Corte di San Marino: lecito violare il segreto
17 Gennaio 2017
Il Sole 24 Ore 7 Dicembre 2016 di Alessandro Galimberti.
Evasione internazionale. I giudici respingono la domanda di risarcimento di un investitore italiano «costretto» allo scudo 2009
Violare il segreto bancario per collaborare con l’autorità giudiziaria straniera non è un illecito né sotto il profilo della privacy e neppure sotto l’aspetto del danno patrimoniale provocato al cliente, “costretto” ad aderire alla sanatoria fiscale.
Lo ha deciso – e in parte è questa la notizia – la Corte per il Trust e i rapporti fiduciari della Serenissima Repubblica di San Marino – causa 2/2014 – dando pienamente torto a un investitore italiano che aveva citato davanti alla corte specializzata del Titano (presidente Maurizio Lupoi, giudice Antonio Gambaro) una fiduciaria e la banca italiana utilizzate per l’operazione. Operazione iniziata nel 2005 con il conferimento di “doppio mandato” (alla fiduciaria sanmarinese e a una fiduciaria italiana: scopo, bloccare l’identificazione del titolare effettivo dello spostamento di denaro tra i due Paesi) per il rimpatrio di 2,5 milioni di euro sul conto di una Cassa di risparmio emiliana, operazione conclusa, tra l’altro, con l’applicazione di una commissione del 20 per cento.
Tre anni dopo, il (mancato) contribuente italiano dedice di ritornare sotto la giurisdizione (e le banche) del Titano, proprio alla vigilia di un’indagine della magistratura italiana a carico delle fiduciarie del doppio mandato, Amphora in Italia, Smi a San Marino. A quel punto, e viste anche le notizie di stampa. il cliente decide di aderire in patria allo Scudo fiscale del 2009, proprio mentre l’autorità giudiziaria sanmarinese accoglie la richiesta di rogatoria della Procura della Repubblica di Roma – che indagava all’epoca per le ipotesi di riciclaggio, esercizio abusivo di servizi di investimento e appropriazione indebita. Tra i nomi trasmessi in Italia provenienti dalla banca dati della Sim sanmarinese, si scoprirà, figurava anche quello dell’investitore che poi la citò, proprio per questo, a giudizio.
Secondo la Corte dei Trust, però, l’investitore non ha alcun diritto di contestare la condotta della Smi sotto il profilo della tutela della riservatezza: non solo perché la fiduciaria era tenuta a collaborare con le autorità italiane (e prima ancora con la giustizia della Serenissima Repubblica), in secondo luogo perché i rischi sulla privacy riguardavano «solo coloro che avessero intrattenuto con Smi rapporti da non rendere noti al di là delle ordinarie esigenze di riservatezza, per esempio per aver tenuto all’estero disponibilità finanziarie non dichiarate». Men che meno, scrive infine la Corte dei Trust, si può contestare alla Smi una mancanza di diligenza per non aver eccepito un vizio procedurale della rogatoria che non poteva conoscere, e che anche se avesse conosciuto non può certo essere individuato come “causa” dello Scudo del cliente.