Perdite, la deducibilità scatta per elementi certi e precisi

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 15 luglio 2024 di Cristina Odorizzi

Il quadro RS del modello Redditi SC chiede di indicare al rigo RS65 le perdite di esercizio: a colonna 1 le perdite rilevate a bilancio e a colonna 2 le perdite fiscali ex articolo 101, comma 5, del Tuir. Queste perdite comprendono anche le perdite imputate in esercizi precedenti la cui deducibilità è stata rinviata per assenza dei presupposti fiscali.

Perdite deducibili

In base all’articolo 101, comma 5, del Tuir, le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi. Si prevedono poi alcune situazioni in cui gli elementi certi e precisi sussistono ex lege e in particolare:

quando il debitore è interessato da procedure concorsuali o da una ristrutturazione dei debiti o da un piano attestato;

quando il credito è di modesta entità ed è decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento. Sussiste la modesta entità se l’importo è fino a 5.000 euro per le imprese più rilevanti, e fino a 2.500 euro per le altre;

quando il diritto alla riscossione del credito è prescritto.

In tutti le altre ipotesi, il generico riferimento agli elementi certi e precisi implica la necessità di una valutazione caso per caso. La circolare 26/E/2013 ha chiarito che possono considerarsi come sufficienti elementi di prova tutti i documenti attestanti l’esito negativo di azioni esecutive attivate dal creditore (ad esempio, il verbale di pignoramento negativo), sempre che l’infruttuosità delle stesse risulti anche sulla base di una valutazione complessiva della situazione economica e patrimoniale del debitore, assoluta e definitiva.

La circolare 26/E cita come altro utile elemento di prova, a corredo di ripetuti tentativi di recupero senza esito, la documentazione idonea a dimostrare che il debitore si trovi nell’impossibilità di adempiere per un’oggettiva situazione di illiquidità finanziaria e incapienza patrimoniale e che, pertanto, è sconsigliata l’instaurazione di procedure esecutive.

Individuazione dei mini-crediti

I “mini-crediti” sono una fattispecie in cui, ex lege, ricorrono gli elementi certi e precisi per la deducibilità delle perdite. Per quanto riguarda le modalità di calcolo, l’importo del credito si individua considerando il relativo valore nominale, comprensivo di Iva e con esclusione di interessi di mora e oneri accessori addebitati per inadempimento, al netto di eventuali incassi parziali e prescindendo da eventuali svalutazioni effettuate in sede contabile e fiscale (circolare 26/E/2013).

Molto importante, poi, è ricordare che il limite quantitativo va verificato in relazione al singolo credito, se rappresentativo della singola obbligazione in essere; quindi, non è rilevante che, in relazione al medesimo debitore, sussistano più posizioni creditorie. Nel caso in cui, invece, le partite creditorie si riferiscano al medesimo rapporto contrattuale, la modesta entità va valutata sul saldo complessivo dei crediti, riconducibili al medesimo rapporto. Sempre la circolare 26/E/2013 ha chiarito che in presenza di crediti scaduti da almeno sei mesi e di crediti non scaduti, si assumono solo i crediti scaduti.

I crediti prescritti

Un’ulteriore ipotesi di sussistenza ex lege degli elementi di certezza e precisione è quella della prescrizione del diritto di credito. È una casistica di non semplice applicazione, posto che ai fini della prescrizione è necessaria l’assenza di attivi interruttivi da parte del creditore. Sul punto la circolare 26/E/13 ha dimostrato una certa rigidità, affermando che «resta salvo il potere dell’Amministrazione di contestare che l’inattività del creditore abbia corrisposto ad una effettiva volontà liberale».

Tuttavia, con la pubblicazione del principio di diritto n. 16 del 29 dicembre 2021, l’agenzia delle Entrate ha precisato che la prescrizione del credito costituisce sempre «elemento certo e preciso a cui collegare la deduzione della relativa perdita e la rilevazione del periodo d’imposta in cui operarla».

Svalutazione dei crediti, deduzione circoscritta

La deduzione delle perdite e degli accantonamenti inerenti ai crediti commerciali richiede la corretta gestione e compilazione del modello Redditi SC 2024 (anno d’imposta 2023).

Va innanzitutto distinto il concetto di perdita su crediti da quello di svalutazione: si ha perdita del credito quando esso è divenuto definitivamente inesigibile, mentre si ha svalutazione quando il credito è solo temporaneamente non realizzabile (Cassazione, ordinanza 10686/2018).

Le perdite su crediti trovano disciplina fiscale nell’articolo 101, comma 5, del Tuir, che delinea le condizioni in base a cui una perdita su crediti diviene deducibile. Il tema delle svalutazioni crediti è regolato invece dall’articolo 106, commi 1 e 2, del Tuir.

La svalutazione dei crediti

Ai fini civilistici il principio Oic 15, al paragrafo 59, dispone che la svalutazione del credito deve essere operata «nell’esercizio in cui si ritiene probabile che il credito abbia perso valore». Il valore del credito va rettificato per tenere conto della perdita di valore stimata, mediante un apposito fondo di svalutazione. Dunque, i crediti sono rappresentati in bilancio al netto del fondo svalutazione crediti. Fondo che «è utilizzato negli esercizi successivi a copertura di perdite realizzate sui crediti» (Oic 15, paragrafo 65).

Ai fini fiscali la deducibilità della svalutazione crediti è legata a parametri quantitativi e quindi a prescindere dalla presenza di crediti effettivamente di dubbia esigibilità. L’articolo 106, comma 1, del Tuir consente la deducibilità della svalutazione dei crediti non assicurati nel limite dello 0,50% annuo del valore nominale dei crediti; fino però a un totale massimo del 5% del valore nominale dei crediti. L’eventuale superamento del limite del 5% (ad esempio per drastica riduzione dell’importo dei crediti a bilancio) impone la tassazione immediata dell’intero importo eccedente. In pratica, la norma fiscale consente la deducibilità della svalutazione in modo massivo senza alcuna indagine sulle caratteristiche dei crediti, ma ponendo uno sbarramento massimo rispetto all’importo della svalutazione.

Per quanto attiene ai crediti assicurati da escludere dalla base di calcolo dello 0,5%, la risposta a interpello 340/2023 ha chiarito che tale importo si determina con riferimento ai «massimali» delle polizze assicurative. Pertanto, devono ritenersi esclusi dal plafond di calcolo delle svalutazioni deducibili ai fini Ires i crediti commerciali coperti dai massimali di polizza, senza tener conto delle relative franchigie, che concorreranno a determinare le perdite su crediti nei periodi d’imposta in cui saranno soddisfatti i requisiti ex articolo 101, comma 5, del Tuir.

La compilazione del Redditi SC

La svalutazione dei crediti commerciali richiede la compilazione in primo luogo del quadro RS destinato ai crediti, sezione II, righi da RS64 a RS69 (per soggetti diversi da enti creditizi e finanziari), dedicato al coordinamento tra dati di bilancio e dichiarazione dei redditi. Il rigo RS64 va compilato inserendo il valore complessivo delle svalutazioni risultanti a fine 2022, distinguendo importo di bilancio (colonna 1) e importo fiscale (colonna 2). Nel rigo RS65 vanno indicate le perdite dell’esercizio: a colonna 1 le perdite da bilancio e a colonna 2 le perdite fiscalmente deducibili. Il rigo RS66 (solo ai fini fiscali) determina la differenza fra questi due importi, quale accantonamento residuo.

Nel rigo RS67 vanno inserite le svalutazioni dell’esercizio, nell’importo da bilancio e fiscale, conducendo quindi all’importo complessivo delle svalutazioni a fine 2023 (RS68), da rapportare al valore dei crediti a bilancio esposti ai fini fiscali al lordo del fondo svalutazione crediti (RS69, colonna 2).

Se in esito ai dati del quadro RS l’accantonamento operato nell’esercizio risultasse superiore allo 0,5% del valore di bilancio dei crediti, si determinerebbe una svalutazione in tutto o in parte fiscalmente deducibile da esporre a rigo RF31 (altre variazioni in aumento) utilizzando il codice 41 (eccedenza delle svalutazioni su crediti rispetto all’importo fiscalmente deducibile). Stesso meccanismo opera in caso di superamento della soglia assoluta del 5% per eccesso di accantonamenti complessivamente operati (si veda l’esempio a lato).

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Spa detenuta da una holding: chi è il «titolare effettivo»

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 8 Luglio 2024 di Luigi Ferrajoli e Francesco Ferrajoli

Diritto societario

Una holding detiene il 100% del capitale sociale di una società per azioni (Spa). Soci della holding sono cinque persone fisiche, legate tra loro da vincoli familiari. Tre soci hanno, ciascuno, una quota pari al 26,5 per cento, il quarto socio ha il 4,65% e il quinto ha il 15,85 per cento.

Alla luce delle faq (risposte a domande frequenti) del ministero dell’Economia e finanze (Mef) di novembre 2023, come si individua il titolare effettivo della società per azioni? È corretto identificarlo nel rappresentante legale della Spa?

Nel caso in cui una società di capitali sia partecipata da un’altra società di capitali e quest’ultima possegga una percentuale di partecipazione superiore al 25 per cento, ai fini dell’individuazione del titolare effettivo della società partecipata, è necessario applicare l’articolo 20, comma 2, lettera b, del Dlgs 231/2007, secondo cui «costituisce indicazione di proprietà indiretta la titolarità di una percentuale di partecipazioni superiore al 25 per cento del capitale del cliente, posseduto per il tramite di società controllate, società fiduciarie o per interposta persona». In tali circostanze è, pertanto, essenziale individuare la persona fisica indirettamente proprietaria della partecipazione rilevante, risalendo nella catena partecipativa attraverso il criterio del “controllo”.

Qualora la società socia non sia una società fiduciaria, il titolare effettivo va, quindi, identificato nella persona fisica (o nelle persone fisiche) che “controlla” (o che “controllano”) la società socia.

La nozione di “controllo” ha nel tempo posto problemi interpretativi, risolti dal Mef, il quale, nelle proprie faq, ha chiarito che, «per l’ipotesi di proprietà indiretta, per il tramite di società controllate, la soglia del 25% +1 va considerata esclusivamente in relazione al capitale della società cliente, al quale si fa espressamente riferimento, risalendo poi la catena partecipativa per individuare la persona fisica o le persone fisiche che esercitano il controllo ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del Codice civile».

Pertanto, l’identificazione del titolare effettivo va realizzata partendo dall’individuazione delle società titolari di una partecipazione superiore al 25% nel capitale della società partecipata, e qualificando come titolari effettivi tutte le persone fisiche che le controllano.Nel caso prospettato, va rilevato che, essendovi una holding che detiene il 100% delle partecipazioni della Spa, i titolari effettivi di quest’ultima saranno dunque tutte le persone fisiche che controllano la holding.

In tal senso, sembra quindi possibile escludere dal processo di individuazione i soci di minoranza della holding (il quarto e il quinto socio), mentre, in presenza di tre soci di maggioranza della holding con identiche percentuali di partecipazione, appare ragionevole affermare che tutti loro vadano individuati quali titolari effettivi della Spa.

 

La faq del ministero dell’Economia e finanze n. 8 di novembre 2023, secondo cui, in applicazione del criterio residuale di cui all’articolo 20, comma 5, del Dlgs 231/2007, «il titolare effettivo va individuato nella figura del soggetto titolare di poteri di rappresentanza legale, amministrazione o direzione quali, esemplificativamente, il rappresentante legale, gli amministratori esecutivi o i direttori generali della società o del cliente comunque diverso dalla persona fisica», non sembra utile a fornire compiuta risposta al caso di specie, poiché non sussiste, stando a quanto argomentato, l’impossibilità di procedere alla individuazione univoca del titolare effettivo della società holding posta al vertice della catena partecipativa in questione.

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Brani musicali, le regole d’uso nei prodotti audiovisivi

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 8 Luglio 2024 di Giulia Casamento e Andrea Rinaldi

Marchi, brevetti, diritto d’autore

Una piccola casa di produzione, che si occupa della creazione di documentari e serie televisive, ha sviluppato un progetto che prevede l’uso – come sottofondo nelle scene – di brani musicali di noti artisti.

Quali sono le implicazioni legali associate al diritto di sincronizzazione per l’uso di tali brani musicali nei lavori della casa di produzione?

La sincronizzazione è un’attività ampiamente diffusa nell’ambito del settore cinematografico e pubblicitario. Essa consiste nell’associazione tra un’opera musicale e un’immagine finalizzata a realizzare un’opera di carattere audiovisivo (per esempio film, medio-cortometraggi, reclame, spot pubblicitari).

In quanto forma di sfruttamento dell’opera, il diritto di sincronizzazione rientra nell’ambito dei diritti esclusivi riconosciuti all’autore. La normativa in tema di diritto d’autore stabilisce, infatti, che l’autore è l’unico soggetto legittimato a utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo, originale e/o derivato (articolo 12 della legge 633/1941), nonché ad adattare e registrare l’opera su qualunque supporto (con qualunque tecnologia), riprodurla, distribuirla, noleggiarla e darla in prestito, eseguirla e comunicarla al pubblico (con qualunque supporto), in base all’articolo 61 della legge 633/1941.

La sincronizzazione di un’opera musicale necessita, pertanto, dell’autorizzazione specifica dell’autore (o dell’editore) titolare dei diritti sull’opera.

Unitamente a tale autorizzazione, è necessario ottenere il consenso da parte del produttore fonografico, o del soggetto (persona fisica o giuridica) che assume l’iniziativa e la responsabilità della prima fissazione dei suoni provenienti da una interpretazione e/o esecuzione, e che, in quanto tale, detiene i diritti sul fonogramma, o sulla registrazione e/o fissazione dell’opera (articolo 78 della legge 633/1941 ).

Opera musicale e fonogramma sono, infatti, entrambi tutelati dalla legge sul diritto d’autore, che riconosce ai rispettivi titolari determinati diritti. I diritti riconosciuti al produttore fonografico ricalcano sostanzialmente i diritti riconosciuti all’autore e consistono, in particolare, nel diritto di riproduzione, distribuzione, noleggio, prestito, esecuzione e comunicazione al pubblico (articolo 72 della legge 633/1941).

In aggiunta a tali diritti, al produttore di fonogrammi è riconosciuto il diritto a un compenso per l’utilizzazione a scopo di lucro di ciascun fonogramma a mezzo della cinematografia, della diffusione radiofonica e televisiva, compresa la comunicazione al pubblico via satellite, nelle pubbliche feste danzanti, nei pubblici esercizi e in occasione di qualsiasi altra pubblica utilizzazione dei fonogrammi stessi (articolo 73 della legge 633/1941).

Al fine di poter procedere con l’attività di sincronizzazione è, pertanto, necessario individuare i titolari effettivi dell’opera musicale e del fonogramma. Tendenzialmente, il produttore fonografico e l’editore corrispondono a due entità giuridiche distinte, ma, tuttavia, possono anche fare capo a un’unica entità giuridica (circostanza che semplifica il processo di individuazione e di negoziazione dei diritti).

Nel caso prospettato dal quesito, l’uso di brani musicali ai fini della realizzazione di un progetto audiovisivo implica la necessità di ottenere licenze di sincronizzazione dell’opera musicale da parte dell’autore (o dell’editore) titolare dei diritti di sfruttamento sull’opera, nonché di un’autorizzazione da parte del produttore fonografico detentore dei diritti sul fonogramma.

Si segnala che, in aggiunta alla licenza per la sincronizzazione dell’opera musicale, in funzione degli sfruttamenti prefissati dal licenziatario (colui che richiede la concessione di una licenza), è opportuno considerare la necessità di ottenere un’ulteriore licenza, avente a oggetto i successivi utilizzi dell’opera sincronizzata – quali riproduzione, distribuzione, noleggio e prestito, esecuzione e comunicazione al pubblico – in assenza della quale l’opera non potrebbe essere compiutamente utilizzata

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Diritti, sostenibilità e clima: la direttiva Ue entra in azienda

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 6 luglio 2024 di Marina Castellaneta

Pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea di ieri (serie L) la direttiva 2024/1760 sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità che modifica la 2019/1937 e il regolamento 2023/2859.

La direttiva Csdd (Corporate sustainability due diligence directive) dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 26 luglio 2026. Tempi brevi, quindi, che impongono alle società di grandi dimensioni, con specifiche caratteristiche di fatturato e numero di dipendenti, di partire subito con l’attivazione delle procedure richieste per garantire il rispetto dei diritti umani e l’ambiente. Questo anche perché l’ambito di applicazione è ad ampio raggio in quanto coinvolge l’intera catena dell’attività, obbligando al rispetto della due diligence nella supply chain e nella gestione del rischio. Le società dovranno essere pronte anche coi piani di transizione climatica, in linea con l’accordo di Parigi.

Ci sono voluti due anni per arrivare a un’intesa tra il Parlamento Ue e il Consiglio, intervenuti in parte annacquando la proposta presentata dalla Commissione europea nel 2022.

Nessun dubbio, però, sulla rilevanza della direttiva che permette l’ingresso in un atto vincolante del contenuto di codici di condotta e atti di soft law indirizzati alla sostenibilità e alla tutela dei diritti umani e dei lavoratori e, in particolare, dei principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani.

Col nuovo sistema, le imprese di grandi dimensioni, con inizio temporalmente diversificato, dovranno rispettare nuovi obblighi per limitare gli impatti negativi in questi settori. In caso di violazione scatteranno misure per accertare la responsabilità delle imprese, incluse le attività delle filiazioni e dei partner commerciali parte della catena di attività della società.

Ambito di applicazione

Riguardo all’ambito di applicazione, la direttiva è rivolta alle società costituite secondo la normativa di uno Stato membro (e anche di Stati terzi con fatturato generato nell’Ue) che abbiano, in media, più di mille dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale superiore a 450.000.000 euro nell’ultimo esercizio di adozione del bilancio d’esercizio.

È stato possibile ampliare l’ambito di applicazione, seppur in modo più limitato rispetto agli obiettivi di partenza, anche alle società che non raggiungono i criteri previsti dall’articolo 2, lettera a, se si tratta di società capogruppo di un gruppo che ha raggiunto i limiti previsti o accordi di franchising o licenza nell’Unione «in cambio di diritti di licenza con società terze indipendenti se gli accordi garantiscano un’identità comune».

Processo in sei fasi

Le società destinatarie degli obblighi dovranno rispettare il processo di attuazione del dovere di diligenza in sei fasi: integrazione della due diligence nelle politiche e nei sistemi di gestione, individuazione e valutazione degli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente, la prevenzione, l’arresto o la minimizzazione degli impatti negativi effettivi o potenziali, il monitoraggio e la valutazione delle misure, la comunicazione e la riparazione. Inoltre, è previsto un sistema per azioni di risarcimento danni a vantaggio di persone fisiche e giuridiche, con l’obbligo per gli Stati di prevedere termini di prescrizione non inferiori ai cinque anni.

Sistema di controllo

È stato attivato un sistema ramificato di controllo: la Commissione dovrà istituire un help desk unico che lavorerà con autorità nazionali e Stati membri, i quali dovranno prevedere le autorità di controllo competenti a vigilare sul rispetto degli obblighi.

Tra i poteri delle autorità di controllo, la possibilità di avviare indagini di propria iniziativa o dopo segnalazione e di effettuare ispezioni, anche transfrontaliere, coordinandosi con gli altri Stati.

Dovranno poi essere predisposti meccanismi di notifica e procedure di reclamo, attivabili da persone fisiche o giuridiche colpite da un impatto negativo o che hanno motivo di ritenere che saranno colpite, da sindacati, altri rappresentanti dei lavoratori e organizzazioni della società civile.

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Residenza fiscale, nuove norme senza retroattività

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 19 luglio 2024 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Le nuove regole sulla residenza fiscale introdotte valgono dal 1° gennaio 2024 e non possono essere applicate retroattivamente, in quanto non si tratta di norme interpretative. Ad affermarlo è la sentenza 19843/2024 della Cassazione, depositata il 18 luglio.

La vicenda trae origine dal ricorso proposto da un contribuente residente nel Principato di Monaco avverso un avviso di accertamento con il quale l’Ufficio contestava la residenza fiscale in Italia, dal momento che aveva mantenuto sul territorio nazionale il centro dei propri interessi vitali. Il giudice di primo grado accoglieva il ricorso, ma la sentenza veniva riformata in appello. Il contribuente ricorreva così in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, l’errata applicazione delle norme in materia di residenza previste dal Tuir.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che l’articolo 2 del Dpr 917/1986 è stato di recente modificato, introducendo un concetto di domicilio valevole ai fini fiscali.

Più precisamente, prima della novella, la norma mutuava la nozione di residenza e domicilio dal Codice civile, secondo il quale per residenza si intende il luogo in cui la persona ha la dimora abituale e, per domicilio, il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi.

Con la modifica, solo la residenza è rimasta legata al Codice civile, mentre per il domicilio è stata introdotta una specifica nozione. Ora, infatti, per domicilio deve intendersi il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona.

Tuttavia, la Cassazione ha rilevato che la decorrenza di tale modifica è stata individuata nel 1° gennaio 2024 ed il testo non fornisce alcun elemento idoneo a qualificare questa disposizione di interpretazione autentica.

Tanto più che di fatto la definizione di domicilio incide sulle condizioni fattuali che determinano la soggettività passiva e, quindi, sull’onere della prova, con l’evidente conseguenza che non può avere alcuna efficacia antecedente al 1° gennaio 2024. Solo da tale data, per l’individuazione del domicilio avranno rilevanza le relazioni personali in via principale.

Per il passato, secondo la Suprema Corte, in base ad alcuni orientamenti giurisprudenziali sia nazionali sia unionali, le relazioni affettive e familiari del contribuente non rivestono un ruolo prioritario, ma rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo con il quale il soggetto ha il più stretto collegamento riconoscibile dai terzi.

È stato così affermato il principio secondo cui il concetto di domicilio, nella versione applicabile fino al 1° gennaio 2024, coincide con il centro degli affari e degli interessi vitali della persona, dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi, non rivestendo priorità le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri.

Alla luce di questo principio, è stato rigettato il ricorso del contribuente: i giudici di appello, infatti, ritenevano che in Italia sussistessero interessi patrimoniali riconoscibili a terzi, individuati nell’esercizio fattivo di cariche sociali in diverse imprese, oltre che proprietà immobiliari gestite da terzi e comunque anche interessi personali e familiari.

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Influencer e content creator, braccio di ferro sui contributi Enasarco

6 Agosto 2024

Il Sole 24 Ore 21 luglio 2024 di Mauro Pizzin

Previdenza. Forte della sentenza del Tribunale di Roma che ne ha imposto il versamento l’ente spinge sul governo per allargare la base contributiva

La sentenza 2615/2024 del 4 marzo con cui il Tribunale di Roma, in seguito a un accertamento ispettivo di Enasarco, ha deciso che l’influencer il quale promuova stabilmente e con continuità in rete i prodotti di un’azienda è inquadrabile come agente di commercio ha posto sotto i riflettori la questione dell’inquadramento nella cassa di questa nuova categoria professionale (si veda il Sole 24 Ore del 24 maggio scorso).

L’ente di previdenza integrativa obbligatoria dei professionisti dell’intermediazione commerciale e finanziaria con contratto di agenzia o rappresentanza da tempo vorrebbe, infatti, portare gli influencer entro il suo perimetro contributivo. «Fondazione Enasarco – conferma il presidente Alfonsino Mei – ha la necessità di aumentare la propria base contributiva per la stabilità su una prospettiva di 50 anni, come imposto dai ministeri vigilanti, così da riequilibrare il rapporto tra contributori e pensionati. Ora come ora, perdiamo migliaia di agenti ogni anno anche per la crescita delle piattaforme commerciali. In questo contesto vorremmo coinvolgere anche gli influencer nella nostra base contributiva per includere anche i giovani e per fare ciò abbiamo bisogno di un intervento del Governo, con cui stiamo interloquendo».

All’ingresso in Enasarco sono contrarie sia Aicdc, l’Associazione italiana content & digital creators fondata nel 2023 e che conta oltre 700 membri, sia Assoinfluencer, costituita nel 2019 e inserita nell’elenco delle associazioni professionali di cui alla legge 4/2013, nonché nella rete nazionale di Confcommercio professioni. Si tratta di due importanti realtà associative attive in quel comparto della creator economy che si stima coinvolga 350mila professionisti, per un giro d’affari potenziale di 2,55 miliardi.

Molte le motivazioni sul no alla cassa previdenziale, «a partire – sottolinea la presidente di Aicdc, Sara Zanotelli – da una differenza sostanziale data dal fatto che l’attività degli agenti di commercio è orientata alla vendita, mentre quella del content creator a una rosa di obiettivi di cui la promozione commerciale è solo una parte. Gli agenti, inoltre, guadagnano sulla base di quanto vendono, mentre i creator non sono legati per il loro compenso a un raggiungimento preciso di un obiettivo di vendita, quanto alla promozione del prodotto presso la propria comunità di followers».

Secondo Aicdc esistono poi altre differenze più tecniche: «L’agente di commercio – continua Zanotelli – è un soggetto che deve possedere, in fase di apertura dell’attività, un certo numero di requisiti professionali che vanno preventivamente verificati e non è detto che gli influencer ne siano in possesso. L’agente, poi, viene insignito di un pacchetto clienti, ha un mandato all’incasso, può concludere operazioni per conto del committente e gode di un’indennità meritocratica: tutti parametri ritenuti inapplicabili per gli influencer, che non “gestiscono” alcun pacchetto clienti».

In attesa di un pronunciamento ministeriale (la situazione attuale, secondo quanto risulta al Sole 24 Ore, è di stallo) la partita sul pagamento di Enasarco si giocherà nei tribunali, in seguito agli accertamenti ispettivi della Fondazione, come è già successo nel caso del Tribunale di Roma, in un contesto in cui le imprese e gli stessi influencer hanno cominciato a richiedere assistenza legale per rivedere i contratti ed evitare sanzioni e ulteriori costi e a valutare se sia davvero necessaria l’iscrizione alla Cassa (si veda l’articolo pubblicato su Nt+Diritto il 24 giugno scorso).

Sul fronte giudiziario, la premessa di Aicdc è che la sentenza romana è formalmente corretta: se l’agente di commercio svolge la professione anche sui social è corretto che versi i contributi Enasarco. Ciò che l’associazione mette in discussione è l’interpretazione della sentenza, perché un agente di commercio può lavorare anche sui social, ma non è detto che un content creator che lavori sui social sia inquadrabile come agente di commercio.

Poco preoccupato della portata della decisione del tribunale romano si dice il presidente di Assoinfluencer, Jacopo Ierussi, secondo cui «una sentenza trova il tempo che trova. A mio avviso questo orientamento è figlio di una mancata o non completa comprensione del fenomeno. Peraltro, secondo la Cassazione l’attività di promozione della conclusione di contratti per conto del preponente, che costituisce l’obbligazione tipica dell’agente, non può consistere in una mera attività di propaganda, da cui possa solo indirettamente derivare un incremento delle vendite, ma deve consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente a effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente, atteso che è proprio con riguardo a questo risultato che viene attribuito all’agente il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi per suo tramite e andati a buon fine. Basandoci su questo presupposto di partenza, naturalmente confliggente con le dinamiche tipiche della content creation economy, è facile comprendere come far rientrare gli influencer nell’area Enasarco appaia una forzatura».

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Riserva di utili da potenziare per il debito da dividendi

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 10 giugno 2024 di Sergio Pellegrino e Lucia Recchioni

In base all’articolo 2949 del Codice civile, i diritti che derivano dai rapporti sociali, come ad esempio i dividendi, si prescrivono in cinque anni se la società è iscritta nel Registro delle imprese.

Ci si potrebbe quindi chiedere come deve essere trattata fiscalmente, in capo alla società, la prescrizione del debito da dividendi, e come questa debba trovare rappresentazione nel prospetto del capitale e delle riserve del quadro RS del modello Redditi.

Utili spunti possono essere tratti dalla sentenza Ctr Friuli Venezia Giulia 19/2020, riguardante un avviso di accertamento emesso nei confronti del socio per omessa dichiarazione di dividendi la cui prescrizione era stata rilevata contabilmente dalla società.

I giudici, nel ritenere non applicabile, nel caso in esame, la teoria dell’incasso giuridico, hanno evidenziato che «la prescrizione non fa emergere alcuna sopravvenienza attiva e correttamente la società ha registrato l’estinzione del debito tra le riserve di utili facenti parte del patrimonio netto: ciò sta a significare che solo in caso di distribuzione delle riserve di patrimonio netto, il socio sarà tenuto a versare l’imposta dovuta, diversamente si verificherebbe una doppia imposizione dello stesso reddito, in quanto l’utile già tassato una prima volta, verrebbe tassato una seconda volta quale sopravvenienza attiva».

Dovendo escludere, quindi, la rilevazione di un componente positivo di reddito a fronte della cancellazione del debito (come potrebbe avvenire per la prescrizione dei debiti nei confronti di soggetti diversi dai soci), si ritiene che la contropartita possa essere rappresentata, alla luce della sentenza citata, da una riserva di utili.

Dalla lettura del principio contabile Oic 28 si potrebbe desumere anche la possibilità di iscrizione di una riserva di capitali, nel caso in cui l’operazione, sostanzialmente assimilata a una rinuncia al credito (pur non potendo essere considerata pacificamente tale), mostrasse una volontà di rafforzamento patrimoniale della società. Tale finalità, tuttavia, si ritiene difficilmente dimostrabile nel caso della prescrizione, la quale presuppone il mancato esercizio dei diritti per un determinato lasso di tempo.

Pertanto, si ritiene che, a fronte dell’eliminazione del debito, debba essere incrementata una riserva di utili del patrimonio netto.

Continuando a concentrarsi sulla tassazione delle società, ci si potrebbe infine chiedere se può applicarsi l’articolo 88, comma 4-bis, del Tuir, in forza del quale la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Anche in tal caso si ritiene che la prescrizione non possa essere assimilata a una rinuncia, dovendo tra l’altro aggiungersi che non vi sarebbe alcuna corrispondenza con componenti negativi dedotti (o, comunque, deducibili) in precedenti esercizi.

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Immobile ereditato all’estero: plusvalenza esente in Italia

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 1 Luglio 2024 di Alfredo Calvano e Attilio Calvano

Un cittadino italiano, residente in Italia, realizza una plusvalenza per la cessione di una casa sita all’estero, ereditata da più di cinque anni dal padre, che era un cittadino italiano iscritto all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero).

Si chiede se la plusvalenza è soggetta a tassazione in Italia.

Si segnala l’operatività delle esimenti reddituali – di natura temporale o giuridica – riconosciute, in alternativa fra loro, dall’articolo 67, lettera b), del Tuir (Dpr 917/1986), in caso di vendita dell’immobile (fabbricato o terreno non edificabile) ancorché situato all’estero.

Pertanto, la plusvalenza realizzata nel caso descritto dal quesito non è imponibile, in quanto il bene è stato acquisito per successione ereditaria (questa esimente assorbe quella rappresentata dal possesso ultraquinquennale, rilevante in caso di acquisto oneroso), a prescindere dalla soggettività fiscale, nazionale o estera, del defunto, come pure dalla collocazione territoriale dell’immobile oggetto di vendita.

Tanto considerato, occorre, tuttavia, che venga valutato anche il regime impositivo dello Stato estero in cui è ubicato l’immobile, alla luce delle norme convenzionali contro le doppie imposizioni, che potrebbero disporre comunque la tassazione (solitamente esclusiva) della vendita nello stesso Stato estero.

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Riciclaggio, Montecarlo nella lista grigia dei Paesi sotto osservazione

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 29 giugno 2024 di Giovanni Parente e Valerio Vallefuoco

Sotto osservazione. Il Principato di Monaco (Montecarlo) e il Venezuela entrano in lista grigia antiriciclaggio. Lista grigia da cui escono invece Giamaica e Turchia. A stabilirlo è stato il Gafi (gruppo di azione finanziaria internazionale) nella sua riunione plenaria svoltasi a Singapore. Una decisione che per il Principato monegasco era nell’aria  e che è arriva nonostante i passi avanti riconosciuti dallo stesso Gafi: Monaco ha compiuto progressi significativi su molte delle azioni raccomandate, tra cui l’istituzione di una nuova unità combinata di informazione finanziaria e di vigilanza antiriciclaggio, rafforzando il suo approccio sull’individuazione del finanziamento del terrorismo ma anche applicando sanzioni finanziarie mirate e una supervisione delle organizzazioni senza scopo di lucro basata sull’analisi di rischio.

Con l’ingresso in lista grigia il Gafi adotta un monitoraggio rafforzato che di fatto servirà a verificare gli esiti lungo un percorso che prevede una serie di direttrici già definite. Gli aspetti su cui Monaco dovrà effettuare passi in avanti riguardano vanno dalla capacità di comprensione del rischio in relazione al riciclaggio di denaro e alle frodi fiscali sul reddito commesse all’estero all’aumento dei sequestri il sequestro di beni sospettati di derivare da attività criminali, passando anche dall’applicazioni di sanzioni efficaci, dissuasive e proporzionate per il riciclaggio di denaro. Il governo del Principato ha assicurato in una nota il massimo impegno per un’uscita dalla lista secondo il calendario indicato e ha ricordato come sia stato messo a punto un calendario che si estende fino al gennaio 2026 che prevede due tappe intermedie, a maggio 2025 e settembre 2025. E il Principato conferma la sua «determinazione ad attuare le nuove raccomandazioni» indicate dal Gafi.

Ma quali sono gli effetti pratici dell’inserimento di un Paese nelle liste Gafi per gli operatori? Se il cliente proviene da un Paese compreso nelle liste Gafi o se l’oggetto dell’operazione ha tali Paesi come aree geografiche di destinazione, diventa opportuno almeno acquisire informazioni aggiuntive sul cliente e sul titolare effettivo, approfondendo gli elementi posti a fondamento delle valutazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto, intensificando la frequenza dell’applicazione delle procedure finalizzate a garantire il controllo costante nel corso del rapporto continuativo o della prestazione professionale.

In questi casi può essere quindi dovuta un’adeguata verifica «rafforzata» che prevede maggiori controlli e intensità degli stessi da parte dei soggetti obbligati. In generale, in questo caso è opportuno valutare se sussiste una valida ragione economica o legale che renda plausibile la tipologia di rapporto continuativo o di operazione richiesti dal cliente o se le necessità finanziarie del cliente possano essere più propriamente soddisfatte nel Paese di residenza o in cui il cliente ha sede.

Gli effetti che ne derivano si ripercuotono sul trattamento sanzionatorio. In alcuni casi, quando vengono omessi gli obblighi antiriciclaggio su operazioni e soggetti che provengono da Paesi inclusi nelle liste grigie, la violazione e la sanzione potrebbe essere considerata grave e quindi ricadere nelle ipotesi di contestazioni qualificate da parte delle Autorità. Tali sanzioni qualificate, oltre ad essere rilevanti dal punto di vista economico, comportano anche in alcuni casi la pubblicazione con ricadute in termini reputazionali.

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Banca responsabile per il pagamento all’Iban errato indicato dall’utente

8 Luglio 2024

Il Sole 24 Ore 26 giugno 2024 di Angelo Busani

La banca che accredita un Iban indicato in modo errato da chi ha disposto il bonifico, il quale invece dovrebbe essere diretto a un beneficiario che non è titolare di un conto di accredito presso la banca stessa, è responsabile nei confronti del beneficiario rimasto insoddisfatto. A meno che non dimostri di aver adottato le cautele necessarie per evitare l’errato accredito oppure a meno che non dimostri di essersi adeguatamente adoperata per consentire al pagatore la individuazione del soggetto destinatario del pagamento, anche comunicandogli, ove necessario, i dati anagrafici o societari.

Questa esigenza scavalca infatti ogni interesse di tutela della privacy in quanto l’interesse alla riservatezza dei dati personali cede di fronte alla necessità di tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti, quale quello del beneficiario di un pagamento di poterlo effettivamente ricevere.

È questa la decisione della Cassazione, nell’ ordinanza n. 17415 di ieri, ove si distingue la responsabilità della banca che esegua un’operazione di pagamento a seguito di una disposizione di pagamento errata nel caso che l’operazione provochi un danno al proprio cliente, il quale utilizza il servizio bancario di pagamento in veste di pagatore o quale destinatario dei fondi oggetto dell’operazione, rispetto al caso in cui l’operazione provochi un danno al beneficiario di una disposizione di pagamento che non sia titolare di un conto di accredito presso la banca stessa.

Nella prima ipotesi, per invocare la responsabilità della banca è necessario dimostrare la sua consapevolezza circa l’errore del cliente. La banca, per essere ritenuta esente da colpa, può limitarsi a dimostrare di aver eseguito l’operazione utilizzando il sistema interamente automatizzato di pagamento, il quale di per sé esclude di dover eseguire un controllo di congruità dell’operazione. In sostanza, il pagamento automatico rende la banca inconsapevole dell’eventuale errore dell’utente del servizio di pagamento, con la conseguenza che spetta a quest’ultimo dimostrare che la banca aveva comunque acquisito la consapevolezza dell’ordine errato.

Nella seconda ipotesi, invece, la banca ha un dovere di diligenza nei confronti dell’effettivo beneficiario rimasto insoddisfatto e quindi, per liberarsi da responsabilità deve provare di aver agito adottando tutte le cautele necessarie al fine di scongiurare il rischio di un’erronea individuazione del beneficiario del pagamento o, quanto meno, deve dimostrare di essersi comportata in modo da rendere possibile la individuazione del soggetto gratificato dal pagamento erroneamente effettuato.

A quest’ultimo riguardo i prestatori di servizi di pagamento – limitatamente ai casi in cui, anche senza porre in essere verifiche specifiche, siano comunque consapevoli dell’inesattezza dell’Iban fornito dal proprio cliente – devono adoperarsi affinché l’operazione di pagamento venga eseguita correttamente: il prestatore che esegua l’operazione di pagamento malgrado sia consapevole dell’inesattezza dell’Iban tiene infatti una condotta volutamente pregiudizievole degli interessi del proprio cliente.

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