Categoria: Dall’Italia
Holding, la tassazione differita può mettere a rischio il reshoring
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 31 maggio 2024 di Alessandro Germani
In tema di fiscalità internazionale la residenza fiscale delle persone giuridiche va tarata sui nuovi concetti di sede di direzione effettiva e di gestione ordinaria, applicabili anche alle holding. In tema di reshoring occorre prestare attenzione allo stanziamento delle Dta (Deferred tax assets) in ingresso perché ciò può vanificare l’effetto positivo. Ma il reshoring dovrebbe essere consentito anche alle holding che svolgono direzione e coordinamento all’estero e decidono di rientrare in Italia. Questi gli spunti della circolare 1/2024 di Assoholding.
Il decreto legislativo 209/2023 in tema di fiscalità internazionale prevede che la residenza delle persone giuridiche (articolo 73, comma 3 del Tuir) si fondi su uno dei seguenti tre criteri alternativi, da soddisfarsi per la maggior parte del periodo d’imposta:
la sede legale, che è un elemento giuridico formale;
la sede di direzione effettiva, che riguarda la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche della società;
la gestione ordinaria in via principale che riguarda la gestione corrente della società.
Ora la direzione e coordinamento, generalmente svolta da una holding, è riconducibile al concetto di direzione effettiva ovvero all’assunzione di decisioni strategiche e gestionali a livello di gruppo. Mentre la gestione corrente si rifà ad attività quali la gestione finanziaria, la tenuta della contabilità, la gestione delle risorse umane e degli uffici. Tutto ciò richiama la tematica della residenza fiscale delle holding anche laddove le stesse svolgano attività di direzione e coordinamento. In presenza di soggetti esteri, infatti, in caso di una holding mista (o dinamica) bisognerebbe dare la prova che le attività principali e le decisioni strategiche siano assunte nel Paese estero.
Nel caso di holding pura che gestisce le partecipazioni ed eroga servizi alle partecipate occorre dimostrare che l’attività svolta dalla holding sia autonoma e indipendente da quella delle partecipate e che tale attività sia svolta all’estero.
Discorso più complesso riguarda le holding purissime (o passive) che si limitano a detenere le partecipazioni ed esprimere il voto in assemblea, qualora si intenda dimostrare che siano effettivamente residenti all’estero.
In tema di reshoring, invece, l’agevolazione è correlata al trasferimento in Italia di attività economiche svolte in un Paese estero extra Ue o See. Essa consente di ridurre a metà per sei anni la base imponibile Ires e Irap delle attività riportate in Italia. Esiste, tuttavia, un meccanismo di recapture per cinque anni a partire dalla scadenza dell’agevolazione, nei quali non si può riportare all’estero (nemmeno parzialmente) tali attività, pena il pagamento delle imposte non versate più gli interessi. Per le grandi imprese la recapture è ampliata a dieci anni. Quindi le attività devono restare in Italia per dieci o 15 anni per consolidare l’agevolazione. Inoltre, se si riporta in Italia qualcosa che originariamente era già in loco, è necessario che il trasferimento nel paese extra Ue o See sia avvenuto almeno ventiquattro mesi prima la data del rimpatrio.
Secondo Assoholding il reshoring va coordinato con le norme di exit ed entry tax introdotte in Italia nel 2015. Infatti, a fronte di un rientro di attività che all’estero potrebbe non aver subito exit tax, in fase di ingresso in Italia ai fini dell’entry tax si beneficerà del maggior valore di determinati asset che darà luogo a maggiori ammortamenti fiscalmente riconosciuti. Senonché poiché in questi casi vengono stanziate delle Dta legate al beneficio fiscale futuro, se in relazione ai cinque anni di reshoring si considera un’aliquota dimezzata, ciò è in grado di compromettere il beneficio fiscale del reshoring stesso. Motivo per cui nella pianificazione andrebbe posta la necessaria attenzione a tale aspetto.
Quanto alle holding, anche la mera attività di direzione e coordinamento presuppone lo svolgimento di un’attività imprenditoriale, che può essere negata solo nel caso della holding “cassaforte”. Alla luce di ciò, una holding che esercita direzione e coordinamento e che trasferisce tale attività economica in Italia dovrebbe poter beneficiare dell’agevolazione del reshoring.
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Il ruolo del marketplace indirizza l’operazione Iva
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 3 giugno 2024 di Matteo Balzanelli e Massimo Sirri
Molti operatori scelgono di proporre prodotti attraverso i marketplace, così da fruire dei loro servizi e sfruttarne la visibilità. Bisogna però fare attenzione nel gestire le procedure perché, a seconda del grado d’intervento della piattaforma, si possono configurare obblighi fiscali differenti.
La presunzione fiscale
Per prima cosa è bene fare chiarezza su un punto: la presunzione (fiscale) ex articolo 2-bis del Dpr 633/1972. In base a tale disposizione, la piattaforma si “intromette” (esclusivamente ai fini fiscali) nell’operazione – imponendo di fatturare a quest’ultima, che a sua volta fattura al cliente – solo per le vendite a distanza di beni di modico valore (non superiore a 150 euro) importati da Stati/territori terzi, ovunque sia stabilito il fornitore, e per le vendite all’interno della Ue (nazionali e intracomunitarie) ma solo se il fornitore non è stabilito nell’Unione.
Nell’ottica dell’impresa nazionale, pertanto, la presunzione opera solo per le vendite a distanza di beni di modico valore che siano importati da Stati/territori terzi per effetto della cessione. Al contrario, se i beni si trovano già nell’Ue, oppure sono di valore superiore a 150 euro, anche se la vendita è gestita attraverso un’interfaccia elettronica terza, questa resta estranea all’operazione.
L’azienda italiana che effettua vendite a distanza verso l’Ue deve quindi preoccuparsi (solo) di tenere monitorata la soglia di 10mila euro, superata la quale la tassazione (Iva) avviene a destino, con conseguente necessità di identificarsi o nominare un rappresentante fiscale nello Stato di destinazione. In alternativa, l’operatore può aderire all’Oss (opzionabile anche se non è superata la soglia) in modo da gestire le vendite a distanza direttamente attraverso l’identificativo italiano. L’eventuale iscrizione all’Oss ha un effetto totalizzante. Una volta aderito al regime, pertanto, tutte le operazioni, compresi i servizi che possono rientrarvi, devono confluire nella dichiarazione speciale Oss.
Oss e intervento del marketplace
Fatte queste premesse, si può puntare l’attenzione sul “livello” d’intervento del marketplace. Se la piattaforma si limita a fornire i servizi tipici della vetrina virtuale, come mero “espositore” dei prodotti, gestendo eventualmente gli ordini, l’operatore nazionale non deve fare altro che contabilizzare le vendite effettuate (magari sfruttando l’esonero da fatturazione/certificazione), come per qualsiasi vendita a distanza eseguita in Italia. Va tuttavia ricordato che, secondo la risposta 802/2021, le vendite in oggetto possono concorrere alla determinazione dello status di esportatore abituale e alla formazione del plafond solo se è emessa fattura (rinunciando così alle semplificazioni del regime).
Bisogna poi distinguere le operazioni in base alla destinazione dei beni: le vendite con consegna in altri Stati Ue rientrano nella dichiarazione Oss, mentre quelle verso l’Italia si riepilogano nella dichiarazione annuale Iva (restando soggette ai residui adempimenti ordinari).
La cosa si complica quando si fruisce anche dei servizi di logistica con trasferimento dei beni (che rimangono per il momento dell’impresa italiana) in magazzini gestiti dalla piattaforma in altri Stati membri. Lo spostamento dei beni costituisce infatti un “trasferimento a se stessi” che l’articolo 41 del Dl 331/1993 assimila a una cessione intracomunitaria. Significa che l’impresa deve conoscere la circostanza per poter aprire una posizione Iva in tale Paese ed emettere tempestivamente fattura alla propria partita Iva estera, indicando come importo il prezzo di costo.
Altra distinzione quando poi saranno realizzate le cessioni verso privati. Se si tratta di vendite a distanza intraUe – con spostamento dei beni da uno Stato membro a un altro, compresi i trasferimenti verso l’Italia dal Paese Ue cui sono stati prima inviati – queste rientrano nella dichiarazione Oss. Se i beni sono consegnati nello stesso Stato in cui già si trovano, si ha invece una cessione interna con applicazione delle relative regole.
Gli esempi:VENDITA DALL’ITALIA SOPRA SOGLIA – SENZA ADESIONE ALL’OSS
La situazione
Il 13 maggio un cliente privato finlandese ordina alcuni beni tramite il marketplace utilizzato dal venditore italiano (Alfa Srl).
I beni partono subito dal magazzino del marketplace, che si trova in Italia, e arrivano in Finlandia con trasporto a cura del fornitore.
La tassazione
L’operazione va tassata ai fini Iva in Finlandia perché con tale vendita si supera la soglia dei 10mila euro (la tassazione a destino è possibile tramite opzione anche in assenza di superamento della soglia).
L’impresa italiana deve quindi disporre di una partita Iva in Finlandia, per poter addebitare l’imposta locale.
Data la tipologia del bene si applica l’Iva ordinaria finlandese, 24% (fonte www.europa.eu).
Gli adempimenti
Nonostante si tratti di vendite che rilevano nel Paese di destinazione, l’articolo 41, comma 1, lettera b), del Dl 331/1993 stabilisce che tali operazioni in Italia sono considerate cessioni intracomunitarie non imponibili.
Il cedente italiano deve quindi emettere fattura (cartacea o elettronica) recante il titolo di non imponibilità nei confronti del cliente (non sono previsti esoneri) entro il 15 giugno (articolo 46, Dl 331/1993);
Se anche in Finlandia è richiesta l’emissione della fattura, dovrebbe essere possibile emettere un unico documento che soddisfi entrambe le normative.
La fattura va annotata nel registro delle vendite entro il 15 giugno con riferimento a maggio.
Seguendo la circolare 36/E/2010 delle Entrate (paragrafo 12.b) e le istruzioni, si potrebbe evitare l’Intrastat. Tuttavia, in via cautelativa, potrebbe essere consigliabile la compilazione.
Se la fattura emessa è cartacea, va compilato anche l’Xml ai fini dell’esterometro.
VENDITA DALL’ITALIA SOPRA SOGLIA – CON ADESIONE ALL’OSS
La situazione
Stessa ipotesi di partenza: il 13 maggio un cliente privato finlandese ordina alcuni beni tramite il marketplace utilizzato dal venditore italiano (Beta Srl).
Per ovviare alla necessità d’identificarsi nel Paese di destino, Beta si è iscritta all’Oss.
Gli adempimenti
Siccome Beta ha aderito all’Oss non è obbligata né a emettere fattura né a certificare altrimenti il corrispettivo (può comunque provvedervi ma, in questo caso, deve rispettare tutti gli obblighi connessi ordinariamente previsti); quindi deve solo annotare la vendita ai fini della contabilità generale e reddituali.
In assenza di fatturazione, le vendite non possono essere considerate ai fini della disciplina dell’esportatore abituale, né per la richiesta di rimborsi in presenza di operazioni non imponibili.
La vendita non confluisce nei registri Iva né in dichiarazione annuale, ma solo nella dichiarazione speciale Oss. In tal senso potrebbe essere utile creare dei sezionali “non Iva” su cui far transitare le vendite Oss.
Quanto alla presentazione dell’Intrastat si rinvia alle considerazioni di cui al precedente esempio.
L’esterometro
Secondo una Faq publicata sul sito delle Entrate, se è emessa fattura allora l’operazione va riepilogata anche ai fini esterometro (se elettronica, l’obbligo è già assolto). Non esiste una posizione esplicita ufficiale in caso d’assenza di fattura, anche se pare ragionevole escludere l’obbligo, considerata natura delle operazioni e applicazione del regime semplificato.
Anche una lettura a contrariis della Faq in questione può condurre all’esclusione dall’obbligo, anche se servirebbe una conferma da parte delle Entrate.
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Fatture inesistenti, l’acquirente non può fare investigazioni
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 31 maggio 2024 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Sulle fatture inesistenti, per l’assolvimento dell’onere probatorio della conoscenza o conoscibilità dell’acquirente della frode consumata dal fornitore, l’amministrazione non può pretendere che il contribuente svolga verifiche complesse e analoghe a quelle che la stessa amministrazione può eseguire con i propri mezzi.
È questo il principio enunciato dalla Corte di cassazione, nella sentenza 14102/2024.
La vicenda oggetto della pronuncia è nella sostanza simile a molti accertamenti effettuati negli ultimi anni.
All’acquirente di beni viene contestata l’indetraibilità dell’Iva in quanto relativi a fatture soggettivamente inesistenti perché forniti da impresa che ha omesso gli adempimenti fiscali, priva di struttura e talvolta senza dipendenti.
Secondo giurisprudenza consolidata unionale e di legittimità per la rettifica dell’Iva sugli acquisti, l’Ufficio deve provare, anche in via presuntiva, che il cessionario conoscesse o comunque avrebbe potuto conoscere, l’illecito perpetrato a monte dal cedente.
In molti accertamenti la prova di tale consapevolezza è rappresentata dalle violazioni fiscali commesse dal venditore (omesse dichiarazioni, omessi versamenti, precedenti contestazioni analoghe e così via).
A nulla rileva che l’acquirente mai avrebbe potuto acquisire simile informazioni, sia perché sono dati non fruibili da terzi, sia perché non dispone né dei poteri né delle banche dati dell’amministrazione finanziaria.
Nella specie l’Ufficio recuperava l’Iva detratta su acquisti di confezioni ritenuti soggettivamente inesistenti, in quanto il fornitore sarebbe stato privo di organizzazione.
I due gradi di giudizio confermavano nella sostanza la pretesa.
In particolare, secondo i giudici di appello si trattava di fatture soggettivamente inesistenti, stante l’assenza di adeguata manodopera da parte del fornitore e la falsità delle fatture di acquisto degli strumenti di produzione (macchine da cucire).
Nel ricorso per Cassazione, la difesa lamentava, tra l’altro, che la rettifica era incentrata sull’assenza di organizzazione del fornitore, senza indagare gli elementi idonei a ritenere l’acquirente consapevole della frode. Inoltre, la carenza di manodopera necessaria a eseguire i beni, poi venduti, e la falsità della fornitura delle apparecchiature, non erano addebitabili all’acquirente, anche in considerazione del fatto che non disponeva dei poteri ispettivi dell’Ufficio.
Peraltro, non era stato considerato che i prezzi praticati erano in linea con quelli di mercato e non risultava che il cedente avesse restituito parte dell’Iva alla società.
La Suprema corte ha, innanzitutto, ricordato il consolidato orientamento di legittimità secondo cui in ipotesi di detrazione di fatture emesse da società prive di organizzazione o da soggetti interposti, l’Amministrazione deve provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inserisca in una evasione dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. Assolto tale onere, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze concrete.
La sentenza ha quindi evidenziato che l’assenza di cautele del cessionario non può essere provata pretendendo verifiche approfondite, analoghe a quelle svolte dall’amministrazione con tutti i mezzi a sua disposizione.
Da qui il principio in base al quale «ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova della conoscenza o conoscibilità, secondo la massima diligenza esigibile da un accorto operatore professionale, dell’esistenza di una frode Iva consumata a monte della catena produttiva o distributiva, le cautele che si richiede che il cessionario sia tenuto ragionevolmente ad adottare, perché si escluda il suo coinvolgimento, anche solo per colpevole ignoranza, nella frode commessa a monte, non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare».
Vi è ora da sperare che molti giudici di merito applichino questo principio (peraltro già nella sostanza espresso dalla Corte Ue) senza assumere aprioristiche posizioni a favore dell’amministrazione.
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Plusvalenza imponibile nello Stato estero
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 4 giugno 2024 di Alessandro Germani
In caso di cessione di partecipazioni in una società italiana da parte di un soggetto non residente (iscritto all’Aire) la plusvalenza è imponibile solo negli Usa e non in Italia, applicandosi le previsioni della convenzione che prevalgono sulla norma interna. Così la risposta a interpello 123/2024 delle Entrate che richiama una risposta simile con riguardo a un caso Italia Belgio (risposta 135/22). Vediamone la portata.
L’istante, munito di doppia cittadinanza Italia/Usa, è residente negli Stati Uniti dove lavora. Ha una partecipazione in una società italiana che ha venduto ai propri fratelli, anch’essi soci. E si domanda dove debba essere tassata la plusvalenza realizzata dalla vendita. L’Agenzia individua il percorso da effettuare. Ai fini interni, in base all’articolo 23, comma 1, lettera f del Tuir si considerano prodotte in Italia da non residenti le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società residenti. Tuttavia rispetto alla norma domestica prevale il diritto internazionale pattizio (come previsto dall’articolo 169 del Tuir e dall’articolo 75 del Dpr 600/73). Si guarda quindi all’articolo 13, paragrafo 4 della Convenzione Italia/Usa del 1999, che si rifà al modello Ocse del 2017, per cui le plusvalenze da cessione delle partecipazioni sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è residente. La chiave è data dall’avverbio «soltanto», per cui l’imponibilità avviene nel solo Stato contraente di cui l’alienante è residente, ovvero gli Stati Uniti, ma è esclusa qualunque tassazione concorrente che darebbe poi luogo al recupero dell’imposta pagata all’estero mediante il meccanismo del credito d’imposta. Chiaramente la residenza fiscale del cedente esula dall’interpello, trattandosi di un elemento che l’Agenzia nella risposta dà per assodato e veritiero.
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Nelle vendite online l’influencer inquadrabile come agente di commercio
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 24 maggio 2024 di Paola Grattieri e Alessandro Limatola
L’influencer che promuova stabilmente e con continuità in rete i prodotti di un’azienda è inquadrabile come agente di commercio.
Lo ha stabilito il Tribunale di Roma con la sentenza 2615/24 del 4 marzo scorso, in cui ha ritenuto legittima la riscossione dei contributi operata dalla Fondazione Enasarco in seguito a un accertamento ispettivo. Nel caso specifico, è emerso che alcuni influencer si erano impegnati a promuovere i prodotti dell’azienda convenuta in giudizio sulle loro pagine social media e siti web, indicando nella pagine web un codice personalizzato associato all’influencer e pattuendo con l’azienda venditrice un compenso per ogni singola vendita andata a buon fine recante il medesimo codice.
Il Tribunale ha rilevato che l’introduzione di nuovi mezzi e tecniche di vendita ha rivoluzionato il modo in cui i consumatori interagiscono con i prodotti o i servizi. Web e social network, si configurano, oggi, come un nuovo e ulteriore strumento per fare promozione attraverso gli influencer, i quali – in presenza di indizi idonei a dimostrare gli elementi della stabilità e della continuità previsti dagli articoli 1742 e e seguenti del Codice civile – vengono qualificati come agenti di commercio.
Si tratta di figure “professionali” che, grazie alla loro popolarità e alla capacità di fidelizzare i propri follower, diventano strumento di comunicazione del brand influenzando (promuovendo) le scelte di acquisto del pubblico. La promozione, dunque, non avviene in maniera “tradizionale”, ma con le nuove tecnologie. L’influencer, infatti, proprio per il ruolo determinante che svolge all’interno dei processi comunicativi, viene incaricato dalle imprese del settore in cui esso opera di pubblicizzare i loro prodotti, andando così a svolgere un’attività promozionale delle vendite retribuita tramite il pagamento di un compenso. Contrattualizzando un influencer, quindi, l’azienda persegue lo scopo di far diventare propri clienti i follower dello stesso. E la presenza di una zona determinata di operatività – prevista dall’articolo 1742 per il contratto di agenzia – coincide in questo caso con la comunità dei follower dell’influencer, che acquistano i prodotti della società mediante il codice sconto veicolato dall’influencer.
In questo contesto, secondo il Tribunale è irrilevante il modo attraverso il quale l’influencer induca i propri follower all’acquisto, non essendo necessario che si rivolga individualmente a ciascuno di essi presentando le caratteristiche del prodotto, il prezzo, sollecitandone l’acquisto, atteso che nel mondo web la promozione di prodotti viene assicurata attraverso la pubblicazione sui vari social da parte dell’influencer di contenuti destinati alla platea dei follower.
Sulla base dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità ritenuta più pertinente (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 20453 del 2 agosto 2018), il Tribunale ha anche richiamato il principio secondo cui la prestazione dell’agente può comunque consistere in atti di contenuto vario e non predeterminato, che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti per conto del preponente (ivi incluso, ma non solo, il compito di propaganda). Si tratta di scenari in cui l’attività dell’agente non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente non sia stato direttamente ricercato dall’agente, purché sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione.
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Agenti sportivi, non tassati in Italia i compensi versati a società estere
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 20 maggio 2024 di Maria Lucia Di Tanna e Davide Greco
I compensi pagati da società sportive residenti in Italia a società di agenti sportivi residenti all’estero prive di stabile organizzazione non sono soggetti a tassazione nel territorio italiano. A dirlo è la Cgt Cagliari 58/2/2024 (presidente e relatore Galdiero) in un caso che ha visto coinvolta una società di calcio di serie A, alla quale l’Agenzia aveva contestato l’omesso versamento della ritenuta a titolo d’imposta del 30% prevista dall’articolo 25, comma 2, del Dpr 600/73 sui compensi a una società di agenti sportivi residente nel Principato di Monaco.
La sentenza costituisce il primo tentativo giurisprudenziale di definire i contorni, da un punto di vista fiscale, della figura dell’agente sportivo. Nel definire la natura della sua attività, ad oggi, si sono contrapposte due diverse teorie:
1 da una parte, coloro i quali vedevano la figura dell’agente sportivo alla stregua di un mediatore atipico;
2 dall’altra parte, coloro i quali (tra cui anche l’amministrazione) vedevano la figura dell’agente sportivo alla stregua di un lavoratore autonomo.
La scelta tra i due inquadramenti non è neutrale. Infatti, nel primo caso il risultato dovrebbe essere il seguente:
l’attività di agente sportivo dovrebbe essere ricondotta tra le attività di cui ai n. 2 o 5 dell’articolo 2195 del Codice civile;
il reddito prodotto dovrebbe essere reddito d’impresa ex articolo 55 del Tuir;
i compensi pagati dovrebbero scontare l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 25-bis del Dpr 600/73.
Nella seconda ipotesi, se l’agente venisse quindi qualificato come lavoratore autonomo – in linea con quanto chiarito dalla stessa Agenzia nella risposta 315/2022 e, successivamente, nella risoluzione 69/2022 – il risultato dovrebbe essere il seguente:
il reddito prodotto dovrebbe essere reddito di lavoro autonomo ex articolo 53 del Tuir:
i compensi pagati dovrebbero scontare l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 25, comma 1 o 2, in dipendenza della residenza dell’agente sportivo.
La norma del 2023
La disamina non tiene conto delle novità, in vigore dal 1° gennaio 2023, previste dal Dlgs 37/2021 (articoli 3 e 4) in cui si parla di agente sportivo nei seguenti termini: libero professionista, il quale offre servizi di assistenza, consulenza e mediazione. Se si seguisse alla lettera, infatti, la definizione offerta dal decreto, si dovrebbe propendere per una definizione fiscale in linea con quella offerta dalle Entrate e, quindi, considerare l’agente sportivo lavoratore autonomo. Tesi che “vince ma non convince” appieno, soprattutto se si guarda – nel concreto – al tipo di attività svolta dall’agente sportivo e al tipo di obbligazione da lui contratta, ovvero un’obbligazione di “risultato” e non “di mezzo”.
La motivazione dei giudici
Tornando al caso trattato dai giudici sardi – che hanno accolto il ricorso e, quindi, ritenuto illegittima la richiesta di ritenuta a titolo d’imposta del 30% avanza dall’ufficio – si sarebbe potuto, forse, prendere una posizione più netta. Ma così non è avvenuto, preferendo la seguente (discutibile) conclusione: «Ne deriva che i redditi prodotti dalla società di agenti sportivi, in quanto redditi di impresa, non saranno assoggettati alle ritenute d’acconto di cui al citato articolo 25 del Dpr 600 del 1973 e trattandosi di società estera senza stabile organizzazione in Italia l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 25 bis non può trovare applicazione trovando applicazione i principi convenzionali di tassazione del reddito di impresa solo nel Paese di residenza».
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Bocciati gli accertamenti del Fisco basati su semplici presunzioni
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 13 maggio 2024 di Giuseppe Morina Tonino Morina
Stop alle presunzioni del Fisco. Per i giudici tributari devono essere annullati gli accertamenti dell’agenzia delle Entrate emessi sulla base di semplici presunzioni. La recente evoluzione giurisprudenziale in materia è univoca e consolidata nel bocciare gli accertamenti dell’ufficio emessi in mancanza di qualsiasi prova della presunta evasione accertata. In questo modo, rischiano di andare in “fumo” molti degli accertamenti emessi negli ultimi anni dagli uffici dell’Agenzia, basati su presunzioni e senza prove sufficienti a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
L’onere della prova
Per evitare inutili contenziosi, gli uffici devono tenere conto delle novità introdotte, in materia di onere della prova, dall’articolo 6 della legge di riforma della giustizia tributaria del 31 agosto 2022, n. 130, che ha inserito il comma 5-bis all’interno dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992.
La norma, cui va riconosciuto il carattere di ius superveniens, cioè di diritto sopravvenuto, in vigore dal 16 settembre 2022 e applicabile anche per i procedimenti in corso, pone ex lege l’onere della prova a carico del Fisco, che non ne può invece addossare l’incombenza sul soggetto accertato.
È evidente che spetta all’ufficio “provare” i fatti costitutivi della pretesa fiscale. Il principio che l’articolo 2697 («Onere della prova») del Codice civile pone in ordine al regime probatorio è chiaro: «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».
La prova dell’evasione
Sul nuovo corso di ripartizione dell’onere della prova è illuminante la sentenza 3856 del 23 novembre 2022, della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siracusa, sezione 5, la quale, inserendosi nell’alveo della riforma, ha sovvertito la concezione secondo cui spetterebbe al contribuente l’onere della prova ovvero della probatio “diabolica” circa la mancata percezione del maggior reddito.
Secondo il collegio siracusano, infatti, la nuova norma introduce una regola speciale del diritto tributario per dirimere le questioni sul riparto dell’onere probatorio e, pertanto, è inequivocabile che l’ufficio debba provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazione.
Sullo stesso filone, in tema di applicazione dell’onere probatorio, si veda la sentenza 293/01/2022 della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia, secondo la quale l’amministrazione finanziaria deve dimostrare in maniera circostanziata e puntuale la propria pretesa, indicando le ragioni oggettive (e non le presunzioni) su cui si fonda la maggiore base imponibile.
In assenza di tale specifica dimostrazione, l’atto impositivo deve essere annullato per violazione della norma sopra citata.
Nello stesso senso, con la nuova norma che pone ex lege l’onere della prova a carico del Fisco, si veda la sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Messina, n. 9214/2023, depositata il 15 novembre 2023. Con questa sentenza, i giudici di secondo grado annullano l’atto impositivo e rigettano l’appello dell’ufficio «in mancanza di elementi probatori forniti a riprova dei fatti affermati»; per i giudici di secondo grado la «prova oggi pretesa dal riformato processo tributario che, con l’articolo 6 della legge 130/2022, che ha introdotto il comma 5–bis nell’articolo 7 del decreto legislativo 546/1992, esige che il Giudice valuti le prove agli atti, comprese quelle che possono essere offerte dagli uffici, in corso di giudizio, purché riguardino i fatti dedotti, ed annulli l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o è insufficiente a dimostrare le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa e l’irrogazione delle sanzioni».
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Fattura elettronica intra-Ue posticipata a luglio 2030
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 10 maggio 2024 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce
Obblighi di fatturazione elettronica per operazioni intra-Ue di predisposizione ed invio del Drr (Digital reporting) a decorrere dal 1° luglio 2030. Dunque, un rinvio rispetto alla decorrenza del 1° gennaio 2028, che era stata fissata inizialmente dal pacchetto Vida (Vat in the digital age). Questa una delle novità previste dalla bozza di direttiva Iva in discussione il prossimo 14 maggio 2024 nel corso dell’Ecofin, all’interno del quale si cercherà di raggiungere un accordo politico sul pacchetto relativo all’imposta sul valore aggiunto (Iva) nell’era digitale.
Il pacchetto comprende tre proposte, volte rispettivamente a:
contrastare le frodi in materia di Iva;
sostenere le imprese;
promuovere la digitalizzazione.
Gli altri rinvii
La revisione delle tempistiche di adozione ha interessato anche le altre misure: differita al 1° gennaio 2026, rispetto al 2025, la disciplina sul fornitore presunto per i gestori di piattaforme elettroniche; scatta invece dal 1° luglio 2027 la Svr (Single vat registration, cioè la registrazione Iva unica), rispetto al termine precedentemente individuato al 1° gennaio 2025; al 1° gennaio 2035 viene invece spostato il termine entro cui le normative nazionali in tema di fatturazione elettronica, adottate prima del 1° gennaio 2024 compresa quindi quella italiana, dovranno essere armonizzate agli standard europei Ubl o Cii.
Le fatture riepilogative
e quelle transfrontaliere
Al netto delle modifiche in termini di decorrenza, è di assoluto rilievo rispetto alla proposta iniziale della Commissione Com(2022) 701 datata 8 dicembre 2022, la cancellazione delle disposizioni che, nel modificare la vigente direttiva Iva 2006/112, avevano abrogato la possibilità di emettere fatture riepilogative.
Infine, è stato ampliato da due a dieci giorni il termine per l’emissione della fattura per le operazioni transfrontaliere a decorrere dal verificarsi dell’evento imponibile.
Problemi e soluzioni
Il testo della direttiva, pubblicato in bozza, è il risultato delle attività di consultazione e mediazione realizzate, funzionali ad armonizzare le varie istanze degli Stati membri con l’esigenza avvertita dal legislatore unionale di modernizzare le regole di funzionamento dell’imposta, garantendo altresì misure in grado di ridurre il Vat gap attraverso l’utilizzo della digitalizzazione per contrastare l’evasione fiscale ed il fenomeno delle frodi carosello realizzate con operazioni intra-Ue.
La tempistica di raccolta e scambio delle informazioni tra le autorità fiscali degli Stati membri costituisce infatti, ad oggi, un ostacolo al contrasto efficace delle frodi, ritenendosi indispensabile accelerare sul versante della disponibilità di dati in formato strutturato ed immediatamente elaborabili. Questo comporterà l’introduzione quindi dell’obbligo di fattura in formato elettronico strutturato Ubl o Cii, della presentazione di report digitali (Drr) in tempo reale con i dati delle operazioni intra-Ue realizzate, della previsione di utilizzo della partita Iva unica (Svr) in tutta l’Unione Europea, nonché lo spostamento in capo ai gestori di piattaforme on-line degli obblighi Iva rendendoli fornitori presunti delle operazioni realizzate.
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L’americano che vive in Italia e la sua pensione «privata»
9 Maggio 2024
Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2024 di Fabrizio Cancelliere
Un cittadino statunitense, senza cittadinanza italiana, è residente in Italia. Attualmente, questo soggetto percepisce tre pensioni: una come ex militare Usa, una come ex dipendente civile dell’esercito Usa e una come “Social security”.
Le prime due pensioni sono “pubbliche” e scontano l’imposizione solo negli Stati Uniti, in base alla convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Usa del 25 agosto 1999. La terza e ultima pensione, invece, va dichiarata in Italia?
La risposta è positiva, in ragione della normativa convenzionale citata dal lettore. In particolare, l’articolo 19 della convenzione prevede l’imponibilità delle pensioni “pubbliche” nel solo Stato di erogazione delle stesse, dunque nello Stato della “fonte”, se il beneficiario non ha anche la nazionalità dello Stato di residenza, come nel caso in esame.
Invece, in base all’articolo 18, le pensioni “private”, quale la “Social security”, sono imponibili nel solo Stato di residenza.
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Antiriciclaggio, stretta europea su super ricchi e titolari effettivi
9 Maggio 2024
Il Sole 24 Ore 25 aprile 2024 di Alessandro Galimberti
Il Parlamento Ue ha adottato ieri in via definitiva la Sesta direttiva antiriciclaggio (513 voti a favore, 25 contrari e 33 astensioni), insieme al Regolamento «manuale unico» (479 voti a favore, 61 contrari e 32 astensioni) e alla creazione dell’Autorità antiriciclaggio (482 voti a favore, 47 contrari e 38 astensioni). Tra le novità spiccano le disposizioni di vigilanza rafforzate sulle persone fisiche con patrimonio superiore a 50 milioni di euro (escluso il valore della residenza principale) e il limite di 10 mila in tutta l’Ue per i pagamenti in contanti (esclusi i privati in transazioni non professionali).
Novità anche in tema di privacy, al centro dei ricorsi al Tar e Consiglio di Stato. Chi ha un interesse legittimo – compresi giornalisti, organizzazioni della società civile, autorità e organi di vigilanza – avrà accesso immediato, diretto e gratuito alle informazioni sulla proprietà effettiva nei registri nazionali e interconnessi a livello Ue. Registri che includeranno dati dell’ultimo quinquennio. Le Uif avranno maggiori poteri ispettivi e di analisi sulle movimentazioni di denaro, nonché il potere di sospendere le transazioni sospette.