Salve le detrazioni Iva per acquisti da San Marino

11 Dicembre 2017

Il Sole 24 Ore 21 Novembre 2017 di Giampaolo Giuliani

Adempimenti. Decisivo il momento del ricevimento della fattura

Con l’avvicinarsi della fine dell’anno gli operatori nazionali guardano con sempre maggiore preoccupazione al problema della detraibilità dell’imposta relativa ad acquisti effettuati nel 2017 a San Marino, per i quali riceveranno la fattura da parte dei fornitori sammarinesi successivamente al 15 gennaio 2018.
Tra l’altro, non è possibile farsi anticipare la fattura via fax o via mail dal proprio fornitore, come avviene per gli acquisti intracomunitari, perché il decreto che regola la disciplina Iva negli scambi di beni tra i due Stati – decreto ministeriale 24 dicembre 1993, prevede che l’acquirente nazionale per effettuare la liquidazione dell’imposta debba essere in materiale possesso della fattura originale munita dei visti dell’Ufficio tributario di San Marino.
La procedura di controllo e vidimazione da parte dell’Ufficio tributario ha dei tempi tecnici, per cui le fatture relative alle operazioni del mese di novembre/dicembre saranno inviate dal fornitore sammarinese con tutta probabilità oltre il citato termine di metà gennaio prossimo.
In effetti, per come sono formulati oggi gli articoli 19 – detrazione – e 25 – registrazione degli acquisti – della legge Iva, Dpr 633/1972, sembrerebbe che non sia possibile la detrazione per questo tipo di fatture se ricevute oltre termine del 15 gennaio 2018, data stabilita per effettuare la liquidazione dell’ultimo mese/trimestre 2017.
La detrazione dovrebbe dunque essere posticipata nella dichiarazione Iva per l’anno 2017 da presentare entro il 30 aprile 2018.
Ciò vale indipendentemente dalla circostanza che l’imposta sia assolta con il metodo della cosiddetta Iva prepagata ovvero con il meccanismo dell’inversione contabile, adempimenti rispettivamente disciplinati dagli articoli 8 e 16 del Dm del 24 dicembre 1993.
Evidentemente una soluzione che preveda l’indetraibilità già a partire dal momento in cui l’acquirente nazionale riceve la fattura non può essere accettata, poiché determina gravi discriminazioni per gli operatori sammarinesi in stridente contrasto con gli accordi tra i due Stati in tema di scambi commerciali.
In attesa di una presa di posizione puntuale su questo argomento da parte dell’amministrazione finanziaria si ritiene che una soluzione esente da censure possa essere individuata agganciando la detraibilità dell’imposta al momento del ricevimento della fattura.
Del resto questo problema che si presenta oggi con San Marino si è già manifestato qualche anno fa con le modifiche della territorialità Iva nelle prestazioni di servizi realizzate da operatori Ue, per le quali l’agenzia delle Entrate con la circolare 20 settembre 2012 n. 35/E ha precisato che: «Alla luce delle disposizioni sopra richiamate, per motivi di certezza e di semplificazione, si deve ritenere che la fattura emessa dal prestatore comunitario non residente possa essere assunta come indice dell’effettuazione dell’operazione. È dunque al momento di ricezione della fattura che va ricondotta l’esigibilità dell’imposta (a cui è collegata la debenza e la detrazione dell’Iva) che deve essere assolta dal committente, a prescindere dall’effettuazione del pagamento.
Tale soluzione deve ritenersi un principio avente valenza generale che risolve una situazione altrimenti superabile soltanto con specifici interventi normativi.

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Fisco, «scudo» per chi ha lavorato all’estero

11 Dicembre 2017

Il Sole 24 Ore 15 Novembre 2017 di Carmine Fotina e Marco Mobili

Pagheranno il 3% frontalieri ed ex residenti – Ritirata la riforma delle Agenzie

Un mini-scudo fiscale del 3% per frontalieri ed ex residenti all’estero. Stop alle bollette telefoniche e pay tv a 28 giorni. Bonus fiscali sugli investimenti in campagne pubblicitarie anche per le testate online. Detrazioni più facili sugli affitti per studenti universitari fuori sede e detrazione al 19% per gli alimenti a fini speciali per chi ha malattie metaboliche o genetiche. Sono alcune delle principali modifiche apportate dalla Commissione Bilancio del Senato al decreto fiscale collegato alla manovra. Il voto finale e il mandato al relatore, Silvio Lai (Pd), dovrebbe arrivare in nottata, dopo il via libera ai correttivi del Governo su terremoto e del relatore sull’equo compenso (si vedano i servizi in pagina). Il provvedimento collegato alla manovra di bilancio passa così all’esame dell’Aula, su cui oggi sarà comunque chiesta la fiducia. Domani è atteso il via libera di Palazzo Madama per il passaggio in seconda lettura alla Camera, dove al momento non sono attese ulteriori modifiche.
A sorpresa, nella serata di ieri, il Governo ha ritirato la riforma delle agenzie fiscali. Il confronto tra maggioranza, Palazzo Chigi e la “stampella” di Ala, necessaria al Governo per superare i voti in Commissione (ieri solo con il voto del senatore Milo l’Esecutivo non è andato sotto su una modifica proposta da Forza Italia), ruotava soprattutto sulla durata del mandato del direttore e del comitato di gestione (la proposta presentata lunedì dal relatore la portava da tre a cinque anni), nonché sui concorsi per dirigenti, soprattutto degli ex incaricati. In Commissione, invece, non hanno superato il voto alcuni emendamenti di “peso”: la rottamazione degli avvisi bonari; la possibilità di detrarre l’Iva nell’anno successivo; l’istituzione delle Saf dei commercialisti. Via libera senza ritocchi, invece, all’affidamento diretto della concessione del Gratta e Vinci a Lottomatica, attuale concessionario, con il versamento di 50 milioni entro fine anno e 750 milioni nel 2018. Sull’ipotesi di una gara chiesta dai 5 stelle i pentastellati si sono però divisi. Da registrare il via libera anche a un emendamento di Forza Italia a firma Pellino che autorizza l’Arma dei Carabinieri ad assumere a tempo indeterminato 105 operai in 3 anni.
Tra le novità di maggior rilievo di ieri spicca, certamente lo scudo per frontalieri ed ex residenti all’Estero iscritti all’Aire o che hanno lavorato all’estero in via continuativa. Si potranno regolarizzare le attività e le somme depositate in conti correnti esteri, in violazione degli obblighi di monitoraggio del quadro RW della dichiarazione, pagando il 3% del valore delle attività e delle giacenze al 31 dicembre 2016. Un mini-scudo fiscale con il pagamento di una somma forfettaria su imposte, sanzioni e interessi dovuti ben lontano dalle voluntary disclosure dove, per ottenere uno sconto sulle sanzioni, i contribuenti che avevano capitali e attività finanziarie all’estero non dichiarate venivano chiamati a versare tutte le imposte evase. L’emendamento approvato e che porta la firma del senatore Claudio Micheloni (Pd) si applica anche alle somme e alle attività derivanti dalla vendita di beni immobili detenuti all’estero dove si è prestata l’attività lavorativa. Sarà sufficiente presentare istanza di regolarizzazione fino al 31 luglio 2018 e poi saldare il conto spontaneamente in un’unica soluzione entro il 30 settembre 2018 o in tre rate mensili consecutive a partire dalla stessa data. Lo scudo al 3% non potrà essere utilizzato per somme già oggetto di collaborazione volontaria.
L’altra novità annunciata è quella sullo stop alle bollette a 28 giorni che riguarderà anche i piani tariffari in modalità prepagata e per la clientela business, grandi clienti affari e partite Iva. L’emendamento approvato ieri, a firma del relatore Lai, stabilisce l’obbligo di fatturazione mensile o con multipli di un mese. Per adeguarsi gli operatori avranno 120 giorni dalla data di conversione in legge del decreto, previsti indennizzi ma solo per il futuro. Sono escluse le promozioni con durata inferiore al mese e non rinnovabile. La misura, inoltre, non riguarda gas ed elettricità in quanto già regolati sul punto da una delibera dell’Autorità per l’energia. Nell’emendamento è stato inserito anche un obbligo di trasparenza per la commercializzazione delle offerte in banda ultralarga con fibra ottica.

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Dividendi black list, conta l’esercizio

11 Dicembre 2017

Il Sole 24 Ore lunedì 6 Novembre 2017 di Francesco Avella e Andrea Iannaccone

Gruppi internazionali. Come applicare correttamente il regime di imposizione parziale degli utili al posto di quella integrale

Va verificata la qualificazione del Paese al momento di formazione e incasso degli utili

Cresce l’attenzione del Fisco per i dividendi “provenienti” da Stati a fiscalità privilegiata (i cosiddetti Stati black list). Sempre più spesso l’amministrazione finanziaria verifica se tali elementi di reddito sono stati assoggettati ad imposizione integrale in capo al socio residente, come previsto dagli articoli 47, 59 e 89 del Tuir, in contrapposizione al regime di esclusione parziale generalmente applicabile ai dividendi.
La ratio della disposizione
L’esclusione parziale dei dividendi ai fini delle imposte sui redditi risponde alla logica di attenuare la doppia imposizione economica che altrimenti si manifesterebbe sugli utili societari, se fossero di nuovo tassati in misura piena in capo al socio quando distribuiti sotto forma di dividendi.
Tale esclusione non si applica se gli utili si qualificano come “provenienti” da soggetti black list e, in tal caso, essi sono soggetti integralmente a tassazione (se non risulta applicabile la normativa Cfc di cui all’articolo 167 del Tuir, nel qual caso la disciplina varia completamente). Ciò nel presupposto concettuale che gli utili societari da cui derivano non hanno scontato una imposizione congrua e non si manifesta quindi una concreta doppia imposizione economica da eliminare.
La tassazione integrale può tuttavia essere evitata facendo valere la circostanza esimente prevista dalla normativa (sulla quale si veda l’altro articolo nella pagina).
Il novero degli Stati black list
I criteri per individuare gli Stati black list sono cambiati nel corso degli anni. Sino a tutto il periodo d’imposta 2014, gli Stati a regime fiscale privilegiato erano individuati su base casistica dal Dm 21 novembre 2001 e alcuni di essi avevano carattere “ibrido”, nel senso che erano considerati black list solo in relazione ad alcuni regimi fiscali (significativo era il caso della Svizzera, considerata black list soltanto per le società non soggette alle imposte cantonali e municipali).
Per tali Stati “ibridi”, dimostrare che la società non ha beneficiato di regimi fiscali privilegiati negli esercizi di maturazione degli utili consente di per sé di escludere la natura black list del dividendo e di evitare, quindi, la sua tassazione integrale (Ctp di Novara, sentenza 145/01/2017 del 6 luglio 2017, commentata sul Quotidiano del Fisco dell’8 settembre 2017).
A decorrere dal periodo d’imposta 2015, la legge di Stabilità 2015 ha definito il livello di tassazione “sensibilmente inferiore” (anche in virtù di regimi speciali) se inferiore di oltre il 50% rispetto a quello applicato in Italia, avendo a mente sia l’Ires che l’Irap, e per l’effetto è stato poi modificato l’elenco di cui al Dm 21 novembre 2001.
Infine, la legge di Stabilità 2016 ha riscritto l’articolo 167 del Tuir con decorrenza 2016, prevedendo che: «I regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori si considerano privilegiati laddove il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia», anche qui avendo a mente sia l’Ires che l’Irap, ed escludendo espressamente dagli Stati black list, anche ai fini della tassazione dei dividendi, gli Stati Ue e See che consentono lo scambio di informazioni (circolare 35/E/2016).
Aspetti temporali
In concreto, è necessario verificare tanto la normativa applicabile al momento dell’incasso, in cui si verifica il presupposto impositivo, quanto al momento di formazione degli utili, in cui possono essersi verificati i presupposti per conseguire il vantaggio tributario che la normativa vuole contrastare (circolare 35/E/2016).
Se, al momento della percezione del dividendo, il soggetto estero si qualifica come a fiscalità privilegiata, i dividendi sono black list e il contribuente avrà la possibilità di dimostrare l’eventuale sussistenza di una circostanza esimente; diversamente, i dividendi non sono black list, a condizione che tale requisito fosse integrato anche nel periodo di loro formazione.
L’esercizio è di una certa complessità, soprattutto se si considera che anche le modifiche del livello di tassazione applicabile in Italia possono incidere sul perimetro degli Stati black list.
La riduzione di tre punti percentuali dell’aliquota Ires a decorrere dal periodo d’imposta 2017 si riverbera sull’aliquota nominale estera di riferimento, rendendo privilegiata, dal 2017, l’aliquota inferiore al 13,95% (50% di 28,9%) rispetto alla precedente 15,7% (50% del 31,4%), così “riabilitando” ad esempio Stati come l’Albania e la Georgia (con aliquota nominale pari al 15%).

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Il prelievo bancario non prova i ricavi

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 5 Ottobre 2017 di Laura Ambrosi

Accertamenti. Annullata la contestazione a un lavoratore autonomo con attività artigianale

Il privato che svolge un’attività in nero, al pari del lavoratore autonomo, non può subire la presunzione legale di ricavo desumibile dai prelevamenti bancari non giustificati. A chiarirlo è la Corte di cassazione con la sentenza 23162 depositata ieri.
L’Agenzia emetteva un avviso di accertamento nei confronti di un contribuente fondato sulle risultanze delle indagini finanziarie. In particolare, l’interessato svolgeva l’attività di assemblaggio di articoli per l’infanzia senza alcun dipendente presso l’abitazione della madre e non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi.
Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario eccependo anche l’illegittimità della pretesa sui prelevamenti: nel ricorso era affermato che l’Ufficio non aveva provato la riconducibilità degli stessi ad acquisti relativi all’attività svolta.
Il giudice di appello accoglieva la domanda annullando l’accertamento sulla parte riferita ai prelevamenti e confermandolo solo sui versamenti. L’Agenzia ricorreva in Cassazione sostenendo che era onere del contribuente dimostrare l’estraneità dei beneficiari dei prelievi all’attività di impresa.
I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che la Ctr, in base alle caratteristiche dell’attività svolta, aveva qualificato il contribuente come lavoratore autonomo. La sentenza ricorda che la Consulta (sentenza 228/2014) ha ritenuto la presunzione relativa ai prelevamenti, nei confronti dei professionisti, lesiva del principio di ragionevolezza e capacita? contributiva.
In conseguenza di tale decisione, secondo la Suprema Corte è venuta meno la presunzione legale sui prelevamenti operati sui conti bancari effettuata dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale. Si sposta così sull’amministrazione l’onere di provare che tali prelevamenti ingiustificati siano stati utilizzati dal libero professionista per acquisti inerenti la produzione del reddito. La decisione, a ben vedere, attiene un privato che svolgeva di fatto attività di impresa artigiana e non era un professionista (cui invece fa riferimento la Consulta)
E se l’irrilevanza dei prelevamenti, secondo la Cassazione, sia conseguente all’assimilazione della ditta individuale senza dipendenti al lavoratore autonomo, il principio potrebbe trovare un’ampia Accertamentiestensione all’interno del reddito di impresa e non soltanto più del lavoro autonomo.

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Operazioni inesistenti, prova a carico delle Entrate

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 28 Ottobre 2017 di A.I.

Frodi. La Cassazione

Nell’ipotesi in cui sia contestata l’inesistenza soggettiva dell’operazione, grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche in via presuntiva, l’interposizione fittizia del cedente, ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione, eventualmente da altri soggetti, nonché la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa. Spetta, invece, al contribuente che intende esercitare la detrazione dimostrare l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente. È questo il principio ribadito ieri da due ordinanze 25538 e 25545 della Cassazione in tema di fatture soggettivamente inesistenti. In entrambe le pronunce la Corte ha rigettato i ricorsi delle Entrate secondo cui, contrariamente alle decisioni dei giudici di merito, l’Iva assolta dai contribuenti, che avevano ricevute fatture soggettivamente inesistenti, non poteva essere detratta.
In entrambe le vicende i contribuenti interessati avevano acquistato merce da soggetti che poi erano stati ritenuti “cartiere” con la conseguenza che, stante l’oggettiva effettuazione dell’operazione commerciale e risultante fittizio il cedente, veniva richiesta l’Iva detratta a fronte di tali acquisti.
I giudici di merito ritenevano dimostrata l’inconsapevolezza degli acquirenti e quindi la loro buona fede, con la conseguenza che non potevano ritenersi coinvolti nella frode commessa dai fornitori. In simili circostanze, la buona fede diventa centrale per evitare il coinvolgimento negli illeciti Iva. Tale concetto è stato in un qualche modo introdotto nel nostro ordinamento dalla Corte di giustizia, intervenuta sul tema. Un soggetto, infatti, non può avvalersi delle norme del diritto Ue quando nell’ambito di un’evasione o di un abuso, sapeva o avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode. A tal fine, è legittimo pretendere che l’operatore adotti tutte le misure (che gli si possono ragionevolmente chiedere) per assicurarsi che l’operazione non comporti una propria partecipazione all’evasione.
La Cassazione ha così confermato che spetta alle Entrate dimostrare che il contribuente «sapeva o avrebbe dovuto sapere» che con il proprio acquisto partecipava ad una frode.

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Beni situati in Paesi black list: raddoppio dei termini limitato

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore lunedì 30 Ottobre 2017 di Giorgio Gavelli

Fisco internazionale. Il giro di vite del Dl 78/2009 non è retroattivo ed esclude i periodi ante 2010

Secondo la decisione 1085/4/2017 della Commissione tributaria provinciale di Genova (presidente Del Vigo, relatore Silvano), depositata lo scorso 25 agosto, il raddoppio dei termini di accertamento previsto dall’articolo 12 del Dl 78/2009 per i beni situati in Paesi black list e non oggetto di monitoraggio non può operare per i periodi d’imposta anteriori al 2010. Si tratta di un tema che assai spesso ricorre nel contenzioso tributario (si veda Il Sole 24 Ore del 23 agosto scorso).
Il caso trattato dalla Commissione genovese riguarda una polizza emessa da una società con sede nelle Isole Bermuda, sottoscritta nel 2007 dal contribuente e mai riportata (come del resto i relativi guadagni) in dichiarazione dei redditi.
L’articolo 12 del Dl 78/09 prevede, in sintesi, che:
gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, in violazione degli obblighi di monitoraggio, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione (comma 2, prima parte);
in tale ipotesi le sanzioni ordinariamente previste per le violazioni dichiarative sono raddoppiate (comma 2, seconda parte);
per l’accertamento di tale presunzione gli ordinari termini sono raddoppiati (comma 2-bis), così come i termini per accertare le violazioni in tema di monitoraggio (comma 2-ter).
L’agenzia delle Entrate ha sempre ritenuto la “stretta” operata dal Dl 78/2009 come «di natura procedimentale» e, quindi, sostanzialmente retroattiva (circolari 19/E/2017, 6/E/2015 e 27/E/2015) e su questo ragionamento ha impostato la procedura di voluntary disclosure.
Tuttavia, la dottrina prevalente e buona parte della giurisprudenza hanno sempre nutrito perplessità sulla retroattività della presunzione sulla costituzione “in nero” di investimenti ed attività nei paradisi fiscali e sull’applicabilità ai periodi d’imposta anteriori al 2010 del raddoppio dei termini per le violazioni del monitoraggio e dei termini e delle sanzioni per quelle dichiarative.
Nel caso di specie, la presunzione di aver costituito provvista all’estero “in nero” non si applicava, avendo il contribuente documentato l’esistenza del capitale impiegato nella polizza già in anni anteriori. Restavano validi, tuttavia, secondo l’ufficio il raddoppio della sanzione sul monitoraggio ed il prolungamento dei termini di accertamento sul reddito non dichiarato. La Commissione genovese, tuttavia, non è di questo avviso. Da un lato appare indubbio che la norma «esplica effetti sostanziali in punto di determinazione del reddito» e, di conseguenza, non può applicarsi a fattispecie anteriori la sua entrata in vigore (così Ctr Lombardia 1865/1/2017, Ctp Rimini 42/1/2017 e Ctp Milano 3933/7/2017). Dall’altro, il raddoppio appare strettamente collegato alla operatività della presunzione sul capitale (Ctr Lombardia 4382/27/2015).
Nel merito, peraltro, il non aver allegato all’atto di accertamento la documentazione della Guardia di finanza consolida, secondo la Ctp, l’illegittimità dell’accertamento impugnato.

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Licenziato chi copia i dati aziendali

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 26 Ottobre 2017 di Giampiero Falasca

Cassazione. Anche se non protetti da password e non sono divulgati all’esterno

È legittimo il licenziamento del dipendente che copia su una pen drive personale, senza autorizzazione del datore di lavoro, alcuni dati aziendali riservati, anche se queste informazioni non vengono divulgate a terzi.
La violazione dei doveri contrattuali, infatti, si verifica anche quando una certa condotta, pur non producendo un danno concreto, ha una intrinseca potenzialità lesiva degli interessi del datore di lavoro.
La Corte di cassazione (sentenza 25147/2017), con un ineccepibile rigore interpretativo, ricostruisce alcuni principi importanti in tema di sicurezza dei dati aziendali, una questione sempre più rilevante per le imprese nell’attuale contesto tecnologico, dove è molto facile sottrarre e spostare grandi quantità di informazioni riservate.
La vicenda riguarda il licenziamento di un dipendente che ha trasferito su una pen drive di sua proprietà (poi smarrita e ritrovata casualmente nei locali aziendali) un numero rilevantissimo di dati appartenenti all’azienda. Il dipendente ha contestato la legittimità del licenziamento, sostenendo di essersi limitato a copiare i dati, senza diffonderli in alcun modo; il lavoratore, inoltre, ha evidenziato che i file in questione non erano protetti da password e non erano coperti da specifici vincoli di riservatezza.
La Suprema corte ha rigettato queste argomentazioni, ritenendo che la condotta del dipendente sia riconducibile all’ipotesi – sanzionato dall’articolo 52 del Ccnl del settore aziende chimiche con il licenziamento – della grave infrazione alla disciplina o alla diligenza del lavoro. Il Ccnl riconduce a tale fattispecie alcune condotte quali il furto, il danneggiamento volontario del materiale di impresa e il trafugamento di schede, disegni, utensili e materiali affini.
In coerenza con questa impostazione, la Corte ha escluso che la semplice copiatura dei file aziendali sia collocabile nell’ipotesi meno grave dell’utilizzo improprio degli strumenti di lavoro aziendali (per la quale il Ccnl prevede solo sanzioni conservative).
Ciò in quanto la condotta del dipendente è comunque connotata dalla finalità di sottrarre informazioni a prescindere dall’effettiva divulgazione dei dati, mentre la fattispecie dell’uso improprio si può applicare a condotte nelle quali manca tale finalità.
La sentenza chiarisce anche che è irrilevante, ai fini della valutazione disciplinare, la circostanza che i dati sottratti siano protetti oppure no da specifiche password; il fatto che l’accesso ai dati sia libero, precisa la Corte, non autorizza un dipendente ad appropriarsene per finalità proprie, né consente di farli uscire dalla sfera di controllo del datore di lavoro.

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Stabile organizzazione anche «personale»

9 Novembre 2017

IL Sole 24 Ore 24 Ottobre 2017 di Benedetto Santacroce

Modelli Ocse. Sterilizzata la frammentazione delle attività

L’Italia con la legge di bilancio cerca di recepire la nuova versione dell’articolo 5 del modello Ocse, in materia di stabile organizzazione così come modificato a seguito dell’Action 7 del Beps. In effetti, l’intervento, almeno nella bozza disponibile, riforma l’articolo 162 del Tuir sotto tre profili:
rivede integralmente il comma 4, inserendo il concetto di disponibilità dei beni e dei luoghi, concetto presente nel nuovo commentario Ocse. Il comma 4 definisce i casi in cui la sede fissa d’affari non è considerata stabile organizzazione. La nuova norma utilizza un’espressione diversa, in quanto viene previsto che il termine «stabile organizzazione» non comprende tutti i casi in cui l’impresa non residente dispone in Italia di luoghi destinati al mero deposito, ai soli fini di acquistare beni o merci o di raccogliere informazioni per l’impresa o per svolgere attività preparatorie o ausiliarie;
introduce nel nostro ordinamento il nuovo paragrafo 4.1 dell’articolo 5 dell’Ocse che è diretto a sterilizzare gli effetti della frammentazione delle attività anche nell’ambito dei gruppi ai fini della valutazione del carattere preparatorio o ausiliarie delle medesime. In particolare, costituisce stabile organizzazione una sede d’affari utilizzata o gestita da un’impresa se la stessa impresa o un’impresa strettamente correlata svolge la sua attività nello stesso luogo o in un altro luogo del territorio dello Stato;
viene modificato il concetto di stabile organizzazione personale e viene stabilito che se un soggetto agisce nel territorio dello Stato per conto di un’impresa non residente e abitualmente conclude contratti o porta a conclusione contratti senza modifiche sostanziali essa costituisce stabile organizzazione del soggetto non residente. In questo caso l’Italia si conforma con la convenzione multilaterale.

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Per i clienti societari si guarda alla proprietà diretta o indiretta

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore del 23 Ottobre 2017

Esperto Risponde  a cura di Luigi Ferrajoli e Flavia Silla

Il titolare effettivo è chi detiene oltre il 25% delle quote

IL QUESITO: Sono un commercialista cui è stato affidato l’incarico di seguire un finanziamento per la Srl X, che svolge attività di produzione e vendita di elementi di arredo. Il capitale sociale di questa Srl è suddiviso tra quattro soci: A è una persona fisica e ha in mano il 10%, B è persona fisica titolare del 3%, C è una Spa con il 19% e D è una Srl che possiede il 68 per cento. Vorrei capire, in base all’attuale disciplina, come va determinato il titolare effettivo e come devo assolvere agli adempimenti di adeguata verifica della clientela ai fini dell’antiriciclaggio.
A. C. – LECCE

Per evitare che una società, un trust o un ente vengano utilizzati come schermi per rendere difficile l’accertamento e l’individuazione di attività di riciclaggio e/o di finanziamento del terrorismo, la legge (e non più un allegato tecnico) stabilisce i criteri per determinare il cosiddetto “titolare effettivo”.
Quest’ultimo, in base all’articolo 1 del Dlgs 90/2017, viene identificato nella persona fisica o nelle persone fisiche, diverse dal cliente, «nell’interesse della quale o delle quali, in ultima istanza, il rapporto continuativo è istaurato, la prestazione professionale è resa o l’operazione è eseguita».
Se il cliente è una società o un ente, il titolare effettivo è colui al quale è attribuibile la proprietà diretta o indiretta dell’ente, ovvero il controllo diretto o indiretto sullo stesso. A tal fine, la nuova formulazione dell’articolo 20 del Dlgs 231/2007 stabilisce che la proprietà diretta di una società va riferita alla titolarità di una partecipazione superiore al 25% del capitale del cliente, detenuta da una persona fisica; mentre la proprietà indiretta è connessa alla titolarità di una quota di partecipazione superiore al 25% del capitale posseduto tramite una società controllante, una fiduciaria o per interposta persona. In altre parole, il rapporto continuativo, la prestazione professionale o l’operazione eseguita si riconducono alla persona fisica che, in ultima istanza, risulta intestataria di una rilevante quota della società.
Quando l’assetto proprietario non consente di giungere a una precisa individuazione, il titolare effettivo va identificato nella persona fisica che controlla la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria o gode di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante in tale assemblea, oppure colui al quale – sulla base di vincoli contrattuali – è consentito di esercitare in assemblea un’influenza dominante.
Il titolare effettivo della Srl
Nel caso in questione, il socio che risulta titolare di una quota superiore al 25% è il socio D, rappresentato da una Srl. Poiché il titolare effettivo va identificato per legge in una persona fisica, per assolvere all’obbligo di adeguata verifica è quindi necessario valutare la compagine societaria. In assenza di ulteriori indicazioni da parte del lettore, si ipotizzi ad esempio che il capitale sociale del socio D (titolare del 68% della Srl X) sia suddiviso fra tre persone fisiche: Tizio partecipa per il 5 %, Caio per il 42%, Mevio per il 53 per cento. Così i titolari effettivi della Srl X risulterebbero essere Caio e Mevio, perché ognuno di loro – avendo una partecipazione superiore al 25% – controllerebbe, ai fini della normativa sull’antiriciclaggio, la Srl D e indirettamente la Srl X.
Quest’ultima, come ogni persona giuridica tenuta all’iscrizione al registro delle imprese, deve comunicare per via telematica le informazioni relative alla propria titolarità effettiva, i cui dati vengono inseriti in una particolare sezione riservata. L’accesso a tale sezione è infatti consentito alle autorità competenti (Mef, autorità di vigilanza), alle autorità preposte al controllo dell’evasione fiscale, all’autorità giudiziaria, ai soggetti privati compresi quelli portatori di interessi diffusi (sempre che la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per tutelare, in pendenza di un procedimento giurisdizionale, i loro interessi) e infine ai soggetti obbligati alla comunicazione stessa.
Se i dati sulla titolarità effettiva non vengono comunicati, a carico dell’amministratore della società si applica la sanzione prevista dall’articolo 2630 del Codice civile, che va da un minimo di 103 euro fino a un massimo di 1.032 euro. Ma che si riduce a un terzo quando la comunicazione è effettuata con un ritardo non superiore a 30 giorni rispetto al termine previsto.
La sanzione è riferita a ogni singolo amministratore, se la società è dotata di un organo amministrativo pluripersonale, e anche a ogni sindaco, se tale organo è presente e non ha provveduto alla comunicazione in caso di inerzia da parte degli amministratori.
L’attiva collaborazione
Per poter individuare correttamente il titolare effettivo e procedere agli obblighi di adeguata verifica della clientela, l’articolo 22 del Dlgs 231/2007 conferma a carico del cliente gli obblighi di attiva collaborazione. In particolare, nel caso in esame, l’amministratore (o gli amministratori) della società X è tenuto (sono tenuti) a fornire al destinatario – cioè al commercialista – e per iscritto tutti i dati e le informazioni necessari all’osservanza degli adempimenti citati. Per la società vi è poi un ulteriore obbligo, introdotto dal Dlgs 90/2017 : acquisire e conservare accurate e aggiornate informazioni sulla propria titolarità effettiva per un periodo di almeno cinque anni.
Oltre che nell’individuare l’effettivo titolare, gli obblighi di adeguata verifica ai fini dell’antiriciclaggio consistono anche in altri adempimenti:
identificazione del cliente e verifica della sua identità tramite un documento di riconoscimento o altro documento equipollente (attività che viene svolta prima dell’instaurazione di un rapporto continuativo, dell’incarico di svolgere la prestazione o dell’esecuzione dell’operazione occasionale);
acquisizione dal cliente di informazioni in merito alla natura e allo scopo del rapporto continuativo o della prestazione professionale. Si tratta di dati e di informazioni relativi all’instaurazione del rapporto, alla relazione tra il cliente e il titolare effettivo, nonchè alla situazione economico-patrimoniale del cliente. Qualora sussista un forte rischio di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, occorrerà applicare la procedura di acquisizione e valutazione dei dati e delle informazioni anche alle prestazioni e alle operazioni occasionali;
controllo costante, per tutta la durata del rapporto o della prestazione del rapporto con il cliente, tramite la verifica e l’aggiornamento dei dati acquisiti.

 

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Clausole dei contratti senza registro

9 Novembre 2017

Il Sole 24 Ore 17 Ottobre 2017 di  Angelo Busani

Compravendite immobiliari. La Ctp di Pesaro spiega che l’imposta riguarda l’atto e non i suoi contenuti

Fuori dall’imposizione delegazioni di pagamento, penali e caparre

La clausola che, in un contratto di compravendita immobiliare, contiene una delegazione di pagamento non è autonomamente soggetta a imposta di registro; questa, infatti, concerne il contratto di compravendita e non la clausola contenuta. Lo ha deciso la Commissione tributaria provinciale di Pesaro nella sentenza 951/2017 .
La pronuncia, nonostante sia assai laconica (e un po’ superficiale: menziona il Dpr 634/1972, quando la legge di registro è oggi contenuta nel Dpr 131/1986) e provenga da una Corte di primo grado, è importante non solo perché non esistono precedenti (sebbene la clausola di delegazione sia frequentissima) ma anche perché consente di affrontare l’impervio e mai approfondito tema della tassazione delle singole clausole di cui un contratto si compone.
La clausola di delegazione, in particolare, è quella (articolo 1268 e seguenti del Codice civile) con la quale il venditore Tizio (debitore della banca Alfa a seguito di un mutuo) vende la sua casa all’acquirente Caio, delegandogli di pagare il prezzo dovuto, in tutto o in parte, alla banca Alfa ad estinzione del mutuo contratto da Tizio.
Questa pattuizione, contenuta in un atto a sé, genererebbe senz’altro l’applicazione dell’imposta di registro con l’aliquota del 3% (articolo 9, Tariffa Parte I allegata al Dpr 131/1986, testo unico del registro). Ma che succede se l’accordo di delegazione è una mera clausola di un contratto?
L’articolo 21 del Dpr 131/1986 dispone che se un atto contiene più negozi, ciascuno di essi ha una propria tassazione (comma 1) a meno che le varie “disposizioni” del contratto siano intrinsecamente connesse (comma 2), caso nel quale si tassa la più “costosa” fiscalmente (come nel caso della permuta). Infine, l’articolo 21, comma 3, esonera da tassazione le clausole di quietanza e di accollo contestuali ad altre pattuizioni.
Quest’ultima norma è assai importante: essa non dice che quietanze e accolli, se contestuali, sono clausole intrinsecamente connesse al contratto cui accedono; né rappresenta una norma eccezionale rispetto alla regola del primo comma in tema di individuale tassazione dei vari negozi contenuti in un atto. La norma del comma 3 vuol significare che le singole clausole di un contratto sono irrilevanti agli occhi dell’imposta di registro, poiché questa imposta riguarda gli “atti” (articolo 1, Dpr 131/1986) e non le loro “clausole”. Quindi, quando il legislatore contempla accolli e quietanze nel comma 3 dell’articolo 21, intende evidentemente compiere con tale norma un’opera chiarificatrice relativa a clausole di frequente ricorrenza, sgombrando il campo una volta per tutte da appetiti che il fisco intenda, caso per caso, manifestare.
Questo ragionamento porta a concludere che qualsiasi singola clausola di un contratto non è in sé rilevante per l’imposta di registro, a meno che la legge non lo imponga espressamente. Divengono quindi in particolare irrilevanti la clausola penale, la caparra o multa penitenziale (la clausola con cui si “paga” il recesso da un contratto ex articolo 1386 del Codice civile) e le clausole di indennizzo, frequenti nelle compravendite immobiliari di notevoli dimensioni, nonché nelle cessioni di partecipazioni e di aziende; e ciò anche se la Cassazione ha espresso una frettolosa decisione nel senso della loro tassabilità nella sentenza n. 17948 del 19 ottobre 2012.

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