Categoria: Dall’Italia
Fatture inesistenti, l’acquirente non può fare investigazioni
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 31 maggio 2024 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio
Sulle fatture inesistenti, per l’assolvimento dell’onere probatorio della conoscenza o conoscibilità dell’acquirente della frode consumata dal fornitore, l’amministrazione non può pretendere che il contribuente svolga verifiche complesse e analoghe a quelle che la stessa amministrazione può eseguire con i propri mezzi.
È questo il principio enunciato dalla Corte di cassazione, nella sentenza 14102/2024.
La vicenda oggetto della pronuncia è nella sostanza simile a molti accertamenti effettuati negli ultimi anni.
All’acquirente di beni viene contestata l’indetraibilità dell’Iva in quanto relativi a fatture soggettivamente inesistenti perché forniti da impresa che ha omesso gli adempimenti fiscali, priva di struttura e talvolta senza dipendenti.
Secondo giurisprudenza consolidata unionale e di legittimità per la rettifica dell’Iva sugli acquisti, l’Ufficio deve provare, anche in via presuntiva, che il cessionario conoscesse o comunque avrebbe potuto conoscere, l’illecito perpetrato a monte dal cedente.
In molti accertamenti la prova di tale consapevolezza è rappresentata dalle violazioni fiscali commesse dal venditore (omesse dichiarazioni, omessi versamenti, precedenti contestazioni analoghe e così via).
A nulla rileva che l’acquirente mai avrebbe potuto acquisire simile informazioni, sia perché sono dati non fruibili da terzi, sia perché non dispone né dei poteri né delle banche dati dell’amministrazione finanziaria.
Nella specie l’Ufficio recuperava l’Iva detratta su acquisti di confezioni ritenuti soggettivamente inesistenti, in quanto il fornitore sarebbe stato privo di organizzazione.
I due gradi di giudizio confermavano nella sostanza la pretesa.
In particolare, secondo i giudici di appello si trattava di fatture soggettivamente inesistenti, stante l’assenza di adeguata manodopera da parte del fornitore e la falsità delle fatture di acquisto degli strumenti di produzione (macchine da cucire).
Nel ricorso per Cassazione, la difesa lamentava, tra l’altro, che la rettifica era incentrata sull’assenza di organizzazione del fornitore, senza indagare gli elementi idonei a ritenere l’acquirente consapevole della frode. Inoltre, la carenza di manodopera necessaria a eseguire i beni, poi venduti, e la falsità della fornitura delle apparecchiature, non erano addebitabili all’acquirente, anche in considerazione del fatto che non disponeva dei poteri ispettivi dell’Ufficio.
Peraltro, non era stato considerato che i prezzi praticati erano in linea con quelli di mercato e non risultava che il cedente avesse restituito parte dell’Iva alla società.
La Suprema corte ha, innanzitutto, ricordato il consolidato orientamento di legittimità secondo cui in ipotesi di detrazione di fatture emesse da società prive di organizzazione o da soggetti interposti, l’Amministrazione deve provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inserisca in una evasione dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. Assolto tale onere, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze concrete.
La sentenza ha quindi evidenziato che l’assenza di cautele del cessionario non può essere provata pretendendo verifiche approfondite, analoghe a quelle svolte dall’amministrazione con tutti i mezzi a sua disposizione.
Da qui il principio in base al quale «ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova della conoscenza o conoscibilità, secondo la massima diligenza esigibile da un accorto operatore professionale, dell’esistenza di una frode Iva consumata a monte della catena produttiva o distributiva, le cautele che si richiede che il cessionario sia tenuto ragionevolmente ad adottare, perché si escluda il suo coinvolgimento, anche solo per colpevole ignoranza, nella frode commessa a monte, non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare».
Vi è ora da sperare che molti giudici di merito applichino questo principio (peraltro già nella sostanza espresso dalla Corte Ue) senza assumere aprioristiche posizioni a favore dell’amministrazione.
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Plusvalenza imponibile nello Stato estero
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 4 giugno 2024 di Alessandro Germani
In caso di cessione di partecipazioni in una società italiana da parte di un soggetto non residente (iscritto all’Aire) la plusvalenza è imponibile solo negli Usa e non in Italia, applicandosi le previsioni della convenzione che prevalgono sulla norma interna. Così la risposta a interpello 123/2024 delle Entrate che richiama una risposta simile con riguardo a un caso Italia Belgio (risposta 135/22). Vediamone la portata.
L’istante, munito di doppia cittadinanza Italia/Usa, è residente negli Stati Uniti dove lavora. Ha una partecipazione in una società italiana che ha venduto ai propri fratelli, anch’essi soci. E si domanda dove debba essere tassata la plusvalenza realizzata dalla vendita. L’Agenzia individua il percorso da effettuare. Ai fini interni, in base all’articolo 23, comma 1, lettera f del Tuir si considerano prodotte in Italia da non residenti le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società residenti. Tuttavia rispetto alla norma domestica prevale il diritto internazionale pattizio (come previsto dall’articolo 169 del Tuir e dall’articolo 75 del Dpr 600/73). Si guarda quindi all’articolo 13, paragrafo 4 della Convenzione Italia/Usa del 1999, che si rifà al modello Ocse del 2017, per cui le plusvalenze da cessione delle partecipazioni sono imponibili soltanto nello Stato contraente di cui l’alienante è residente. La chiave è data dall’avverbio «soltanto», per cui l’imponibilità avviene nel solo Stato contraente di cui l’alienante è residente, ovvero gli Stati Uniti, ma è esclusa qualunque tassazione concorrente che darebbe poi luogo al recupero dell’imposta pagata all’estero mediante il meccanismo del credito d’imposta. Chiaramente la residenza fiscale del cedente esula dall’interpello, trattandosi di un elemento che l’Agenzia nella risposta dà per assodato e veritiero.
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Nelle vendite online l’influencer inquadrabile come agente di commercio
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 24 maggio 2024 di Paola Grattieri e Alessandro Limatola
L’influencer che promuova stabilmente e con continuità in rete i prodotti di un’azienda è inquadrabile come agente di commercio.
Lo ha stabilito il Tribunale di Roma con la sentenza 2615/24 del 4 marzo scorso, in cui ha ritenuto legittima la riscossione dei contributi operata dalla Fondazione Enasarco in seguito a un accertamento ispettivo. Nel caso specifico, è emerso che alcuni influencer si erano impegnati a promuovere i prodotti dell’azienda convenuta in giudizio sulle loro pagine social media e siti web, indicando nella pagine web un codice personalizzato associato all’influencer e pattuendo con l’azienda venditrice un compenso per ogni singola vendita andata a buon fine recante il medesimo codice.
Il Tribunale ha rilevato che l’introduzione di nuovi mezzi e tecniche di vendita ha rivoluzionato il modo in cui i consumatori interagiscono con i prodotti o i servizi. Web e social network, si configurano, oggi, come un nuovo e ulteriore strumento per fare promozione attraverso gli influencer, i quali – in presenza di indizi idonei a dimostrare gli elementi della stabilità e della continuità previsti dagli articoli 1742 e e seguenti del Codice civile – vengono qualificati come agenti di commercio.
Si tratta di figure “professionali” che, grazie alla loro popolarità e alla capacità di fidelizzare i propri follower, diventano strumento di comunicazione del brand influenzando (promuovendo) le scelte di acquisto del pubblico. La promozione, dunque, non avviene in maniera “tradizionale”, ma con le nuove tecnologie. L’influencer, infatti, proprio per il ruolo determinante che svolge all’interno dei processi comunicativi, viene incaricato dalle imprese del settore in cui esso opera di pubblicizzare i loro prodotti, andando così a svolgere un’attività promozionale delle vendite retribuita tramite il pagamento di un compenso. Contrattualizzando un influencer, quindi, l’azienda persegue lo scopo di far diventare propri clienti i follower dello stesso. E la presenza di una zona determinata di operatività – prevista dall’articolo 1742 per il contratto di agenzia – coincide in questo caso con la comunità dei follower dell’influencer, che acquistano i prodotti della società mediante il codice sconto veicolato dall’influencer.
In questo contesto, secondo il Tribunale è irrilevante il modo attraverso il quale l’influencer induca i propri follower all’acquisto, non essendo necessario che si rivolga individualmente a ciascuno di essi presentando le caratteristiche del prodotto, il prezzo, sollecitandone l’acquisto, atteso che nel mondo web la promozione di prodotti viene assicurata attraverso la pubblicazione sui vari social da parte dell’influencer di contenuti destinati alla platea dei follower.
Sulla base dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità ritenuta più pertinente (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 20453 del 2 agosto 2018), il Tribunale ha anche richiamato il principio secondo cui la prestazione dell’agente può comunque consistere in atti di contenuto vario e non predeterminato, che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti per conto del preponente (ivi incluso, ma non solo, il compito di propaganda). Si tratta di scenari in cui l’attività dell’agente non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente non sia stato direttamente ricercato dall’agente, purché sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione.
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Agenti sportivi, non tassati in Italia i compensi versati a società estere
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 20 maggio 2024 di Maria Lucia Di Tanna e Davide Greco
I compensi pagati da società sportive residenti in Italia a società di agenti sportivi residenti all’estero prive di stabile organizzazione non sono soggetti a tassazione nel territorio italiano. A dirlo è la Cgt Cagliari 58/2/2024 (presidente e relatore Galdiero) in un caso che ha visto coinvolta una società di calcio di serie A, alla quale l’Agenzia aveva contestato l’omesso versamento della ritenuta a titolo d’imposta del 30% prevista dall’articolo 25, comma 2, del Dpr 600/73 sui compensi a una società di agenti sportivi residente nel Principato di Monaco.
La sentenza costituisce il primo tentativo giurisprudenziale di definire i contorni, da un punto di vista fiscale, della figura dell’agente sportivo. Nel definire la natura della sua attività, ad oggi, si sono contrapposte due diverse teorie:
1 da una parte, coloro i quali vedevano la figura dell’agente sportivo alla stregua di un mediatore atipico;
2 dall’altra parte, coloro i quali (tra cui anche l’amministrazione) vedevano la figura dell’agente sportivo alla stregua di un lavoratore autonomo.
La scelta tra i due inquadramenti non è neutrale. Infatti, nel primo caso il risultato dovrebbe essere il seguente:
l’attività di agente sportivo dovrebbe essere ricondotta tra le attività di cui ai n. 2 o 5 dell’articolo 2195 del Codice civile;
il reddito prodotto dovrebbe essere reddito d’impresa ex articolo 55 del Tuir;
i compensi pagati dovrebbero scontare l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 25-bis del Dpr 600/73.
Nella seconda ipotesi, se l’agente venisse quindi qualificato come lavoratore autonomo – in linea con quanto chiarito dalla stessa Agenzia nella risposta 315/2022 e, successivamente, nella risoluzione 69/2022 – il risultato dovrebbe essere il seguente:
il reddito prodotto dovrebbe essere reddito di lavoro autonomo ex articolo 53 del Tuir:
i compensi pagati dovrebbero scontare l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 25, comma 1 o 2, in dipendenza della residenza dell’agente sportivo.
La norma del 2023
La disamina non tiene conto delle novità, in vigore dal 1° gennaio 2023, previste dal Dlgs 37/2021 (articoli 3 e 4) in cui si parla di agente sportivo nei seguenti termini: libero professionista, il quale offre servizi di assistenza, consulenza e mediazione. Se si seguisse alla lettera, infatti, la definizione offerta dal decreto, si dovrebbe propendere per una definizione fiscale in linea con quella offerta dalle Entrate e, quindi, considerare l’agente sportivo lavoratore autonomo. Tesi che “vince ma non convince” appieno, soprattutto se si guarda – nel concreto – al tipo di attività svolta dall’agente sportivo e al tipo di obbligazione da lui contratta, ovvero un’obbligazione di “risultato” e non “di mezzo”.
La motivazione dei giudici
Tornando al caso trattato dai giudici sardi – che hanno accolto il ricorso e, quindi, ritenuto illegittima la richiesta di ritenuta a titolo d’imposta del 30% avanza dall’ufficio – si sarebbe potuto, forse, prendere una posizione più netta. Ma così non è avvenuto, preferendo la seguente (discutibile) conclusione: «Ne deriva che i redditi prodotti dalla società di agenti sportivi, in quanto redditi di impresa, non saranno assoggettati alle ritenute d’acconto di cui al citato articolo 25 del Dpr 600 del 1973 e trattandosi di società estera senza stabile organizzazione in Italia l’applicazione della ritenuta di cui all’articolo 25 bis non può trovare applicazione trovando applicazione i principi convenzionali di tassazione del reddito di impresa solo nel Paese di residenza».
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Bocciati gli accertamenti del Fisco basati su semplici presunzioni
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore lunedì 13 maggio 2024 di Giuseppe Morina Tonino Morina
Stop alle presunzioni del Fisco. Per i giudici tributari devono essere annullati gli accertamenti dell’agenzia delle Entrate emessi sulla base di semplici presunzioni. La recente evoluzione giurisprudenziale in materia è univoca e consolidata nel bocciare gli accertamenti dell’ufficio emessi in mancanza di qualsiasi prova della presunta evasione accertata. In questo modo, rischiano di andare in “fumo” molti degli accertamenti emessi negli ultimi anni dagli uffici dell’Agenzia, basati su presunzioni e senza prove sufficienti a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
L’onere della prova
Per evitare inutili contenziosi, gli uffici devono tenere conto delle novità introdotte, in materia di onere della prova, dall’articolo 6 della legge di riforma della giustizia tributaria del 31 agosto 2022, n. 130, che ha inserito il comma 5-bis all’interno dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992.
La norma, cui va riconosciuto il carattere di ius superveniens, cioè di diritto sopravvenuto, in vigore dal 16 settembre 2022 e applicabile anche per i procedimenti in corso, pone ex lege l’onere della prova a carico del Fisco, che non ne può invece addossare l’incombenza sul soggetto accertato.
È evidente che spetta all’ufficio “provare” i fatti costitutivi della pretesa fiscale. Il principio che l’articolo 2697 («Onere della prova») del Codice civile pone in ordine al regime probatorio è chiaro: «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».
La prova dell’evasione
Sul nuovo corso di ripartizione dell’onere della prova è illuminante la sentenza 3856 del 23 novembre 2022, della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Siracusa, sezione 5, la quale, inserendosi nell’alveo della riforma, ha sovvertito la concezione secondo cui spetterebbe al contribuente l’onere della prova ovvero della probatio “diabolica” circa la mancata percezione del maggior reddito.
Secondo il collegio siracusano, infatti, la nuova norma introduce una regola speciale del diritto tributario per dirimere le questioni sul riparto dell’onere probatorio e, pertanto, è inequivocabile che l’ufficio debba provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazione.
Sullo stesso filone, in tema di applicazione dell’onere probatorio, si veda la sentenza 293/01/2022 della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia, secondo la quale l’amministrazione finanziaria deve dimostrare in maniera circostanziata e puntuale la propria pretesa, indicando le ragioni oggettive (e non le presunzioni) su cui si fonda la maggiore base imponibile.
In assenza di tale specifica dimostrazione, l’atto impositivo deve essere annullato per violazione della norma sopra citata.
Nello stesso senso, con la nuova norma che pone ex lege l’onere della prova a carico del Fisco, si veda la sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Messina, n. 9214/2023, depositata il 15 novembre 2023. Con questa sentenza, i giudici di secondo grado annullano l’atto impositivo e rigettano l’appello dell’ufficio «in mancanza di elementi probatori forniti a riprova dei fatti affermati»; per i giudici di secondo grado la «prova oggi pretesa dal riformato processo tributario che, con l’articolo 6 della legge 130/2022, che ha introdotto il comma 5–bis nell’articolo 7 del decreto legislativo 546/1992, esige che il Giudice valuti le prove agli atti, comprese quelle che possono essere offerte dagli uffici, in corso di giudizio, purché riguardino i fatti dedotti, ed annulli l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o è insufficiente a dimostrare le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa e l’irrogazione delle sanzioni».
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Fattura elettronica intra-Ue posticipata a luglio 2030
11 Giugno 2024
Il Sole 24 Ore 10 maggio 2024 di Alessandro Mastromatteo e Benedetto Santacroce
Obblighi di fatturazione elettronica per operazioni intra-Ue di predisposizione ed invio del Drr (Digital reporting) a decorrere dal 1° luglio 2030. Dunque, un rinvio rispetto alla decorrenza del 1° gennaio 2028, che era stata fissata inizialmente dal pacchetto Vida (Vat in the digital age). Questa una delle novità previste dalla bozza di direttiva Iva in discussione il prossimo 14 maggio 2024 nel corso dell’Ecofin, all’interno del quale si cercherà di raggiungere un accordo politico sul pacchetto relativo all’imposta sul valore aggiunto (Iva) nell’era digitale.
Il pacchetto comprende tre proposte, volte rispettivamente a:
contrastare le frodi in materia di Iva;
sostenere le imprese;
promuovere la digitalizzazione.
Gli altri rinvii
La revisione delle tempistiche di adozione ha interessato anche le altre misure: differita al 1° gennaio 2026, rispetto al 2025, la disciplina sul fornitore presunto per i gestori di piattaforme elettroniche; scatta invece dal 1° luglio 2027 la Svr (Single vat registration, cioè la registrazione Iva unica), rispetto al termine precedentemente individuato al 1° gennaio 2025; al 1° gennaio 2035 viene invece spostato il termine entro cui le normative nazionali in tema di fatturazione elettronica, adottate prima del 1° gennaio 2024 compresa quindi quella italiana, dovranno essere armonizzate agli standard europei Ubl o Cii.
Le fatture riepilogative
e quelle transfrontaliere
Al netto delle modifiche in termini di decorrenza, è di assoluto rilievo rispetto alla proposta iniziale della Commissione Com(2022) 701 datata 8 dicembre 2022, la cancellazione delle disposizioni che, nel modificare la vigente direttiva Iva 2006/112, avevano abrogato la possibilità di emettere fatture riepilogative.
Infine, è stato ampliato da due a dieci giorni il termine per l’emissione della fattura per le operazioni transfrontaliere a decorrere dal verificarsi dell’evento imponibile.
Problemi e soluzioni
Il testo della direttiva, pubblicato in bozza, è il risultato delle attività di consultazione e mediazione realizzate, funzionali ad armonizzare le varie istanze degli Stati membri con l’esigenza avvertita dal legislatore unionale di modernizzare le regole di funzionamento dell’imposta, garantendo altresì misure in grado di ridurre il Vat gap attraverso l’utilizzo della digitalizzazione per contrastare l’evasione fiscale ed il fenomeno delle frodi carosello realizzate con operazioni intra-Ue.
La tempistica di raccolta e scambio delle informazioni tra le autorità fiscali degli Stati membri costituisce infatti, ad oggi, un ostacolo al contrasto efficace delle frodi, ritenendosi indispensabile accelerare sul versante della disponibilità di dati in formato strutturato ed immediatamente elaborabili. Questo comporterà l’introduzione quindi dell’obbligo di fattura in formato elettronico strutturato Ubl o Cii, della presentazione di report digitali (Drr) in tempo reale con i dati delle operazioni intra-Ue realizzate, della previsione di utilizzo della partita Iva unica (Svr) in tutta l’Unione Europea, nonché lo spostamento in capo ai gestori di piattaforme on-line degli obblighi Iva rendendoli fornitori presunti delle operazioni realizzate.
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L’americano che vive in Italia e la sua pensione «privata»
9 Maggio 2024
Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2024 di Fabrizio Cancelliere
Un cittadino statunitense, senza cittadinanza italiana, è residente in Italia. Attualmente, questo soggetto percepisce tre pensioni: una come ex militare Usa, una come ex dipendente civile dell’esercito Usa e una come “Social security”.
Le prime due pensioni sono “pubbliche” e scontano l’imposizione solo negli Stati Uniti, in base alla convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Usa del 25 agosto 1999. La terza e ultima pensione, invece, va dichiarata in Italia?
La risposta è positiva, in ragione della normativa convenzionale citata dal lettore. In particolare, l’articolo 19 della convenzione prevede l’imponibilità delle pensioni “pubbliche” nel solo Stato di erogazione delle stesse, dunque nello Stato della “fonte”, se il beneficiario non ha anche la nazionalità dello Stato di residenza, come nel caso in esame.
Invece, in base all’articolo 18, le pensioni “private”, quale la “Social security”, sono imponibili nel solo Stato di residenza.
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Antiriciclaggio, stretta europea su super ricchi e titolari effettivi
9 Maggio 2024
Il Sole 24 Ore 25 aprile 2024 di Alessandro Galimberti
Il Parlamento Ue ha adottato ieri in via definitiva la Sesta direttiva antiriciclaggio (513 voti a favore, 25 contrari e 33 astensioni), insieme al Regolamento «manuale unico» (479 voti a favore, 61 contrari e 32 astensioni) e alla creazione dell’Autorità antiriciclaggio (482 voti a favore, 47 contrari e 38 astensioni). Tra le novità spiccano le disposizioni di vigilanza rafforzate sulle persone fisiche con patrimonio superiore a 50 milioni di euro (escluso il valore della residenza principale) e il limite di 10 mila in tutta l’Ue per i pagamenti in contanti (esclusi i privati in transazioni non professionali).
Novità anche in tema di privacy, al centro dei ricorsi al Tar e Consiglio di Stato. Chi ha un interesse legittimo – compresi giornalisti, organizzazioni della società civile, autorità e organi di vigilanza – avrà accesso immediato, diretto e gratuito alle informazioni sulla proprietà effettiva nei registri nazionali e interconnessi a livello Ue. Registri che includeranno dati dell’ultimo quinquennio. Le Uif avranno maggiori poteri ispettivi e di analisi sulle movimentazioni di denaro, nonché il potere di sospendere le transazioni sospette.
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Società di calcio e procuratori nella rete dell’antiriciclaggio
9 Maggio 2024
Il Sole 24 Ore 27 aprile 2024 di Alessandro Galimberti
MILANO
Sul pianeta calcio sta per abbattersi il ciclone antiriciclaggio. Uno dei settori più competitivi dell’entertainment targato Ue – le cinque maggiori leghe abitano nel Vecchio continente, le competizioni Uefa sono le più seguite al mondo – finisce infatti dentro il regolamento Antiriciclaggio, approvato martedì scorso come risoluzione legislativa dalla Plenaria di Strasburgo.
Si tratta di un braccio normativo – autonomo, obbligatorio per tutti i 27 Paesi membri e autoapplicativo entro i prossimi 36 mesi – della sesta direttiva Aml (anti money laundering, ndr), votata contestualmente dal Parlamento Ue, e che, come questa, attende il vaglio del Consiglio, prima della pubblicazione sulla Gazzetta europea.
Entrambi i provvedimenti nascono con lo scopo di chiudere i (numerosi) varchi ancora aperti sui flussi internazionali di denaro sporco; ma è il regolamento a focalizzare, in modo più diretto, i nuovi target. Il football professionistico è il principale di questi perché, scrive il legislatore nelle premesse, ci sono motivi di urgenza per farlo «quali la popolarità mondiale del calcio, gli importi considerevoli, i flussi di cassa e gli interessi finanziari coinvolti, la prevalenza di operazioni transfrontaliere e, talvolta, gli assetti proprietari opachi».
Nel mirino delle autorità antririciclaggio – dalle Financial intelligence unit alla nuova authority Amla fino alla Procura europea Eppo – finiscono tutte le operazioni che hanno per oggetto la compravendita di calciatori, i finanziamenti delle società calcistiche professionistiche, le sponsorizzazioni che queste ricevono e tutte le operazioni con agenti calcistici o altri intermediari.
Lo schema di intervento è quello classico dell’antiriciclaggio, vale a dire un controllo all’origine dei flussi finanziari, messo per legge in capo ai «soggetti obbligati» tenuti a monitorare, verificare e, nei casi sospetti, astenersi dall’operazione e segnalare alle autorità Aml.
Nell’elenco dei soggetti obbligati debuttano così gli «agenti calcistici» e le «società calcistiche professionistiche», che diventano i guardiani dell’integrità finanziaria del sistema calcio e i “segnalatori” dei tentativi di riciclaggio via pallone. L’obbligo di tracciare le operazioni con gli investitori, con gli sponsor, con gli agenti calcistici o gli altri intermediari, e i trasferimento di calciatori, riguarderà tutte le società professionistiche con licenza di partecipazione ai campionati, a eccezione di quelle con fatturato inferiore a 5 milioni di euro (ma con la possibilità, per gli Stati membri, di alzare la guardia, anche in situazioni minori ma borderline).
Finanziatori, azionisti, sponsor, e gli stessi agenti delle ricchissime società del pallone, dovranno passare per le forche caudine dell’adeguata verifica della clientela, che comporta non solo la “banale” verifica dell’identità personale del contraente (nel calcio è accaduto anche questo, tra prestanome e veri e propri fantasmi), ma soprattutto la ricerca del titolare effettivo, per «comprendere l’assetto proprietario e di controllo del cliente». Con l’ulteriore complicazione dei tempi moderni, caratterizzati dalle sanzioni internazionali contro Paesi ostili e oligarchi vari, che dovranno essere vagliate, con attenzione, dai nuovi soggetti obbligati.
Se l’“adeguata verifica” fallisce, scatta l’obbligo per agenti e/o presidenti di astenersi dall’affare – qualunque esso sia, dall’avvento di un fondo all’acquisto di un giocatore – e, soprattutto, quello di segnalare il tentativo di operazione sospetta. In caso di dubbi, società e agenti potranno rivolgersi alle Fiu (in Italia la Uif), tenute a rispondere entro tre giorni.
Le sanzioni per i “distratti”? Da stabilire a cura degli Stati purché «effettive, proporzionate e dissuasive».
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Legge italiana inapplicabile per le imprese che trasferiscono la sede in un altro Stato Ue
9 Maggio 2024
Il Sole 24 Ore 27 aprile 2024 di Maria Castellaneta
L’applicazione della legge italiana nel caso di trasferimento di società in un altro Stato membro ostacola la libertà di stabilimento nello spazio Ue. È la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza depositata il 25 aprile (causa C-276/22), a stabilirlo, chiarendo che, in forza del diritto alla libertà di stabilimento, gli atti di gestione di una società che si sia trasferita da uno Stato membro (Italia) a un altro (Lussemburgo) non possono essere regolati dalla legge italiana. E questo anche nei casi in cui l’attività sia svolta, in via principale, nel primo Stato.
La vicenda
La vicenda riguarda una società italiana, impegnata nella gestione di un immobile di pregio, che aveva cambiato denominazione e trasferito la sede sociale in Lussemburgo, trasformandosi in una società lussemburghese. In base al diritto di quel Paese era stata nominata un’amministratrice unica che, a sua volta, aveva designato un mandatario generale con il compito di svolgere tutti gli atti e le operazioni necessarie. La proprietà dell’immobile era stata ceduta e poi trasferita a una società italiana.
La società lussemburghese aveva chiesto al Tribunale di Roma l’annullamento del trasferimento ritenendo che l’attribuzione dei poteri al mandatario fosse illegittima in base al diritto italiano. L’istanza era stata respinta, ma la Corte di appello l’aveva accolta e così la società che aveva acquistato l’immobile si era rivolta in Cassazione che, prima di decidere, ha chiesto l’intervento degli eurogiudici in particolare per accertare se sia possibile applicare il diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Paese Ue, ma che svolge l’attività in Italia.
La sentenza
Chiarita l’applicazione dell’articolo 49 del Trattato, che assicura la libertà di stabilimento e dell’articolo 54, la Corte ha precisato che la costituzione e la gestione di una società sono definite dalla legislazione dello Stato membro di stabilimento anche quando svolgano la propria attività in un altro Stato Ue. In questi casi, il collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato è fornito dalla localizzazione della sede sociale, dell’amministrazione centrale o del centro di attività principale e, di conseguenza, gli atti di gestione rientrano nell’ambito della libertà di stabilimento. Pertanto, l’articolo 25 della legge 218/1995 che porta ad applicare la legge italiana agli atti di gestione della società trasferitasi in altro Stato membro per il solo fatto che una parte principale dell’attività è svolta in Italia è incompatibile con il Trattato Ue perché incide negativamente sulla libertà di stabilimento e rende «meno attrattivo l’esercizio» di questa libertà fondamentale.
La Corte, inoltre, non ritiene che le autorità italiane abbiano dimostrato l’esistenza di motivi imperativi di interesse generale che possano giustificare tale restrizione. È vero che sono ammissibili, in via eccezionale, limitazioni per tutelare gli interessi dei creditori, dei soci di minoranza e dei lavoratori nei casi in cui la parte principale delle attività sia svolta nel territorio nazionale, ma la restrizione non deve andare al di là di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo.
L’applicazione della legge italiana – precisa la Corte – era dovuta unicamente al fatto che l’attività si svolgeva in Italia, ma non è stata fornita alcuna prova sull’eventuale rischio di creditori o lavoratori. Bocciata anche la tesi basata sulla necessità di reprimere frode ed evasione fiscale perché il solo trasferimento di sede non è di per sé prova di un abuso, anche se l’attività della società viene svolta nel primo Stato membro.
Non conta mantenere l’attività in Italia
Il Sole 24 Ore 27 Aprile 2024 di Marco Piazza
Anche se la vicenda oggetto della sentenza C-276/2022 (si veda l’articolo sopra) risale al 2010, il giudizio della Corte Ue è ancora attuale perché riguarda una disposizione – l’articolo 25, commi 1 e 2, della legge 218/1995 – ancora vigente nonostante la riforma del regime civilistico delle operazioni societarie internazionali (Dlgs 19/2023 di recepimento della direttiva 2019/2121/UE). La direttiva ha armonizzato la materia, dato che la Corte Ue è stata più volte chiamata a giudicare sulla conformità del diritto privato internazionale di diversi Stati membri con il principio di libertà di stabilimento.
Le principali sentenze sugli effetti dei trasferimenti di sede sono quelle nei casi Cartesio (causa C-210/06); Vale (causa C-378/10) e Polbud (causa C-106/16) i cui esiti sono sintetizzati nella circolare Assonime 16/2023, nel senso che:
il trasferimento di sede legale è il mezzo per cambiare legge applicabile in continuità giuridica, anche senza il trasferimento della sede effettiva né di alcuna attività economica; sotto questo aspetto, il nuovo articolo articolo 2510-bis del Codice civile stabilisce che il trasferimento della sede statutaria implica il mutamento di legge applicabile;
è anche possibile trasferire la sede (effettiva) senza mutamento della lex societatis. Le società, cioè, possono trasferire la loro sede in un altro Stato, mantenendo la legge regolatrice dello Stato di partenza; il trasferimento di sede senza mutamento della legge regolatrice non è però realizzabile quando lo Stato di partenza adotta il criterio della sede effettiva o reale; ne consegue che lo Stato di costituzione non può impedire il trasferimento della sede effettiva di una società, ma può prevedere che tale trasferimento determini la perdita della nazionalità della società.
In questo contesto, i commi 1 e 2 dell’articolo 25 del Dlgs 218/1995 presentano aspetti di criticità in quanto prevedono che, se la società ha la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale in Italia resta assoggettata alla legge italiana. Nel caso in cui, quindi, una società italiana intenda trasferire la sede legale all’estero, assoggettandosi alla legge dello Stato di destinazione, ma mantenendo in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto dell’attività, il trasferimento non è impedito dalla legge italiana, ma la società resta soggetta sia alla legge dello Stato di destinazione sia alla legge italiana. Una norma che pare in contrasto soprattutto con la sentenza Polbud che è esplicita nel senso che il diritto di mutare ordinamento giuridico in continuità giuridico-soggettiva, è protetto dalla libertà di stabilimento anche laddove la società trasferisca la sola sede legale, ma non la sede effettiva. La Cassazione (ordinanza 11600/2022) ha quindi sollevato la questione pregiudiziale presso la Corte di giustizia che ha dato origine alla sentenza in commento. La Corte Ue dichiara la norma nazionale illegittima nella misura in cui eccede – parrebbe per la sua genericità – quanto necessario per raggiungere l’obiettivo di tutela degli interessi dei creditori, dei lavoratori e dei soci di minoranza che figurano tra i motivi imperativi d’interesse generale che potrebbero giustificare una restrizione della libertà di stabilimento.