Società estinte, confini incerti sulla responsabilità degli ex soci

7 Giugno 2017

Il Sole 24 Ore 15 Maggio 2017 di Fabrizio Cancelliere e Gabriele Ferlito
Cassazione. Il caso della mancata distribuzione dell’attivo
L’estinzione di una società di capitali nel corso del giudizio continua a far discutere. Con la sentenza 9094/2017 la Cassazione ha riconosciuto l’interesse del fisco ad agire contro gli ex soci quando la chiusura della società durante il processo avviene a seguito di una liquidazione che si conclude senza ripartizione di attivo tra i soci (si veda il Sole 24 Ore dell’8 aprile). La pronuncia crea una situazione di incertezza, alla luce della oscillante giurisprudenza della stessa Corte.
Ma andiamo con ordine. Rispetto ai debiti sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società di capitali dal Registro imprese, il Codice civile (articolo 2495, comma 2) stabilisce che i creditori possono agire nei confronti degli ex soci fino a concorrenza di quanto dagli stessi riscosso in base al bilancio di liquidazione. Tale chiamata in responsabilità dei soci operata determina un fenomeno di tipo successorio, come riconosciuto dalle Sezioni unite con due sentenze analoghe emesse il 12 marzo 2013, la 6070 e la 6072.
In alcune recenti pronunce (sentenza 2444/2017; ordinanza 13259/2015), la Corte ha sostenuto la tesi che limita il meccanismo successorio all’ipotesi in cui gli ex soci soci abbiano goduto di un qualche riparto ad esito della liquidazione. Secondo questa interpretazione, gli ex soci subentrano dal lato passivo del rapporto di imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso al termine della liquidazione, pertanto l’accertamento di tali circostanze è il presupposto della assunzione, in capo a loro, della qualità di successori e, quindi, della legittimazione passiva ai fini della prosecuzione del processo. Secondo questa posizione:
sono inammissibili l’appello o il ricorso per Cassazione proposti dal fisco nei confronti degli ex soci di una società medio tempore estinta senza alcuna ripartizione di attivo;
il creditore che voglia agire nei confronti dell’ex socio che abbia ricevuto un qualche riparto è tenuto a dimostrare che vi sia stata la distribuzione dell’attivo e che tale attivo è stato riscosso, fermo restando il principio dell’onere della prova su chi intende fare valere un diritto.
Con la sentenza 9094 la Suprema corte ha censurato tale orientamento. I giudici, richiamando le Sezioni unite 6070 e 6072, hanno affermato che la mancata ripartizione di attivo tra i soci non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione intrapresa verso la società. Invero, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex articolo 2495. Qualora tale limite dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di fare valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò inciderebbe sull’interesse ad agire, ma il creditore potrebbe comunque avere interesse a proseguire il giudizio se vi fosse la possibilità per i soci di succedere in eventuali rapporti attivi della società non definiti al termine della liquidazione, ad esempio:
sopravvenienze attive derivanti da crediti della società incerti e illiquidi al momento della liquidazione (la cui mancata inclusione nel bilancio di liquidazione può essere giustificata da una più rapida conclusione della stessa);
beni o diritti non compresi nel bilancio di liquidazione, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa.
Resta da capire se tale possibilità può essere considerata automatica o se andrà documentata dal creditore, profilo che potrebbe aprire altre discussioni.

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Il prestanome «paga» insieme all’amministratore di fatto

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 21 Aprile 2017 di Laura Ambrosi

Cassazione/2. Chi accetta la carica di rappresentante legale si assume i rischi connessi

Il prestanome risponde insieme all’amministratore di fatto dei reati tributari posti in essere a meno che non provi di essere privo di qualunque potere o possibilità di ingerenza nella gestione dell’impresa. A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 18924 depositata ieri.
A seguito di indagini svolte dalla Guardia di Finanza su una frode Iva perpetrata da alcune società estere e italiane, attraverso cui veniva detratta l’imposta per l’acquisto di beni senza che il venditore (fittizio) la versasse, venivano denunciati per false fatturazioni e altri delitti tributari sia gli amministratori di fatto, sia i rappresentanti legali (ancorché ritenuti in alcuni casi dei semplici prestanome) delle aziende coinvolte. Dopo la condanna nei due gradi di giudizio, gli imputati ricorrevano in cassazione. Tra le eccezioni sollevate, chi era stato ritenuto amministratore di fatto rilevava l’assenza della formale rappresentanza legale dell’azienda, mentre chi era stato indicato quale prestanome eccepiva il mancato coinvolgimento nella gestione imprenditoriale.
La Suprema Corte ha ricordato, innanzitutto, che il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita, con la conseguente equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti dalla carica. Tale interpretazione è confermata dall’articolo 2639 del Codice civile che, per i reati societari, dispone l’equiparazione al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge, di chi esercita in materia continuativa e significativa i poteri inerenti alla qualifica o funzione. Nonostante riguardi i reati societari, tale norma, rileva la sentenza, è la codificazione di un principio generale applicabile ad altri settori dell’ordinamento. Si configura così non solo il concorso dell’amministratore di fatto nei reati commissivi, ma anche in quelli omissivi propri nel senso che l’autore principale del reato è proprio l’amministratore di fatto.
La responsabilità penale dei prestanome è invece radicata nell’articolo 40, comma 2, del Codice penale, secondo cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Infatti, il prestanome, assumendo consapevolmente la veste di rappresentante legale, copre attraverso la violazione del dovere di vigilanza che incombe su di lui le condotte illecite del reale amministratore. Nella specie, secondo i giudici di legittimità, la difesa si era concentrata sull’insussistenza di elementi probatori in ordine ai rapporti tra prestanome e società, mentre aveva tralasciato il mancato esercizio del dovere di controllo che competeva per legge all’amministratore di diritto per provare di essere privo di qualunque potere di ingerenza nella gestione della società nonostante ne fosse formalmente l’amministratore.
Ne consegue che il prestanome, accettando la carica, assume anche i rischi a questa connessi esponendosi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi compiano operazioni legali attraverso la copertura ricevuta. Da qui il rigetto del ricorso e l’affermazione della responsabilità anche dell’amministratore di diritto a titolo di concorso con quello di fatto non solo in virtù della posizione formale rivestita, ma anche per la condotta omissiva consistente nel non aver impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè il mancato esercizio dei poteri gestori e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto.

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Il rischio Brexit sul riciclaggio globale

12 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore Plus 8 Aprile 2017 di Stefano Elli

L’uscita dell’Inghilterra dall’Ue e il potenziale dumping normativo della Gran Bretagna e del Commonwealth

Hanno sempre funzionato a pieno regime. A dispetto delle quattro direttive antiriciclaggio emanate dalla Ue (l’ultima dovrà essere recepita entro il giugno 2017) a dispetto dei continui moniti dei vari organismi internazionali (Gafi, Ocse, Moneyval). I paradisi fiscali legati al governo di Sua Maestà britannica hanno continuato imperterriti a cubare denaro di incerta provenienza, fornendo teste di legno, società anonime, caselle postali e, soprattutto, segretezza. Ma senza allontanarci troppo, anche Londra appare un luogo privilegiato e gettonatissimo da chi vuole accumulare ingenti risorse senza figurare in prima persona. Non c’è inchiesta italiana sul white collar crime che non veda coinvolte pattuglie di società britanniche dalla proprietà oscurata.
E questo è accaduto fino a questo momento: cioè con la Gran Bretagna membro effettivo dell’Unione Europea. E poi? Quando ne sarà uscita? Quando si sarà sottratta ai vincoli imposti dalla partecipazione alla Comunità?
Il rischio concreto è che a fronte di una migrazione in territori comunitari delle maggiori insegne bancarie britanniche, per nulla intenzionate a perdere quote di mercato nel business del risparmio gestito, sulla piazza di Londra si concentrino operazioni e operatori sottratti a ogni tipo di controllo. Che il problema sia serissimo lo testimonia, per fare un solo esempio, il venir meno dell’obbligo, in capo all’Uk, di recepire le norme europee. «La quarta direttiva antiriciclaggio -spiega Fabrizio Vedana, vicedirettore generale di Unione Fiduciaria – prevede, per gli intermediari comunitari l’obbligo di istituire e alimentare il registro dei titolari effettivi delle società e dei trust. Del tutto evidente che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue fa cadere sul nascere ogni ragionamento sul punto». Rischio potenziale? Nessun obbligo a carico delle società britanniche e prevedibile migrazione di massa verso Londra di soggetti a rischio riciclaggio. Il secondo problema è di natura fiscale. A spiegarlo è di nuovo Vedana: «La direttiva Ue 107 del 2014 è stata recepita dall’Italia dalla legge 95 del 2015: si chiama Common reporting standard. Che cosa prevede? Che gli intermediari finanziari comunitari comunichino subito alle rispettive amministrazioni fiscali i dati di cittadini stranieri che aprano rapporti economici (conti correnti e altro) sul loro territorio. Le amministrazioni fiscali, dal canto loro, allertano in automatico i loro omologhi nei Paesi di provenienza dei cittadini stranieri». Nel dopo Brexit non vi sarà alcun obbligo di comunicare alcunché a chicchessia. Rischio potenziale? Afflusso di massa a Londra di capitali in evasione fiscale. «Di certo la fame di “tane” sicure, con il venire meno della copertura della sicura Svizzera e di San Marino, fiaccate dal combinato disposto dei tre scudi fiscali e della voluntary disclosure, rende indispensabile alle organizzazioni criminali la ricerca di basi sicure dove potere appoggiare il denaro, metterlo al riparo e reimpiegarlo – spiega Gian Gaetano Bellavia, commercialista e consulente tecnico di molte procure della Repubblica -. Quello britannico è un sistema tradizionalmente efficiente, radicato, ramificato, ben collegato e socialmente accettato. Assolutamente perfetto per i riciclatori di tutto il mondo che già da tempo lo stanno utilizzando a prescindere dalla Brexit. Figuriamoci dopo».

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Emirati Arabi più trasparenti

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 22 Aprile 2017 di Valerio Vallefuoco

Fisco internazionale. Sottoscritta la convenzione Ocse sull’assistenza amministrativa reciproca (Maat)

In caso di illeciti penali possibile la presentazione di istanze retroattive

Per gli Emirati si apre una nuova stagione di intensa trasparenza fiscale (anche nei confronti dell’Italia). Con la possibilità, in caso di contestazioni penali, anche di una richiesta di informazioni di carattere retroattivo per tre anni.
Ieri, infatti, alla sede centrale dell’Ocse a Parigi anche gli Emirati arabi uniti hanno firmato la Convenzione multilaterale sull’assistenza amministrativa reciproca in materia fiscale, il cosiddetto Maat (Multilateral convention on mutual administrative assistance in tax matters).
Il Maat è forse lo strumento più efficace a livello internazionale per l’attuazione pratica della cooperazione fiscale internazionale. Nel testo della Convenzione sono previste, infatti, tutte le forme conosciute di assistenza amministrativa in materia fiscale. Si evidenziano tra i contenuti dell’accordo multilaterale lo scambio di informazioni tra amministrazioni fiscali sia su richiesta che spontaneo ma anche automatico in attuazione del cosiddetto Crs (Common reporting standard) ossia l’accordo multilaterale sullo scambio automatico di informazioni che prevede uno standard mondiale sulle modalità di comunicazione dei dati dei conti correnti detenuti dai contribuenti esteri.
Sempre tra i contenuti della Convenzione è di rilievo la possibilità di poter effettuare verifiche fiscali all’estero ovvero verifiche fiscali simultanee ma soprattutto l’assistenza nella riscossione fiscale all’estero a oggi quasi mai attuata. In questo accordo sono, poi, previste garanzie per la tutela dei diritti dei contribuenti.
Con l’adesione alla Convenzione multilaterale gli Emirati Arabi potranno quindi adempiere il loro impegno a iniziare il primo scambio automatico di informazioni entro il 2018. Dopo Panama, che aveva sottoscritto lo scorso mese di marzo, la Svizzera e il principato di Monaco che hanno aderito alla fine del 2016 (e ora gli Emirati), gli Stati che aderiscono alla Convenzione raggiungono il numero impressionate di 109 giurisdizioni che adottano lo stesso accordo multilaterale.
La forza della Convenzione, ovviamente, aumenta con ogni nuovo Paese firmatario dato che la convenzione è necessaria per l’attuazione dello standard per lo scambio automatico di informazioni finanziarie in materia fiscale promosso dai Paesi Ocse e del G20.
La Convenzione potrà portare a una pronta ed efficace attuazione anche delle ulteriori misure di trasparenza del progetto Base erosion and shifting profit (il cosiddetto Beps) ma soprattutto sarà uno dei più potenti strumenti nella lotta contro i flussi finanziari di carattere illecito, compresi quelli legati al finanziamento del terrorismo.
Per la sua entrata in vigore la Convezione prevede anche una specifica clausola di retroattività. Per i casi, infatti, in cui la giurisdizione dello Stato richiedente assistenza amministrativa ritenga sia stato commesso un illecito penale e anche fiscale lo scambio di informazioni potrà riguardare anche un periodo precedente l’entrata in vigore dell’accordo.

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Pensioni estere: il prelievo segue il doppio binario

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore del 3 Aprile 2017 da “L’Esperto Risponde” a cura di Alfredo Calvano
Sono un pensionato italiano residente in Italia, che percepisce anche un reddito di pensione dallo Stato di San Marino. Questo reddito è tassato da San Marino. Chiedo se devo riportarlo anche in Italia nella dichiarazione dei redditi.
A.F.RIMINI
In base alle regole convenzionali contro le doppie imposizioni, le pensioni di fonte estera sono generalmente tassate in modo diverso a seconda che si tratti di pensioni pubbliche o private. In forza della Convenzione Italia–Stato di San Marino, le pensioni “pubbliche” corrisposte da uno Stato contraente o da una sua suddivisione politica o amministrativa o da un ente locale sono imponibili soltanto nell’altro Stato (nel caso specifico Italia) se la persona fisica è un residente di quest’ultimo Stato e ne ha la nazionalità (comma 2 lettera b articolo 19); in caso contrario, la pensione è imponibile soltanto nello Stato di provenienza della pensione. Il medesimo trattamento (tassazione nello Stato di residenza) è riservato alle pensioni “private”, a meno che il beneficiario non sia esente da imposizione relativamente a tali redditi nello Stato in cui è residente, conformemente alla legislazione ivi vigente; in quest’ultima evenienza le pensioni sono imponibili nello Stato di provenienza. Infine, le pensioni ricevute nell’ambito della legislazione di sicurezza sociale di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in quest’ultimo.
Per quanto precede, qualora sussistano i presupposti di tassazione in Italia del trattamento pensionistico sanmarinese, lo stesso va indicato nel quadro RC del modello Redditi persone fisiche o nel modello 730.

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Prestiti infruttiferi: servono valide ragioni economiche

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 3 Aprile 2017 di Massimo Bellini e Alfredo Orlandi

Finanziamenti. La difesa in caso di controlli

Le operazioni finanziarie intercompany sono spesso sotto la lente del fisco durante le verifiche. Il tema dei finanziamenti infruttiferi è da tempo dibattuto con interpretazioni ondivaghe da parte della giurisprudenza. Con le sentenze 27087/2014 e 15005/2015 la Cassazione ha ritenuto che il principio del valore normale debba essere applicato solo in presenza di componenti di reddito positive o negative. Poiché tali condizioni non risultano integrate nella concessione di mutui non onerosi, questi ultimi devono essere considerati legittimi. La Suprema corte, tuttavia, nel 2016 (sentenza 7493/2016) è tornata al precedente orientamento (che sembra più in linea con i principi sottostanti la normativa sul transfer price), secondo cui i prestiti infruttiferi non esulano dall’applicazione dell’articolo 110, comma 7, del Tuir.
Pur accettando l’applicabilità del valore normale, andrebbero comunque sempre analizzate le motivazioni sottostanti l’effettuazione di finanziamenti od operazioni finanziarie gratuite. Anche un tasso o un compenso pari a zero, infatti, può rappresentare un valore di mercato qualora sia giustificato da valide ragioni economiche, come confermato dalla Ctr Piemonte 1224/4/2016 che ha ritenuto corretto il mancato addebito di commissioni di garanzia da parte di una società italiana alla propria consociata americana, in quanto rispondente ad una logica di tornaconto economico in un contesto di crisi di liquidità e di riduzione del fatturato.
Talvolta, inoltre, le operazioni finanziarie infruttifere potrebbero richiedere una analisi congiunta con altre transazioni intragruppo strettamente correlate, al fine di valutare la congruità con principi di mercato. Ad esempio la Ctp Cremona 77/2013 ha ritenuto corretto il mancato addebito di interessi attivi su anticipazioni finanziarie da parte della contribuente italiana alle consociate slovacche, in quanto giustificato dai bassi prezzi di acquisto di beni che le società estere potevano applicarle in assenza di oneri di finanziamento.
La “riqualifica” da parte dell’amministrazione delle operazioni finanziarie può riguardare anche la loro natura e caratteristiche. Non di rado, infatti, accade che operazioni attive a breve (cash pool, depositi, e così via) vengano riqualificate in operazioni a lungo (e viceversa per le operazioni passive), in quanto protratte nel tempo, con applicazione di maggiori tassi (spesso desunti dalle statistiche di istituzioni come Banca d’Italia e Bce). Ad esempio la Ctp Milano 9599/24/2016 ha confermato una contestazione dell’ufficio che aveva riqualificato un deposito infragruppo effettuato da una società italiana con la consociata belga in finanziamento.
In tutti questi casi sarà utile dimostrare che le caratteristiche delle operazioni rispondono alle reali esigenze delle parti e che vi è stato un utilizzo delle risorse conforme a quanto previsto contrattualmente. Senza contare che il quadro di riferimento diventerà ancora più incerto con l’applicazione dei nuovi principi contabili e del costo ammortizzato.

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Il Fisco insegue le carte di soggiorno

11 Maggio 2017

Il Sole 24 Ore 12 Aprile 2017 di Alessandro Galimberti

Voluntary disclosure. Le novità dell’amministrazione sulla campagna di emersione dai paradisi fiscali

In vista richieste di gruppo per Svizzera, Montecarlo e altri Paesi
Non saranno solo gli iscritti all’Aire dal 2010 – come previsto dalla nuova legge sulla voluntary disclosure – a finire nelle richieste “di gruppo “ dell’assistenza fiscale internazionale.
L’agenzia delle Entrate sta infatti preparando anche le rogatorie per i contribuenti che negli ultimi anni hanno ottenuto, per esempio, il permesso di tipo “B” in Svizzera, la Carte de soujour a Montecarlo e titoli equivalenti in altri Paesi rifugio, compresi i vicini – e comunitari – Austria e Slovenia, senza però dichiararlo all’anagrafe italiana.
Il retroscena della caccia ai contribuenti ancora in fuga, e che si ritengono in salvo per non essersi autodichiarati all’anagrafe residenti all’estero, è emerso dall’intervento del capo team dell’Ucifi, Vincenzo Averna, durante il convegno organizzato all’ambasciata svizzera sul tema della nuova campagna di emersione che ancora stenta a decollare. Svizzera che, come noto, ha dato un grande contributo alla riuscita della prima voluntary disclosure (il 70% della discovery è arrivato dalla piazza di Lugano e dintorni grazie alla piena collaborazione del sistema bancario) e che ora non si tirerà indietro nell’agevolare le ricerche dell’agenzia sui ritardatari cronici e, soprattutto, su chi è domiciliato nella Confederazione all’insaputa o quasi del fisco italiano.
Il nuovo corso dei rapporti tra Roma e Berna, superata ormai di slancio la cronica diffidenza, traspare anche dall’intervento della direttrice del dipartimento economia e finanze del Mef, Fabrizia Lapecorella, che davanti alla platea di avvocati, commercialisti e dirigenti bancari, ha aperto al proseguimento della road map firmata a Milano all’epoca del protocollo inserito a margine della legge 186/14 (Vd 1, il 23 febbraio 2015).
Lapecorella ha detto che l’Italia è pronta ad affrontare i passaggi successivi dell’intesa di Milano, aprendo in sostanza, senza citarli, ai temi ancora “sensibili”. Se la Svizzera chiede l’aggiornamento della Convenzione sulle doppie imposizioni, datata 1976 e che oggi penalizza non poco le ritenute degli investitori italiani, per Roma c’ è la questione delle liste dei “rifugiati fiscali” su almeno due fronti: quello dei domiciliati occulti ma anche il fronte di chi negli ultimi anni ha chiuso o svuotato i conti e gli investimenti per volare altrove (tutte categorie che diventeranno oggetto di richieste di gruppo sull’asse Roma-Berna).
L’approccio internazionalista della confederazione elvetica è stato ribadito dall’ambasciatore Giancarlo Kessler: «La Svizzera intende continuare ad disporre di una piazza finanziaria ed economica stabile, competitiva, integra e rispettata a livello internazionale» e, sempre sul versante Oltralpe, l’avvocato ed ex procuratore pubblico Paolo Bernasconi ha sottolineato che l’amministrazione fiscale sta trattando 67 mila richieste di assistenza, in attesa di quelle italiane, con un trend che non sembra conoscere pause.
Unanime infine la lettura dei professionisti invitati alla tavola rotonda sulla stretta della rete fiscale internazionale: Luigi Belluzzo ha presentato le liste dei Paesi collaborativi, ormai sopra i 100 nel mondo, Markus Wiget ha sottolineato la pervasività del nuovo reato di autoriciclaggio, mentre Valerio Vallefuoco ha anticipato che le nuove regole dell’antiricilclaggio spostano sul professionista – rischi inclusi – tutta l’attività di tracciamento e di segnalazione del cliente.

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Capitali all’estero, il Fisco all’attacco

4 Aprile 2017

Il Sole 24 Ore 4 Marzo 2017 di Giovanni Parente
Dagli acquisti alle utenze: tutti i dati utilizzabili per smascherare le false residenze oltreconfine
ROMA
Nell’articolato mosaico della lotta all’evasione alla fine tutto si lega. Così a scorrere il provvedimento con cui l’agenzia delle Entrate ha stilato l’elenco di tutti i fattori di rischio per arrivare a mettere sotto controllo chi fa finta di vivere all’estero ma, in realtà, se ne resta in Italia sfruttando solo la tassazione più vantaggiosa oltreconfine, si intravede come un assist arrivi anche dallo spesometro. Per la partenza della campagna di controlli sulle finte residenze all’estero l’amministrazione finanziaria ha annoverato come indicatore anche le operazioni rilevanti sotto il versante Iva. Detto in altre parole tutte fatture emesse o ricevute, quelle che vengono comunicate appunto con lo spesometro. Una comunicazione che da quest’anno subisce un restyling notevole visto che, almeno stando alle leggi ora in vigore (e appena ritoccate dalla conversione del decreto Milleproroghe), sarà più frequente visto che diventa semestrale con la prospettiva di diventare trimestrale, sempre che non intervengano modifiche. E il restyling è stato previsto proprio nel decreto fiscale che, oltre a riaprire la voluntary disclosure, ha previsto a carico dei Comuni l’obbligo di comunicare alle Entrate i dati di chi ha richiesto l’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) a partire dal 1° gennaio 2010.
In pratica, un flusso informativo (per i quali il provvedimento diffuso ieri fissa la fase operativa transitoria in attesa del completamento all’Anagrafe nazionale della popolazione residente) che sarà la base di una piramide rovesciata con cui arrivare a stanare i finti emigrati. Una base da cui si procederà con successive scremature con un applicativo informatico su misura chiamato Sonore. Prima di tutto attraverso una serie di “spie” ricavate dai dati già presenti in Anagrafe tributaria: movimenti di capitale da e verso l’estero trasmessi da banche e intermediari finanziari, atti del registro, utenze domestiche (elettricità, acqua, gas e telefono) attive in Italia, cariche sociali, versamenti di contributi per colf e badanti. A questi si aggiungono indicatori un po’ più a carattere fiscale, come le informazioni trasmesse da datori di lavoro o enti previdenziali sui redditi percepiti e quelli sulle operazioni Iva effettuate. Due tracce evidenti che i contribuenti, in realtà, sono pienamente operativi nel nostro Paese. E qui si arriva a una seconda fase della “scrematura” perché la messa a punto delle liste selettive dei soggetti da controllare prevede il ricorso ad altri strumenti informativi: interni ed esterni.
Quelli interni riguardano l’archiviazione della mole di dati acquisiti attraverso la prima voluntary disclosure. La circolare sui controlli dello scorso anno (la 16/E/2015) aveva, infatti, messo nero su bianco come la gestione delle pratiche di adesione doveva diventare un’occasione per costituire un database da utilizzare in futuri controlli attraverso l’analisi e la rilevazione statistica delle «condotte evasive più diffuse (soprattutto quelle che prevedono l’allocazione all’estero di risorse e investimenti) e di profilazione di fenomeni ad alta pericolosità fiscale». Ecco che quindi non esser presente in quell’archivio perché non è stata sfruttata l’opportunità di regolarizzare i capitali detenuti illecitamente all’estero può trasformarsi in un alert per l’agenzia delle Entrate.
Quelli esterni sono, invece, le informazioni provenienti dalle amministrazioni finanziarie straniere sulla base delle direttive europee (e anche nel Ddl di delegazione europea esaminato ieri in Consiglio dei ministri si fa un ulteriore passo avanti in questa direzione) o degli accordi internazionali. Ormai anche a livello extraUe il cerchio si sta sempre più chiudendo, perché sono 57 i Paesi che si sono già impegnati a scambiare informazioni secondo gli standard definiti globalmente e si arriverà a 100 dal 2018. Senza dimenticare poi l’accordo Fatca con gli Stati Uniti relativo ai dati finanziari.
In questo modo, se non sarà proprio sicuro, sarà molto probabile che chi non ha fatto la voluntary «1.0» e risiede formalmente in uno Stato black list finirà nella lista selettiva. Un deterrente in più per prendere al volo il secondo treno (attualmente in corso) del rientro dei capitali.

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Una tassa a forfait per attirare i «paperoni» dall’estero

4 Aprile 2017

Il Sole 24 Ore 9 Marzo 2017 di Giovanni Parente

IMPOSTA FISSA DA 100MILA EURO PER RISIEDERE IN ITALIA

«welcome to Italy». Il Fisco non darà più solo la caccia a chi sposta fittiziamente la residenza all’estero ma si prepara ad accogliere i «paperoni» (quelli che in gergo tecnico si chiamano contribuenti con alto patrimonio). Per questi soggetti, diventa operativa con una serie di semplificazioni la chance prevista dalla legge di bilancio di spostare la residenza nel nostro Paese e di vedersi tassare i redditi prodotti all’estero con un’imposta sostitutiva fissa di 100mila euro. L’obiettivo è di attrarre capitali stranieri.
Magari sfruttando l’effetto Brexit. Non a caso l’idea su cui è stato costruito il regime è quella del ResNotDom anglosassone.
A leggere i commenti sul web e sui social la misura non è immune da critiche. La più diffusa è che così si favoriscono ulteriormente i più ricchi. Certo, per chi ha ingenti disponibilità un’imposta a forfait (più corretto eticchettarla in questo modo che come flat tax) da 100mila euro (diventano 25mila per ogni familiare trasferito) soprattutto sui redditi da patrimonio o da rendite finanziarie è un importo ultrascontato. Ma c’è un rovescio della medaglia: si tratta di un gettito per il nostro Erario (che allo stato attuale non c’è), poi chi viene in Italia lo fa trasferendo capitali e investimenti. Soprattutto si potrebbe attivare una leva moltiplicatrice: nuovi consumi, nuove opportunità di lavoro. E tutti i redditi prodotti nel nostro Paese sarebbero tassati in modo ordinario.
Verificheremo l’appeal, intanto risultano già manifestazioni di interesse da alcune migliaia di soggetti. Di sicuro, però, anche i contribuenti italiani apprezzerebbero ulteriori sforzi – oltre a quelli fatti finora – per ridurre il prelievo e offrire un quadro fiscale più certo.

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Niente imposte se la Srl diventa un trust

4 Aprile 2017

Il Sole 24 Ore 29 Marzo 2017 di Angelo Busani e Elisabetta Smaniotto

Ctp Roma. Nel caso di trasformazione non scatta la tassazione per donazione perché non c’è arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità

No all’imposta di donazione nel caso di trasformazione di una Srl in un trust: è quanto deciso dalla Ctp di Roma nella sentenza n. 1836 del 26 gennaio 2017. La giurisprudenza prende in esame la tassazione dell’inusuale atto di trasformazione di società in un trust: il Fisco aveva preteso il pagamento dell’imposta di donazione, in quanto imposta ritenuta applicabile al vincolo di destinazione che origina quando si istituisce un trust, mentre la Ctp ha dunque deciso che la trasformazione di una Srl in un trust «integra una trasformazione eterogenea, in cui la modifica soggettiva della titolarità dei beni e dei rapporti giuridici non determina l’arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità che costituisce il fondamento dell’imposta di successione e donazione, ma solo una regressione del soggetto giuridico proprietario dei beni (il “beneficiario”), senza che vi sia un trasferimento a terzi».
Dopo aver svolto questa considerazione, la Ctp poi richiama la Cassazione n. 21614/2016 (si veda Il Sole 24 Ore del 27 ottobre 2016) nella quale è stato affermato (invertendosi la precedente giurisprudenza di legittimità, sentenze n. 4482/2016, 3735/2015, 3737/2015, 3886/2015 e 5322/2015) che l’incremento patrimoniale si verifica quando il trustee devolve il patrimonio del trust ai beneficiari e non quando determinati beni vengono vincolati in trust, con la conseguenza che l’atto di istituzione del trust dovrebbe essere tassato con le sole imposte in misura fissa (di registro e, se oggetto di vincolo siano beni immobili, ipotecaria e catastale) e non con l’imposizione proporzionale cui si dovrebbe invece dar corso se si ritenesse applicabile l’imposta di donazione.
La sentenza è dunque assai interessante, almeno sotto due rilevanti aspetti. Da un lato, perché dà per scontata la percorribilità della trasformazione di una società commerciale in un trust, materia parecchio complicata sia per il fatto che l’unico precedente giurisprudenziale conosciuto in materia (Tribunale di Sassari, 13 luglio 2010) si è espresso negativamente, sia per il fatto che è ben controversa l’estensibilità analogica della disciplina della trasformazione cosiddetta “eterogenea” di cui all’articolo 2500-septies del Codice civile a casi che detta norma non prevede: infatti, le ipotesi testuali in cui la trasformazione eterogenea è ammessa sono solo quelle in cui la società di capitali si trasforma in consorzi, società consortili, società cooperative, comunioni di azienda, associazioni non riconosciute e fondazioni.
D’altro lato, perché la trasformazione di una società in trust richiede una riflessione in ordine ai due “stadi” che tale operazione percorre: prima, infatti, c’è la trasformazione societaria, che è bensì un’operazione normalmente da qualificarsi in termini di neutralità (e, quindi, non suscettibile di imposizione indiretta in misura proporzionale) ma che potrebbe sollecitare considerazioni in termini di tassazione proporzionale se il carattere “eterogeneo” della trasformazione fosse talmente “spinto” da far considerare l’operazione in termini di devoluzione del patrimonio della società trasformata.
All’episodio “trasformazione” si accoda poi il vincolo che si origina sul patrimonio già appartenente alla società trasformata: vincolo che è dunque da tassare con l’imposta fissa se si segue la predetta ultima sentenza di Cassazione (la n. 21614/2016) e la prevalente giurisprudenza di merito, ma che è invece da tassare con l’imposta di donazione se si segue la prevalente giurisprudenza di legittimità e la giurisprudenza di merito minoritaria.

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