La tassa fissa decolla: quadruplicati i nuovi residenti in Italia

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 27 agosto 2020 di Cristiano Dell’Oste

REDDITI ESTERI

Nel 2019, terzo anno di applicazione, sfruttata da 421 nuovi residenti

Sono 421 i “Paperoni” che hanno trasferito la residenza in Italia per sfruttare la tassa fissa da 100mila euro introdotta con la manovra 2017. Il dato è riferito all’anno d’imposta 2019 ed è quadruplicato rispetto ai 99 beneficiari del primo anno di applicazione.

I loro nomi sono un segreto ben custodito dai consulenti che ne hanno curato le pratiche, ma il regime agevolato è disegnato per attrarre soprattutto ricchi rentier stranieri e qualche italiano “di ritorno” dopo un lungo periodo all’estero (servono, infatti, almeno nove anni di residenza al di fuori del nostro Paese nei dieci periodi d’imposta precedenti l’opzione).

Spesso impropriamente definita flat tax, quella prevista per i Paperoni è in realtà un’imposta fissa, pari appunto a 100mila euro all’anno. Dura fino a un massimo di 15 anni e sostituisce l’Irpef sui redditi prodotti all’estero, e questo spiega perché sia particolarmente appetibile per chi mantiene oltreconfine patrimoni, imprese e attività. Non sempre rientrano nel target della tassa fissa, invece, i calciatori e gli altri sportivi professionisti stranieri che vengono a giocare in Italia: se non hanno molti redditi esteri, per loro può essere più vantaggiosa la detassazione del 50% introdotta dal decreto Crescita del 2019 (Dl 34), applicabile per cinque anni dal trasferimento nel nostro Paese e rinnovabile a certe condizioni per altri cinque anni.

L’imposta fissa può essere applicata anche ai familiari del beneficiario, che pagano 25mila euro a testa. Tecnicamente, la scelta avviene nella dichiarazione dei redditi riferita al periodo d’imposta in cui il familiare trasferisce la residenza fiscale in Italia o in quella successiva. Ma c’è anche un’istanza preventiva di interpello probatorio alle Entrate, per verificare se si ha diritto al regime.

Il gettito per l’Erario riferito al 2019 è di almeno 42,1 milioni (più la quota dei familiari, il cui numero non è noto). Si tratta di una cifra tutto sommato modesta, ma l’obiettivo della tassa fissa non è mai stato quello di fare cassa, quanto piuttosto quello di far arrivare in Italia “super-consumatori” ad alta capacità di spesa, con effetti positivi sull’Iva e sull’indotto, in particolare del lusso. Effetti, comunque, ancora tutti da misurare e che potrebbero essere stati duramente ridotti dal lockdown dei mesi scorsi.

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Amazon risponde per i danni causati dai prodotti venduti

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 21 agosto 2020 di Alessandro Galimberti e Andrea Monti

DIRITTO DELLA RETE

Rivoluzionaria sentenza su e-commerce della Corte d’Appello della California

Amazon responsabile per la difettosità (e per i danni) del prodotto venduto sul suo marketplace. Con una sentenza destinata a condizionare molte giurisdizioni, la Corte d’appello della California (Cal. Ct. App., 4th Dist., No. D075738 – Bolger vs Amazon.com Inc.) rompe il tabù della intangibilità degli Ott digitali.

Il caso, semplice nello sviluppo dei fatti (una batteria per laptop esplosa in faccia all’acquirente mesi dopo l’acquisto), ha comportato però un lungo excursus del giudice – che peraltro ha ribaltato il primo grado – nella regolamentazione nazionale, e di riflesso europea, sugli intermediari digitali.

Nella prospettiva “italiana” tre sono i punti interessanti. Il primo è di puro merito: i criteri per l’imputazione dei danni da responsabilità da prodotto definiti dalla giurisprudenza statunitense sono analoghi a quelli stabili dal Codice del consumo. I principi sono quindi traslabili nel nostro sistema.Il secondo punto è che, diversamente da quanto potrebbe sembrare, la sentenza riafferma la non responsabilità (“neutralità”) degli operatori e-commerce, ma, nel caso specifico, Amazon.com non può avvalersene. È vero infatti che il gestore di una piattaforma non può essere responsabile di ciò che fanno gli utenti, ma, se diventa parte della loro attività, assume oneri e onori. Amazon.com, scrive il giudice Usa, è a tutti gli effetti un elemento (fondamentale) della catena verticale del processo di vendita produttore-utente finale: gestisce in via esclusiva la comunicazione con il cliente, la messa a disposizione del prodotto, la logistica della consegna, il pagamento e la “garanzia dalla A alla Z”. Dunque è evidente che il suo ruolo implica un’autonoma responsabilità (peraltro, conformemente ai principi espressi dalla direttiva e-commerce dell’Ue).

«Dato il suo ruolo -dice la Corte – Amazon è parte integrante della catena di produzione e marketing e deve sostenere i costi dei danni provocati da prodotti difettosi». Particolarmente rilevante è il punto nel quale la Corte supera il concetto di responsabilità come legato al produttore o al venditore (e dunque, sostiene Amazon, non al fornitore dei servizi associati alla vendita) affermando che «la dottrina della stretta responsabilità in California supera queste tecnicalità e risarcisce l’attore per i danni provocati da prodotti difettosi». Questa è una differenza sostanziale con il Codice del consumo italiano che, invece, limita le azioni appunto nei confronti dei soli venditori e produttori. Sarà interessante vedere, se un contenzioso simile dovesse nascere anche in Italia, se la giurisprudenza seguirà quella statunitense interpretando estensivamente la nozione di “seller”.

Il terzo punto è la rilevanza dell’affidamento generato da Amazon.com nel cliente finale. Poco importa il titolo giuridico della relazione commerciale: «I prodotti venduti su Amazon godono di una “implicita dichiarazione di sicurezza”, che rende applicabile la previsione di una stretta responsabilità». In altri termini, e anche questo principio è spendibile davanti alle nostre corti, non è il solo (unilaterale) contratto a disciplinare i rapporti con il contraente debole, ma anche l’affidamento generato dalla condotta complessiva dell’operatore di e-commerce.

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La chance delle obbligazioni per pagare i fornitori della Spa

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 10 agosto 2020 di Angelo Busani

OPERAZIONI FINANZIARIE

È possibile emettere titoli per strutturare il debito contratto per le commesse

La delibera societaria deve prevedere i tempi di restituzione del capitale

L’idea di strutturare il debito verso i fornitori con il loro collettivo coinvolgimento in un’operazione di finanza straordinaria – come raccontato nel servizio qui a destra – può essere un’intelligente soluzione per far fronte alle emergenze e alle turbolenze provocate da questo particolare periodo.

Le differenze fra Spa e Srl

L’emissione di obbligazioni da parte di una società per azioni è una soluzione tutto sommato abbastanza semplice. Una strategia più articolata può essere quella dell’emissione, sempre da parte di una Spa, di obbligazioni convertibili in azioni oppure di strumenti finanziari partecipativi (Sfp): in quest’ultimo caso, oltre a organizzare il rimborso del debito, si può giungere a coinvolgere i creditori nella governance stessa della società emittente, ad esempio mediante la nomina da parte dei titolari degli Sfp, di un membro del suo consiglio di amministrazione.

Più complicata è, invece, l’adozione di soluzioni analoghe nelle società a responsabilità limitata, in quanto, in questo caso, è bensì possibile l’emissione di titoli di debito: essi però possono essere destinati solo alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale» (articolo 2483, comma 2, del Codice civile).

Tornando alle obbligazioni emesse da una Spa, la delibera di emissione deve essere adottata dall’organo amministrativo (e cioè il consiglio di amministrazione o, nel sistema dualistico, il consiglio di gestione) a meno che lo statuto stabilisca, sul punto, la competenza dell’assemblea (in ogni caso, il verbale che reca la deliberazione deve essere redatto in forma notarile). La scelta della legge di affidare la competenza all’emissione di obbligazioni all’organo amministrativo dipende dal fatto che si tratta di un’operazione di finanziamento della società e, quindi, di una decisione che attiene alla gestione della società, materia dunque estranea alla competenza dei soci.

I limiti

La legge pone alcuni limiti all’emissione delle obbligazioni:

la società può emettere obbligazioni (necessariamente nominative) per una somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato;

il predetto limite può essere superato se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale (in questa ipotesi, in caso di successiva circolazione delle obbligazioni, chi le trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali);

non è soggetta al limite della somma di capitale e riserve l’emissione di obbligazioni che siano garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi; né l’emissione di obbligazioni destinate ad essere quotate in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione ovvero di obbligazioni convertibili.

La sottoscrizione dei fornitori

Quando si tratta di emettere obbligazioni destinate alla sottoscrizione dei fornitori della società emittente, al fine di incorporare i loro crediti relativi alle forniture effettuate, la delibera di emissione deve appunto prevedere che la sottoscrizione delle obbligazioni avvenga mediante compensazione del debito derivante dalla sottoscrizione con il credito derivante dalle forniture.

Inoltre la delibera di emissione:

deve prevedere i tempi di restituzione del capitale (il che può avvenire in un’unica soluzione oppure in una pluralità di tranches);

deve stabilire se le obbligazioni conferiscano il diritto al percepimento di interessi e, in caso positivo, stabilirne l’entità (in misura variabile o in misura fissa); tra l’altro, i tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società;

può prevedere che il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi può essere, in tutto o in parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società.

La tutela degli obbligazionisti verso la società emittente è affidata a un “rappresentante comune” che essi debbono nominare, una volta riuniti in un’apposita assemblea. L’assemblea degli obbligazionisti, inoltre, delibera sulle materie nelle quali gli obbligazionisti abbiano un interesse comune e, in particolare, sulle modificazioni delle condizioni del prestito che siano proposte dalla società emittente.

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La società trasferita all’estero deve pagare il dovuto al Fisco

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 7 agosto 2020 di Laura Ambrosi

CASSAZIONE

L’obbligazione sui debiti tributari resta anche dopo l’uscita dal registro imprese

Se la società si trasferisce all’estero, la cancellazione dal registro imprese non equivale alla perdita della personalità giuridica con la conseguenza che l’ente rimane obbligato anche dei debiti tributari. Ad affermarlo è la Corte di cassazione con l’ordinanza 16775 depositata ieri.

Una società, trasferitasi all’estero, impugnava tardivamente un avviso di accertamento per asseriti vizi di notifica. In particolare la contribuente lamentava che l’atto fosse stato notificato al legale rappresentante della società nonostante si fosse cancellata dal registro imprese italiano. Inoltre, proprio in conseguenza della citata cancellazione, l’ente doveva comunque considerarsi estinto.

Entrambi i giudici di merito dichiaravano l’inammissibilità del gravame perché tardivo.

La società ricorreva così in Cassazione lamentando, in estrema sintesi, un’errata interpretazione della norma.

I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che in tema di notifica l’articolo 145 del Codice di procedura civile consente alla parte interessata di scegliere, alternativamente, nel caso di persona giuridica, di eseguire la notificazione presso la sede sociale ovvero presso il suo legale rappresentante. Ne conseguiva così la correttezza della notifica nella specie.

Con riferimento invece alla cancellazione della società, la Suprema corte ha rilevato che il trasferimento all’estero non può essere equiparato alla cessazione e quindi all’estinzione del soggetto. La società, infatti, sia pure in altro stato, continua lo svolgimento della propria attività. La Cassazione ha rilevato che conferma in tal senso si ravvisa anche dal Codice civile (articoli 2347, comma primo lett. c) e 2473 comma primo) che attribuisce ai soci il diritto di recesso nel caso di trasferimento della sede all’estero.

È evidente quindi, che tale trasferimento rappresenti solo una continuazione della personalità giuridica, nonostante la cancellazione dal registro imprese italiano.

In conclusione, è stato affermato che tale cancellazione a seguito del trasferimento all’estero non determina alcun effetto estintivo e per i rapporti tributari rimangono ferme sia la titolarità passiva delle obbligazioni, sia la capacità processuale della persona giuridica.

La decisione è particolarmente interessante perché individua una sorta di deroga alla valenza costitutiva della cancellazione dal registro imprese. Dalla pronuncia, infatti, emerge che il trasferimento all’estero, pur comportando in senso formale la cancellazione dal registro imprese, non equivale all’estinzione dell’ente, il quale comunque rimane responsabile anche nell’ambito dei debiti tributari. In sostanza, quindi, il trasferimento all’estero è equiparabile ad un mero cambio di sede.

Tale conclusione induce a un’ulteriore riflessione: non di rado, il trasferimento estero è stato configurato dagli investigatori quale reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Alla luce dei principi ora affermati, quindi, salvo che sussistano altre condotte, difficilmente può configurarsi tale reato, atteso che l’ente è comunque tenuto a rispondere dei propri debiti così come se il trasferimento fosse avvenuto in Italia.

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I paradisi fiscali UE minacciano la stabilità dei mercati globali

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 8 agosto 2020 di Antonio Coppola e Matteo Maggiori (PhD Candidate, Harvard University, Department of Economics; Associate Professor, Stanford University, Graduate School of Business)

I paradisi fiscali UE minacciano la stabilità dei mercati globali

I Paesi Bassi e l’Irlanda sono nuovamente al centro dell’attenzione per il loro ruolo di paradisi fiscali europei. Entrambe le giurisdizioni attraggono le sedi legali di società che in realtà hanno scarsa presenza sul territorio nazionale. Il loro modello economico attira enormi capitali esteri, tassandoli poco o nulla in percentuale. Queste piccole percentuali generano comunque notevoli introiti quando applicate a imponibili molto alti. Il resto del ricavo viene dai servizi legali e finanziari offerti localmente alle società internazionali.

Questi regimi fiscali hanno reso i Paesi Bassi e l’Irlanda veicoli di “capitale fantasma”, ovvero capitale che ha questi Paesi come destinazione solo nominalmente. Gli Stati Uniti ufficialmente investono 449 miliardi di dollari in obbligazioni e azioni emesse da compagnie irlandesi e 518 miliardi in quelle olandesi. In realtà queste compagnie non sono né irlandesi né olandesi, ma semplicemente scatole legali vuote. In un recente studio con Brent Neiman della University of Chicago e Jesse Schreger della Columbia University abbiamo rintracciato questi capitali in giro per il mondo, passando dalle Isole Vergini Britanniche alle Cayman e oltre.

Il capitale investito in obbligazioni emesse da società olandesi finisce in destinazioni sorprendenti. Solo la metà rimane nei Paesi Bassi. Il 29% finisce altrove nell’Eurozona, il 4% negli Stati Uniti e il 3,5% in Brasile. Consideriamo il caso di Petrobras, il colosso petrolifero brasiliano che ha una controllata nei Paesi Bassi per l’emissione di debito. L’azienda ha scarsa presenza sul territorio olandese, ma pressoché la totalità dei capitali che attira da investitori esteri vengono raccolti da due controllate, una a Rotterdam e una nelle Isole Cayman.

La situazione irlandese è simile, ma i capitali sono più strettamente legati agli Stati Uniti. Il 58% del valore delle azioni esistenti sul mercato ed emesse da società irlandesi è in realtà da considerarsi emesso da imprese statunitensi. Molte multinazionali americane, come Medtronics, eseguono un’esterovestizione societaria, registrando la sede legale della società capogruppo in Irlanda per ridurre la tassazione dell’intero gruppo. Paradossalmente, gli investimenti nelle azioni di queste società da parte degli investitori statunitensi non vengono considerati investimenti domestici negli Stati Uniti, come lo sono in realtà, ma piuttosto come investimenti all’estero, in Irlanda. Di conseguenza, Dublino sembra attirare dagli Stati Uniti grandi investimenti azionari per 385 miliardi di dollari.

Per capire quanto speciali siano i Paesi Bassi e l’Irlanda in questo ambito, basta un confronto con la Germania e l’Italia. In entrambi i casi, la quasi totalità delle obbligazioni societarie emesse, ovvero il 97%, appartiene a compagnie nazionali. Queste statistiche delineano un modello economico molto differente.

L’opzione di abbassare le tasse societarie e le ritenute su obbligazioni e azioni è disponibile in teoria a tutti i Paesi. Uno sguardo al sistema finanziario globale rivela che i paradisi fiscali tendono a essere Paesi piccoli e con poche industrie a eccezione di quella finanziaria. Una possibile spiegazione è che un Paese più piccolo trova vantaggioso specializzarsi nell’attirare capitali fantasma tramite una tassazione bassa. Per Paesi più grandi questa tattica è più difficile perché il tentativo di attirare capitali esteri comporterebbe degli squilibri interni con i settori non-finanziari dell’economia. I paradisi fiscali scelgono di focalizzare l’economia verso il settore finanziario. Non è una scelta per tutti.

Molto si è scritto in questi giorni sulla perdita di ricavi fiscali che Paesi come Olanda e Irlanda causano al resto dell’Eurozona. Questo è un argomento importante, ma vogliamo soffermarci qui su altri due aspetti: l’impatto sulla stabilità finanziaria e quello sulla regolamentazione.

Nel cercare di minimizzare la tassazione, le multinazionali e gli investitori hanno creato una rete intricata di posizioni finanziarie. Basti pensare all’esempio di un fondo d’investimento italiano che compra le obbligazioni emesse dalla controllata di Petrobras nei Paesi Bassi. Questa a sua volta passa il capitale ad altre società del gruppo, in Brasile o altrove. Questo è solo un esempio, senz’altro non il più intricato, ma che permette di comprendere la distanza tra la società che emette il debito e le attività produttive che producono i ricavi che lo ripagheranno. Se si verificasse un’ondata di fallimenti societari globali, come potrebbe accadere nella scia della pandemia di Covid, non è chiaro con che facilità gli investitori potranno rifarsi sulle società. Specialmente viste le multiple giurisdizioni coinvolte.

Le società usano questi complessi flussi finanziari anche per aggirare la regolamentazione finanziaria. Un esempio è l’entrata in vigore nel 2016 del regolamento sugli abusi di mercato dell’Unione europea mirato a una maggiore trasparenza del mercato obbligazionario. Appena introdotta la nuova regolamentazione, diverse società particolarmente esposte alle nuove regole, come per esempio Aston Martin, hanno spostato l’emissione delle proprie obbligazioni nell’isola di Jersey. Jersey, anzi, ha attivamente promosso queste nuove emissioni, vantando la maggiore permissività della propria regolamentazione.

Le tensioni finanziarie rischiano di aggravarsi ulteriormente nello scenario post-Brexit. Londra potrebbe volere competere al ribasso con l’Eurozona, sia in termini di tassazione che di regolamentazione finanziaria. L’ascesa di una costellazione di paradisi fiscali dentro l’Eurozona o poco al di fuori è un rischio che le istituzioni comunitarie devono arginare. Un fallimento della politica economica in questo senso comporterebbe mercati finanziari sempre più iniqui e scarsamente controllabili.

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Vendite in nero, non va tralasciato il test sulle giacenze

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore  24 agosto 2020 di Stefano Mazzocchi

CONTROLLI

Il giudice ha valorizzato anche il parere di una società di revisione

Qualora ritenga che siano state poste in essere vendite “in nero”, l’ufficio dovrebbe preoccuparsi anche di svolgere una verifica sulle movimentazioni fisiche intervenute sulle merci in giacenza: lo ha sottolineato la Ctr Lombardia con la sentenza 1222/6/2020, depositata il 24 giugno scorso (presidente Catania, relatore Chiametti).

Al riguardo occorre rimarcare la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «la presunzione di cessione imponibile deve ritenersi operante non soltanto quando non sia rinvenuto il bene ma altresì nell’ipotesi di divergenza fra la consistenza riscontrata e quella dichiarata laddove anche, secondo l’id quod plerumque accidit, è ragionevole ritenere avvenuta la monetizzazione degli elementi patrimoniali non ulteriormente rientranti nella disponibilità del soggetto verificato» (sentenza 8852/2008).

L’assunto che precede appare confermato dalla quinta sezione tributaria della Suprema corte con la sentenza 22563/2012, secondo cui «il riscontro di differenze di magazzino, in sede di verifica, è idoneo a far presumere l’esistenza di ricavi corrispondenti alle merci non giacenti, indipendentemente dalla modestia o meno della differenza, in mancanza di normativa che preveda una soglia minima per l’esercizio del potere dell’ufficio di accertare una pretesa fiscale maggiore di quella dichiarata». Di tenore analogo anche la Cassazione 5869/2013, che ha confermato il principio secondo cui «le eventuali differenze quantitative, derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino (Dpr 600 del 1973, articolo 14, comma 1, lettera d)) o da altra documentazione obbligatoria e le consistenze delle rimanenze registrate, costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo (Cassazione 9628/2012)».

Sull’argomento giova ripercorrere altresì un passaggio della circolare 31/E/2006, laddove l’agenzia delle Entrate chiarì che, in presenza di differenze inventariali, «il verificatore è sempre chiamato a un’analisi complessiva della posizione economica, patrimoniale e gestionale dell’azienda controllata. Conseguentemente, se nel corso del controllo dovessero riscontrarsi le rettifiche contabili sopra descritte, sarà cura del verificatore non limitarsi alla ripresa a tassazione sic et simpliciter degli importi corrispondenti al valore delle predette differenze, ma esaminare il processo di formazione delle stesse e la loro natura fisiologica o patologica in relazione all’attività in concreto svolta dall’impresa e in relazione agli elementi e alle informazioni eventualmente forniti dal contribuente».

In altre parole: se è vero che le differenze in questione possono essere rilevate dal Fisco sulla base di un semplice controllo cartolare, è indubbio che non di rado la giurisprudenza di legittimità sembra essere andata oltre il dettato normativo, prescrivendo di fatto la necessità di una verifica “fisica” dei beni costituenti le rimanenze.

La pronuncia della Ctr in commento appare importante anche perché nell’occasione i giudici lombardi hanno respinto l’appello formulato dall’ufficio anche sulla base di un parere predisposto da una società di revisione: si tratta di un documento che – spiega la Ctr – anche se «può essere considerato di parte», «risulta essere completo ed esaustivo in quanto ha verificato parte della contabilità che andava ad interessare l’annualità (…)». Di conseguenza, «il contenuto contabile di tale elaborato peritale va a confermare le operazioni poste in essere dalla società stessa».

La pronuncia, quindi, rafforza quell’orientamento secondo cui il giudice tributario è tenuto a valorizzare anche le perizie tecniche di parte (Cassazione 11632/2017). Al riguardo si rammenta anche la Cassazione 31274/2018, secondo cui «la perizia di parte (tanto più nel processo tributario, nel quale esiste un maggiore spazio per le prove cosiddette atipiche), può (…) costituire fonte di convincimento del giudice, il quale può porla a fondamento della decisione, a condizione che spieghi le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente».

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Cinque lezioni da memorizzare per il futuro

7 Settembre 2020

Il Sole 24 Ore 26 agosto 2020 di Mariano Corso (Responsabile Scientifico Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano)

L’emergenza Covid-19 ha cambiato per sempre il nostro modo di lavorare. Milioni di lavoratori hanno sperimentato un diverso modo di lavorare, un’esperienza che è destinata a lasciare una traccia indelebile, perché ha abbattuto pregiudizi e cambiato attitudini e aspettative di imprese e persone verso l’organizzazione del lavoro. Per preservare la salute e al tempo stesso garantire continuità dei servizi, imprese e Pubbliche Amministrazioni hanno dovuto superare schemi e routine e far lavorare le loro persone da remoto.

Le organizzazioni che avevano già introdotto modelli di smart working si sono trovate indubbiamente avvantaggiate, le altre hanno dovuto improvvisare. Nessuno però era davvero preparato a una discontinuità che è stata radicale per tutti: prima del Coronavirus, infatti, lo smart working riguardava una percentuale molto contenuta dei lavoratori, appena 600.000 sui 18 milioni di dipendenti in Italia, e prevedeva un ricorso al lavoro a distanza in media di un solo giorno alla settimana che veniva prevalentemente riservato ad attività di concentrazione o lavoro individuale.

Con la pandemia tutto è cambiato: tra lockdown e successiva ripartenza oltre 6 milioni di lavoratori hanno sperimentato un lavoro da remoto a tempo pieno, trovandosi improvvisamente a dover svolgere a distanza ogni attività, comprese quelle di collaborazione e relazione interpersonale che in precedenza avevano sempre assunto richiedessero una copresenza fisica in ufficio.

Si è trattato di un gigantesco test organizzativo i cui esiti sono stati per certi versi sorprendenti: non solo il 68% di lavoratori ha dichiarato di essere riuscito a portare avanti tutte le attività, ma i livelli di efficacia, nonostante l’improvvisazione, sono stati valutati da manager e lavoratori come molto positivi, spesso superiori a quelli precedenti. Attratte dai benefici in termini di produttività e costi sperimentati, moltissime imprese e PA stanno ripensando i propri modelli organizzativi, inserendo in modo strutturale la possibilità di lavorare da remoto. Certamente non sono mancate le criticità, in gran parte attribuibili alla impreparazione e alla necessità di accompagnare e rendere più bilanciato e sostenibile il cambiamento.

Quello che in molti si sono trovati a sperimentare, spesso in maniera improvvisata, non è infatti il “vero” smart working, ma una forma di lavoro da remoto estremo e vincolato, nella quale sono venuti a mancare quei presupposti di volontarietà e flessibilità che sono alla base dello scambio tra autonomia nella scelta delle modalità di lavoro e responsabilizzazione sui risultati su cui si dovrebbe fondare ogni accordo di smart working.

Oggi a qualche mese dall’inizio della pandemia è possibile e opportuno fare un primo bilancio dell’applicazione dello smart working durante l’emergenza per trarne alcune lezioni da applicare nei prossimi mesi e nel futuro. Cinque sembrano le principali lesson learned che meritano attenzione:

1.La capacità di lavorare a distanza utilizzando strumenti e canali digitali è una condizione essenziale di resilienza per organizzazioni, le persone e il Paese nel suo insieme. L’applicazione dello smart working, seppure improvvisata, ha salvato una parte importante dell’economia del Paese. I danni avrebbero potuto essere molto più contenuti se si fosse arrivati all’emergenza maggiormente preparati dal punto di vista culturale, tecnologico e manageriale, tutte condizioni che oggi, a valle di questa esperienza, sarebbe irresponsabile non costruire.

2.L’adozione forzata dello smart working durante la pandemia ha dimostrato che un diverso modo di lavorare è possibile. Milioni di lavoratori hanno imparato quanto possa essere non solo possibile, ma anche efficace lavorare da remoto. Oggi si può e si deve fare tesoro di questa esperienza per disegnare nuovi modi di lavorare, più efficaci, resilienti e sostenibile.

  1. L’emergenza ha permesso di fare in pochi mesi un percorso accelerato di sviluppo di competenze digitali che in condizioni normali avrebbe richiesto anni. Le persone hanno imparato a utilizzare strumenti di collaborazione avanzati, a fruire di servizi digitali, a comunicare, formarsi e relazionarsi efficacemente attraverso canali digitali. Non si deve tornare indietro, ma cogliere questa disponibilità per diffondere maggiormente quelle competenze e attitudini digitali la cui carenza è riconosciuta come uno dei principali ostacoli alla modernizzazione del Paese.
  2. Molti lavoratori e manager hanno compreso l’importanza di una maggiore autonomia e responsabilizzazione sugli obiettivi. L’aspetto più apprezzato dai lavoratori è stata proprio la possibilità di organizzarsi in autonomia e misurarsi sui risultati piuttosto che su orari e adempimenti. Sulla base di questa esperienza si devono oggi ripensare i contratti di lavoro, fermi a logiche novecentesche di cui sempre più lavoratori e imprese non riconoscono il senso.
  3. Lo smart working rende possibili nuovi e più sostenibili modelli di vita ed urbanizzazione, apre nuove possibilità ad aree del nostro Paese fino ad oggi escluse dai principali circuiti economici nazionali e internazionali. Anche a livello locale diventa possibile riscoprire periferie, piccoli centri e territori extra urbani, con benefici potenzialmente enormi in termini sociali e ambientali. Attuare questo potenziale richiede però di colmare quei gap di infrastrutture di connettività che, se non rimossi, rischiano nel futuro di pesare ancora di più sulla possibilità di sviluppo.

Forti di queste lezioni è ora di passare al “vero” Smart Working, un modello capace di bilanciare lavoro in presenza e a distanza e di rendere le nostre organizzazioni più competitive e il nostro Paese più moderno, inclusivo e resiliente.

 

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Decreto Legge nr 141 del 19 agosto 2020 – Modifica alle disposizioni del comma2 dell’art. 15 del D.L. NR 122 DEL 24/7/2020- Cessazione delle misure straordinarie di proroga termini di scadenza dei procedimenti o attività di competenza della Banca Centrale della Repubblica di San Marino

7 Settembre 2020

Si allega il Decreto Legge nr 141 del 19 agosto 2020 in merito alle misure straordinarie dei procedimenti di competenza della Banca Centrale della Repubblica di San Marino

DL141-2020

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Si avvisa la gentile clientela che lo Studio Studio Fiscale Tributario e Legale Dott. Antonio Valentini chiuderà per ferie estive dal 10/08/2020 al 21/08/2020. Si riaprirà al pubblico lunedì 24/08/2020

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Decreto Legge nr 123 del 27/07/2020 – (Ratifica Decreto – Legge nr 114 dell’08/07/2020) – Interventi in ambito di lavoro a supporto dell’emergenza economica causata da Covid-19

7 Agosto 2020

Il D.L.123 del 27/07/2020  ha apportato le seguenti modifiche ed integrazioni al precedente Decreto Legge 114/2020:

–          Art. 3bis – Prestazioni di lavoro occasionali e accessorie

La modifica riguarda unicamente i settori di seguito elencati: bar, alberghi, ristoranti, commercio turistico, operatori del turismo in generale (comprese le attività connesse alle manifestazioni sportive, culturali, fieristiche, dello spettacolo e giochi), attività agricole e zootecniche.

Per tali settori, i datori di lavoro possono assumere lavoratori per svolgere prestazioni di lavoro occasionale e accessorio senza il limite settimanale dei tre giorni, ma nel limite delle 70 giornate complessive. Tale possibilità rimane in vigore fino al 30 settembre 2020 (per le sole attività agricole fino al 30 ottobre 2020).

–          Art. 5 – Permesso parentale straordinario per nuclei familiari

Il comma 7-bis stabilisce che tale permesso non può essere richiesto dai dipendenti che risultano essere amministratori, soci o coniugi o parenti fino al secondo grado degli stessi.

Il comma 9-bis stabilisce il diritto ad usufruire dei permessi senza la corresponsione di alcuna indennità da parte di nuclei familiari che non abbiano fatto richiesta di iscrizione ai centri estivi.

Relativamente alle prestazioni occasionali ed accessorie richiamate dall’art. 3 bis del D.L. 123 si allega anche la Circolare del 29 luglio 2020 emessa dalla Segreteria di Stato del Lavoro e Sanità.

Prot. n. 69722 del 29/07/2020

Con l’occasione si inoltra anche la Circolare del 09/7/2020 Prot. n. 62863  emessa dall’Ufficio Attività economiche in merito  alle autocertificazioni presentate ai sensi della Circolare 3 -2020 UAE

Prot. n. 62863 del 09/07/2020 Uff. Att. Economiche

Doing business in San Marino

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