Il coordinamento della holding non incide sull’esterovestizione

5 Luglio 2018

Il Sole 24 Ore domenica 3 GIUGNO 2018 di Enrico Holzmiller

Abuso del diritto. Va valutata l’«ordinaria amministrazione»

L’articolo 73, comma 3, del Tuir disciplina la figura dell’esterovestizione, disposizione fiscale tesa ad “attrarre” in Italia società ed enti residenti all’estero,laddove detengano, nel territorio dello Stato, almeno uno tra i seguenti tre elementi: sede legale, sede dell’amministrazione, oggetto principale dell’attività.
Il tema è delicato laddove i suddetti requisiti, ancorché formalmente definiti all’estero, vengano considerati, dall’Amministrazione finanziaria, esercitati “in concreto” sul suolo nazionale. In tale contesto si è mossa la Ctr Lombardia, con la sentenza n. 1807/18, depositata lo scorso 19 aprile (presidente e relatore: Izzi).
I giudici lombardi prendono posizione anzitutto sul concetto di «abuso del diritto di stabilimento», affermando che, affinchè sussista tale abuso, «non rilevano ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale».
Tale principio ha una duplice valenza: può essere letto nel senso che l’esterovestizione non va applicata laddove si riesca a provare l’inesistenza di vantaggi fiscali derivanti dalla localizzazione all’estero; per converso, secondo quanto confermato dalla Corte di giustizia europea, la scelta di avvalersi di una legislazione estera più vantaggiosa non può costituire, di per sé, abuso del diritto.
La Commissione tributaria affronta anche il tema della sede amministrativa, arrivando alla conclusione secondo cui «tale sede deve ritenersi coincidente con quella effettiva, intesa come luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative di direzione dell’ente, come la riunione del consiglio di amministrazione, ovvero il luogo deputato per l’accentramento degli organi e degli uffici societari in vista del compimento di affari e dell’impulso dell’attività dell’ente».
A parere di chi scrive, la posizione dei giudici va chiarita, evitando che parole come «direzione» e «impulso dell’attività» siano mal interpretate.
Ciò che in definitiva può permettere l’applicazione del principio dell’esterovestizione, attraverso la presunzione di processi decisionali effettuati in Italia, è da ricercarsi in quella che viene comunemente definita come “ordinaria amministrazione”.
In concreto, l’esistenza di processi decisionali quotidiani può essere verificata attraverso il cosiddetto “business activity test”, che a sua volta si esplica nell’analisi della regolarità dell’attività aziendale nel paese straniero, la verifica delle deleghe ad operare “day by day”, la tenuta in loco delle riunione del Cda, della gestione dei dipendenti, e così via. Non può invece considerarsi «fiscalmente attrattiva» l’attività di direzione e coordinamento esercitata da una società italiana sulla branch straniera, unitamente alla fisiologica ingerenza tipica delle holding nei confronti delle società partecipate (in tal senso: Tribunale Milano, sentenza n. 6996/17).

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Decreto Delegato 4 maggio 2018 n.50 – Disposizioni in materia di credito agevolato a supporto delle imprese

8 Giugno 2018

Si allega il testo completo del provvedimento in oggetto volto a sostenere e incentivare  attraverso l’ erogazione di prestiti a tasso agevolato sia l’avvio di nuove attività economiche che la qualificazione,  diversificazione e consolidamento di imprese esistenti nel settore industriale, di servizio, artigianale e commerciale in qualsiasi veste giuridica.

D.D. 50 2018

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Distacchi senza condizioni-dumping

8 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore 30 Maggio 2018 di Giampiero Falasca

Unione europea. Il Parlamento ha approvato ieri in via definitiva le nuove regole da recepire entro due anni

Vincoli più stringenti per i lavoratori inviati in un altro Stato

Scende da 24 a 12 mesi (con possibile proroga a 18) il periodo nel quale il lavoratore distaccato in ambito comunitario mantiene il regime previdenziale del Paese di provenienza, e viene rafforzato il principio di parità di trattamento retributivo.
Con l’approvazione definitiva di queste modifiche alla direttiva 96/71/Ce (come integrata dalla direttiva 2014/67/Ue), avvenuta ieri, il Parlamento europeo cerca di contrastare l’utilizzo distorto di un istituto – il distacco transnazionale dei lavoratori – fondamentale per la vita delle imprese multinazionali ma portatore di grandi problemi applicativi.
Oltre all’intervento sul tema contributivo viene rafforzato il principio di parità di trattamento tra lavoratori “interni” e quelli distaccati.
Gli Stati membri dovranno provvedere affinché, indipendentemente da quale legge si applichi al rapporto di lavoro, le imprese distaccatarie garantiscano ai lavoratori distaccati le stesse condizioni riconosciute ai dipendenti interni sulla base delle vigenti disposizioni legislative, regolamentari, amministrative e collettive.
Inoltre dovranno essere applicate le norme sui periodi massimi di lavoro e minimi di riposo, la durata minima dei congedi annuali retribuiti. Sono oggetto di parità di trattamento anche le condizioni di cessione temporanea degli addetti da parte di imprese di lavoro temporaneo, le norme sulla sicurezza, salute e igiene sul lavoro, i provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani.
Un capitolo specifico viene dedicato alla parità nelle condizioni di alloggio dei lavoratori e alle indennità? o rimborso a copertura delle spese di viaggio, vitto e alloggio per i lavoratori lontani da casa per motivi professionali.
Infine, si precisa che il concetto di retribuzione è determinato dal diritto e dalle prassi nazionali dello Stato membro nel cui territorio il lavoratore è distaccato, e include tutti gli elementi della retribuzione resi obbligatori da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali, da contratti collettivi o da arbitrati che sono stati dichiarati di applicazione generale nello Stato membro in questione.
Per rafforzare questo impegno, si prevede l’obbligo per gli Stati membri di pubblicare su un unico sito web ufficiale nazionale gli elementi costitutivi della retribuzione.
Gli Stati membri hanno tempo due anni per adeguare le norme interne alle nuove regole: nel nostro Paese questo adeguamento potrebbe rendere necessari degli adattamenti al decreto legislativo 136/2016 in tema di parità di trattamento (senza stravolgerlo, perché accoglie già una nozione ampia di parità di trattamento), oltre all’adeguamento delle regole previdenziali applicabili per i distacchi di durata superiore a 12 mesi.

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La tutela dei dati si allarga fuori dai confini dell’Ue

8 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore 25 Maggio 2018 di Rosario Imperiali

La Convenzione. Un nuovo protocollo per 47 paesi

È il giorno del Gdpr, il nuovo regolamento europeo sulla privacy, che entra pienamente in vigore oggi. Ma uno strumento normativo di pari importanza sulla data protection è stato approvato in questi stessi giorni: il Protocollo di modernizzazione della convenzione del Consiglio d’Europa sul trattamento di dati personali, meglio nota come «Convenzione 108». L’approvazione del 18 maggio scorso avvia il procedimento di ratifica da parte dei parlamenti nazionali ed è un ulteriore passo fondamentale, con il Gdpr, verso uno standard internazionale di princìpi e regole omogenee.
I due strumenti normativi lasciano oggi uno spazio a quelle aree del globo ancora prive di adeguate tutele legali sull’uso di dati personali e la scomparsa dei confini spaziali nella società dei sensori non può prescindere da regole globali condivise. Il Consiglio d’Europa è un organismo internazionale, con sede a Strasburgo, sorto subito dopo il secondo conflitto mondiale. Costituito in origine da 10 Paesi – oggi sono 47, non solo europei – vanta la primazia sulla regolamentazione internazionale in materia.
Diversamente dal Gdpr, legge interna della Ue, la Convenzione 108 del 1981 – e il suo Protocollo di modernizzazione che ne costituisce parte sostanziale – è un trattato internazionale (unico in materia) che vincola gli Stati firmatari: questi potranno anche non far parte del Consiglio. Consiglio d’Europa e Unione europea si sono sempre mossi in sintonia in ambito data protection, la Convenzione ha influito decisamente sull’assetto della direttiva 95/46 e quest’ultima innescò l’approvazione di un primo Protocollo aggiuntivo (nel 2001) per recepire nella Convenzione talune novità della direttiva. Più di recente, il lungo percorso della riforma Ue culminata col Gdpr è stato affiancato dall’iter di ammodernamento della Convenzione, anch’esso iniziato nel 2011 e concluso il 18 maggio.
I lavori preparatori del Gdpr e quelli per la modernizzazione della Convenzione 108 si sono svolti in parallelo per assicurare un approccio consistente in entrambi i sistemi normativi, tanto che il Gdpr (nel Considerando 105) riconosce che nel valutare l’adeguatezza del livello di protezione nei Paesi terzi «si dovrebbe tenere in considerazione» la loro adesione alla Convenzione. Un assist per la complessa procedura di riconoscimento, svolta dalla Commissione Ue, che faciliterà i flussi esteri di dati.
Princìpi di liceità e requisiti di legittimazione, privacy by design, disciplina del data breach e misure tecnico-organizzative per una sicurezza adeguata, aumentata trasparenza, diritti degli interessati e azioni di tutela, disciplina dei trasferimenti di dati all’estero. Tutto ciò trova analoga disciplina nei due contesti normativi di Gdpr e Convenzione, contribuendo a costruire un comune piano d’azione.
Gli Stati che intendono firmare il Protocollo saranno obbligati a recepirne princìpi e regole nei propri ordinamenti, prima di procedere alla ratifica della Convenzione, atto dal quale scatta il vincolo di conformità per gli Stati firmatari. Il Comitato, organo appositamente costituito all’interno della Convenzione, vigilerà sull’effettiva applicazione da parte degli Stati aderenti.

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Perdite su crediti deducibili

8 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore 05 Maggio 2018 di Laura Ambrosi

Accertamenti. Nessun peso alle cause che le hanno generate

L’Amministrazione non può disconoscere la deduzione della perdita su crediti solo perché l’imprenditore avrebbe dovuto agire diversamente per recuperare le proprie spettanze: il Legislatore, infatti, non ha subordinato la deducibilità a seconda delle cause che l’hanno generata, ma alla sussistenza di elementi certi e precisi sul valore dedotto. Così la Cassazione con l’ordinanza n. 10643 depositata ieri.
L’agenzia delle Entrate notificava a una società un avviso di accertamento con il quale disconosceva la deduzione di una perdita su crediti. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi confermava le ragioni della contribuente. In particolare, la Ctr riteneva che tale perdita fosse stata legittimamente dedotta poiché la società aveva fornito la prova documentale delle azioni legali intraprese per il recupero di quanto dovuto, in esito alle quali era stato incassato solo un decimo del credito originario.
La Cassazione ha ricordato che per la deducibilità delle perdite sui crediti, non è necessario che il contribuente fornisca la prova di essersi attivato per conseguire una dichiarazione giudiziale dell’insolvenza del debitore e quindi l’assoggettamento a procedura concorsuale. Secondo la norma, infatti, è sufficiente che le perdite siano documentate in modo certo e preciso.
I giudici di legittimità hanno così precisato che la scelta imprenditoriale di transigere con un proprio cliente non rende indeducibile la perdita stessa, poiché il legislatore non ha posto alcun vincolo in relazione alla causa che l’ha determinata (Cassazione 10256/2013). Nella specie, la valutazione del giudice di merito era fondata su fatti oggettivi dai quali era stato confermato l’incasso di una somma inferiore rispetto al credito originario.
La decisione si uniforma all’orientamento della Cassazione secondo cui gli uffici non possono spingersi alla verifica oggettiva circa l’opportunità delle scelte assunte dal contribuente. Il controllo, infatti, attingerebbe a valutazioni di strategia commerciale riservate all’imprenditore (Cassazione 21405/2017). È così auspicabile che gli uffici si adeguino, poiché non di rado disconoscono un costo solo perché ritenuto un «cattivo affare», ventilando possibili ipotesi alternative, in realtà astratte e poco concrete. In tale contesto, peraltro, occorre quanto meno considerare che in ogni caso la valutazione dei verificatori avviene in un momento successivo a quando l’imprenditore ha assunto le decisioni. Non a caso, il rischio «cattivo affare» è parte dell’attività di impresa.

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Non c’è una stabile organizzazione senza autonomia

8 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore 19 Maggio 2018 di Laura Ambrosi

Società estere. Occorrono uomini e mezzi

La sede di una direzione in Italia di un ente straniero non è stabile organizzazione: occorre che sia autonomamente in grado di produrre beni o prestare servizi e che quindi abbia personale e dotazioni tecniche sufficienti. È la precisazione data dalla Cassazione con la sentenza 12237/2018 depositata ieri.
Due società ricorrevano avverso plurimi provvedimenti con cui l’agenzia delle Entrate recuperava Iva su operazioni compiute da un consorzio francese. Per l’ufficio, poiché in Italia si svolgevano le riunioni e le attività del consorzio, si trattava di una stabile organizzazione.
Entrambi i giudici di merito, annullavano i provvedimenti e l’Agenzia ricorreva in Cassazione. La Corte, confermando la decisione della Ctr, ha anzitutto richiamato i criteri dell’articolo 5 del Modello di convenzione Ocse contro la doppia imposizione e del suo commentario, secondo cui per la nozione di stabile organizzazione occorre individuare un centro di attività stabile.
Per la giurisprudenza europea, tale «centro di attività stabile» si concretizza in una struttura con risorse materiali ed umane e può essere anche un’entità con personalità giuridica, cui la società straniera abbia affidato la cura degli affari. Vanno escluse le attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, come prestazione di consulenze, fornitura di know how, assunzione di personale o acquisto di mezzi tecnici (Corte Ue, sentenza sulla causa C-73/06).
La prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale si può ricavare anche da indizi, quali l’identità delle persone fisiche che agiscono per l’impresa straniera e per quella nazionale o la partecipazione a trattative o alla stipula di contratti, indipendentemente da poteri di rappresentanza.
Per poter considerare il centro di attività un riferimento ai fini della cessioni di beni o prestazioni di servizi, occorre che la sede sia sufficientemente strutturata per personale e dotazioni tecniche, rendendo possibili in modo autonomo le operazioni.
La Corte precisa che alla luce di ciò va escluso che si possa configurare stabile organizzazione in una sede di direzione. Il consorzio in Italia svolgeva riunioni di alcuni manager del gruppo, quindi mancava la struttura idonea con apporto umano e tecnico. Di qui la conferma dell’infondatezza della pretesa.

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Creare gruppi non è mai elusione

8 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore 23 Maggio 2018 di Primo Ceppellini e Roberto Lugano

Consolidato fiscale. Con la risoluzione 40/E le Entrate «approvano» il conferimento di partecipazioni

L’operazione è sempre motivata da valide ragioni economiche

La risoluzione 40/E/2018 del 17 maggio diffonde la risposta a un interpello che prospetta un’operazione per creare un gruppo societario (conferendo partecipazioni) con finalità di ottimizzazione della gestione societaria. La struttura che ne nasce ha i requisiti per l’adozione del consolidato fiscale nazionale. Le risposte delle Entrate (già analizzate sul Sole 24 Ore del 18 maggio) confermano sia la possibilità di adottare il regime di consolidamento sia l’assenza di ragioni elusive nella riorganizzazione societaria.
Concentriamo l’attenzione su questo secondo aspetto, soprattutto per ricavare princìpi e criteri generali estrapolabili dalla risposta al caso specifico.
Il conferimento
L’operazione prevede il conferimento di partecipazioni di controllo in neutralità fiscale, ai sensi dell’articolo 177 comma 2 del Tuir, posto in essere da persone fisiche a favore di una holding neo costituita. Non viene – correttamente – posto alcun dubbio su liceità dell’operazione e assenza di qualsiasi carattere elusivo. La risoluzione di fatto conferma l’assunto dell’istante secondo cui «la nuova struttura è perfettamente coerente con le logiche di gruppo che caratterizzano il tessuto imprenditoriale italiano e internazionale e consente di superare un’impostazione ormai obsoleta che vede tre società, pur appartenenti allo stesso soggetto economico, essere possedute direttamente da persone fisiche in assenza di una società capogruppo di riferimento».
L’adozione del consolidato
La nuova struttura permette di adottare lo strumento del consolidato fiscale o, sostanzialmente, la possibilità di compensare risultati positivi e negativi delle entità partecipanti. Essendo l’applicazione di una norma di sistema, non può esistere un risparmio di imposta illegittimo. Quindi «come evidenziato dall’istante, l’assenza di un vantaggio fiscale indebito è di per sé sufficiente ad escludere che la riorganizzazione oggetto della presente istanza possa essere inquadrata come una forma di abuso del diritto».
I vantaggi della holding
La risoluzione si spinge oltre, con considerazioni che potranno essere utilizzate in altri casi di ricorso a strutture analoghe: «In ogni caso, la configurazione di un abuso sarebbe esclusa dalla circostanza che l’operazione riorganizzativa è motivata da valide ragioni economiche. La suddetta riorganizzazione, infatti, è finalizzata a razionalizzare la struttura concentrando la proprietà delle società (…) in capo alla Holding, con conseguente ottenimento di evidenti benefici».
Questi benefici extra fiscali possono essere così riassunti:
l’adozione di una struttura centralizzata che svolge attività di direzione e coordinamento;
la presentazione del gruppo in modo trasparente e razionale al sistema creditizio o ad eventuali investitori;
la possibilità di copertura di perdite di una o più società del gruppo mediante l’utilizzo di utili di altre;
la possibilità di intervenire negli assetti proprietari a monte (le quote della holding) con operazioni volte al passaggio generazionale;
lo spostamento di eventuali conflitti soceitari sul livello più alto (la holding), mantenendo indenni le società operative.

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Triangolazione Iva, non imponibilità a maglie più larghe

11 Maggio 2018

Il Sole 24 Ore 20 Aprile 2018 di Anna Abagnale e Benedetto Santacroce
Corte Ue. La tassazione degli scambi interni
Si resta nell’ambito di una triangolazione comunitaria qualora il primo cessionario risieda e sia identificato ai fini Iva nello Stato membro dal quale i beni siano spediti o trasportati ma utilizzi, ai fini dell’acquisto intraUe, un numero di identificazione Iva di un altro Stato membro. Inoltre, non può venir meno la non imponibilità dell’acquisto intraUe realizzato ai fini di una successiva cessione verso un altro Stato membro, per una presentazione non tempestiva dell’Intrastat.
La pronuncia di ieri della Corte di giustizia Ue (sentenza 19 aprile 2018, causa C-580/16), ripassando all’esame la corretta tassazione degli scambi interni all’Unione, è il sintomo di come tale disciplina non sia stata ancora interiorizzata appieno dagli ordinamenti degli Stati membri.
Al riguardo, è fuori discussione che se, ad esempio, un operatore italiano acquista beni da un soggetto passivo residente in Olanda, dando incarico a quest’ultimo di consegnarli direttamente al proprio cliente residente in Grecia, l’italiano rispetto al fornitore olandese pone in essere un acquisto intraUe non imponibile Iva, in quanto i beni acquisiti sono oggetto di una cessione intraUe. Il salto della tassazione in capo al soggetto intermedio (primo cessionario/secondo cedente) è quindi ammesso a condizione che il secondo (e ultimo) cessionario abbia l’obbligo di tassare nel proprio territorio l’operazione.
Ma cosa succede se il primo e il secondo cedente coincidono? Ovvero, cosa succede se l’operazione non coinvolge tre diversi soggetti registrati ai fini Iva in tre diversi Stati membri, ma due partite Iva della stessa società ed un terzo? Può parlarsi ancora di triangolare comunitaria con gli effetti sopra menzionati?
È esattamente questo il caso posto all’attenzione dei giudici europei, che hanno colto l’occasione per sottolineare come spesse volte occorre andare oltre la lettera della norma ed analizzarla nell’intero complesso e secondo gli scopi perseguiti dal diritto dell’Unione.
Se così non fosse, la semplice lettura dell’articolo 141, lettera c) della direttiva Iva impedirebbe la detassazione della prima operazione della triangolare descritta, in quanto la norma richiede che i beni oggetto dell’acquisto intraUe siano trasportati a partire da un Stato membro diverso da quello in cui il soggetto passivo è identificato, a destinazione del soggetto nei cui confronti questi effettui la cessione successiva.
Al contrario – conclude la Corte – attraverso un’interpretazione sistematica ed in linea con lo scopo di semplificazione delle disposizioni sul tema, la non imponibilità in capo al primo acquirente non può essere negata, senza generare disparità di trattamento e limitazioni all’esercizio delle attività economiche, per il solo motivo che tale soggetto sia identificato anche nello stato di partenza del trasferimento intraUe.

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Attività sui conti, no alle presunzioni

11 Maggio 2018

Il Sole 24 Or e 24 Aprile 2018 di Salvina Morina e Tonino Morina

Cassazione. L’imputabilità a una società di versamenti personali deve essere provata

Il Fisco perde in primo grado, in secondo grado e in Cassazione. E meno male che dopo non ci sono altri gradi di giudizio. Per la Cassazione, deve essere annullato l’accertamento dell’ufficio, relativo all’anno 2002, che non ha provato in alcun modo che i versamenti rilevati sui conti personali del socio e della figlia fossero effettivamente riferibili alla società (ordinanza 9212/2018, depositata il 13 aprile 2018). Dopo tre bocciature e dopo oltre dieci anni, il Fisco non incassa nulla e viene anche condannato al pagamento delle spese che la Cassazione liquida in 6mila euro per compensi, più 200 euro per esborsi e il 15% a titolo di spese forfettarie. Ecco i fatti.
L’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Campobasso, a seguito di una verifica fiscale ad una società a responsabilità limitata, con conseguente indagine bancaria sui conti correnti dell’amministratore della società e della figlia dell’amministratore, accerta per l’anno 2002 maggiore imponibile a titolo di Irpeg (l’allora imposta sul reddito delle persone giuridiche), Iva e Irap. Per l’ufficio, non erano state adeguatamente giustificate le movimentazioni bancarie.
Contro l’accertamento, la società presenta il ricorso che viene accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Campobasso, con conseguente annullamento dell’atto dell’ufficio. Contro la sentenza dei giudici di primo grado, l’ufficio presenta l’appello che viene respinto dalla Commissione tributaria regionale del Molise, in quanto, per i giudici di secondo grado, l’ufficio non ha «adeguatamente provato che i movimenti considerati sui conti esaminati fossero riferibili alla società».
Contro la sentenza della Commissione tributaria regionale del Molise, l’ufficio, ostinatamente, presenta il ricorso in Cassazione al quale la società replica con controricorso. L’ufficio riesce così a subìre la terza bocciatura, perché anche la Cassazione rigetta il ricorso dell’ufficio. Per i giudici di legittimità, al fine di contestare la fittizietà dei conti bancari a terzi, è sempre «necessario che l’Agenzia provi che i conti, se pure a costoro intestati nella realtà, siano comunque utilizzati, anche in parte, per operazioni riferibili alla contribuente anche tramite presunzioni, sia pure senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali (in termini, tra varie, Cassazione 21 aprile 2016, n. 8112, 13 giugno 2014, n. 13473)».
L’onere di provare che le risultanze dei conti dei terzi sono riconducibili al soggetto indagato incombe sull’amministrazione finanziaria. L’ufficio, nel caso in esame, «non ha dedotto elementi atti a consentire di affermare che i movimenti rilevati sui conti personali dell’amministratore e della figlia, della quale non è chiarita la qualità in seno alla società, fossero effettivamente riferibili a questa». In conclusione, la Cassazione, confermando le bocciature dei giudici di merito, di primo e secondo grado, rigetta il ricorso dell’ufficio.

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Dalle Spa ai trust «proprietari» in chiaro

11 Maggio 2018

Il Sole 24 Ore 30 Aprile 2018 di Laura Ambrosi e Antonio Iorio

Antiriciclaggio. Entro il 4 luglio va emanato il decreto Mef-Sviluppo: numerosi i soggetti abilitati ad accedere a dati sensibili, compresi alcuni privati

In arrivo l’obbligo di comunicare al Registro imprese il titolare effettivo ma mancano le istruzioni

A poco più di due mesi dalla dead line per l’emanazione non trapela ancora nulla sul decreto attuativo relativo alle modalità di comunicazione di dati e notizie sulla titolarità effettiva di persone giuridiche e trust all’apposita sezione del Registro delle imprese. Nonostante si tratti di problematiche molto delicate che coinvolgono in modo massiccio imprese e professionisti, contrariamente a quanto avvenuto per altri decreti dai dicasteri competenti (Mef e ministero dello Sviluppo economico) al momento non viene reso noto nulla in consultazione pubblica.
Il decreto 90/2017 di modifica della normativa antiriciclaggio ha previsto l’istituzione di un’apposita sezione del Registro delle imprese all’interno della quale vanno indicate le informazioni relative alla titolarità effettiva di persone giuridiche e trust (nuovo articolo 21 del Dlgs 231/2007). La sezione verrà alimentata solo in via telematica e in esenzione da imposta di bollo attraverso una comunicazione che le imprese dotate di personalità giuridica e le persone giuridiche private tenute all’iscrizione presso il Registro delle imprese saranno obbligate a effettuare.
Le modalità attuative relative alle comunicazioni ai dati e alle informazioni da fornire vanno disciplinate – come detto – da un decreto Mef e Sviluppo da emanarsi entro 12 mesi dall’entrata in vigore delle modifiche: e quindi entro il 4 luglio 2018. Il testo di cui non c’è traccia, appunto.
Così le informazioni
Gli amministratori di società di capitali devono acquisire sulla base delle scritture contabili e societarie le informazioni relative al titolare effettivo della società e conservarle per cinque anni. Nel caso in cui ciò non sia possibile dovranno rivolgere richiesta ai soci, il cui rifiuto o inerzia comporta l’impossibilità di esercitare il diritto di voto con l’eventuale impugnabilità delle delibere assunte. Le informazioni vanno poi comunicate ai soggetti obbligati all’osservanza degli adempimenti antiriciclaggio, e, non appena sarà operativa la modalità, alla Camera di commercio.
I contenuti del decreto
Il testo deve stabilire:
dati e informazioni sulla titolarità effettiva delle imprese dotate di personalità giuridica, delle persone giuridiche private e dei trust da comunicare;
modalità e termini entro cui effettuare la comunicazione;
modalità attraverso cui le informazioni sulla titolarità effettiva sono rese tempestivamente accessibili alle autorità ispettive e di vigilanza;
modalità di consultazione delle informazioni da parte dei soggetti obbligati e i relativi requisiti di accreditamento.
È evidente che si tratta di informazioni molto delicate e, nonostante la normativa preveda delle restrizioni all’accesso della sezione, in realtà i soggetti che verranno abilitati sembrano essere numerosi. Ne consegue che una volta operativa la disposizione, di fatto, verranno fortemente ridimensionate le possibilità di schermare, attraverso fiduciarie, operazioni di carattere commerciale e, quindi, di garantire l’anonimato dei fiducianti, in presenza di esigenze di concorrenza e/o esclusiva o di altre ragioni legittime.
Chi potrà accedere
Sono abilitati all’accesso:
Mef, Autorità di vigilanza di settore, Uif per l’Italia, direzione investigativa antimafia, Guardia di finanza attraverso il Nucleo speciale polizia valutaria senza alcuna restrizione;
direzione nazionale antimafia e antiterrorismo;
autorità giudiziaria, conformemente alle proprie attribuzioni istituzionali;
autorità preposte al contrasto dell’evasione fiscale;
soggetti obbligati, a supporto degli adempimenti prescritti in occasione dell’adeguata verifica;
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi, titolari di un interesse giuridico rilevante e differenziato, nei casi in cui la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per curare o difendere, nel corso di un procedimento giurisdizionale, un interesse corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata, quando abbiano ragioni, concrete e documentate, per dubitare che la titolarità effettiva sia diversa da quella legale. L’interesse deve essere diretto, concreto e attuale e, nel caso di enti rappresentativi di interessi diffusi, non deve coincidere con l’interesse di singoli appartenenti alla categoria rappresentata.
L’accesso alle informazioni può essere escluso qualora riguardino persone incapaci o minori d’età o nel caso in cui esponga il titolare effettivo a rischi per la propria incolumità.

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