Una sola email dai toni forti può costare il posto al dirigente

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 28 febbraio 2022 di Marcello Floris e Valentina Pomares

La nozione di giustificatezza del recesso è più ampia di quella di giusta causa

Il rapporto di fiducia che lega il dirigente al datore è particolare e accentuato

Basta un solo episodio di intemperanza perchè il licenziamento di un dirigente sia considerato legittimo. Nel caso esaminato dalla Cassazione nell’ordinanza 2246 pubblicata il 26 gennaio scorso, si è trattato di una email in cui il dirigente accusava la proprietà della società datrice di lavoro di aver tradito la propria fiducia e buona fede. Il licenziamento è stato riconosciuto legittimo, a esito dei tre gradi di giudizio. Nel messaggio di posta elettronica che ha causato il recesso, il dirigente licenziato aveva sottolineato così il deteriorarsi del rapporto con la società: «Non so quanto ancora potrò sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile».

A fronte di queste esternazioni, il dirigente era stato licenziato per giusta causa. In primo grado la sussistenza della giusta causa era stata esclusa, ma il licenziamento è stato comunque ritenuto giustificato e la pronuncia è stata confermata in appello e in Cassazione. Sono state respinte le domande di risarcimento danni per mobbing e dequalificazione e la domanda di indennità supplementare.

La nozione di giustificatezza applicata dalla Corte non è contenuta nella legge, ma trova origine nella contrattazione collettiva e nella elaborazione giurisprudenziale. Il concetto di giustificatezza non coincide con quello di giusta causa e giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ma è molto più ampio ed è applicabile solo al rapporto di lavoro dirigenziale. Fatti o condotte non idonee a integrare la giusta causa o il giustificato motivo possono invece valere a giustificare il licenziamento del dirigente.

In generale, il licenziamento del dirigente, per essere giustificato, deve essere motivato da ragioni non discriminatorie né arbitrarie, ma oggettive e concretamente accertabili o comunque tali da ledere il particolare e accentuato rapporto di fiducia che lega il dirigente al datore di lavoro. Secondo la giurisprudenza della Cassazione alla quale fa riferimento l’ordinanza 2246/2022, «ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso». Assume così rilevanza qualsiasi motivo che sorregga il recesso, con motivazione coerente, fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto.

Nel caso specifico, la motivazione è stata giudicata idonea a escludere l’arbitrarietà del recesso per effetto della rilevanza del fatto contestato in termini di turbamento del vincolo fiduciario, tanto più intenso quanto più elevato è il ruolo dirigenziale del dipendente. La Corte ha quindi respinto l’assunto difensivo secondo cui un singolo episodio non sarebbe sufficiente a fondare il licenziamento. Parimenti è stato giudicato privo di rilevanza il fatto che il messaggio che ha originato il recesso sia stato una reazione a un preciso accadimento.

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Reati tributari, no alla confisca dell’immobile donato ai figli

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2022 di Laura Ambrosi

A meno che non è provato che si tratti di un trasferimento fittizio

Nei reati tributari, non è confiscabile il bene immobile donato ai figli se non esistono prove che si tratti di un trasferimento fittizio volto a sottrarre garanzie in danno all’erario. Ad affermarlo è la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4456 depositata ieri.

Il legale rappresentante di una società veniva condannato dalla Corte di appello per il reato di omesso versamento Iva ed era disposta la confisca per equivalente su alcuni beni immobili. La decisione veniva impugnata in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, la conferma della confisca da parte del giudice territoriale nonostante i relativi beni fossero stati donati ai figli dell’interessato. Più precisamente, gli immobili risultavano di proprietà dei figli già prima del sequestro in quanto donati dal padre in epoca precedente.

La Cassazione ha innanzitutto ricordato che per i reati tributari è sempre ordinata la confisca diretta del prezzo o del profitto o quando ciò non sia possibile, per equivalente. Essa non può riguardare beni di un terzo estraneo al reato o dei quali il condannato non ha la disponibilità.

I giudici di legittimità hanno anche precisato che la «disponibilità», non è la formale titolarità, ma la concreta relazione con il bene. La definizione ai fini penali, non coincide con quella civilistica di proprietà, ma con il possesso, includendo così tutte le situazioni nelle quali il bene è nella sfera degli interessi economici del reo. Tale condizione si verifica anche quando il potere dispositivo sia esercitato tramite terzi, ma in concreto è in capo al reo (Cassazione, sentenza 34602/2021).

Nella specie, secondo la Cassazione, il giudice di merito aveva confermato la misura cautelare nel presupposto di una donazione strumentale, volta cioè alla sottrazione di garanzie all’erario, escludendo la buona fede del donante e dei donatari. Tale conclusione, però, non era supportata da prove o da un’adeguata indagine, fondandosi solo sul rapporto di parentela tra coloro che avevano ricevuto gli immobili e il reo.

Tuttavia, per i giudici di legittimità, il padre poteva aver realmente trasferito il bene ai figli, senza mantenerne l’effettiva disponibilità. Nella specie, non vi erano indizi idonei a dimostrare del fatto l’effettuazione della donazione in danno del creditore erariale. Peraltro, ove, il trasferimento fosse stato fittizio e non reale, doveva essere contestato il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 del decreto legislativo 74/2000). La decisione della Corte di appello era pertanto meramente assertiva e priva di affidabilità.

La pronuncia è interessante poiché pare rimarcare la necessità di un’accurata valutazione soprattutto nell’ipotesi in cui il bene da confiscare non sia di proprietà del condannato. Sebbene, infatti, sia possibile quando esista il possesso del bene a prescindere dalla titolarità, occorre pur sempre un’analisi sull’effettività dell’esercizio dei poteri dispositivi.

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Per il Fisco l’amministratore unico non è dipendente

4 Marzo 2022

Il Sole 24 Ore lunedì 7 febbraio 2022 di Pasquale Dui

Anche per la V sezione incarichi incompatibili Vale anche per il presidente

Se manca la subordinazione il relativo costo è indeducibile dal reddito della società

Assoluta incompatibilità, in tema di imposte sui redditi, tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa. Sul punto interviene anche la sezione tributaria (la V) della Cassazione con le sentenze del 23 novembre e del 2 dicembre 2021. Questo perché il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni, che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale e indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente.

La subordinazione

La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del Cda di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, ai fini della deducibilità del relativo costo dal reddito d’impresa, non deve essere verificata soltanto in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo, invece, accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita.

Tradizionalmente questa problematica è stata affrontata massicciamente dalla giurisprudenza del lavoro e dalla prassi amministrativa Inps, attraverso, rispettivamente, sentenze e circolari amministrative.

La Cassazione

Come detto, due recenti sentenze della sezione tributaria della Cassazione si sono susseguite a breve distanza, affrontando l’annosa questione della compatibilità tra la qualifica di lavoratore subordinato e quella di consigliere di amministrazione, nei suoi profili di impatto sulle tematiche fiscali, direttamente o indirettamente implicate, in tema di deducibilità dal reddito di impresa dei costi per il lavoro subordinato e in tema di onere probatorio sulla dimostrazione della veridicità della posizione di lavoratore subordinato (sentenza 36362/2021 del 23 novembre e sentenza 38017/2021, del 2 dicembre 2021).

L’agenzia delle Entrate ha recuperato a tassazione nei confronti della società istante le spese sostenute dalla stessa nei confronti di due soci e amministratori, a titolo di lavoro subordinato, in assenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di rapporto, quali la sottomissione al potere direttivo, gerarchico e disciplinare. In particolare, per l’Agenzia, con riferimento al socio e amministratore, componente del Cda della società contribuente, questi godeva di autonomia decisionale e, nello svolgimento delle sue mansioni, non rispondeva del suo operato ad alcun superiore gerarchico.

Quanto all’altro amministratore, questo era presidente del consiglio di amministrazione, sicché essendo munito della rappresentanza generale della società, non era ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato, poiché il potere di rappresentanza equivaleva al potere di controllo, con la conseguente incompatibilità delle due cariche. Pertanto, i due soci e amministratori, rispettivamente, oltre al compenso quali componenti del consiglio di amministrazione, e quale presidente del consiglio di amministrazione, hanno percepito dalla società anche compensi da lavoro dipendente.

Secondo la decisione della Suprema Corte, la sentenza del giudice d’appello ha errato nell’applicazione dei principi giurisprudenziali di legittimità in materia, con riferimento alla possibilità del socio amministratore di svolgere anche, in parallelo, una attività di lavoro subordinato.

Invero, per la Corte è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cassazione, sezione 5, 28 aprile 2021, numero 11161).

GIURISPRUDENZA E PRASSI

Serve la subordinazione

La qualifica di amministratore di una società commerciale non è di per sé incompatibile con la condizione di lavoratore subordinato, ma perché sia configurabile un simile rapporto è necessario che colui che intende farlo valere non sia amministratore unico della società e provi in modo certo il requisito della subordinazione che deve consistere nell’effettivo assoggettamento – nonostante la carica di amministratore rivestita – al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.

Cassazione, sezione V, n. 38017 del 2 dicembre 2021

Ruoli non cumulabili

In tema di imposte sui redditi, sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni, che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione.

Cassazione, sezione V, n. 36362 del 23 novembre 2021

Mansioni diverse

La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., sez. L. 26 ottobre 1996, n. 9368; Cass., 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 11 novembre 1993, n. 11119).

Cassazione, Ordinanza, sezione V, n.11161 del 28 aprile 2021

Gli organi di controllo

Le qualità di amministratore e di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono cumulabili purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed è altresì necessario che colui che intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato fornisca la prova del vincolo di subordinazione e cioè dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo

di amministrazione

della società.

Cassazione, Ordinanza, 3 aprile 2019, n. 9273

Le verifiche

Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un “alter ego” dell’imprenditore, è necessario, se non c’è un contratto, verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all’interno della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve od attenuata, alle direttive, agli ordini ed ai controlli del datore di lavoro.

Cassazione 19 novembre 2018, n. 29761

Le regole Inps

Il rapporto di lavoro subordinato è ritenuto compatibile con la qualità di amministratore purché esista effettivamente il vincolo della subordinazione, ovvero, per dirla in altri termini, da una diversa prospettiva, la medesima attività non può essere oggetto, nel contempo, del rapporto di lavoro subordinato e del lavoro di amministrazione, essendo, invece, indispensabile individuare una serie di mansioni riconducibili esclusivamente al contratto di lavoro.

Messaggio Inps 17 settembre 2019, n. 3359

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Decreto Delegato nr 22 del 23Febbraio 2022 – Disposizioni transitorie per la presentazione del bilancio degli operatori economici

4 Marzo 2022

Si informano tutti gli interessati che,  in via transitoria, è ancora possibile redigere ed inoltrare per l’anno 2022 in formato PDF o PDF/A  la Nota Integrativa da presentarsi in sede di redazione del Bilancio Civile.

DD22-2022

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Circolare 21 gennaio 2021 Prot. n.6785 Ufficio Tributario – Proroga termini di pagamento di sanzioni relative agli obblighi dichiarativi di cui allegato “M” della dichiarazione dei redditi

7 Febbraio 2022

Per opportuna conoscenza si allega la Circolare Prot nr 6785 dell’Ufficio Tributario che proroga di 60gg il pagamento delle sanzioni già irrogate relative al quadro M della dichiarazione dei redditi relativa ai periodi di imposta 2017 2018 e 2019.

Circolare Prot 6785-2022

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Decreto Delegato 17 gennaio 2022 nr 4 – Intervento di sostegno in favore di agenzie di viaggio e turismo e di tour operator in seguito all’emergenza sanitaria da Covid-19

7 Febbraio 2022

Il Decreto Delegato nr 4 prevede un intervento di sostegno a favore delle Agenzie  Viaggi e di Tour Operator consistente in un contributo a fondo perduto fino ad un massimo di € 20.000,00  a operatore. Sul sito www.finanze.sm nella Sezione Aree tematiche è disponibile il modulo per la presentazione della relativa istanza da parte degli operatori economici interessati da inoltrarsi a mezzo raccomandata elettronica T-Notice al Dipartimento Finanze e Bilancio entro il 31 marzo 2022.

DD4-2022

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Decreto Legge 14 gennaio 2022 nr 3 – Rafforzamento delle disposizioni per il contrasto alla diffusione del contagio da COVID -19

7 Febbraio 2022

Si allega il testo completo dell’ultimo Decreto Legge in tema di COVID  segnalando che l’Allegato 2 presenta un’utile tabella riassuntiva delle disposizioni con i riferimenti temporali.

DL3-2022+All

Si evidenziano i seguenti punti:

Viene introdotta la certificazione base (green pass base) e quella rafforzata (green pass rafforzato).

GREEN PASS BASE: La certificazione base (green pass base) viene rilasciata nei seguenti casi: avvenuta vaccinazione che ha validità 270 giorni a far data dal completamento del ciclo vaccinale (seconda dose); ulteriori 270 giorni dopo la somministrazione della dose booster; avvenuta guarigione da meno di 180 giorni; il tampone antigenico rapido nelle ultime 48 ore o molecolare nelle ultime 72 ore. Non è più valida ai fini della certificazione la conta anticorpale.

GREEN PASS RAFFORZATO: La certificazione rafforzata (green pass rafforzato) viene rilasciata nei seguenti casi: avvenuta vaccinazione o guarigione nei 150 giorni precedenti. Tale validità entra il vigore il 1 febbraio 2022 (art. 6 comma 1).

Ai soggetti che in seguito a vaccinazione o a guarigione sia scaduta la validità delle certificazioni, la presentazione di documento attestante la prenotazione per la somministrazione della dose vaccinale è considerata equivalente alla proroga della validità degli stessi documenti fintanto che la Direzione Generale ISS non abbia dichiarato esaurite le code di prenotazioni vaccinali (art. 9 comma 3).

USO DELLA MASCHERINA: La mascherina è obbligatoria in tutti i locali chiusi aperti al pubblico. È obbligatoria la mascherina FFP2 sui mezzi di trasporto pubblico, nei luoghi chiusi (inclusi i posti di lavoro) in cui non sia possibile garantire posti a sedere per tutti i presenti e comunque ogni qualvolta non sia possibile mantenere un distanziamento di almeno 1,5 metri, a tutti gli operatori a contatto con il pubblico dei supermercati e delle attività di vendita di generi alimentari e delle attività di somministrazione di cibi e bevande. È consigliato utilizzare la mascherina anche all’aperto, ed è obbligatoria qualora non sia possibile rispettare il distanziamento (art. 3).

LOCALI CHIUSI APERTI AL PUBBLICO: Ogni locale aperto al pubblico deve rispettare il limite di accesso tale da assicurare il mantenimento di almeno 1,5 metri di distanza interpersonale e costante ed è vietata la messa a disposizione di quotidiani e riviste. Le medie e grandi strutture hanno come numero massimo 1 persona ogni 15 metri quadrati di superficie di vendita (art. 4).

ACCESSO AL LUOGO DI LAVORO: L’accesso ai luoghi di lavoro pubblici e privati, ad esclusione dei lavoratori delle attività di somministrazione di alimenti e bevande e strutture ricettive che devono avere la certificazione base, è consentito senza la presentazione di alcuna documentazione (art. 11).

I datori di lavoro privati devono riorganizzare la propria attività prevedendo, in ogni caso possibile e compatibile con l’attività aziendale, modalità di lavoro dal domicilio per almeno il 20% del personale o altre misure ovvero la fruizione di ferie, congedi retribuiti o altri strumenti previsti dai Contratti Collettivi.  Sono altresì obbligati a prevedere un adeguato distanziamento fra i dipendenti rimasti in azienda e l’utilizzo continuo della mascherina FFP2 nel caso non sia possibile mantenere un distanziamento interpersonale continuo di almeno 1,5 metri. 

Il datore di lavoro è autorizzato, qualora lo ritenga utile ad esempio in seguito a contagi interni alla struttura a richiedere ai propri dipendenti l’effettuazione di un tampone (a spese dell’azienda) per evitare il rischio di contagi. Il lavoratore impossibilitato ad accedere al posto di lavoro causa mancanza di tale documento ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e l’assenza può essere coperta tramite ferie o altri congedi retribuiti previsti dai Contratti Collettivi oppure da permessi non retribuiti.

Art.24, 25, 28 : Viene identificata la modalità di remunerazione del genitore che assiste il minore o disabile non autosufficiente in quarantena; vengono stabilite le misure a tutela della maternità; viene stabilito un permesso parentale straordinario per nuclei conviventi.

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Trust. Attesa da 30 anni una norma nazionale

7 Febbraio 2022

Il Sole 24 Ore 29 gennaio 2022 di Lucilla Incorvati

Boom di contenziosi, in arrivo nel 2023 la disciplina elvetica che aiuterà gli italiani

Sono trascorsi 30 anni (1/01/1992) dall’arrivo della Legge con la quale l’Italia recepì la convenzione de l’Aja sul riconoscimento giuridico del trust. Ad oggi in mancanza di una legislazione nazionale, ci si appella ancora ad altre normative straniere (Malta, Jersey e San Marino) ma presto le cose potrebbero cambiare con l’arrivo della legge svizzera sul trust nel 2023. «Redatta nelle tre lingue della confederazione, tra cui l’italiano, la legge agevolerà professionisti e clienti italiani – sottolinea Andrea Baroni, Partner di Capital Trustees AG – che avranno a disposizione un’alternativa semplice che, pur mantenendo le caratteristiche essenziali del trust di tradizione anglosassone, prende a riferimento modelli di civil law». In questo arco temporale molte cose sono successe sul piano giuridico, fiscale, antiriciclaggio. Il trust si è diffuso, andando a coprire ambiti molto importanti non riguardanti solo la sfera patrimoniale. Si pensi alla legge sul “Dopo di noi” e di come il trust ben funzioni a protezione di soggetti fragili.

È in itinere anche il registro dei trust che darà un’esatta dimensione della diffusione. «Al momento possiamo prudentemente stimarli tra i 7mila e i 15mila – spiega Fabrizio Vedana, amministratore di Across Group – ed è ipotizzabile una fotografia puntuale solo nel 2023 in quanto all’iscrizione nel registro (ndr dopo il benestare del Consiglio di Stato ora spetta al Mef istituirlo) saranno da subito obbligati i nuovi trust, mentre per quelli già operativi si dovrà definire una modalità». Certo è che in questi 30 anni non tutto ha funzionato. A testimonianza del contenzioso in materia tributaria, civile e penale ci sono 1.427 documenti di cui 1.365 sono provvedimenti giudiziali. «Il 50% delle cause civili sono azioni revocatorie, quindi avviate da un soggetto per il quale la costituzione di un trust ha leso un diritto di credito – sottolinea Vedana- e questo mette in luce un tema di grande attenzione, vale a dire che il trust non dovrebbe essere creato per sottrarre un patrimonio. Anche sul fronte penale un terzo delle cause è legato alla sottrazione di patrimoni ricorrendo a comportamenti delittuosi. Mentre quello tributario è figlio di una normativa fiscale cambiata molto negli ultimi 20 anni e che ha avuto un’impennata con un intervento dell’Agenzia delle entrate che imponeva il versamento delle imposte di successione e donazione alla nomina dei beneficiari». Ma come spiega l’esperto è in arrivo (forse a giorni), dopo una pronuncia in senso contrario della Cassazione, una nuova circolare dell’Agenzia con la quale si chiarirà che l’imposta sarà dovuta solo quando il Trust devolverà effettivamente il patrimonio ai beneficiari e non alla nomina. «Un chiarimento – conclude Vedana – che potrebbe fare da volano spingendone il ricorso tra le famiglie che hanno ricchezze da trasferire ai propri eredi».

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Corte Ue, alt al modello spagnolo: a rischio il nostro quadro RW

7 Febbraio 2022

Il Sole 24 Ore 31 gennaio 2022 di Stefano Capaccioli  e Dario Deotto

Con sentenza del 27 gennaio 2022, C-788/2019, la Corte di giustizia ha sancito che la normativa spagnola, che obbliga i soggetti residenti in Spagna a dichiarare i loro beni o i loro diritti situati all’estero, è contraria al diritto dell’Unione in quanto non conforme al principio di proporzionalità. Questo può determinare una serie di (indirette) conseguenze anche per il quadro RW “nostrano” (si veda anche Il Sole 24 Ore di venerdì scorso).

La normativa spagnola che obbliga alla presentazione del «Modello 720» è contenuta nella Ley General Tributaria n. 58/2003, la quale prevede la comunicazione delle attività detenute all’estero, con rilevanti penalità in caso di omessa ovvero di infedele dichiarazione.

La Corte di giustizia ha dichiarato che la Spagna è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio della libera circolazione dei capitali dato che l’obbligo di presentazione del «Modello 720» e le sanzioni collegate all’inosservanza o all’adempimento inesatto o tardivo di tale obbligo, che non hanno equivalenti per quanto riguarda i beni o i diritti situati nel territorio spagnolo, istituiscono una disparità di trattamento tra i residenti in Spagna.

Secondo la Corte, tale obbligo è idoneo a dissuadere, impedire o limitare le possibilità dei residenti di tale Stato di investire in altri Paesi e, pertanto, costituisce una restrizione alla libertà di circolazione dei capitali.

La Corte sottolinea che gli obiettivi di contrasto all’evasione tributaria non risultano perseguiti con proporzionalità dato che la normativa spagnola eccede quanto necessario in relazione ai termini di prescrizione, alla misura della penalità proporzionale nonché con riguardo alle previste sanzioni forfettarie, il cui importo non è commisurato alle penalità previste per infrazioni simili. In particolare viene stabilito che la presunzione spagnola – la quale prevede che si considerino plusvalenze patrimoniali non dichiarate le somme corrispondenti al valore dei beni non dichiarati nel «Modello 720» (presunzione abbastanza simile a quella italiana del Dl 78/2009) senza fissare un preciso termine prescrizionale (da noi, decadenziale) – eccede quanto necessario per garantire l’efficacia dei controlli fiscali e per contrastare l’evasione e l’elusione.

Parimenti non rispettosa del principio di proporzionalità viene ritenuta la sanzione spagnola del 150 per cento (determinata sull’imposta calcolata sulle somme detenute all’estero) la quale, sommandosi ad altra di carattere forfettario, viene ritenuta che arrechi un pregiudizio sproporzionato alla libera circolazione dei capitali. Lo stesso viene stabilito per le sanzioni formali di carattere forfettario, il cui importo non risulta conforme alle penalità previste per infrazioni simili nel contesto nazionale spagnolo.

I principi che la Corte di giustizia ha elaborato – e che confermano (punto 27) che la mera circostanza che un contribuente detenga beni al di fuori del territorio dello Stato non può legittimare una presunzione legale di evasione – possono mettere a rischio il sistema italiano di monitoraggio tributario del Dl 167/1990, dato che le “conseguenze” sia sotto il profilo sanzionatorio che presuntivo appaiono molto simili a quelle spagnole. Sicché va indagato se l’entità delle sanzioni previste in Italia rispettano davvero il principio di proporzionalità.

Risultano a rischio, sotto tale profilo, le conseguenze che si hanno quando le violazioni sono commesse per più anni, posto che ai fini della definizione a un terzo ex articolo 16 del Dlgs 472/1997 il software delle Entrate si è letteralmente inventato un confronto con un’Irpef che di fatto non esiste. Parimenti sproporzionate risultano le penalità legate alle attività detenute nei paesi cosiddetti black list e non, invece, eventualmente, riferite alle attività detenute in Stati terzi (rispetto alla Ue) che non consentono un adeguato scambio di informazioni. In tal caso, infatti, oltre alla sanzione dal 6 al 30 per cento delle attività non dichiarate, si ha la presunzione (difficilmente sconfessabile) in base alla quale le predette attività si ritengono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia (articolo 12 del Dl 78/2009). Presunzione per la quale i termini decadenziali di accertamento risultano raddoppiati; così come raddoppiate risultano le sanzioni ordinariamente applicabili dell’articolo 1 del Dlgs 471/1997.

In sostanza, le misure sanzionatorie nazionali (dirette e indirette) relative al monitoraggio fiscale sembrano davvero istituire una restrizione sproporzionata alla libera circolazione dei capitali.

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Veicoli con targa estera: altra stretta sui furbetti e arrivano le multe

7 Febbraio 2022

Il Sole 24 Ore 10 gennaio 2022 di M.Cap.

Obbligo di registrazione al Pra entro tre mesi, ma resta il nodo reperibilità

Dopo tre anni controversi, cambia la stretta contro i “furbetti della targa estera”. Ma le novità non sanano tutte le criticità rilevate dalla Corte Ue e toccano solo in parte chi “si organizza” con leasing, noleggio e comodato all’estero. Inoltre, in caso di incidente, si creano problemi non affrontati nemmeno dalla nuova direttiva sulla Rc auto (articolo sotto).

Il fenomeno dei “furbetti”, iniziato negli anni Novanta, era esploso con gli inasprimenti fiscali del 2011 sull’auto: per evitare le tasse di iscrizione al Pra (Ipt) e proprietà (bollo), il caro assicurazione Rc auto, le notifiche delle multe e gli indici di reddito utilizzati dal Fisco, non pochi residenti in Italia hanno iniziato a circolare con targa estera. Alcuni italiani con vetture di lusso in leasing o noleggio, molti altri stranieri con auto più normali e vecchie.

Il Dl 113/2018 ha stroncato molti tra questi ultimi. Ha modificato l’articolo 93 del Codice della strada vietando ai residenti da più di 60 giorni di guidare veicoli immatricolati all’estero. Salvo noleggio o leasing presso operatori Ue o See (Spazio economico europeo) che non abbiano in Italia una sede secondaria o effettiva. L’altra eccezione era per dipendenti o collaboratori di aziende Ue o See che davano loro un veicolo in comodato. Sanzioni: multa di 711 euro e confisca (evitabile immatricolandolo in Italia entro 180 giorni).

La Legge europea 2019-2020 approvata definitivamente dalla Camera il 21 dicembre introduce un articolo 93-bis, con vari correttivi. Includendo anche i rimorchi, modulando le sanzioni e allargando le esenzioni (ai mezzi targati San Marino). Ma soprattutto viene in parte riformulato il divieto: i veicoli con targa estera di proprietà di residenti in Italia possono circolare nel Paese per tre mesi da quando l’interessato ha preso la residenza italiana. Quindi c’è un mese in più per adeguarsi, ma le sanzioni scattano anche se guida un residente all’estero, perché conta chi è il proprietario.

Il conducente resta rilevante quando è persona diversa dal proprietario e risiede in Italia: qui occorre a bordo «un documento, sottoscritto con data certa dall’intestatario», con titolo e durata della disponibilità del veicolo (prima necessario solo per leasing, noleggio o comodato). Quando il residente in Italia (o una persona giuridica con sede nel Paese) dispone del veicolo per più di 30 giorni «anche non continuativi, nell’anno solare», scatta un trattamento analogo a quello previsto dal Codice (articolo 94, comma 4-bis) per i mezzi immatricolati in Italia utilizzati da chi non ne è proprietario: titolo e la durata della disponibilità vanno registrati dall’utilizzatore in un elenco che sarà tenuto dal Pra. La registrazione va aggiornata in caso di cambi di disponibilità o di residenza. Registrazione anche per i mezzi di proprietà di lavoratori subordinati o autonomi che esercitano attività professionale in uno Stato limitrofo o confinante; i loro familiari conviventi residenti in Italia possono guidarli.

In caso di circolazione con targa estera senza documento o registrazione, quest’ultima va effettuata dal conducente «immediatamente».

I mezzi registrati sono soggetti al Codice italiano. Quindi si incide sul problema delle multe, che saranno notificate a chi ha disponibilità del veicolo in Italia, sempreché sia reperibile. Si vedrà se questa “nazionalizzazione” sarà interpretata anche nel senso di consentire la revisione in Italia, finora impossibile. Ma non si incide sull’evasione di Ipt e bollo, che non sono nel Codice: occorrerebbe targare il mezzo in Italia. Certo, la reimmatricolazione è obbligatoria anche col nuovo articolo 93-bis, ma come in passato è evitabile riportando il mezzo all’estero.

L’obbligo di reimmatricolare pare poi confermare una criticità sollevata dalla Corte Ue il 16 dicembre (sentenza sulla causa C-274/20) sulla norma precedente: l’uso temporaneo di veicoli in un altro Stato Ue è qualificabile come movimento di capitali, quindi tutelato dall’articolo 63 del Tfue vietando le misure tali da dissuadere i residenti dal contrarre prestiti in altri Stati membri. Secondo la Corte, l’obbligo di reimmatricolazione in Italia è come una tassa sul comodato d’uso transfrontaliero, che favorisce quello nazionale.

Doing business in San Marino

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