Abuso di potere se i soci perseguono interessi personali

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 15 Giugno 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. Maggioranza in Srl

Si ha abuso di potere dei soci di maggioranza se le delibere perseguono un interesse personale dei medesimi soci in contrasto con quello della società oppure quando si mira a danneggiare i soci di minoranza. Lo ricorda il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di imprese (presidente Mannino, relatore Romano), in una sentenza dello scorso 31 marzo.
A rivolgersi al giudice sono stati i soci di minoranza di una Srl per ottenere l’annullamento di una delibera con cui era stato votato l’azzeramento del capitale sociale e il contestuale aumento dello stesso a 500mila euro. Secondo gli attori, l’operazione aveva lo scopo di escluderli dalla compagine sociale, giacché, per mantenere intatta la loro partecipazione (pari al 43%), avrebbero dovuto sottoscrivere quote per 215mila euro. Dal canto suo, la Srl ha contestato la domanda e ne ha chiesto il rigetto.
Nel respingere l’impugnazione, il Tribunale osserva, innanzitutto, che «nel nostro ordinamento societario non esiste una norma che identifichi espressamente una fattispecie di abuso nelle deliberazioni assembleari». Tuttavia, considerando la società come contratto, i soci devono eseguire l’accordo secondo le regole di buona fede e correttezza previste dagli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. Princìpi, questi, che costituiscono «il fondamento – si legge nella sentenza – per riconoscere la figura dell’abuso di potere quale elemento invalidante le deliberazioni assembleari finalizzate esclusivamente a favorire la maggioranza a danno della minoranza».
In base a queste regole – prosegue il Tribunale, citando la sentenza 27387/2005 della Cassazione – l’abuso di potere è causa di annullamento delle delibere quando il voto «non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società e costituisca una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società»: il che si verifica quando la delibera persegue un interesse personale dei soci di maggioranza contrapposto a quello sociale oppure mira a ledere i diritti patrimoniali e di partecipazione dei soci di minoranza. A parte queste ipotesi, «resta preclusa – continua la sentenza – ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza a esprimere il proprio voto».
Inoltre, il merito della delibera impugnata può essere esaminato «solo in presenza di indici oggettivi che consentano di sospettare la violazione di vincoli» previsti dall’ordinamento. E l’onere di dimostrare tale violazione grava sulla parte che afferma l’illegittimità della delibera, fermo restando che la prova non è limitata a elementi che si sono manifestati prima del voto, ma può riguardare anche «comportamenti o indizi cronologicamente successivi».
Nel caso in esame, il Tribunale rileva che le perdite della società ne avevano azzerato il capitale, il che rendeva «legittima la scelta dell’assemblea di procedere all’operazione sul capitale»; peraltro, si trattava di una decisione che «consentiva alla società di evitare l’avvio della procedura di liquidazione». Quanto all’entità dell’aumento, le contestazioni dei soci attori erano generiche, e comunque la società aveva dimostrato che erano in corso trattative per un progetto di ripresa dell’attività.
Per queste ragioni il Tribunale ha quindi confermato la delibera impugnata.

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Licenziato per abuso di internet

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 16 Giugno 2017 di Giampiero Falasca

Cassazione. Espulso per giustificato motivo soggettivo il dipendente che ha usato la connessione a fini personali

Controlli dell’azienda «esenti» dai limiti dello Statuto dei lavoratori

Il dipendente che usa in maniera sistematica la connessione internet aziendale per fini personali può essere licenziato per giustificato motivo soggettivo. E l’azienda che usa degli strumenti di controllo a distanza per accertare l’utilizzo irregolare dei beni della società non è soggetta alle regole previste dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, in quanto queste si applicano solo se il controllo riguarda lo svolgimento della prestazione ma non l’accertamento di eventuali illeciti del dipendente.
Queste le conclusioni cui giunge la Corte di cassazione nella sentenza 14862/2017 depositata ieri, con la quale è stata confermata la legittimità del licenziamento intimato da un datore di lavoro nei confronti di un dipendente che ha abusato ripetutamente della connessione internet messa a disposizione dall’azienda.
Tale dipendente si è connesso a fini personali per 27 volte, nell’arco di due mesi, restando collegato per 45 ore complessive. La società lo ha licenziato per giusta causa, e la Corte d’appello di Bologna ha confermato la validità del recesso, pur mutando il titolo in giustificato motivo soggettivo, in considerazione dell’assenza di precedenti e dell’esiguità del danno subito dall’azienda.
La Suprema corte conferma questa ricostruzione, evidenziando che il numero e la durata delle connessioni dimostra che è stato fatto un reiterato utilizzo per fini personali dello strumento aziendale, da un lato, e la natura intenzionale della condotta, dall’altro.
La sentenza esclude, inoltre, che i controlli effettuati dall’impresa per accertare l’utilizzo indebito della connessione possano configurarsi come controlli a distanza, soggetti alla regole previste dall’articolo 4 dello statuto dei lavoratori. Questa norma, osserva la Corte, disciplina le forme e le modalità di controllo che hanno per oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, mentre non si applica a quei comportamenti illeciti dei dipendenti capaci di ledere l’integrità del patrimonio aziendale, il regolare funzionamento degli impianti e la loro sicurezza.
Questa affermazione, non del tutto nuova (si veda Cassazione 10955/2015), è molto importante, in quanto libera dai vincoli dell’articolo 4 dello statuto tutti quei controlli effettuati per la finalità di accertare la commissione di illeciti gravi da parte dei lavoratori.
La Corte esclude, inoltre, che l’azienda abbia violato le regole che tutelano la riservatezza e la privacy del dipendente, nel momento in cui ha verificato le modalità di utilizzo della connessione internet, in quanto il datore di lavoro non ha analizzato quali siti sono stati visti durante la navigazione, non ha visto la tipologia di dati che sono stati scaricati e non ha accertato se questi sono stati salvati sul personal computer.
La società si è limitata ad analizzare i dettagli del traffico di connessione, che non costituiscono dati personali, in quanto non forniscono alcuna indicazione in merito alla persona e alle sue scelte politiche, religiose, culturali o sessuali. I dati della connessione, secondo la Corte, forniscono solo elementi quantitativi di carattere generale, che possono essere riferiti – senza alcuna capacità di individuazione – a un numero indistinto di utenti della rete.

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Falso in bilancio non svalutare i crediti

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore del 16 Giugno 2017 di Giovanni Negri

Cassazione penale. Confermata la condanna per bancarotta impropria nei confronti di un imprenditore

Era stata conservata nei conti una posizione inesigibile dal 2007
La conservazione nei conti di un credito inesigibile rappresenta un episodio di falso in bilancio. Di portata tale da aggravare il dissesto e condurre alla responsabilità per bancarotta. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 29885, Quinta sezione penale, depositata ieri. La pronuncia conferma così la condanna nei confronti di un imprenditore per bancarotta fraudolenta patrimoniale, bancarotta impropria da falso in bilancio, bancarotta semplice, per avere aggravato il dissesto dell’azienda non richiedendo il fallimento. Tra i motivi di ricorso la difesa aveva messo in evidenza la carenza di argomentazioni da parte della Corte d’appello sull’asserito falso valutativo, fondato solo, contestava il ricorso, sull’applicazione dei principi contabili che non avevano rango tale da potere integrare la norma penale.
Sul punto la Cassazione è netta nel respingere l’impugnazione. Ricorda infatti che la conservazione, nel bilancio della società poi fallita, di un credito in realtà inesigibile sin dal 2007, senza operare la svalutazione obbligatoria nella misura del 90%, aveva permesso all’impresa di proseguire l’attività senza prendere atto che il patrimonio netto era diventato negativo e che quindi era necessario provvedere alla ricapitalizzazione oppure alla liquidazione.
Quanto alla rilevanza da attribuire ai principi contabili, la sentenza sottolinea come questi non sono affatto irrilevanti come invece sostenuto dalla difesa. Rappresentano invece dei criteri tecnici generalmente accettati che permettono una corretta lettura delle diverse voci di bilancio. È possibile non tenerne conto, puntualizza la Corte, tuttavia va data adeguata informazione giustificazione dello scostamento. In questo senso si sono pronunciate le Sezioni unite penali con la sentenza n. 22474 del 2016, con la quale è stata illustra la rilevanza penale del cosiddetto falso valutativo, oggetto, dopo la riforma, di pronunce dissonanti da parte della stessa Corte di cassazione.
La conclusione, allora, è che la condotta trova una corretta qualificazione nella disciplina dell’articolo 223, comma secondo n. 1, della Legge fallimentare, disposizione che punisce chiunque provoca o contribuisce a provocare il dissesto della società. Dissesto da intendere come squilibrio econcomico che conduce la società al fallimento e responsabilità che può coinvolgere anche chi contribuisce a causarne anche solo una parte, visto che il dissesto non costituisce un dato granitico e può essere reso più grave.

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La società svizzera «paga» l’inerzia del rappresentante

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 26 Giugno 2017  di Ferruccio Bogetti e Gianni Rota

Imposte indirette. Se il mandatario italiano omette dichiarazioni e liquidazioni Iva

Per inadempienze e mancato ricorso contro gli avvisi risponde la società

La società svizzera risponde delle imposte accertate con atti notificati al rappresentante fiscale italiano. Questi è destinatario di tutti gli atti tributari quale mandatario, nonché solidamente responsabile. Né rilevano per il giudice eventuali responsabilità interne al rapporto fiduciario tra la società estera e il suo rappresentante, se quest’ultimo non impugna gli avvisi e li lascia diventare definitivi. Queste le conclusioni della sentenza 1863/01/2017 della Ctr Lombardia (presidente Labruna, relatore Aondio).
Il 9 marzo 2010 il Fisco eleva un Pvc a una società svizzera con rappresentante fiscale in Italia. Dal 2005 al 2010 tramite il rappresentante, la società avrebbe svolto nel nostro Paese operazioni Iva senza tenere i registri, effettuare le liquidazioni e presentare le dichiarazioni Iva.
Il 29 aprile 2011 le Entrate notificano al solo rappresentante alcune rettifiche Iva, che questi non impugna. In seguito, il 7 novembre 2011 la società comunica la cessazione del rapporto di rappresentanza fiscale.
La società riceve poi in Svizzera i ruoli definitivi e impugna contro le Entrate e il concessionario della riscossione, spedendo il ricorso in busta anziché plico. Queste le ragioni del ricorso:
nessuna notizia della verifica;
ricezione degli atti non presso la sede legale, ma solo presso il rappresentante fiscale;
violazioni solo formali, perché l’effettuazione dei vari adempimenti Iva avrebbe fatto scaturire un credito anziché un debito Iva;
in ogni caso, violazioni imputabili all’inadempienza del rappresentante.
Il Fisco resiste e il concessionario chiede l’inammissibilità del ricorso presentato in busta chiusa anziché in plico. Tesi accolta dalla Ctp, mentre la Ctr pur confermando nel dispositivo la sentenza di primo grado, nella parte alta della decisione ammette che il ricorso possa anche essere spedito in busta chiusa, purché sia provata la data di invio.
La ragione per cui la Ctr dichiara inammissibile il ricorso è che il ruolo e la cartella non sono stati impugnati per vizi in senso proprio (ad esempio, la decadenza della formazione del ruolo o l’incompetenza territoriale del concessionario), ma solo per un vizio in senso lato, cioè l’omessa notificazione dell’atto presupposto. Ed è proprio questa presunta omissione che i giudici non considerano tale, e questo per due ragioni:
il Fisco italiano deve poter contare su un interlocutore nazionale quando il soggetto passivo è stabilito all’estero e il rappresentante è l’unico destinatario di tutti gli atti dell’amministrazione: è un mandatario sempre obbligato a identificare in Italia il soggetto estero rappresentato, che diventa responsabile in solido per i debiti tributari;
al giudice tributario non interessano le responsabilità interne al rapporto fiduciario tra società estera e il suo rappresentante fiscale, da far valere in altra sede.
In conclusione l’accertamento è ritualmente notificato e i ruoli definitivi notificati in Svizzera sono legittimi.

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Valido il licenziamento comunicato via whatsapp

10 Luglio 2017

Il Sole 24 Ore 30 Giugno 2017

Tribunale di Catania

Un dipendente può essere licenziato anche via social network. Lo ha stabilito il Tribunale civile di Catania che ha ritenuto che il licenziamento «intimato su whatsapp» appaia «assolvere l’onere della forma scritta, trattandosi di un documento informatico». Con tanto di prova di avvenuta ricezione: l’impugnativa presentata dal dipendente.
Le indicazioni, che sembrano aprire la strada a considerare legittima una nuova forma di comunicazione fra datore di lavoro e lavoratore, sono contenute nella motivazione del provvedimento del Giudice del lavoro, Mario Fiorentino, che rigetta il ricorso presentato da una dipendente di un’azienda che aveva ricevuto la notizia del suo licenziamento sulla chat di whatsapp.
Le osservazioni del giudice si incentrano su due aspetti: la forma scritta e la risposta del lavoratore che, indirettamente, rafforza la validità della prima comunicazione. Infatti, «la modalità utilizzata dal datore di lavoro nel caso di fattispecie appare idonea ad assolvere ai requisiti formali in esame, in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca come del resto dimostra la reazione da subito manifestata dalla predetta parte».
Quindi: nessun dubbio sulla chiarezza della comunicazione della volontà di licenziare, anche se si è usato whatsapp, e nessun dubbio sul fatto che il destinatario abbia ricevuto e interpretato chiaramente la comunicazione, come testimonia la reazione. Per questo il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso.

 

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Inesistente la fattura emessa da una srl estranea al servizio

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 18 Maggio 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione. Il reato scatta anche per simulazione soggettiva

Commette il reato di emissione di fatture soggettivamente inesistenti l’amministratore che svolge in proprio un prestazione e poi la fa fatturare alla società la cui attività è del tutto estranea alla prestazione eseguita. A nulla rileva l’esistenza di un contratto che coinvolge la società. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione con la sentenza n. 24307 depositata ieri
Nell’ambito di una cessione di quote societarie da un’impresa italiana ad una estera, veniva pagata – dalla prima – una prestazione di intermediazione svolta da una srl a seguito di regolare contratto. Quest’ultima emetteva fattura e incassava sui propri conti il compenso. L’attività svolta dalla società emittente la fattura tuttavia era la commercializzazione di materiali di cancelleria abbastanza estranea alla tipologia di servizio fatturato relativo all’intermediazione della cessione di quote. Successivamente la somma veniva prelevata dall’amministratore.
L’agenzia delle Entrate, a seguito di un controllo, formulava una serie di contestazioni tra le quali l’emissione di una fattura soggettivamente inesistente, ritenendo nella specie che l’operazione fosse stata svolta dall’amministratore della società a titolo personale ma fatturata dalla società. Dopo la condanna nei due gradi di giudizio, l’imputato ricorreva per cassazione lamentando, tra l’altro, che non era possibile configurare, nella specie, un’ipotesi di emissione di fattura soggettivamente inesistente. Secondo la difesa infatti, l’operazione di mediazione della compravendita in questione era stata affidata alla società (e non alla persona dell’amministratore) in virtù di uno specifico contratto. La srl aveva poi incassato il previsto compenso con la conseguenza che nessuno dei soggetti partecipanti all’operazione era rimasto estraneo, difettando, così, il presupposto indispensabile per la configurazione dell’operazione soggettivamente inesistente come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
La Cassazione ha rigettato il ricorso e, in merito a questa eccezione, ha rilevato che il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile anche in caso di fatturazione solo soggettivamente falsa. Ciò si verifica anche quando, da un lato, i beni o i servizi siano effettivamente entrati nella sfera giuridico-patrimoniale dell’impresa utilizzatrice della fattura e dall’altro sussista l’elemento della simulazione soggettiva, ossia la rappresentazione documentale della provenienza della prestazione da un soggetto giuridico differente da quello indicato nel documento fiscale. Secondo i giudici, le operazioni soggettivamente inesistenti devono ritenersi configurabili anche quando la fattura rechi l’indicazione di un soggetto erogatore della prestazione diverso da quello effettivo: anche in questa ipotesi infatti il documento esprime una capacità decettiva idonea ad impedire l’identificazione degli attori effettivi delle operazioni ostacolando l’accertamento tributario.

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Brevetti registrati all’estero fuori da RW

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 29 Maggio 2017 di Luca Benigni e Gianni Rota

Attività finanziarie. Irrilevante la titolarità della privativa se non viene effettuata la concessione dell’utilizzo a soggetti stranieri

La tutela della proprietà industriale non va monitorata – Tassabile lo sfruttamento commerciale

La registrazione di un brevetto nazionale presso uno o più Stati esteri non va indicata nel quadro RW di Unico perché non è un’attività finanziaria estera, ma rappresenta l’ampliamento della protezione brevettuale oltre i confini nazionali. L’ obbligo, invece, potrebbe sussistere per il soggetto che sfrutta commercialmente il brevetto, anche concedendolo in uso a terzi, colui cioè che poi consegue i relativi redditi. Sono queste le conclusioni della sentenza 1779/17/2017 della Ctr Lombardia (presidente Lamanna, relatore De Rentiis).
In base a un procedimento penale avviato per presunti illeciti fiscali internazionali, l’amministrazione finanziaria sanziona un contribuente per gli anni dal 2007 al 2009 perché ha omesso di indicare in Unico le attività finanziarie detenute all’estero, rappresentate da un contratto per lo sfruttamento di alcuni brevetti, stipulato per un importo di 400mila euro con una società britannica, poi risolto consensualmente il 6 dicembre 2007.
Il contribuente contesta l’irrogazione delle sanzioni sotto due profili:
la detenzione in Italia di brevetti per i quali è stata poi richiesta e ottenuta l’estensione della registrazione presso uno o più Stati esteri non è automaticamente qualificabile come detenzione di «attività finanziarie estere», in quanto ha solo l’effetto di ampliarne la protezione brevettuale oltre i confini nazionali e non obbliga di conseguenza il titolare a indicarli nel quadro RW;
lo sfruttamento di brevetti registrati all’estero, tramite una società italiana che si occupa della concessione in uso a società estere, obbligherebbe solo quest’ultima a compilare il quadro RW.
L’amministrazione resiste con due motivi:
il contribuente è obbligato alla compilazione perché queste «attività finanziarie estere» sono potenzialmente in grado di produrre redditi e l’omissione va punita con una sanzione amministrativa pecuniaria dal 5 al 25% degli importi non dichiarati;
lo sfruttamento, potenziale o effettivo, dei brevetti attraverso una società italiana o inglese, non rileva, perché il contribuente risulta essere in ogni caso il titolare.
I giudici di merito di entrambi i gradi danno torto all’ufficio. In particolare la Ctr afferma due principi.
La registrazione. L’omessa compilazione del quadro RW, avente ad oggetto brevetti nazionali per i quali è stata richiesta e poi ottenuta la registrazione anche in altri Stati esteri, va provata dall’amministrazione con la loro diversa qualificazione in termini di attività finanziare estere: l’estensione della registrazione all’estero di un brevetto nazionale, infatti, non consente di per sè di qualificarlo come «attività finanziaria estera» bensì unicamente di ampliarne la protezione brevettuale oltre i confini nazionali.
Lo sfruttamento. La ratio legis è quella di monitorare le operazioni finanziarie da e verso l’estero. Pertanto l’obbligo di indicare nel quadro RW le «attività finanziare estere» spetta sia al titolare dell’attività finanziaria sia a quanti ne hanno la materiale disponibilità. Ne consegue che il presupposto sanzionatorio può dirsi effettivamente integrato attraverso il concreto potere dispositivo sulle risorse economiche all’estero, indipendentemente da colui che ne risulti titolare.

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Aumento di capitale con compensazione del credito del socio

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 25 Maggio 2017 di Antonino Porracciolo

Tribunale di Roma. Per una Srl

Sì alla compensazione della somma dovuta per l’aumento di capitale con un controcredito vantato verso la società. Lo afferma il Tribunale di Roma, Sezione specializzata in materia di imprese (presidente Scerrato, relatore Romano), in un’ordinanza dello scorso 6 febbraio.
Questi i fatti. Nell’aprile 2016 l’assemblea di una Srl aveva deliberato l’aumento da 10mila a 85 mila euro. Un socio aveva esercitato il diritto di opzione, chiedendo che il relativo debito fosse compensato con un suo credito verso la società per un precedente finanziamento. L’amministratore aveva però escluso che i due debiti si potessero compensare; così aveva iscritto nel Registro imprese la delibera di variazione del capitale senza tener conto della sottoscrizione del socio creditore, la cui quota di partecipazione al capitale sociale era quindi scesa dal 33,33% al 5,56%.
Il socio si era allora rivolto al giudice monocratico del Tribunale per ottenere, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, un provvedimento che disponesse l’esecuzione della delibera di aumento del capitale con compensazione col suo credito; il socio ricorrente aveva inoltre chiesto di ordinare al legale rappresentante della società di depositare nel registro delle imprese una dichiarazione che attestasse il suo acquisto di quote. Con ordinanza del settembre 2016 il tribunale aveva accolto la richiesta del ricorrente.
La Srl ha quindi presentato il reclamo previsto dall’articolo 669-terdecies del Codice di procedura civile, sostenendo che l’aumento di capitale era stato deliberato per reperire, con assoluta urgenza, la liquidità necessaria a effettuare il pagamento della rata di un mutuo prossima alla scadenza. Sicché – concludeva la società – lo scopo della delibera sarebbe stato vanificato se si fosse consentita la compensazione richiesta dal socio.
Nel respingere il reclamo, il collegio afferma, innanzitutto, che «l’obbligo del socio di conferire in danaro il valore delle azioni sottoscritte in occasione di un aumento del capitale sociale è un debito pecuniario, che può essere estinto per compensazione con un credito pecuniario vantato» nei confronti della società. Peraltro, l’aumento di capitale sottoscritto con estinzione per compensazione non è contrario all’interesse della società, giacché determina il venir meno del debito della stessa compagine verso il socio e, in definitiva, «un aumento della garanzia patrimoniale generica» offerta ai creditori. Né, comunque, la possibilità che il debito sia estinto per compensazione richiede un’espressa previsione nella decisione di aumento del capitale.
Nel caso in esame, la delibera era stata approvata per trovare la liquidità necessaria a pagare la rata di un prestito e a ristrutturare alcuni impianti. Ma tale esigenza, «sebbene in qualche modo esplicitata», era rimasta «confinata nell’ambito dei motivi», giacché l’assemblea dei soci non aveva predisposto «i meccanismi giuridici per impedire» la compensazione dei due crediti. Infatti, «se i soci avessero voluto che l’operazione sul capitale facesse confluire nelle casse societarie esclusivamente liquidità da utilizzare per i pagamenti», l’assemblea avrebbe «potuto (e dovuto) escludere la compensabilità dell’apporto di capitale con i crediti vantati dai soci». Poiché la delibera non conteneva alcuna previsione sul punto, si applica la regola generale che consente la compensazione.
Così il Tribunale ha confermato l’ordinanza impugnata.

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Dal 1° agosto la caccia al «non pentito»

8 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore del 29 Maggio 2017 di Alessandro Galimberti e Valerio Vallefuoco

I trattati. Alla chiusura della Vd 2.0 l’Agenzia partirà con le liste selettive e da settembre lo scambio automatico

Per la seconda e definitiva chiamata all’emersione volontaria del nero estero restano ancora due mesi e due giorni. Poi, chiusa definitivamente la finestra delle voluntary disclosure, dal 1° agosto l’Agenzia passerà alla fase della caccia all’evasore non pentito, utilizzando in prima battuta i trattati bilaterali (group request) e subito dopo lo scambio automatico di informazioni (afflusso dati dal 1° settembre 2017 per gli early adopter, un anno dopo per gli altri).
La stagione delle group request – cioè le liste selettive di gruppo inviate alle altre amministrazioni collaborative (bilaterali), per esempio: “chi ha chiuso o azzerato i conti in Svizzera nel 2015” – durerà in sostanza il tempo necessario per l’avvio dello scambio automatico di informazioni, che sarà la vera arma globale contro la fuga del nero (alla rete di trasparenza internazionale aderiscono ormai più di 100 paesi). Lo scambio automatico, a differenza delle richieste di gruppo, funzionerà senza alcun intervento di impulso “esterno”: tutti gli intermediari dei paesi aderenti al cosidetto Crs (Common reporting standard) invieranno in automatico all’Agenzia i dati dei contribuenti con asset nelle loro giurisdizioni. Quanto al cambio di cittadinanza utilizzato per ragioni di opportunità/fuga fiscale (e cioè sottrarsi allo scambio automatico), può diventare un indizio che l’Agenzia sfrutterà per chiedere l’assistenza amministrativa del paese “rifugio”.
La tabella pubblicata a lato dimostra che la fuga del nero è diventata molto più complicata che in passato: i 17 paesi indicati, selezionati tra i 111 delle liste Ocse, rappresentavano fino a un paio d’anni fa le mete preferite degli amanti del segreto bancario (o meglio, del segreto fiscale), ma al più tardi tra 15 mesi dovranno svelare automaticamente al fisco italiano nomi e capitali dei “rifugiati”.
Gli strumenti della trasparenza internazionale sono gli accordi bilaterali tra cui le Convenzioni sulla doppia tassazione (Cdta) – che prevedono il recepimento dell’articolo 26 del modello Ocse sullo scambio di informazioni a richiesta con l’abolizione del segreto bancario e fiduciario – e gli accordi bilaterali sullo scambio di informazioni (Tiea) con la lista degli Stati convenzionati che consentono un adeguato scambio di informazioni (cosiddetta white list) prevista dal Dm 4 settembre 1996 e aggiornata dal Dm del 9 agosto 2016. Strategica, infine, è la lista Ocse dei Paesi (oltre 100) che a livello internazionale hanno adottato il modello comune per lo scambio automatico di informazioni (Common Reporting Standard). A fare da strumento applicativo sarà invece la Convenzione multilaterale sulla cooperazione amministrativa (Maat), adottata da quasi tutti gli Stati già parte degli accordi bilaterali e multilaterali sullo scambio di informazioni a richiesta e automatico. Il Maat consente la comunicazione spontanea, a richiesta singola o di gruppo e lo scambio automatico, con la possibilità di verifiche fiscali all’estero e la riscossione in loco dei tributi “fuggiti”. Il tutto, finalmente, con modalità standard per tutti gli Stati aderenti.

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Reati fiscali, allargato il «ne bis in idem»

7 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 19 Maggio 2017 di Marina Castellaneta

Corte diritti dell’uomo. Il principio vale anche se la sovrapposizione dei processi è breve

La Corte europea dei diritti dell’uomo torna sull’applicazione del principio del ne bis in idem nei casi di sanzioni tributarie e penali per reati fiscali. Con la sentenza depositata ieri nella causa Johannesson e altri contro Islanda (ricorso n. 22007/11), Strasburgo sembra allargare nuovamente gli spazi applicativi del principio del ne bis in idem. Per la Corte, infatti, se manca una connessione sostanziale e se la sovrapposizione tra il procedimento tributario e quello penale è limitata dal punto di vista temporale, è certa la violazione del principio.
A rivolgersi alla Corte sono stati due cittadini islandesi che erano stati al centro di un procedimento per evasione fiscale. L’amministrazione tributaria aveva disposto l’applicazione di una sovrattassa, ma dopo nove mesi i due ricorrenti erano stati indagati per reati fiscali e condannati a una pena detentiva (pena sospesa) e a una multa. Di qui il ricorso alla Corte europea che ha dato ragione ai ricorrenti.
Per la Corte, infatti, l’Islanda ha violato l’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea – che afferma il diritto a non essere processato o punito due volte per lo stesso reato – proprio perché il procedimento tributario culminato con una sanzione pecuniaria aveva, in realtà, una natura sostanzialmente penale. I fatti contestati nei due procedimenti erano identici e così la stessa entità dell’evasione fiscale contestata.
È vero – osserva la Corte europea – che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 non esclude del tutto la possibilità che due procedimenti siano condotti contemporaneamente, ma questo solo a condizione, accertata l’identità del fatto, che le due azioni siano strettamente legate dal punto di vista sostanziale e temporale. In presenza di questo legame “sufficientemente stretto”, infatti, si verifica un’integrazione tra le due azioni. Con la conseguenza che i due procedimenti ne formano uno unico.
La Corte, nell’accertare se sussistessero le due condizioni, ha tenuto conto, dal punto di vista della connessione temporale, della durata della sovrapposizione legata, però, all’intero svolgimento del procedimento.
Di conseguenza, poiché i procedimenti si erano svolti in parallelo solo per un anno su una durata complessiva di 9, Strasburgo ha escluso la connessione, anche perché l’imputazione ai due ricorrenti era arrivata 16 mesi dopo la decisione delle autorità fiscali.
Netta separazione anche sotto il profilo delle prove, con indagini e svolgimento dei procedimenti realizzati in modo indipendente.
Di qui la conclusione dell’assenza di una connessione sostanziale e temporale “sufficientemente stretta” e l’evidente duplicazione del processo, con una chiara violazione del principio del ne bis in idem.

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