Consiglieri senza deleghe sanzionati per l’inerzia nell’attendere le risposte

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 23 aprile 2024 di Giovanni Negri

Non è legittimo un atteggiamento «inerte» del consigliere di amministrazione, anche nel caso di semplice Srl. Non importa che l’amministratore sia privo di deleghe e che le informazioni richieste e ottenute dal management esecutivo siano insufficienti. Lo afferma la Cassazione con l’ordinanza 10739 della prima sezione civile depositata ieri. La Corte ha così confermato la condanna in appello (in primo grado erano stati assolti) a pagare circa 700mila euro al fallimento di una Srl a carico di tre componenti del Cda di una Srl. Responsabilità riconosciuta per non avere vigilato sulla condotta dell’amministratore delegato e sulle sue operazioni illecite e di dissipazione.

Per la Cassazione, il dovere di agire in modo informato e il corrispondente diritto individuale di chiedere informazioni escludono, «che i componenti del consiglio di amministrazione siano autorizzati ad assumere un atteggiamento, per così dire, “inerte” e possano, dunque, limitarsi semplicemente ad attendere la trasmissione delle informazioni gestorie da parte degli organi delegati e a verificare il relativo contenuto solo se e nella misura in cui tali informazioni siano state effettivamente fornite»

Hanno piuttosto l’obbligo (da esercitare, a seconda dei casi e delle reazioni, sia in forma individuale, sia in forma collegiale) di sindacare la tempestività delle informazioni eventualmente ricevute e di verificarne la completezza e l’attendibilità. Nei casi più seri ai consiglieri di amministrazione tocca il compito di adottare o proporre rimedi giuridici incisivi e comunque adeguati alla situazione. In particolare, tra gli strumenti possibili, la revoca della delega di gestione o dell’amministratore delegato stesso, l’avocazione al consiglio delle operazioni che rientrano nella delega, l’attivazione nei confronti dell’ad di iniziative giudiziali, anche in via cautelare, e, in generale, di tutti gli strumenti per ripristinare un quadro informativo aggiornato.

L’amministratore privo di deleghe, allora, quando ha rilevato (o avrebbe dovuto diligentemente rilevare) l’insufficienza, l’incompletezza o l’inaffidabilità delle relazioni informative che gli amministratori delegati hanno il dovere di trasmettergli e, più in generale, quando ha percepito (o avrebbe dovuto diligentemente percepire) l’esistenza di circostanze “sospette”, indizi di un fatto illecito già compiuto o in corso (i cosiddetti «segnali di allarme», valorizzati dalla disciplina sulla crisi d’impresa), ha il potere (e, quindi, il dovere) di attivarsi per chiedere agli amministratori delegati di fornire le informazioni dovute. Senza potere invocare a propria discolpa il fatto che le informazioni fornite sono state carenti o insufficienti o addirittura omesse del tutto. In questo caso infatti, sottolinea ancora l’ordinanza, emerge una responsabilità solidale con l’amministratore delegato.

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DDT, quale causale va usata per beni destinati a cantieri

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2024 di Simona Ficola

Un’azienda costruttrice stipula contratti per la realizzazione di piscine.

Attualmente, quando si inizia un lavoro, vengono emessi documenti di trasporto (Ddt) intestati al cliente ogniqualvolta è necessario portare materiale nel cantiere del committente. Tali Ddt hanno causale di trasporto “vendita”, e a essi segue regolare fatturazione differita secondo le modalità di legge, elencando tutti i Ddt.Si chiede se è possibile emettere Ddt con causale “materiale in conto cantiere”, anziché “vendita”, e indicando il contratto, senza, quindi, l’obbligo di emettere fattura differita, e anche per evitare di fatturare importi il cui incasso non segue le modalità previste nel contratto. In altre parole, si domanda se sia corretta la procedura di fatturazione differita al momento dell’incasso reale, riportando nel corpo della fattura l’elenco dei Ddt, con numero e data, emessi con la causale sopra indicata.

Il Ddt è idoneo a superare le presunzioni di cui al Dpr 441/1997 in caso di consegna dei beni a titolo non traslativo della proprietà (lavorazione, deposito, comodato, in dipendenza di contratti estimatori o d’opera, di appalto, trasporto, mandato o commissione eccetera), purché sia riportata sul documento la causale non traslativa del trasporto e purché il documento sia conservato a norma dell’articolo 39 del Dpr 633/1972.

Qualora i beni trasportati al cantiere restino di proprietà della società, e gli effetti del contratto si producano solo a seguito dei diversi stato avanzamento lavori (Sal), si ritiene corretta la soluzione prospettata dal lettore. Al contrario, se i beni trasferiti al cantiere sono ceduti al cliente, sarà necessario procedere alla fatturazione, anche differita.

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Sindaci, responsabilità parametrata ai compensi

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 10 aprile 2024 di Federica Micardi

Buone notizie per i collegi sindacali. Ieri la Commissione giustizia alla Camera ha approvato la proposta di legge che ne limita la responsabilità. Ora il testo passa all’aula di Montecitorio.

La proposta di legge (C 1276) a prima firma della deputata di FdI Marta Schifone punta a modificare l’articolo 2407 del Codice civile, introducendo un limite alla responsabilità parametrato al compenso.

Il tema della responsabilità civile dei sindaci, solidale senza limiti con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, costituisce un punto critico della governance delle società di capitali. I sindaci hanno un compito di controllo ma non possono intervenire sulla gestione, che è di competenza degli amministratori. A ciò va aggiunto che gli emolumenti degli amministratori sono di gran lunga superiori a quelli dei sindaci, eppure la legge prevede un vincolo di solidarietà senza limiti tra i due ruoli, vincolo che in questi anni ha penalizzato proprio i sindaci; l’obbligo di assicurazione previsto per i professionisti li ha di fatto resi un facile bersaglio per cercare di recuperare quanto possibile. Come ha scritto l’onorevole Schifone nel presentare la propria proposta «l’attività di sindaco è quella che le polizze definiscono a maggiore rischiosità, anche per la sproporzione presente tra l’atto commesso e la responsabilità imputata».

La norma approvata ieri in Commissione giustizia prevede che, al di fuori delle ipotesi in cui i sindaci hanno agito con dolo, anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata dal collegio sindacale, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l’incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10mila euro 15 volte il compenso; per i compensi da 10mila a 50mila euro 12 volte il compenso; per i compensi maggiori di 50mila euro dieci volte il compenso. La limitazione al risarcimento, seppur con parametri differenti, non è una novità nel panorama europeo, è infatti prevista da diverse giurisdizioni come la Germania, la Grecia e il Regno Unito.

La proposta di legge interviene anche sui tempi di prescrizione e prevede che l’azione di responsabilità verso i sindaci si prescriva in cinque anni – invece degli attuali dieci – dal deposito della relazione relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno; in questo modo viene allineata ai termini previsti per i revisori (ruolo spesso ricoperto proprio dai sindaci).

Secondo la capogruppo in Commissione giustizia di Fratelli d’Italia e relatrice del testo di legge Carolina Varchi con questa approvazione «si compie un primo, importante passo per rendere più equilibrata e più chiara la normativa, evitando penalizzazioni spropositate ed evidenti storture».

Soddisfatto il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti Elbano de Nuccio: «Con il via libera della Commissione giustizia della Camera sulla proposta di legge che punta a modificare l’articolo 2407 del Codice civile, in materia di responsabilità dei componenti del collegio sindacale, ci avviciniamo sempre più a un traguardo storico per la nostra professione e, direi, per l’intero sistema dei controlli societari del nostro Paese. Siamo fiduciosi che l’iter parlamentare della norma possa ora essere rapido». de Nuccio ricorda che la perimetrazione della responsabilità civile dei componenti dell’organo di controllo è un obiettivo per il quale il Consiglio nazionale si è sempre battuto sin dal suo insediamento «e ora – conclude de Nuccio – grazie all’intensa attività di interlocuzione portata avanti con le istituzioni in questi ultimi anni, sembra essere finalmente a portata di mano».

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La stabile svizzera non fa società esterovestita

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore 9 aprile 2024 di Enrico Holzmiller

La stabile organizzazione è una sede secondaria estera di società residente; mentre la società esterovestita è una società “autonoma”, formalmente residente all’estero ma da considerarsi italiana ai fini fiscali. Se la distinzione concettuale è chiara, nella pratica è più fluida. La presunzione di residenza in Italia di entrambe le fattispecie pone infatti le basi su analoghi concetti, espressi dall’articolo 73 del Tuir (innovato con il Dlgs internazionalizzazione) con un occhio di riguardo anche alle disposizioni Ocse.

Sul fronte giurisprudenziale, una linea consolidata definisce la demarcazione tra le due fattispecie nell’esistenza o meno di un’effettiva attività, alla mancanza della quale viene attribuita natura abusiva e conseguentemente natura di esterovestizione. Vi sono delle (rare) eccezioni: le ordinanze di Cassazione 11709 e 11710 del 2022 hanno identificato un caso di esterovestizione in assenza di fenomeni abusivi. Sul punto è tornata la Cgt di secondo grado della Lombardia con la sentenza 2819/23 avente ad oggetto il caso di una società maltese, specializzata nella commercializzazione di prodotti energetici, con stabile organizzazione in Svizzera e rappresentanza fiscale ai fini Iva in Italia, alla quale l’Agenzia ha attribuito presuntivamente la natura di società esterovestita.

La posizione delle Entrate si è basata sull’inesistenza di un’attività reale in Svizzera (luogo in cui avrebbe dovuto avere sede la stabile della società maltese). Tale assunto, supportato dal fatto che il socio-amministratore della società maltese è risultato essere residente in Italia, ha portato l’Ufficio ad attribuire residenza fiscale della società maltese in Italia.

La società maltese, costituitasi in giudizio unitamente all’amministratore italiano, ha portato all’attenzione dei giudici varie prove atte a dimostrate l’effettivo insediamento della società in Svizzera, «come luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività sociale» (Cassazione 15424/21).

Le prove a supporto dell’esistenza della stabile in Svizzera sono state le seguenti: un contratto di locazione in una città Svizzera; presenza di personale; buste paga dalle quali si evince la corresponsione di salari per quattro dipendenti della succursale elvetica; estratti conto su istituti di credito Svizzeri, con accrediti degli importi pagati dai clienti; corrispondenza tra una società svizzera incaricata della tenuta della contabilità e i dipendenti della branch svizzera; corrispondenza commerciale intercorsa tra i clienti della società ed i dipendenti che vi operavano; prove dell’esistenza, in loco, di un direttore con poteri di firma (sarebbero, dalla lettura della sentenza, limitati all’ordinaria amministrazione). Sulla base di tali prove, la Cgt Lombardia arriva alla conclusione secondo cui sussiste una effettiva e concreta struttura in Svizzera, senza potersi giustificare quindi alcuna attrazione di residenza fiscale in Italia in qualità di società esterovestita, e ciò ancorché l’amministratore-socio sia risultato residente nel nostro Paese.

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Dividendi italiani sempre imponibili al 5% (non conta la Pex)

9 Maggio 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 8 aprile 2024 di Marco Piazza e Stefano Vignoli

Per le società di capitali che applicano i principi contabili nazionali e che investono in azioni (e titoli simili) la fiscalità varia notevolmente a seconda dell’iscrizione della partecipazione nell’attivo circolante o tra le immobilizzazioni e in funzione dei requisiti Pex.

I dividendi

Procediamo con ordine, partendo da un punto fermo: la tassazione dei dividendi italiani non varia in base ai requisiti Pex e al bilancio, poiché questi importi sono in ogni caso parzialmente imponibili (la dividend exemption è del 95%, secondo l’articolo 89, comma 1, del Tuir), in base al principio di cassa, ai soli fini Ires e senza assoggettamento a ritenuta.

Più penalizzati i dividendi esteri, perché se provengono da Paesi a fiscalità privilegiata sono tassati integralmente; altrimenti – se sono assoggettati a ritenuta all’estero – il corrispondente credito di imposta (spettante nei limiti previsti da eventuali convenzioni internazionali) viene riconosciuto solo nella misura del 5%, pari alla percentuale di imponibilità del dividendo (articolo 165, comma 10, del Tuir).

Le plusvalenze

Per le partecipazioni in società di capitali italiane e in società ed enti non residenti che hanno i requisiti Pex (articolo 87), iscritte nelle immobilizzazioni finanziarie, è prevista l’imponibilità limitata al 5% della plusvalenza, mentre l’eventuale minusvalenza non è deducibile, neppure nella misura limitata del 5% (articolo 101, comma 1, del Tuir).

La parziale esenzione spetta se la società svolge un’attività commerciale effettiva e non è localizzata in un Paese a fiscalità privilegiata, ed è verificato l’ininterrotto possesso della partecipazione dal primo giorno del dodicesimo mese antecedente la vendita: la cessione prima di tale termine determina pertanto la piena rilevanza della plusvalenza come della minusvalenza.

Le partecipazioni iscritte nell’attivo circolante generano plusvalenze (ricavi per il Tuir) interamente imponibili e minusvalenze pienamente deducibili.

Limiti alla deducibilità delle minusvalenze sono previsti per le società che cedono – entro 36 mesi dall’acquisto – partecipazioni che hanno distribuito dividendi (Tuir, articolo 109, comma 3-bis e seguenti).

In merito alla valutazione a fine esercizio, le svalutazioni sono indeducibili, così come non imponibili sono le rivalutazioni o i ripristini di valore a prescindere dalla classificazione dei titoli nell’attivo o nelle immobilizzazioni e dei requisiti Pex.

Simile anche il trattamento contabile per il 2023: la deroga alla necessità di svalutare i titoli nell’attivo circolante in base all’andamento dei mercati finanziari, riproposta dal Dm 14 settembre 2023, limita sostanzialmente le svalutazioni in bilancio ai casi di perdite durature di valore, come per le immobilizzazioni finanziarie.

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Donazioni indirette non tassate a meno di un accertamento

16 Aprile 2024

Il Sole 24 Ore 22 marzo 2024 di Angelo Busani

Le donazioni non formalizzate in un atto notarile sono sempre state ammantate da un senso di notevole incertezza sul loro trattamento fiscale: per tutti gli anni ’90 del secolo scorso se ne è intensamente parlato senza che la legge le menzionasse (al fine di capire se effettivamente fossero fattispecie imponibili), poi, appena il legislatore le prese in considerazione all’inizio del nuovo secolo, l’imposta di donazione venne radicalmente abolita.

Reintrodotta, dopo alcuni anni, la tassazione delle donazioni mediante la stranissima tecnica di risuscitare la normativa abrogata nel testo stesso che essa aveva alla data di abrogazione, le discussioni di addetti ai lavori e studiosi si sono appuntate sull’analisi della compatibilità delle norme risuscitate con il nuovo disegno dell’imposta di donazione nel frattempo elaborato dal legislatore: vale a dire, non più, come nel diritto previgente, mediante consistenti aliquote d’imposta su scaglioni progressivi di valore imponibile, ma mediante moderate aliquote proporzionali applicabili al valore eccedente le franchigie di esenzione. Nell’ambito di queste discussioni, non poca consistenza ebbero le opinioni secondo le quali dovevano addirittura considerarsi abrogate implicitamente, appunto per ritenuta incompatibilità sistematica.

Si giunge così alla voluntary disclosure e all’emersione di un assai consistente fenomeno di donazioni informali confessate al fisco italiano per purgare il denaro che ne era stato oggetto: non è un caso che la sentenza di Cassazione 7442/2024 – commentata sul Sole 24 Ore di ieri – si riferisca proprio a un episodio di donazione indiretta effettuata mediante un bonifico bancario “Svizzera su Svizzera”, confessata da un contribuente al fisco italiano nell’ambito di una procedura di collaborazione volontaria in base alla legge 186/2014.

Nella sua sentenza 7442, la Cassazione ora ci dice dunque che:

le norme in tema di donazione indiretta contenute nel Testo unico 346/1990 non sono implicitamente abrogate, ma sono pienamente vigenti;

le donazioni indirette non possono che essere tassate nelle ipotesi specificamente previste dalla legge, vale a dire: il caso della loro volontaria registrazione da parte del contribuente oppure il caso la loro “confessione” (se di valore imponibile superiore a un milione) nell’ambito di un procedimento di accertamento tributario (si pensi al contribuente che sia chiamato a giustificare un tenore di vita non confacente con il suo reddito);

non sussiste l’obbligo di registrazione di una donazione indiretta se essa non risulta da un atto soggetto alla registrazione.

Tradotto in parole semplici, questo insieme di principi sta innanzitutto a dire che non è di per sé tassabile il “semplice” bonifico genitore/figlio, a meno che non lo si “confessi” in un procedimento di accertamento tributario.

In secondo luogo, dalla sentenza 7442 emerge che non dovrebbero aversi timori di tassazione in tutti quei casi in cui, da atti sottoposti a regisazione, risultino pattuizioni che potrebbero anche essere convenute a titolo di donazione, ma che non siano espressamente qualificate come tali.

Si pensi alla dichiarazione di nomina per la stipula di un contratto definitivo derivante da un contratto per persona da nominare, a un contratto a favore di terzo (Tizio vende a Caio che acquista a favore di Sempronio), a una delegazione di pagamento (Caio paga Sempronio un prezzo dovuto da Tizio su incarico di quest’ultimo), a un accollo di debito (Tizio si obbliga a pagare il debito che Caio ha verso la banca Alfa), e così via: sono tutte ipotesi che potrebbero bensì essere effettuate a causa di donazione, ma che potrebbero altrettanto essere supportate da ragioni diverse da quelle di effettuare un’attribuzione per spirito di liberalità.

Per questo, se la causa di donazione non sia palesata, manca il presupposto per l’assoggettamento di questi atti a imposta di donazione.

Senza dimenticare la rilevanza di questo ragionamento in campo societario: ad esempio la fusione di Alfa (valore 100), avente Caio come socio unico, con Beta (valore 500), avente Sempronio come socio unico, formando Delta, di valore 600 con Caio e Sempronio soci al 50 per cento.

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Dividendi all’estero: la casa madre è beneficiario

16 Aprile 2024

Il Sole 24 Ore 25 marzo 2024 di Massimo Bellini e Enrico Ceriana

Se il percettore dei dividendi è la casa madre, non è necessario accertarne la posizione di beneficiario. Il principio è stato affermato dalla Cassazione nella sentenza del 1° dicembre 2023 n. 33606.

Il caso esaminato dalla Cassazione riguardava il pagamento di dividendi da parte di una controllata italiana alla controllante giapponese su cui era stata applicata la ritenuta prevista dalla convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Giappone. Nel giudizio l’agenzia delle Entrate aveva lamentato, tra gli altri aspetti, che i giudici di secondo grado non avessero esaminato se il percipiente giapponese fosse il beneficiario effettivo.La qualifica di beneficiario effettivo in capo al percipiente estero è un elemento sul quale l’amministrazione finanziaria solleva le maggiori criticità soprattutto quando l’azionista estero è una società holding
o subholding .

Sulla questione sono intervenuti più volte i giudici di legittimità, sottolineando che l’unico elemento rilevante per il concetto di beneficiario effettivo è «costituito dalla padronanza ed autonomia della società-madre percipiente sia nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute, sia nel trattenimento ed impiego dei dividendi percepiti (in alternativa alla loro traslazione alla capogruppo sita in un Paese terzo)» (Cassazione n. 27112, 27113, 27115 e 27116 del 2016) senza che il contribuente sia tenuto ad alcun trasferimento dello stesso a terzi (Cassazione 14756/2020). Peraltro, sempre secondo la Cassazione, la circostanza che il percettore dei dividendi sia una società subholding non determina di per sé il venir meno della qualifica di beneficiario effettivo se non esistono in capo al percettore obbligazioni di fatto o di diritto di ritrasferire i dividendi (che è poi il concetto di padronanza già evidenziato).

Sul punto sia il Commentario Ocse che la giurisprudenza di legittimità concordano nel sottolineare che l’obbligo di “ritrasferimento” riguarda direttamente i dividendi ricevuti, con la conseguente irrilevanza di obbligazioni legali o contrattuali ad essi non correlate (Cassazione 21140/2023).

Nel caso in esame il percettore del dividendo era l’azionista ultimo, ovvero la casa madre del gruppo, e quindi la Cassazione chiarisce che la qualifica di beneficiario effettivo «non rileva nella presente controversia riguardando diverse fattispecie …. allorquando la società percipiente i dividendi sia una subholding, una conduit (società veicolo) o comunque una partecipata e/o una compagine intermedia».

In sostanza i giudici di legittimità sottolineano che se il percettore è la casa madre del gruppo si può dare per integrata automaticamente la sua posizione di beneficiario effettivo non essendo possibile un ulteriore ritrasferimento dei dividendi all’interno del gruppo; ciò che invece rileva è che il percettore sia fiscalmente residente in Giappone e che i dividendi siano potenzialmente soggetti a tassazione indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta (principio ormai consolidato, si vedano le sentenze n. 26377/2018 o 10706/2019).

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Austria, meno imposte e misure per le start up: investimenti triplicati

16 Aprile 2024

Il Sole 24 Ore 7 marzo 2024 di R.Es.

Quasi 1,4 miliardi dalle aziende straniere assistite dall’agenzia governativa

Record di investimenti esteri in Austria, grazie a un business climate favorevole che fa del fisco uno dei punti di attrattività. Secondo i dati di Austrian Business Agency (ABA), l’ente governativo che ha il compito di promuovere su scala internazionale gli investimenti esteri e il lavoro qualificato, le aziende che si avvalgono della sua assistenza nel 2023 hanno triplicato gli investimenti nel Paese, saliti a quasi 1,4 miliardi di euro dai circa 490 del 2022.

A pesare favorevolmente, oltre agli investimenti in ricerca e sviluppo e all’attenzione alla formazione e al reclutamento di manodopera qualificata, è naturalmente il fisco, a cominciare dalla riduzione della corporate tax, già approvata nel 2022, che da allora ha ridotto l’imposta societaria di un punto percentuale ogni anno, arrivando al 23% nel 2024.

A incidere potrà essere anche il pacchetto di leggi recentemente approvato dal Consiglio Nazionale, che mira soprattutto a soddisfare le esigenze specifiche delle startup. Fra tutte, la più innovativa è l’introduzione di una nuova company form, chiamata FlexCo. È una forma giuridica per la costituzione di un’azienda, che permette un modello ibrido: si rifà in parte alle norme delle società a responsabilità limitata, in parte a quelle delle spa. La FlexCo offre tra l’altro alle aziende la possibilità di incentivare i dipendenti attraverso quote di partecipazione fino a un terzo del capitale sociale.

«I risultati di ABA dimostrano quanto sia importante perseguire una politica di localizzazione attiva, promuovere la business location a livello internazionale, ma anche offrire alle aziende i servizi di cui hanno bisogno – sottolinea il ministro dell’Economia e del Lavoro Martin Kocher -. L’Austria è una scelta attraente per le aziende internazionali, soprattutto per la Ricerca & Sviluppo, nonché per le startup e le scaleup innovative».

Nel 2023 il dipartimento Invest in Austria di ABA ha supportato 325 aziende internazionali; 23 sono italiane e confermano l’Italia quale tradizionale secondo investitore in Austria, dopo la Germania. Fra gli insediamenti italiani, oltre al settore del commercio all’ingrosso, spiccano quello dei servizi consulenziali alle aziende, quello dell’IT e quello energetico-ambientale.

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Domicilio fiscale, il nuovo criterio cambia l’esito delle Convenzioni

16 Aprile 2024

Il Sole 24 Ore lunedì 18 marzo 2024 di Maria Lucia Di Tanna Davide Greco

I redditi percepiti per attività di lavoro svolte in Kazakistan da un contribuente che risulti residente in Italia ex articolo 2, comma 2, del Tuir, sono imponibili – in base all’articolo 15, paragrafo 1, ultimo periodo del relativo Trattato – oltre che nello Stato della fonte, anche in quello di residenza.

Il reddito estero dovrà quindi essere dichiarato in quest’ultimo Stato (l’Italia), ferma restando la possibilità per il contribuente di portare in detrazione le imposte corrisposte all’estero, mediante il meccanismo del credito d’imposta (articolo 165 del Tuir).

Sono le conclusioni cui è giunta la Corte di cassazione nella sentenza 5563 pubblicata il 1° marzo 2024, che coinvolge un contribuente italiano che lavorava come dipendente (per più di 183 giorni all’anno) per un’azienda kazaka e a cui era stata contestata la residenza fiscale in Italia in ragione del domicilio civilistico.

La tassazione concorrente

La sentenza è interessante per due motivi. Viene innanzitutto chiarita – si auspica definitivamente – la corretta interpretazione di quanto disposto dall’articolo 15, paragrafo 1, secondo periodo, delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni in materia di redditi da lavoro dipendente: le conclusioni offerte possono essere estese a tutte le Convenzioni stipulate dall’Italia, a esclusione, probabilmente, solo di quella stipulata con l’Arabia Saudita, che presenta una formulazione ( wording ) particolare.

I giudici di legittimità, “enfatizzando” il testo inglese della Convenzione Italia-Kazakistan, hanno sottolineato come l’espressione inglese «may be taxed», presente nel secondo periodo del paragrafo 1 della norma, debba far propendere l’interprete verso il riconoscimento di una tassazione concorrente tra Stato della fonte e Stato della residenza. Ai fini di una tassazione esclusiva, invece, si sarebbe dovuta trovare l’espressione inglese «shall be taxable» (così come avviene, infatti, nel primo periodo del paragrafo 1 dell’articolo 15).

Dunque, ogni volta in cui si deve decidere dove tassare un reddito di lavoro dipendente percepito da un soggetto fiscalmente residente in Italia, per attività di lavoro dipendente svolte per oltre 183 giorni all’estero, l’articolo 15, paragrafo 1, secondo periodo di tutti i Trattati internazionali (compreso quello stipulato tra Italia e Kazakistan) attribuisce potestà concorrente a Stato della residenza e Stato della fonte. In tal caso, il contribuente deve presentare la dichiarazione dei redditi anche in Italia eliminando la doppia imposizione con il metodo del credito d’imposta.

Unico caso internazionale peculiare in materia di redditi di lavoro dipendente è l’Arabia Saudita, la cui Convenzione internazionale all’articolo 15 presenta un wording differente da tutte le altre redatte sulla base del Modello Ocse (a cui si rinvia per maggiori approfondimenti).

Il concetto della residenza

La sentenza della Cassazione in esame permette anche di svolgere una veloce riflessione sul nuovo concetto di residenza fiscale, così come modificata dall’articolo 1 del Dlgs 209/2023. Nella sua nuova formulazione, l’articolo 2, comma 2, del Tuir, oltre al criterio di collegamento della residenza civilistica e della presenza fisica, attribuisce rilevanza anche al criterio del “domicilio fiscale” inteso come il luogo in cui si concentrano gli interessi, principalmente personali e familiari.

Nella previgente formulazione, invece, il domicilio veniva inteso come il luogo ove si concentrano gli interessi familiari ed economico-patrimoniali del contribuente.

Di recente si stava assistendo a un cambio di trend nella giurisprudenza di legittimità (si veda Cassazione 32992/2018 e 29312/2018), la quale sembrava avesse iniziato ad attribuire preponderanza al luogo in cui si concentrano gli interessi economico patrimoniali. Cambio di trend oggi “ininfluente”, stante la nuova definizione di domicilio adottata dal legislatore.

Questa variazione impatterà notevolmente su tutte le situazioni come quella trattata dalla Corte di cassazione nella sentenza 5563/2024 (distacco per più di 183 giorni all’estero per lavoro, ma con famiglia in Italia). Infatti, per i soggetti come il contribuente (che abbiamo visto lavorare per oltre 183 giorni all’anno in Kazakistan), se prima della riforma si sarebbe potuta tentare la strada della residenza nel luogo di produzione del reddito, con la nuova formulazione della residenza fiscale delle persone fisiche l’unico modo per evitare la tassazione concorrente è quello di trasferire anche la famiglia nello Stato della fonte.

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Residenza fiscale, il frazionamento del periodo d’imposta resta al palo

16 Aprile 2024

Il Sole 24 Ore 26 marzo 2024 di Antonio Fiorentino Martino Paolo Scarioni

Negli scorsi mesi, tra gli operatori era molto alta l’aspettativa che, nell’ambito della riforma fiscale, il legislatore delegato introducesse – in relazione alla residenza fiscale delle persone fisiche – una norma domestica sul cosiddetto split year; aspettativa poi disattesa, poiché il decreto Fiscalità internazionale di fine anno (Dlgs 209/2023) nulla ha previsto in proposito. Eppure sarebbe una disposizione necessaria.

Per comprenderne le ragioni, deve ricordarsi che in base all’articolo 2, comma 2 del Tuir si ha la residenza fiscale in Italia se uno dei criteri di collegamento col nostro territorio è soddisfatto anche solo «per la maggior parte del periodo d’imposta»; in quel caso, si è considerati fiscalmente residenti per l’intera annualità. Questa “unitarietà” del periodo d’imposta genera qualche insidia nell’anno in cui avviene il trasferimento del contribuente all’estero, o il suo ingresso in Italia: l’impossibilità di frazionare l’anno in due parti può provocare, infatti, non solo fenomeni di doppia imposizione, ma anche fenomeni di doppia non imposizione.

Quanto ai primi, si pensi al caso di un contribuente fiscalmente residente in Italia, che nella seconda parte del 2024 migri in uno Stato estero per intraprendervi un’attività lavorativa, e che, in virtù della normativa interna di tale ultimo Stato, acquisisca lì la residenza fiscale a decorrere dalla data del trasferimento: i redditi di lavoro prodotti all’estero verranno tassati sia in Italia (perché qui il soggetto è stato residente per la maggior parte del 2024), sia nello Stato estero, avendo acquisito la residenza fiscale dal giorno del suo arrivo.

Vero è che tale doppia imposizione può essere superata attraverso i meccanismi approntati dalle Convenzioni. Tuttavia, il rimedio solitamente adottato, ossia il credito d’imposta, non è sempre “perfetto”: in virtù di esso, la doppia imposizione talvolta viene rimossa solo parzialmente, laddove all’estero il reddito sia tassato con un’aliquota d’imposta inferiore rispetto a quella Irpef, o sia calcolato in modo differente rispetto a come avviene in Italia, e talaltra non è eliminata affatto, come nei casi in cui il medesimo reddito sia assoggettato a tassazione in Italia tramite imposta sostitutiva o ritenuta a titolo d’imposta (sebbene la Cassazione abbia di recente espresso un’apertura: si veda la sentenza 25698/2022).

C’è da dire che il Commentario al modello Ocse (al punto 10 del commento all’articolo 4) consente agli Stati contraenti di adottare una disposizione di split year, in base alla quale il contribuente di uno Stato, espatriato nell’altro Stato in corso d’anno, mantiene la residenza fiscale nel primo fino alla data del trasferimento, e diviene fiscalmente residente nel Paese di destinazione solo a decorrere dal giorno successivo.

A oggi, però, sono solo due le convenzioni sottoscritte dall’Italia che si avvalgono di tale facoltà, ossia quella in vigore con la Svizzera e quella in vigore con la Germania; e ciò comporta che la regola del frazionamento non possa ritenersi operante in tutti i restanti trattati, come confermato già da tempo dall’agenzia delle Entrate (risoluzione 471/2008) e, più di recente, dalla Corte di cassazione (ordinanza 25690/2023). Cosicché l’introduzione di una disposizione domestica avrebbe consentito senz’altro di evitare le accennate problematiche.

Una tale disposizione – e veniamo così al secondo inconveniente procurato dalla sua assenza nell’ordinamento – avrebbe anche l’effetto di prevenire fattispecie di doppia non imposizione.

Si pensi, ad esempio, a un contribuente italiano che si trasferisca nella prima parte del 2024 in uno Stato estero ove è prevista, per norma interna, la regola dello split year, o che adotta un periodo d’imposta difforme dall’anno solare (è quanto accade nel Regno Unito, ove il periodo d’imposta inizia il 6 aprile e termina 5 aprile dell’anno successivo). Qualora egli, nel corso dei primi mesi dell’anno, prima dell’espatrio, avesse realizzato un capital gain dalla cessione di partecipazioni non qualificate in società italiane (o anche estere), tale plusvalenza non sarebbe imponibile in Italia, in quanto verrebbe realizzata da un soggetto che per il 2024 è fiscalmente “non residente” nel nostro Paese, essendoci rimasto per meno di 183 giorni; la legge italiana esclude, infatti, che tale tipologia di plusvalenze sia territorialmente rilevante in Italia per i non residenti (lo stabiliscono l’articolo 5 del Dlgs 461/1997, quanto ai soggetti residenti in Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni, e l’articolo 23 del Tuir, quanto a tutti i non residenti, in relazione alle partecipazioni in società residenti quotate). Al contempo, la medesima plusvalenza non verrebbe assoggettata a tassazione neppure nel Paese estero di destinazione, poiché – proprio in virtù dello split year sancito dalla disciplina interna di tale Paese – il medesimo soggetto diverrebbe ivi residente solo a partire dalla data del suo trasferimento.

Simili vicende di doppia non imposizione possono essere evitate solo intervenendo sul piano della normativa domestica: esse, infatti, non sono in alcun caso risolvibili neppure nell’ipotesi in cui lo split year sia contemplato dalla Convenzione in essere tra i due Paesi, dal momento che le disposizioni pattizie non possono mai fondare un presupposto impositivo, o individuare una residenza fiscale, altrimenti inesistenti sulla base delle norme interne. Pertanto, per riprendere l’esempio illustrato, la plusvalenza non potrà essere tassata in Italia neppure ove realizzata da un soggetto poi spostatosi in Germania o in Svizzera.

Doing business in San Marino

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