già da tempo lo stanno utilizzando a prescindere dalla Brexit. Figuriamoci dopo».

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Pubblicità, deduzione in salvo

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 07 Aprile 2017 di Laura Ambrosi

Accertamento. La Cassazione accoglie il ricorso per le spese di sponsorizzazione a un’associazione sportiva dilettantistica

Stop al recupero se il costo sostenuto dalla società non supera i 200mila euro

È illegittimo il recupero del costo di pubblicità inferiore a 200mila euro poiché la deducibilità di questi oneri è prevista espressamente dalla norma con una presunzione assoluta. A chiarirlo è l’ordinanza 8981/2017 della Cassazione depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate ha emesso un avviso di accertamento nei confronti di una società disconoscendo, tra l’altro, anche la deducibilità delle spese di pubblicità sostenute. Si trattava di somme corrisposte a un’associazione sportiva dilettantistica affinché promuovesse il marchio in occasione degli eventi organizzati.
La contribuente ha proposto ricorso contro il provvedimento impositivo, ma sia la commissione provinciale, sia i giudici di appello confermavano la legittimità dell’operato dell’ufficio. In particolare, la Ctr ha osservato che mancava la prova da parte della società in merito alla certezza e all’inerenza dei costi contestati.
L’impresa ha presentato così ricorso in Cassazione, lamentando, tra i diversi motivi, un’errata interpretazione della norma in tema di sponsorizzazione.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto richiamato l’articolo 90, comma 8, della legge 289/2002, secondo il quale il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni riconosciute dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva, costituisce per il soggetto erogante e fino al limite di 200mila euro annui, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti. Tale somma è così deducibile nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio.
La Suprema corte ha così rilevato che la norma disciplina una «presunzione legale di inerenza/deducibilità» di tali spese. Occorre pertanto solo verificare che:
il soggetto sponsorizzante sia una compagine sportiva dilettantistica;
sia rispettato il limite quantitativo di 200mila euro;
la sponsorizzazione miri a promuovere l’immagine ed i prodotti dello sponsor;
il soggetto sponsorizzato abbia effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale come, ad esempio, l’apposizione del marchio sulle divise, l’esibizione di striscioni e/o tabelloni sul campo da gioco, eccetera.
Nel caso esaminato, tali circostanze erano incontestate con la conseguenza che l’ufficio non poteva disconoscere la deducibilità delle somme.
La Cassazione ha poi chiarito che risultano del tutto irrilevanti eventuali considerazioni sull’antieconomicità del costo pubblicitario, legate ad un’asserita irragionevole sproporzione tra l’entità della spesa sostenuta rispetto al fatturato/utile di esercizio del contribuente.
Nella pronuncia è infatti chiarito che la norma ha introdotto una «presunzione assoluta» oltre che della natura di «spesa pubblicitaria», anche dell’inerenza fino alla soglia di 200mila euro, con la conseguenza che nessuna diversa valutazione è consentita agli uffici.
La decisione assume rilievo poiché l’amministrazione a volte in assenza di contestazioni sulla veridicità della sponsorizzazione, si limita a disconoscere il costo dedotto nel presupposto dell’inutilità dello stesso rispetto al volume di affari conseguito o, ancora lo ritiene sproporzionato, procedendo così al recupero rispettivamente dell’intera deduzione operata o di quella ritenuta eccessiva ovvero antieconomica.

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Emirati Arabi più trasparenti

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2017 di Valerio Vallefuoco

Fisco internazionale. Sottoscritta la convenzione Ocse sull’assistenza amministrativa reciproca (Maat)

In caso di illeciti penali possibile la presentazione di istanze retroattive

Per gli Emirati si apre una nuova stagione di intensa trasparenza fiscale (anche nei confronti dell’Italia). Con la possibilità, in caso di contestazioni penali, anche di una richiesta di informazioni di carattere retroattivo per tre anni.
Ieri, infatti, alla sede centrale dell’Ocse a Parigi anche gli Emirati arabi uniti hanno firmato la Convenzione multilaterale sull’assistenza amministrativa reciproca in materia fiscale, il cosiddetto Maat (Multilateral convention on mutual administrative assistance in tax matters).
Il Maat è forse lo strumento più efficace a livello internazionale per l’attuazione pratica della cooperazione fiscale internazionale. Nel testo della Convenzione sono previste, infatti, tutte le forme conosciute di assistenza amministrativa in materia fiscale. Si evidenziano tra i contenuti dell’accordo multilaterale lo scambio di informazioni tra amministrazioni fiscali sia su richiesta che spontaneo ma anche automatico in attuazione del cosiddetto Crs (Common reporting standard) ossia l’accordo multilaterale sullo scambio automatico di informazioni che prevede uno standard mondiale sulle modalità di comunicazione dei dati dei conti correnti detenuti dai contribuenti esteri.
Sempre tra i contenuti della Convenzione è di rilievo la possibilità di poter effettuare verifiche fiscali all’estero ovvero verifiche fiscali simultanee ma soprattutto l’assistenza nella riscossione fiscale all’estero a oggi quasi mai attuata. In questo accordo sono, poi, previste garanzie per la tutela dei diritti dei contribuenti.
Con l’adesione alla Convenzione multilaterale gli Emirati Arabi potranno quindi adempiere il loro impegno a iniziare il primo scambio automatico di informazioni entro il 2018. Dopo Panama, che aveva sottoscritto lo scorso mese di marzo, la Svizzera e il principato di Monaco che hanno aderito alla fine del 2016 (e ora gli Emirati), gli Stati che aderiscono alla Convenzione raggiungono il numero impressionate di 109 giurisdizioni che adottano lo stesso accordo multilaterale.
La forza della Convenzione, ovviamente, aumenta con ogni nuovo Paese firmatario dato che la convenzione è necessaria per l’attuazione dello standard per lo scambio automatico di informazioni finanziarie in materia fiscale promosso dai Paesi Ocse e del G20.
La Convenzione potrà portare a una pronta ed efficace attuazione anche delle ulteriori misure di trasparenza del progetto Base erosion and shifting profit (il cosiddetto Beps) ma soprattutto sarà uno dei più potenti strumenti nella lotta contro i flussi finanziari di carattere illecito, compresi quelli legati al finanziamento del terrorismo.
Per la sua entrata in vigore la Convezione prevede anche una specifica clausola di retroattività. Per i casi, infatti, in cui la giurisdizione dello Stato richiedente assistenza amministrativa ritenga sia stato commesso un illecito penale e anche fiscale lo scambio di informazioni potrà riguardare anche un periodo precedente l’entrata in vigore dell’accordo.

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