Italia-Svizzera, sì allo scambio di liste

4 Aprile 2017

Il Sole 24 Ore 15 Marzo 2017 di Alessandro Galimberti

Lotta all’evasione. Nel mirino i «recalcitranti» che non hanno fornito rassicurazioni sulla regolarità dei fondi oltreconfine

In vigore dal 2 marzo l’accordo per le «richieste di gruppo» – Spinta alla voluntary

Milano
Mentre l’agenzia delle Entrate si appresta a inviare le prime richieste “di gruppo” negli ex paradisi di confine (Svizzera e Montecarlo), la diplomazia affila le armi per la caccia ai contribuenti in fuga costante.
L’ultimo capitolo rivolto ai «recalcitranti» (testuale) lo hanno scritto le amministrazioni fiscali tra Roma e Berna, da una parte il Dipartimento delle Finanze del Mef, dall’altra l’Amministrazione federale delle contribuzioni. L’accordo, già in vigore di fatto dallo scorso 2 marzo, riguarda le modalità dello scambio di informazioni «di gruppo», quel delicato territorio di mezzo tra la domanda individuale – contro un obiettivo ben individuato dall’Agenzia – e lo scambio automatico di informazioni che riguarderà tutti gli italiani con conti e disponibilità oltralpe (e che vedrà il primo flusso di info debuttare solo dal prossimo mese di settembre).
Territorio delicato, quello delle domande raggruppate, perché molto vicino alla fishing expedition, la “pesca a strascico” vietata dalle norme internazionali. Da qui la necessità di definire regole condivise per permettere all’Agenzia di inviare a Berna liste “blindate” a cui ottenere risposte circostanziate.
L’obiettivo dichiarato del nuovo accordo, scritto in inglese e che è una propaggine del Protocollo di Milano del 23 febbraio 2015 (legge sulla voluntary disclosure), sono i recalcitrant account holders, cioè i titolari di conto mai adeguatisi ai diktat ricevuti dagli istituti finanziari svizzeri. Banche, assicurazioni fiduciarie ecc. avevano inviato ai clienti, a partire dall’inverno del 2014, un form per continuare l’operatività: il titolare-contribuente italiano avrebbe dovuto già da allora sottoscrivere una dichiarazione di piena conformità fiscale o, in alternativa, comunicare l’adesione alla voluntary disclosure. Non tutti però si sono adeguati, ricevendo spesso il benservito della stessa banca, e tra poco si troveranno anche nel mirino della “richiesta di gruppo”.
La collaborazione della Svizzera – a dispetto di clichè ormai datati – è fuori discussione, come dimostra il contenzioso dello scorso anno sui dati richiesti dal fisco olandese circa i suoi contribuenti “nascosti” nei file della Ubs. Al termine di un lungo contenzioso giudiziario, arrivato fino al massimo grado della Tribunale federale, la Confederazione aveva dato il via libera alla domanda di gruppo, ordinando in sostanza la consegna dei dati all’amministrazione olandese e sancendo definitivamente la fine del segreto bancario (solo) di fronte al fisco. L’accordo con l’Italia, in definitiva, serve a tracciare un quadro giuridico certo che affianca e corrobora quello della giurisprudenza.
La richiesta di gruppo in partenza per la Svizzera relativa ai “non conformi” fiscali fa il paio con l’altra iniziativa delle Entrate sugli espatriati degli ultimi sette anni. Nelle norme sulla nuova voluntary disclosure, partita lo scorso 22 ottobre e aperta fino al prossimo 31 luglio, c’è l’obbligo per tutti i Comuni di comunicare gli elenchi degli iscritti all’Anagrafe residenti all’estero per individuare i trasferimenti sospetti. Da questo versante, che riguarda migliaia di potenziali contribuenti in fuga, partirà la seconda tranche delle richieste di gruppo verso paradisi ed ex paradisi fiscali.
E a proposito di residenze più o meno fittizie, sempre ieri è stato ufficializzato l’accordo italo-elvetico per i controlli sui treni internazionali della tratta Varese-Mendrisio. L’intesa, firmata alla presenza dell’ambasciatore svizzero in Italia, Giancarlo Kessler e del consigliere per le politiche fiscali del Mef, Vieri Ceriani, consentirà ai funzionari delle Entrate di fare accertamenti sui convogli in viaggio e di disporre di un ufficio a Mendrisio, nel basso Canton Ticino, per le verbalizzazioni (e ovviamente poteri uguali per le Guardie di confine svizzere in territorio italiano fino a Varese).
Il pressing del ministero e delle Agenzie lungo i confini, anche metaforici, è del tutto evidente. La nuova voluntary disclosure, partita davvero in sordina, rischia di non ripetere nemmeno in lontananza il successo della prima (4,3 miliardi di gettito), anche perché i candidati al rientro e le piazze finanziarie dove sono basati non danno alcun segno di interesse.
Lo scambio automatico, vero spauracchio ma evidentemente non ancora ben percepito nella sua portata, partirà solo a settembre, a Vd2 già chiusa. La nuova offensiva diplomatica e mediatica del governo e dell’amministrazione sembra davvero l’ennesimo “ultimo avviso” per i recalcitranti, appunto.

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L’amministratore è punibile se la società nasce per fini illeciti

4 Aprile 2017

Il Sole 24 Ore 9 Marzo 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione. Il manager deve essere beneficiario della frode

La persona fisica risponde delle sanzioni per le violazioni commesse da una società allorchè quest’ultima sia stata costituita artificiosamente a fini illeciti e quindi la persona fisica risulti anche il beneficiario delle contestate violazioni.
È questa una delle interessanti indicazioni fornite dalla Corte di cassazione nella sentenza 5924 depositata ieri
La vicenda, in estrema sintesi, riguardava il coinvolgimento di una persona fisica, quale amministratore di fatto, di una società implicata in una frode carosello. Dopo il rigetto del ricorso di primo grado e del successivo appello, il contribuente si rivolgeva in Cassazione, lamentando, tra l’altro, l’assenza di motivazione sulle concrete ragioni che consentivano di ritenere amministratore di fatto il contribuente interessato.
Era poi criticata l’estensione delle sanzioni irrogate alla società anche alla persona fisica.
Circa l’amministratore di fatto, la Suprema corte ha accolto i motivi di ricorso evidenziando che non è sufficiente, come effettuato nella specie dalla Ctr, la descrizione del contesto illecito in cui hanno operato le imprese e l’asserita pericolosità sociale del presunto amministratore,
Secondo la Cassazione, il giudice di merito in sostanza deve motivare le ragioni che lo hanno indotto a individuare l’amministrazione di fatto in capo al soggetto interessato, non potendosi limitare a indicare una serie di dati conoscitivi da cui il lettore dovrebbe dedurre le conclusioni: mancanza di attività delle società, durata temporale brevissima delle imprese coinvolte nella frode, spiccata propensione per le attività criminose eccetera.
In merito, invece, all’impossibilità di irrogare le sanzioni alla persona fisica per violazioni commesse dalla società, i giudici di legittimità pur respingendo l’impugnazione – trattandosi di tema non prospettato nei pregressi gradi di giudizio – hanno fornito alcune interessanti interpretazioni in ordine all’applicazione dell’articolo 7 del Dl 269 /2003.
In base a tale disposizione, nel caso di rapporti fiscali facenti capo a persone giuridiche le sanzioni possono essere irrogate nei soli confronti dell’ente. Ne conseguirebbe pertanto l’esclusione della punibilità della persona fisica avente un qualsiasi rapporto con la società.
Sul punto la Suprema corte ha chiarito che detta norma regolamenta le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente. In tal senso peraltro si era già espressa la Cassazione (sentenza 19716/2013) relativamente all’ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, aveva compiuto violazioni nell’interesse della società,
Se invece, come nel caso posto al vaglio dei giudici, vi è una coincidenza delle figure di trasgressore e contribuente nella persona dell’amministratore di fatto, in quanto materiale beneficiario dell’attività fraudolenta, non è possibile invocare l’esclusione delle sanzioni prevista dalla citata disposizione.
Si tratta infatti di società costituite artificiosamente a fini illeciti con la conseguente possibilità di irrogare le sanzioni anche in capo alla persona fisica.

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L’amministratore di società non è un parasubordinato

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 09 Febbraio 2017 di Franco Toffoletto

Sezioni unite. Ribaltato l’orientamento del 1994

Il rapporto che intercorre tra un amministratore e la società non è caratterizzato dal coordinamento e pertanto non può essere compreso tra i cosiddetti contratti di lavoro parasubordinato. Questo, in estrema sintesi, il principio contenuto nell’importante sentenza 1545/2017 della Corte di cassazione a sezioni unite (si veda anche Il Sole 24 Ore del 21 gennaio) che ribalta completamente la pronuncia precedente delle stesse sezioni unite del 1994.
La decisione è più che condivisibile. Nella motivazione si legge che il mutato assetto normativo sviluppatosi dal 2003 in poi impone «un radicale ripensamento rispetto alla decisione del 1994 ed alle conseguenze che ne sono derivate e ne derivano trasversalmente in vasti campi dell’ordinamento».
Come affermato da ampia parte della dottrina e della giurisprudenza, infatti, il rapporto tra amministratore e società non sarebbe un rapporto contrattuale ma un rapporto organico nel quale manca ogni dualità, configurandosi invece un’immedesimazione dell’organo nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilità di un regolamento negoziale interno, fonte di reciproci diritti ed obblighi. Gli amministratori infatti sono un organo necessario per l’operatività della società, secondo una precisa scelta del legislatore che ne ha regolato la struttura in modo tale da escludere che il loro rapporto possa operare secondo le regole della rappresentanza ordinaria. Quindi – prosegue la Corte – «la configurazione non contrattuale del rapporto società–amministratori incide sulla ricostruzione della fonte dei loro poteri: gli amministratori sono titolari di poteri gestori in via originaria, in quanto organi necessari per il funzionamento e la realizzazione del contratto sociale, analogamente ai poteri dell’assemblea dei soci, con cui vi sarebbe una semplice convivenza, senza alcuna possibilità di sovrapposizione o limitazione». I poteri degli amministratori, quindi, derivano soltanto dalla legge e sono autonomi, non avocabili nè disponibili nè limitabili ad opera dell’assemblea dei soci a cui spetta solo di designare il titolare di prerogative gestorie già determinate (o di revocarlo).
Ne deriva – e qui sta il punto fondamentale – «l’inesistenza di due contrapposti ed autonomi centri di interesse tra i quali instaurare non solo un rapporto contrattuale ma un qualsiasi rapporto intersoggettivo, data l’impossibilità di una diversificazione di posizioni contrapposte e l’inesistenza di separazione tra funzione gestoria e funzione sottoponibile a verifica, controllo e disciplina».
Proprio questo aspetto, cioè il rapporto tra assemblea e amministratori, conduce la Suprema corte a escludere che nella fattispecie ricorra il carattere del «coordinamento», essenziale per configurare la fattispecie prevista dall’articolo 409 del codice di procedura civile (e quindi anche la competenza del giudice del lavoro nelle relative controversie). Osserva correttamente la Corte: «… il coordinamento (…) deve essere inteso in senso verticale, ossia deve rappresentarsi come una situazione per cui il prestatore d’opera parasubordinata è soggetto ad un coordinamento che fa capo ad altri, in un rapporto che deve presentare connotati simili a quelli del rapporto gerarchico propriamente subordinato … l’attività coordinata è sinonimo di attività in qualche misura eterodiretta o, comunque, soggetta ad ingerenze o direttive altrui».
E ciò non è configurabile nell’attività dell’amministratore che è – come espressamente lo definisce la Corte «il vero egemone dell’ente sociale», come risulta sia dall’articolo 2380 bis del codice civile, che gli attribuisce la gestione dell’impresa in via esclusiva, che dalla previsione dell’articolo 2365, numero 5, dello stesso codice per il quale la competenza dell’assemblea ha carattere delimitato e specifico, mentre quella degli amministratori ha carattere generale e sussiste per tutti gli atti dell’impresa (non riservati all’assemblea), per il conseguimento dell’oggetto sociale. Quindi l’attività dell’amministratore non può, per sua natura, essere coordinata da alcuno.
La pronuncia avrà notevole impatti pratici e processuali e farà venire meno definitivamente la prassi, di origine anglosassone, dei cosiddetti “contratti di amministratore”, la cui redazione, oggi più di prima, è assolutamente e sempre da evitare.

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Prelievo al 30% sulle royalties al titolare estero del marchio

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 27 Febbraio 2017 di Ferruccio Bogetti e Gianni Rota

Fisco internazionale. Non basta la dichiarazione di residenza per smentire l’interposizione fittizia

Sulle royalties pagate a un soggetto estero non residente per l’uso di un marchio commerciale si applica la ritenuta d’imposta nazionale al 30%, e non quella al 5% prevista dalla convenzione bilaterale Italia-Paesi Bassi se il contribuente non è in grado di provare che il soggetto licenziatario è lo stesso che beneficia dei pagamenti.
La sola dichiarazione di residenza fiscale dell’amministrazione straniera, infatti, non basta a superare la presunzione di interposizione fittizia contestata dal fisco italiano. In questo modo si è espressa la Ctr Lombardia con la sentenza 5986/44/16 (presidente D’Agostino, relatore Bragho).
Per la normativa nazionale le royalties pagate a un soggetto non residente scontano la ritenuta d’imposta del 30% e non vanno dichiarate in Italia. Per la normativa internazionale (convenzione Italia-Paesi Bassi) le royalties sono a titolo d’acconto, pari al 5% e si dichiarano nell’altro Paese.
Nel caso in esame una Spa italiana ha stipulato con una società olandese titolare di un marchio commerciale un contratto per il suo sfruttamento in Italia e nel 2008 ha pagato le royalties, trattenendo la ritenuta d’acconto del 5 per cento.
L’amministrazione pretende la ritenuta del 30% perché la società italiana non ha provato che il soggetto licenziatario e il beneficiario del pagamento fossero lo stesso ente.
La società italiana ricorre, spiegando che la società olandese è titolare del marchio, percepisce le royaltie s pagate in Italia e le dichiara nel proprio Paese, tassandole regolarmente come provato dalle certificazioni rilasciate dalla stessa società estera e dall’autorità fiscale olandese.
L’amministrazione resiste, sottolinenando che la società non ha provato che il titolare del marchio commerciale sia il percettore e non un soggetto interposto. Per questo motivo l’ufficio sostiene che vada applicata la normativa domestica.
I giudici di merito di entrambi i gradi danno torto alla società. In particolare secondo la Ctr Lombardia:
il sostituto d’imposta italiano può derogare alla normativa nazionale e applicare quella internazionale bilaterale, a condizione di provare la coincidenza tra soggetto concedente il marchio e soggetto beneficiario dei versamenti corrisposti;
la prova può essere offerta con le fatture emesse dal licenziatario che non devono avere una descrizione generica e devono consentire l’identificazione del marchio concesso in uso, il cui valore deve essere riportato nelle immobilizzazioni immateriali del suo bilancio;
la dichiarazione di residenza fiscale rilasciata dall’amministrazione finanziaria straniera da sola non basta a superare l’interposizione fittizia fra soggetto licenziatario e soggetto beneficiario dei pagamenti.

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Fattura inesistente se non c’è prestazione

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 25 Febbraio 2017 di Antonio Iorio

Cassazione/2. Non è sufficiente dimostrare che i fornitori non erano in grado di svolgere i servizi pagati

Per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti non basta provare che i fornitori non sono in grado di svolgere i servizi fatturati ma va riscontrata l’effettività delle prestazioni eseguite. A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza 9139 depositata ieri.
Un contribuente veniva accusato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per prestazioni oggettivamente inesistenti relative a opere edili affidate in subappalto. Il giudice di primo grado riteneva che le imprese emittenti le fatture non potevano svolgere i lavori in questione, sulla base di una serie di indizi: assenza di collaboratori e dipendenti e di strutture idonee, anomalie nei pagamenti eseguiti per lo più per contanti nonostante gli importi elevati, dichiarazioni di alcuni prestatori che non ricordavano lo svolgimento delle attività ecc. Tuttavia assolveva l’imputato avendo provato che i lavori in questione erano stati effettivamente eseguiti. Ne conseguiva, secondo il tribunale, che non poteva trattarsi di fatture oggettivamente inesistenti stante l’esecuzione delle opere, verosimilmente svolte da altri soggetti.
La Corte di Appello riformava la sentenza di primo grado e condannava l’imprenditore ritenendo i lavori in questione mai eseguiti. L’imputato ricorreva così per Cassazione lamentando vizi di motivazione e violazione di legge nell’affermazione della responsabilità dell’imprenditore
La Cassazione ha accolto il ricorso. I giudici di legittimità hanno evidenziato che la sentenza di appello inizialmente ha condiviso le conclusioni del tribunale e cioè che in virtù di alcune circostanze, non contestate dalla difesa, i lavori non erano stati eseguiti dalle ditte emittenti le fatture, ma concludeva per la mancata esecuzione delle medesime opere. Tale conclusione – in contrasto con quella del giudice di primo grado – non era, però, in alcun modo motivata. Da qui l’accoglimento del ricorso dell’imputato.
La sentenza è interessante perché non di rado, a seguito di controlli fiscali nei confronti di contribuenti ritenuti “cartiere” perché privi di strutture, si contesta l’utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti ai destinatari dei documenti: spesso però questi ultimi le prestazioni o le cessioni fatturate le hanno effettivamente ricevute, ancorché da soggetti differenti (soggettivamente inesistenti). In queste ipotesi, quindi, l’eventuale contestazione di falsità oggettiva è priva di fondamento in quanto essa attiene l’assenza dell’operazione e non l’esecuzione della stessa da parte di un fornitore differente.

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Con la voluntary 2.0 subito le liste degli espatriati

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2017 di Alessandro Galimberti

Emersione capitali. Via alle rogatorie

MILANO
All’avvio del secondo programma di emersione dei capitali – partito di fatto la scorsa settimana con il rilascio degli standard di trasmissione delle istanze all’agenzia delle Entrate – la Svizzera debutta traumatizzata dall’esito del referendum sulla riforma della fiscalità delle imprese. La sonora bocciatura popolare nel week della nuova legge federale – sospettata di troppe agevolazioni per le multinazionali, a danno quindi delle imprese residenti – rischia infatti di avere conseguenze nel percorso di “emersione” della Confederazione e di avere ripercussioni anche sulle varie black list mondiali in cui ancor oggi è inserita.
Black list che, almeno ai fini delle voluntary italiane, la Svizzera ha comunque abbandonato dal 2015, giocando un ruolo fondamentale nella riuscita della prima Vd tricolore, in cui ha “rappresentato” 41 dei 60 miliardi emersi.
Lo scenario della nuova campagna di emersione comunque è molto diverso, a giudizio degli esperti riuniti ieri alla Camera di commercio Svizzera a Milano. A cominciare dagli italiani che hanno voluto restarne fuori nel 2015: «Attenzione a chi ha trasferito, più o meno realisticamente, la residenza nella Confederazione negli ultimi cinque anni – ha detto l’avvocato (ed ex procuratore pubblico) Paolo Bernasconi – i problemi per loro inizieranno da subito, con l’invio delle liste alle Entrate da parte dei comuni italiani, atto dovuto per legge». Anche chi ha pensato di non comunicare all’Aire il trasferimento di residenza non può stare tranquillo, ha aggiunto la responsabile dell’Accertamento Lombardia, Angela Calcò, perché «le informazioni arriveranno automaticamente anche dagli intermediari».
L’incontro nella sede rossocrociata di Milano è stata anche l’occasione per fare il punto su alcune criticità aperte dalla nuova campagna di rientro, a cominciare dal nuovo istituto dell’ autoliquidazione. «Mi sento di rassicurare i contribuenti che temono conseguenze per i microerrori di calcolo – ha detto la Calcò – ci sarà da parte nostra il buonsenso già messo in campo con la prima Vd. Certo non arriveremo a giustificare situazioni come quel contribuente che “non ricordava” a chi aveva venduto a rate un immobile da 7 milioni in un Paese black list».
E a proposito di collaborazione fiscale internazionale e relative liste, Luigi Belluzzo ha rimarcato la rigidità della legge Vd 2.0 circa l’esclusione dalla white list dei Paesi con i quali non era entrato in vigore il trattato fiscale prima del 24 ottobre scorso. Per effetto, Bermuda, Barbados, Liechtenstein, Panama e Principato di Monaco, per esempio, non potranno far beneficiare del dimezzamento dei termini i contribuenti “emergenti”. Al proposito, Belluzzo ha parlato di una scelta «discutibile e non condivisibile», anche perché la nuova campagna – esaurito il filone svizzero – dovrebbe ripartire tra gli altri da questi ex paradisi. E siccome nel nuovo giro si candidano soprattutto trust e “costruzioni” giuridiche molto complicate (e “artigianali”) oggi si ripropone il problema del Paese del “primo occultamento”. Nel 2015 l’Agenzia, con una misura “dedicata” alla Svizzera, aveva stabilito che nel caso di “rimbalzi” faceva testo il Paese dove era approdato per primo il nero. Oggi gli operatori si aspettano un ampliamento “erga omnes” di quella circolare che, quasi sempre, significa il dimezzamento delle annualità fiscali da sanare e l’abbattimento del dovuto all’erario.

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Il quadro RW diventa più leggero

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 12 Febbraio 2017 di Valerio Vallefuoco

Dichiarazioni. Il Dl fiscale collegato alla manovra ha allargato l’area degli esoneri – Resta comunque dovuta l’Ivie sul bene oltreconfine

Stop all’obbligo di monitoraggio per gli immobili all’estero che non producono reddito

Tra le semplificazioni previste dal decreto fiscale convertito dal Parlamento si evidenzia l’abolizione dell’obbligo dichiarativo di monitoraggio per gli immobili detenuti dai residenti italiani all’estero qualora tali immobili non siano produttivi di reddito. Non sarà più necessario, quindi, per le seconde case all’estero che non vengano affittate compilare il quadro RW nella propria dichiarazione dei redditi indicando il valore di acquisto di questi immobili, rimane però l’obbligo di pagare la relativa imposta sul valore degli immobili situati all’estero.
La novità è prevista nel comma 23, articolo 7-quater del decreto fiscale che prevede una modifica sostanziale della disciplina del monitoraggio fiscale degli immobili all’estero. All’articolo 4, comma 3 del Dl 167/1990, è stata inserita la seguente dicitura : «Gli obblighi di indicazione nella dichiarazione dei redditi previsti nel comma 1 non sussistono altresì per gli immobili situati all’estero per i quali non siano intervenute variazioni nel corso del periodo d’imposta, fatti salvi i versamenti relativi all’imposta sul valore degli immobili situati all’estero, di cui al decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214».
Viene, quindi, integrato l’elenco degli esoneri oggettivi previsti dalla normativa sul monitoraggio fiscale delle attività detenute all’estero che, lo ricordiamo, riguardano: conti correnti bancari e depositi detenuti all’estero il cui valore massimo complessivo raggiunto nel corso del periodo d’imposta non sia superiore a 15mila euro e le attività finanziarie e patrimoniali affidate in gestione o in amministrazione agli intermediari residenti e per i contratti comunque conclusi attraverso il loro intervento, qualora i flussi finanziari e i redditi derivanti da tali attività e contratti siano stati assoggettati a ritenuta o imposta sostitutiva dagli intermediari stessi (è il caso classico delle attività detenute tramite fiduciaria statica). Quest’ultimo caso potrà essere molto utilizzato in caso di procedura di collaborazione volontaria (la cosiddetta voluntary-bis) dai contribuenti per evitare di far transitare nella propria dichiarazione dei redditi le loro attività all’estero che, una volta regolarizzate, saranno dichiarate direttamente dall’intermediario nominato sostituto di imposta. La normativa è entrata in vigore il 3 dicembre 2016, ovvero il giorno in cui è entrata in vigore la legge 1 dicembre 2016, n. 225 che ha convertito con modificazioni il Dl 193/2016 (anche detto decreto fiscale) aggiungendo questo nuovo esonero dal monitoraggio per gli immobili.
L’esonero dovrebbe, pertanto, applicarsi per le dichiarazioni del 2017 riguardanti il periodo di imposta 2016. Essendo eliminato l’obbligo viene conseguentemente meno anche la relativa sanzione in caso di omessa compilazione del quadro RW in relazione agli immobili che non potrà essere più applicata ai soli fini del monitoraggio mentre resta dovuta l’imposta, gli interessi e le sanzioni connesse al mancato versamento dell’Ivie. Su questa imposta dovrebbe rimanere l’obbligo dichiarativo per cui potrebbe ancora essere utile la gestione dell’incombente attraverso il sostituto d’imposta (ad esempio fiduciaria), anche per le difficoltà di calcolo. Un’ultima riflessione deve essere necessariamente effettuata sugli effetti di questa novità sul passato. Trattandosi, infatti, di un regime semplificatorio più favorevole si potrebbe considerare un’applicazione retroattiva in favore del contribuente in relazione al noto principio del favor rei in abito sanzionatorio tributario previsto dall’articolo 3, comma 2, Dlgs 472/1997 che in forza del principio di legalità, prevede espressamente che «salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che,secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile». Dopo questa semplificazione introdotta dal Parlamento attraverso la legge bisognerà vedere l’orientamento dell’amministrazione finanziaria sull’applicazione retroattiva della norma.
L’agenzia delle Entrate già in passato, relativamente alle novità introdotte proprio sul monitoraggio fiscale dalla legge comunitaria del 2013, si era espressa a favore della retroattività.

 

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L’hub può essere una «stabile»

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 24 Febbraio 2017 di Eugenio Della Valle e Dario De Santis

I chiarimenti delle Entrate. Se l’attività di vendita è effettuata all’estero ma i beni si trovano nel centro di immagazzinamento in Italia

La risoluzione 4/E del 2017, oltre a rappresentare la prima risposta dell’agenzia delle Entrate a una istanza di interpello sui nuovi investimenti, risulta di estrema importanza quanto alle circostanze in virtù delle quali si ritiene sussistere una stabile organizzazione in Italia di una società non residente allorquando l’head office effettua vendite di beni che si trovano su suolo italiano direttamente dall’estero.
In particolare, viene affermato che, se l’impresa non residente vende i beni che si trovano in Italia in un proprio centro di immagazzinamento e di distribuzione gestito da terzi (le stesse conclusioni dovrebbero valere anche nel caso di deposito di proprietà di terzi) prima che gli stessi vengano estratti dal medesimo hub logistico (che funge anche da deposito Iva e doganale), l’hub si configura quale stabile organizzazione materiale anche se l’attività di vendita viene svolta interamente all’estero dalla stessa impresa non residente o da sue consociate.
A questa conclusione l’Agenzia perviene alla luce delle indicazioni contenute nel Commentario Ocse all’articolo 5 del modello di Convenzione contro le doppie imposizioni ritenendo che un deposito italiano di cui una società estera abbia la disponibilità possa essere considerato a certe condizioni una «sede fissa d’affari» nel territorio dello Stato nel caso in cui tale sede venga utilizzata per l’esercizio della propria attività di impresa.
Secondo le disposizioni convenzionali del predetto articolo 5, cui si conforma l’articolo 162 del Dpr 917/1986, infatti, costituisce un caso in cui non si configura la stabile organizzazione, tra gli altri, quello in cui si fa uso di una installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di merci appartenenti all’impresa. Per cui il magazzino configura una stabile organizzazione materiale nel caso in cui la società non residente svolga attività di deposito, di esposizione o di consegna di merci di proprietà anche di altre imprese ovvero nel caso in cui venga svolta qualsiasi altra attività (non preparatoria o ausiliaria) quale ad esempio l’attività commerciale di raccolta degli ordini nonché di vendita dei propri prodotti.
Cosicché, secondo l’Agenzia, al fine di escludere che un deposito venga considerato stabile organizzazione è rilevante la circostanza che «tutte le operazioni» di cessione di prodotti finiti che la società non residente intende realizzare direttamente dall’estero siano precedute dalla fuoriuscita di tali prodotti dagli spazi di cui la stessa abbia la disponibilità.
In tal modo si ricollega la sussistenza di una stabile organizzazione al solo fatto che il bene si trovi in un luogo «a disposizione» della società estera nel momento in cui vengono poste in essere le «operazioni di vendita» con l’oggettiva difficoltà, che ciò comporta, di accertare che tutte le operazioni di cessione svolte all’estero siano eseguite dopo la predetta fuoriuscita.
Alla luce di tale interpretazione dell’Agenzia, onde evitare la presenza di una stabile organizzazione in Italia, dunque, occorre procedere alla estrazione dei prodotti dal luogo dove essi sono detenuti (con le conseguenti problematiche di corretta gestione di tali operazioni alla luce della nuova normativa applicabile dal prossimo 1° aprile alle estrazioni dei beni dai depositi Iva) ed essere certi che ogni operazione collegata alla vendita dei beni sia posta in essere successivamente a tale estrazione.
Risulterà quindi necessario rivedere le policy contrattuali di vendita dei gruppi esteri che utilizzano depositi italiani, sia doganali e/o Iva che non, nella consapevolezza di una non semplice gestione di tutte le operazioni di vendita post fuoriuscita e dei conseguenti rischi nel caso in cui non si riesca a dimostrare tale ultima circostanza.

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Sequestro dei beni della moglie per i reati tributari del marito

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 14 Febbraio 2017 di Laura Ambrosi

Fisco e famiglia. In comunione fuori solo quelli personali

È legittimo il sequestro dei gioielli della moglie per reati tributari commessi dal marito: se tra i coniugi vige il regime di comunione legale, possono escludersi solo i beni strettamente personali. Se invece c’è il regime di separazione, occorrerà verificare la capacità reddituale per l’acquisto. A fornire questo importante chiarimento è la Corte di cassazione con la sentenza n. 6595 depositata ieri.
Il gip disponeva un sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente per vari reati, anche associativi, di natura tributaria. Più precisamente, la misura cautelare riguardava alcuni gioielli rinvenuti nella disponibilità della moglie dell’indagato, la quale impugnava il provvedimento.
Il Tribunale del riesame, in accoglimento delle doglianze della signora, ordinava la restituzione dei preziosi sequestrati, rilevando la mancanza sia di un sequestro preventivo emesso direttamente a suo nome, sia della prova che i beni fossero nella disponibilità del marito indagato.
Il Pm ricorreva allora per Cassazione lamentando che la misura cautelare aveva ad oggetto anche beni diversi dai preziosi di cui la moglie aveva dato prova fotografica della sua esclusiva disponibilità.
La Suprema Corte, ritenendo fondato il ricorso, ha fornito alcuni importanti chiarimenti sul concetto di disponibilità di beni nell’ambito della comunione tra coniugi. I giudici di legittimità hanno innanzitutto precisato che così come previsto dall’articolo 12 bis del Dlgs 74/2000, la confisca va ordinata su beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato. Per “disponibilità” si deve intendere l’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà. Mutuando, quindi, il concetto del “possesso civilistico”, si tratta di tutti quei beni che ricadono nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi sia esercitato per il tramite di terzi. Ne consegue così che la “disponibilità” del bene non necessariamente corrisponde al suo uso effettivo, che di per sé è neutro.
Nella specie, gli orologi facenti parte dei preziosi sequestrati, ben potevano essere indossati indifferentemente da ciascuno dei coniugi a prescindere dalla proprietà o dal possesso degli stessi.
L’uso, quindi, esclude la disponibilità solo qualora riferito ad un bene strettamente personale e pertanto nell’ipotesi di beni “interscambiabili” tra i coniugi, poteva essere legittimo il sequestro nella misura del 50% del valore dei beni.
In tale contesto, peraltro, il regime di comunione legale tra coniugi non era di ostacolo alla confisca pro-quota, tanto più che, secondo quanto già affermato in precedenti pronunce, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può riguardare nella loro interezza anche beni in comproprietà con un terzo estraneo al reato, essendo altrimenti assoggettabile alla misura cautelare soltanto la quota appartenente all’indagato (sentenza 29898/2013).
Infine, la Cassazione ha precisato che l’eventuale verifica del reddito, dal quale desumersi la presumibile capacità di acquistare i preziosi, poteva avere rilevanza solo in regime di separazione dei beni e non di comunione. È evidente, infatti, che in quest’ultima ipotesi, i beni acquistati dopo il matrimonio sono di entrambi i coniugi. La decisione, conclusivamente, ha affermato il principio secondo cui per il sequestro di beni mobili dei coniugi va innanzitutto verificato il regime patrimoniale e, solo in caso di comunione, possono escludersi dal sequestro i beni personali. In caso di separazione, invece, occorre verificare se il reddito del coniuge che ne rivendica la proprietà sia tale da giustificarne l’acquisto e ove ciò non fosse, grava sullo stesso la prova della sua esclusiva disponibilità.

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Sequestrabili i beni messi nel trust familiare

10 Marzo 2017

Il Sole 24 Ore 21 Febbraio 2017 di Giovanni Negri

Frode. L’ammissibilità

Milano
La costituzione di un trust familiare può rappresentare una soluzione per blindare un patrimonio in frode ai creditori. Torna a sottolinearlo la Corte di cassazione con la sentenza n. 8041 della Quinta sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha confermato il provvedimento di sequestro di una serie di immobili intestati a un trust (amministrato da un imputato per bancarotta preferenziale e dalla moglie).
La Cassazione ha sottolineato che l’utilizzo di uno strumento giuridico certamente lecito come il trust non può certo giustificare finalità di frode ai creditori sottraendo una quota dei beni del patrimonio. L’indagine va fatta sul campo da parte dell’autorità giudiziaria, indagine tanto più necessaria visto che si tratta delle modalità di utilizzo di uno strumento giuridico estraneo alla nostra tradizione.
E allora ci sono alcuni elementi da tenere presente in un’ottica sostanziale. È il caso delle conseguenze pratiche per cui, in seguito alla costituzione del trust familiare, i beni dell’indagato sono comunque rimasti nell’ambito familiare, con una disponibilità di fatto alla quale non può essere d’ostacolo una segregazione solo formale. L’effetto giuridico poi vede il trust essere classificato tra i negozi fiduciari con un’evidente assimilazione, ricorda la sentenza, con l’interposizone reale, rispetto alla quale è incontestabile l’ammissibilità del sequestro.
Per la Cassazione in ogni caso a testimonianza della limitata disponibilità dei beni da parte del trustee c’è la possibilità di contestare l’appropriaizone indebita quando non sono rispettate nella destinazione dei beni le indicazioni fatte proprie nel negozio fiduciario.

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