Italia, la Farnesina suggerisce di investire sul Monte Titano

9 April 2019

San Marino Fixing 27 Marzo 2019 di Alessandro Carli

Non sarà la panacea di tutti i mali – la classifica del “Doing Business” 2019 (che vede la Repubblica all’88esimo posto su 190 Paesi; un dato su tutti: San Marino è peggiorato nell’avvio di un’impresa, 113esima piazza su 190. Giusto per capire qualcosa in più e farsi un’idea, l’Italia occupa la 67esima posizione, ndr) e le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale sono scritte sulla roccia – ma è comunque una raggio di luce che deve far ben sperare.

Infomercatiesteri, la sezione della Farnesina, ha confermato anche per il 2019 l’outlook positivo della Repubblica di San Marino. La pagina dedicata al Monte Titano, aggiornata a dicembre 2018, rimarca che “non si evidenziano rischi operativi, economici e politici” ma anche che non sono presenti “punti di debolezza”.

Uno strumento importante, quello del Ministero degli Affari Esteri italiano, che “grazie al costante lavoro di analisi delle Ambasciate e dei Consolati, con la collaborazione delle Unità dell’Agenzia ICE in essi integrate, e ai contributi dell’ENIT e delle Camere di Commercio italiane all’estero, mette a disposizione del sistema produttivo uno strumento ricco di informazioni utili per le scelte di internazionalizzazione”.

Prima di entrare nelle singole voci, l’overview dei rapporti che San Marino ha con l’Italia: nell’ultima riunione del Consiglio Ecofin di marzo 2019 la Commissione Europea, dopo un lavoro durato circa un anno in cui sono stati messi a sistema la trasparenza fiscale, la buona governance e l’attività economica reale, ha aggiornato la pubblicazione del 2017 e ha “portato” la Repubblica di San Marino nella “white list”. Un “traguardo” per il quale le Segreterie di Stato per gli Affari Esteri e per le Finanze hanno espresso profonda soddisfazione: un “riconoscimento intervenuto a livello internazionale per la regolamentazione dettagliata di una materia che va nell’ottica della promozione di uno sviluppo economico ispirato a criteri sempre più solidi, trasparenti e affidabili”.

PERCHÉ SAN MARINO: I PUNTI DI FORZA

San Marino – si legge nel portale della Farnesina – può vantare una elevata qualità dei servizi e una snellezza amministrativa, in particolare per quanto riguarda i tempi necessari al rilascio delle licenze imprenditoriali. La “Corporate tax” è del 17% e possono essere applicate detassazioni degli utili in caso di reinvestimenti in innovazione tecnologica, risparmi energetici, riduzioni di agenti inquinanti, miglioramento dei processi produttivi esistenti o introduzione di nuove produzioni. Sostegno è accordato anche alle attività di ricerca e sviluppo.

La Repubblica inoltre è apprezzata dall’Italia per la “posizione geografica”, il “contesto ambientale” e gli “accordi doganali”. Alla voce “opportunità”, Infomercatiesteri offre un elenco che spazia da “cosa vendere” a “dove investire”.

Nel primo caso si trovano “articoli di abbigliamento (anche in pelle e in pelliccia)” e “prodotti delle altre industrie manifatturiere”.

Per quanto riguarda il “dove investire” invece, l’elenco comprende il “commercio all’ingrosso e al dettaglio”, “riparazione di autoveicoli e motocicli”, “altre attività dei servizi”, “flussi turistici”, “prodotti delle altre industrie manifatturiere” e “altre attività dei servizi.”

Dopo aver evidenziato che la Repubblica realizza prodotti di fascia medio-alta (abbigliamento, autoveicoli, vacanze, oreficeria, arredamento, elettronica, eccetera)” e che “turisti, circa due milioni all’anno, si rivolgono anche a prodotti di largo consumo”, la fotografia si sofferma sulla manifattura. Il sito spiega che “il tessuto imprenditoriale sammarinese si sviluppa in un ampio raggio di settori, che includono la meccanica, le costruzioni, mobili, ceramiche, packaging, software aziendali, commercio, servizi, alberghiero e ristorazione”.

Infomercatiesteri ricorda poi agli investitori che è “in corso di realizzazione a San Marino un progetto di Borletti Group – DEA per la creazione di un Polo del Lusso”.

IL PARTNER DI RIFERIMENTO È SEMPRE L’ITALIA

Sul Piano della Bilancia Commerciale, l’Italia è il primo partner della Repubblica. Secondo i dati dell’Ufficio di Statistica sammarinese per il 2017 (quindi non aggiornatissimi ma comunque utili per farsi un’idea, ndr) le esportazioni italiane sono ammontate a 1,298 miliardi di Euro, pari al 78,4% del totale; mentre le importazioni italiane da San Marino sono ammontate a 1,528 miliardi di euro, pari all’88,2% del totale. Gli altri partner commerciali sono la Cina, i Paesi Bassi, la Germania e la Francia.

IL PESO DEI LAVORATORI FRONTALIERI

Particolare rilievo riveste la presenza dei numerosi lavoratori italiani frontalieri (a ottobre 2018 erano 5.934, pari a circa il 26% della forza lavoro complessiva) occupati principalmente come impiegati o operai specializzati e qualificati in tutti i settori produttivi e provenienti soprattutto dalle province limitrofe di Rimini e Pesaro-Urbino

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REGOLAMENTO 14 marzo 2019 nr 5 – Regolamento attuativo degli articoli 42 e 43 della Legge 7 Agosto 2017 nr 94 in materia di segnalazione certificata di inizio attività

9 April 2019

SCIA: dal 27 marzo sarà in vigore il Regolamento attuativo degli articoli 42 e 43 della Legge 7 Agosto 2017 N. 94 in materia di segnalazione certificata di inizio attività. SanMarinofixing 27 Marzo 2019 di Alessandro Carli

In pratica la SCIA consente al professionista incaricato dall’imprenditore, sia esso legale o commercialista, di certificare il possesso dei requisiti previsti per legge e di ottenere l’immediato rilascio della autorizzazione ad operare, rimandando ad un secondo momento i controlli da parte dei competenti uffici della Pubblica Amministrazione.

Il nuovo strumento quindi non solo estenderà la pratica dell’autocertificazione e consentirà di accelerare notevolmente i tempi delle pratiche burocratiche, ma introdurrà anche una diversa relazione, prevedendo la possibilità che, nel caso di eventuali difformità, gli uffici pubblici possano aiutare l’imprenditore suggerendo i necessari correttivi da adottare, evitando quindi drastici provvedimenti.

Il Regolamento (che, ha assicurato il Segretario di Stato all’Industria, Andrea Zafferani, “in prospettiva verrà adeguatamente ampliato, estendendolo anche ad altri settori di applicazione”) individua gli atti di autorizzazione, licenza e concessione previsti dal vigente ordinamento che, possono essere sostituiti da segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) e “può essere integrato e modificato con riferimento a ulteriori atti di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta nonché a domande per le iscrizioni in albi, elenchi o registri richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale sostituibili con SCIA”.

FACOLTATIVITÀ DELLA PRESENTAZIONE DI SCIA

I soggetti che hanno la licenza per l’esercizio di attività industriale, di servizio, artigianale e commerciale nel territorio hanno facoltà di optare fra la presentazione di SCIA con le forme e gli effetti giuridici (di cui all’articolo 42 della Legge n.94/2017) oppure l’ordinario procedimento con la conseguente adozione di provvedimento espresso da parte dell’Amministrazione precedentemente all’avvio dell’attività.

SCIA NEL SETTORE DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE

La licenza per l’esercizio di attività industriale, di servizio, artigianale e commerciale nel territorio della Repubblica di San Marino di cui alla normativa vigente, può essere sostituita da SCIA. Sono, parimenti, sostituibili da SCIA gli atti aventi ad oggetto modifiche riguardanti dati contenuti o che sarebbero contenuti nella licenza. La Carta dei Servizi – prevista dall’articolo 36 della Legge 31 marzo 2014 n. 40 – definisce i contenuti della SCIA che potrà essere corredata da ulteriori SCIA previste dal Regolamento nonché da dichiarazioni sostitutive (di cui agli articoli 12 e 13 della Legge n. 159/2011), in linea con quanto stabilito dall’articolo 42, comma 2 della Legge n. 94/2017.

I provvedimenti relativi al divieto di prosecuzione dell’attività e alla rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa nonché quelli relativi alla conformazione dell’attività oggetto di SCIA alla normativa vigente ed alla sospensione dell’attività (previsti dall’articolo 42, commi 5 e 6, della Legge n. 94/2017) sono assunti dall’Unità Organizzativa (UO) Ufficio Attività Economiche.

Nel settore dell’edilizia possono essere sostituiti da SCIA la concessione e l’autorizzazione edilizia (di cui agli articoli 52 e 54 della Legge 14 dicembre 2017 n.140); b) l’autorizzazione (di cui all’articolo 108 della Legge 19 luglio 1995 n. 87); il certificato di conformità ed agibilità e il certificato di rispondenza edilizia (di cui all’articolo 71 della Legge n. 140/2017, limitatamente alle opere soggette ad autorizzazione edilizia di cui all’articolo 54 della medesima Legge)

La SCIA non può essere presentata con riferimento a interventi edilizi ricadenti nelle zone urbanistiche come le “Zone a verde Esistente”, le “Zone da attrezzare a verde pubblico”, le “Zone a Parco”, “Zone A: Zone omogenee di carattere storico ambientale”, le Zone E: Aree Agricole”.

La SCIA non può essere presentata con riferimento a interventi edilizi riferiti a manufatti rientranti nell’ambito di applicazione della Legge 28 ottobre 2005 n.147.

Possono essere sostituiti da SCIA l’autorizzazione strutturale relativa alle opere (di cui all’articolo 10 della Legge 25 gennaio 2011 n.5) soggette a concessione ed autorizzazione edilizia (di cui agli articoli 52 e 54 della Legge n. 140/2017) nonché quelle rientranti nei casi di cui all’articolo 55 della medesima Legge n.140/2017.

La SCIA – chiarisce il Regolamento – non può essere presentata con riferimento ad interventi edilizi effettuati su edifici di particolare interesse storico, ambientale e culturale ricadenti in “Zone A: zone omogenee di carattere storico ambientale” e su manufatti con valore monumentale.

Regolamento 14 marzo 2019 nr 5

 

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Decreto Delegato 28 Marzo 2019 nr 54 – Ratifica D.D. 28 febbraio 2019 nr 40 – Modifica dell’art.39 della Legge 24 dicembre 2018 nr 173 – Differimento dei termini per la semplificazione delle procedure di certificazione dei ricavi nei confronti di soggetti privati

9 April 2019

Si allega testo completo del Decreto  Delegato 28 marzo 2019 nr 54 che posticipa al 1° gennaio 2020  la semplificazione delle procedure di certificazione dei ricavi nei confronti di soggetti privati

Decreto Delegato 28 marzo 2019 nr 54

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Non si recuperano le ritenute su redditi esteri dei forfettari

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 16 MARZO 2019 di Alessandra Caputo e Gian Paolo Tosoni

RISOLUZIONE ENTRATE

Secondo l’Agenzia non concorrono a formare l’imponibile complessivo

Le ritenute subìte su redditi prodotti all’estero da un contribuente che applica il regime forfettario non possono essere recuperate come credito per imposte pagate all’estero in quanto il relativo reddito non concorre alla formazione del reddito complessivo. Lo ha precisato la risoluzione 36E/2019 dall’agenzia delle Entrate.
La questione era stata posta da un avvocato il quale, con istanza di interpello, chiedeva come poter procedere al recupero della ritenuta a titolo di acconto subita da una società con sede in San Marino. Il principio vale però per tutti i redditi esteri. In particolare, il professionista sottolineava l’impossibilità di portare in detrazione la ritenuta in dichiarazione dei redditi stante la sua adesione al regime forfettario.
La risposta dell’Agenzia esclude però la possibilità di recuperare la predetta ritenuta. Infatti, il regime forfettario di cui alla legge 190/2014 prevede la determinazione del reddito imponibile applicando un coefficiente di redditività, differenziato in base al tipo di attività svolta, all’ammontare dei ricavi/compensi conseguiti; il reddito così determinato è poi assoggettato a un’imposta sostitutiva del 15%, ridotta al 5% per i primi 5 anni per le nuove attività. Ai sensi dell’articolo 3, comma 3, lettera a) del Tuir i redditi assoggettati a imposta sostitutiva non concorrono alla formazione della base imponibile Irpef. I ricavi e i compensi relativi al reddito oggetto del regime forfettario non sono assoggettati a ritenuta d’acconto da parte del sostituto d’imposta in Italia.
Nel caso descritto, il reddito era stato assoggetto a ritenuta in applicazione dell’articolo 14 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulato tra la Repubblica di San Marino e l’Italia il quale prevede una tassazione concorrente tra i due paesi. A parere dell’Agenzia, trattandosi di un reddito che non concorre alla formazione di quello complessivo, non può fruire del credito per le imposte assolte all’estero di cui all’articolo 165 del Tuir. Tale articolo prevede, infatti, la detrazione delle imposte pagate all’estero in base al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo a condizione che il relativo reddito concorra a formare quello complessivo; circostanza che, nel caso del reddito forfetario, non accade.
In sostanza, l’esclusione dalla formazione del reddito complessivo di quello ottenuto dai soggetti forfettari comporta l’esclusione dall’ambito di applicazione della disciplina del credito per le imposte pagate all’estero. Così facendo però, lo stesso reddito risulta oggetto di doppia tassazione: la prima mediante l’applicazione della ritenuta estera non più recuperabile e la seconda mediante applicazione dell’imposta sostitutiva propria del regime forfettario.

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Nel mirino della Gdf le banche di San Marino

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 22 MARZO 2019 di Alessandro Galimberti

DOPO LA VOLUNTARY

Attese le notifiche I questionari inviati a 250 banche nel mondo

Svizzera, Principato di Monaco, Bahamas, Singapore, Lussemburgo, San Marino, Liechtenstein ,Austria, Antigua e Barbuda, Panama , Dubai, Isole Vergini Britanniche, Hong Kong. Sono oltre 250 le banche sparse in tre continenti e raggiunte – a partire dalla fine di gennaio scorso – dai questionari della Guardia di finanza e dell’agenzia delle Entrate. L’elenco dei Paesi e degli istituti finanziari individuati dal fisco – sulla base del Dpr 600/1973, articolo 32 «Poteri degli uffici in materia di accertamento delle imposte sui redditi» – è frutto della rielaborazione dei dati della prima voluntary disclosure (2015) da cui sono emersi i rapporti finanziari ora al centro dell’attenzione erariale. Partita dalla Svizzera e dal Principato monegasco (si veda «Il Sole 24 Ore» del 14 febbraio scorso), la campagna contro gli ex paradisi si è poi allargata a San Marino – dove sono attese le prime notifiche – e si accinge a sfondare dall’Atlantico al Far East, con pieno ecumenismo impositivo.
L’obiettivo dell’amministrazione è collegato alla risoluzione 89/E/2018 , con la quale l’Agenzia aveva stabilito che la «fonte italiana di produzione del reddito determina l’imponibilità del provento in capo al soggetto non residente. In linea generale, tutti i redditi di capitale percepiti da soggetti non residenti, compresi quelli realizzati nell’esercizio di attività commerciale senza stabile organizzazione in Italia, sono assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta». Tradotto, significa sostanzialmente che le banche sono tenute a trattenere alla fonte l’imposta per l’attività svolta su redditi che hanno «una fonte italiana di produzione», cioè di fatto un’origine tricolore. Nel mirino ci sono le commissioni (per esempio su mutui e gestione patrimoniale) trattenute a clienti “fiscalmente” italiani (che a giudizio dell’Agenzia generano perciò una tassazione “italiana”) e – soprattutto – le modalità di gestione della clientela italiana e quelle di utilizzo dei dipendenti sul mercato italiano. Evidente in questo senso le finalità dell’operazione – non a caso resa pubblica per la prima volta nel novembre scorso dal procuratore milanese Francesco Greco – che punta a dimostrare la «stabile organizzazione» societaria lungo la Penisola, soprattutto in Lombardia, per individuare nuovi importanti e stabili “contribuenti”. In questo senso è da leggere anche l’invito alle 250 banche estere ad inviare i bilanci di esercizio o documenti equivalenti ed esplicativi degli anni 2013/2017.
Vale la pena di sottolineare che la campagna di fiscalizzazione delle banche degli ex paradisi si fonda sull’analisi degli oltre 130mila conti “consegnati” spontaneamente e dettagliatamente da chi ha aderito alla prima voluntary disclosure.
Non irrilevante, sotto questo profilo, la circostanza che meno di un quarto dei 60 miliardi di euro ufficialmente emersi (70% dalla Svizzera, 7,7% da Monaco, 3,6% da Bahamas, 2,2% da Singapore, 2,1% da Lussemburgo, 1,9% dal Liechtenstein) è effettivamente rientrato in Italia, il resto è rimasto dov’era e generalmente sbloccato per operazioni immobiliari e finanziarie, sulle quali scatta l’imponibilità fiscale italiana, almeno ad opinione dell’Agenzia.
L’impegnativa partita internazionale è tutt’altro che chiusa. Dall’estero le prime reazioni sono state soprattutto di nervosismo – la Svizzera registra ovattate fibrillazioni anche per gli importi in ballo; di acque agitate si racconta anche a Monaco – ma ignorare le lettere, come si legge nell’articolo in basso, potrebbe provocare movimenti tellurici anche fuori dal solco fiscale.

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Spese «esose»? Lo studio può dedurle

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 25 MARZO 2019 Orlando Lamonica

PROFESSIONE

Spese «esose»? Lo studio può dedurle

Al di là dell’importo, il Fisco deve dimostrare che il costo è estraneo

L’ufficio non può riprendere a tassazione le spese sostenute da uno studio di professionisti per servizi resi dalla società di servizi solo perché ritenute esose. Il giudizio di inerenza, infatti, attiene al rapporto tra i costi sostenuti e l’attività in concreto esercitata, risolvendosi in un giudizio di carattere meramente qualitativo, che prescinde da valutazioni di tipo utilitaristico, le quali concernono invece un giudizio di natura quantitativa. La relativa prova deve investire i fatti costitutivi del costo. A giungere a queste conclusioni è la sentenza 89/3/2019 della Ctp Modena (presidente e relatore Mottola), depositata lo scorso 13 febbraio.
La vicenda trae origine da alcuni avvisi di accertamento con cui l’ufficio considerava indeducibili (segnatamente incongrui/sovrafatturati) i costi sostenuti da uno studio per la gestione dei servizi amministrativi e informatici forniti da alcune società riconducibili ad alcuni professionisti del medesimo studio. L’ufficio riteneva esose le somme corrisposte che, sempre secondo la ricostruzione dell’Agenzia, eccedevano un valore congruo.
Lo studio si difendeva, sottolineando come tali spese venissero inquadrate dall’ufficio alcune volte esose (e quindi antieconomiche) altre volte sovrafatturate. I due concetti impongono un differente regime probatorio sia in capo a chi esercita la pretesa, sia di difesa da parte del contribuente. Secondo il ricorrente, inoltre, in questo modo l’ufficio avrebbe imposto scelte gestionali alternative a quelle effettuate (ritenute esose) dall’imprenditore, senza però provare l’antieconomicità dei costi sostenuti.
I giudici in accoglimento del ricorso hanno dichiarato illegittimo l’avviso e annullato i rilievi sui costi. La Ctp, conformandosi all’orientamento consolidato della Suprema corte (18904/2018, 3170/2018 e 450/2018), ha innanzitutto premesso che l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rilevatori della mancanza di inerenza, ma non si identificano con essa. I giudici, poi, hanno confermato che il giudizio di inerenza debba avere riguardo al rapporto funzionale tra il titolo di spesa e l’attività realmente esercitata, con la conseguenza che sono indeducibili solo quei costi che rappresentano in modo evidente una spesa estranea alle necessità dell’impresa stessa.

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Se c’è titolo edilizio l’immobile abusivo è commerciabile

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 23 MARZO 2019 di Angelo Busani

CASSAZIONE

Compravendita valida anche se la costruzione presenta difformità

Con sentenza 8230/2019, le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto il contrasto verificatosi nella precedente giurisprudenza di legittimità sugli edifici abusivi e hanno finalmente dettato i principi generali da applicare in questa materia.
In primo luogo, l’edificio abusivo non è commerciabile (e quindi il relativo contratto di compravendita è nullo) solo se non esiste un titolo edilizio che ne abbia assentito la costruzione oppure se nel rogito venga falsamente dichiarato l’avvenuto rilascio di un titolo edilizio invero inesistente; se invece un titolo edilizio esiste e il manufatto è stato realizzato con variazioni (essenziali o non essenziali) l’edificio è commerciabile: per la validità del contratto di compravendita è sufficiente che in esso siano menzionati gli estremi del titolo edilizio che ne ha assentito la costruzione.
La tutela del sistema in generale non deve essere garantita dalla sanzione di nullità dei contratti aventi a oggetto manufatti abusivi, ma è assicurata dalle sanzioni che la normativa urbanistica commina per il caso della realizzazione di abusi edilizi: la demolizione, il ripristino della situazione anteriore all’abuso, le sanzioni pecuniarie. Tutte sanzioni “reali” (le quali si applicano, cioè, a chi si trovi a essere proprietario dell’edificio nel momento in cui l’abuso sia accertato) e irrogabili senza limiti temporali (nel senso, cioè, che il decorso del tempo non provoca alcuna sanatoria delle situazioni abusive).
La tutela dell’acquirente dell’edificio abusivo è assicurata dai rimedi che il Codice civile appresta (la risoluzione del contratto, la riduzione del prezzo, il risarcimento del danno) per chi compra beni i quali presentino vizi o che non abbiano le qualità promesse o essenziali per il loro uso.
La sentenza 8230 viene emanata a Sezioni Unite. Da quando (e cioè dalla legge 47/1985) il tema della regolarità dei fabbricati ha avuto impatto sulla loro commerciabilità, la questione della rilevanza dell’abusivismo edilizio sulla validità dei contratti ha infatti avuto in Cassazione, nel tempo, una valutazione nettamente divergente:
un iniziale orientamento (espresso dalla decisioni 8685/1999, 8147/2000, 5068/2001, 5898/2004, 7534/2004, 27129/2006, 20714/2012 e 16876/2013, 25357/2014) ha dato credito alla tesi della cosiddetta “nullità formale”, e cioè all’idea che la compravendita sia valida solo che il titolo edilizio esista, anche se l’edificio sia stato realizzato con variazioni essenziali;
secondo un più recente orientamento, espresso nelle decisioni 20258/2009, 23591/2013, 28194/2013, 25811/2014 e 18261/2015 (la tesi della cosiddetta “nullità sostanziale”), la compravendita deve considerarsi affetta da nullità non solo se abbia a oggetto un edificio costruito in assenza o in totale difformità da un titolo edilizio, ma anche se il manufatto che ne sia oggetto sia stato realizzato con variazioni essenziali rispetto al titolo edilizio.
Questa corrente di pensiero viene smentita: in presenza di una dichiarazione del venditore circa gli estremi di un titolo edilizio esistente, il contratto «è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato».

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Più tutela a chi acquista case sulla carta: proposta e preliminare solo dal notaio

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 11 MARZO 2019 di Angelo Busani

Il 16 marzo data-spartiacque: si cambia per le edificazioni con permessi richiesti dopo

Stop all’uso dei moduli delle agenzie immobiliari e alle scritture private

Più tutela per chi compra appartementi o interi edifici “sulla carta”, ossia non ancora ultimati: è questo lo scopo degli articoli 389-391 del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (Dlgs 14 del 12 gennaio 2019), che vanno a integrare o modificare la normativa inerente al delicato ambito degli acquisti di fabbricati in costruzione, disciplinato dal Dlgs 122 del 20 giugno 2005, varato dopo il boom dei fallimenti immobiliari degli anni 90.
Queste nuove norme divengono applicabili (articolo 5, comma 1-ter del Dlgs 122/2005) ai contratti aventi a oggetto «immobili da costruire» per i quali il relativo titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019: cioè il 30° giorno successivo a quello di pubblicazione in Gazzetta del Codice delle crisi, che infatti è stata effettuata il 14 febbraio 2019.
Gli immobili da costruire
Innanzitutto va chiarito il concetto di contratti inerenti agli immobili da costruire. Si tratta di quelli aventi a oggetto il trasferimento di edifici (o loro porzioni):
1. per la cui costruzione sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare, oppure;
2. la cui costruzione «non risulti essere stata ultimata versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità».
Nuova forma per i contratti 
Una delle novità più rilevanti introdotte dalla riforma in questa materia è senz’altro la modifica dell’articolo 6, Dlgs 122/2005, il quale ora dispone che il contratto preliminare «ed ogni altro contratto che sia comunque diretto al successivo acquisto in capo ad una persona fisica della proprietà» di un immobile da costruire «devono essere stipulati per atto pubblico o per scrittura privata autenticata».
L’innovazione consiste non solo nel fatto che la legge oggi vigente consente di stipulare questi contratti anche nella forma della scrittura privata non autenticata, ma in più nel fatto che nella legge non vi è un’espressa sanzione per il mancato rispetto di questa prescrizione, quando invece diverse altre norme della legge 122/2005 sanzionano il loro mancato rispetto disponendo la nullità relativa dell’attività giuridica che sia posta in essere in dispregio alle norme (cioè una nullità che solo l’acquirente può far dichiarare e che non è rilevabile d’ufficio dal giudice).
Da questo ragionamento e dall’osservazione che l’imperatività della norma in commento è fuori discussione (il legislatore ricorre al verbo «devono») si può derivare che il mancato rispetto della predetta prescrizione di forma provoca la nullità assoluta dell’attività giuridica che sia posta in essere, in quanto l’articolo 1418, comma 1, del Codice civile, dispone che è nullo il contratto contrario a norme imperative, e gli articoli 1325 n. 4), 1350 n. 13) e 1418 comma 2, del Codice civile, dispongono che sono nulli gli atti stipulati in una forma diversa da quella prescritta dalla legge. Ne consegue che:
1. la nullità in questione è insanabile (articolo 1423 del Codice civile);
2. è imprescrittibile l’azione per far dichiarare in giudizio la nullità (articolo 1422 del Codice civile);
3. la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile d’ufficio dal giudice (articolo 1421 del Codice civile).
Gli atti pubblici
La prescrizione dell’atto pubblico coinvolge inevitabilmente anche la modulistica precontrattuale: se un contratto va stipulato, a pena di invalidità, per atto pubblico, ciò comporta che debbano esser fatte, a pena di nullità insanabile (totale inefficacia e vincolatività) anche la proposta contrattuale e l’accettazione che ne consegua. In sostanza, non sarà più possibile usare la tipica modulistica delle agenzie immobiliari o firmare scritture private tra acquirente e costruttore: queste carte divengono prive di qualsiasi validità ed efficacia. Se si eccettua il caso della donazione (che va stipulata per atto pubblico e, quindi, anche la proposta di donazione e la relativa accettazione vanno fatte con atto pubblico), è la prima volta che, nel nostro ordinamento, si ricorre a una prescrizione di forma così categorica. Per la donazione, il vincolo della forma solenne è dettato per indurre il donante a riflettere bene sull’atto che sta compiendo, perché consiste in una diminuzione secca del suo patrimonio; nel caso degli immobili da costruire, invece, la legge, costringendo all’atto pubblico, i ntende mettere fin da subito il notaio a fianco dell’acquirente, per sorvegliare la legittimità del percorso che occorre compiere per giungere al contratto definitivo.

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Black list, sul raddoppio dei termini sempre meno spazio alla retroattività

9 April 2019

Il Sole 24 Ore – Quotidiano del Fisco – 7 Marzo 2019 di Antonio Longo

La Cassazione dice ancora no all’applicazione, prima del 2009, della presunzione di evasione per le attività finanziarie detenute nei paradisi fiscali e non dichiarate. È quanto stabilito dall’ordinanza 5471 dello scorso 25 febbraio , che consolida l’orientamento già invalso nella giurisprudenza di legittimità (sentenza 2662/2018) su una questione giuridica – ancora – oggetto di numerosi contenziosi pendenti.
I fatti riguardavano l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, per gli anni 2005-2008, di un maggior reddito in capo ad una persona fisica residente in Italia che non aveva dichiarato le attività detenute all’estero. La contestazione era fondata sull’applicazione (retroattiva) della presunzione introdotta dall’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009. La norma prevede che gli investimenti e le attività finanziarie detenuti, negli Stati a fiscalità privilegiata, in violazione dei relativi obblighi di dichiarazione (nel quadro RW della dichiarazione dei redditi) si presumono costituiti, salvo prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tal caso, le sanzioni, i termini di decadenza per le violazioni in materia di monitoraggio fiscale e i termini per l’accertamento dei redditi connessi alle attività estere sono raddoppiati.
Sin dall’entrata in vigore (1 luglio 2009) della citata presunzione è scaturito un contrasto interpretativo circa la sua possibile applicazione retroattiva. Secondo l’amministrazione finanziaria, la norma avrebbe carattere processuale e, come tale, sarebbe applicabile anche in relazione ai periodi antecedenti il 2009. Secondo una diversa interpretazione, accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito, la nuova presunzione inciderebbe sui profili sostanziali del rapporto tributario e, pertanto, sarebbe applicabile solo per il futuro.

L’intervento chiarificatore della Suprema Corte fissa ora alcuni principi condivisibili e, si spera, definitivi:

  1. a) l’articolo 12, comma 2, Dl 78/2009, ha previsto, rispetto alla disciplina previgente, una più favorevole presunzione legale a beneficio del fisco;
  2. b) nell’ordinamento italiano, le norme in tema di presunzioni sono collocate – non a caso – nel Codice civile, tra quelle sostanziali, e non nel codice di rito;
  3. c) sicché anche alla norma in esame non può che attribuirsi natura sostanziale e non processuale.

Il meccanismo presuntivo incide, infatti, sulla ripartizione dell’onere della prova tra contribuente e amministrazione finanziaria perché consente a quest’ultima di ravvisare una maggiore capacità contributiva in capo al soggetto detentore di attività offshore non dichiarate.
Peraltro, una differente interpretazione risulterebbe in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, potendo pregiudicare l’effettività del diritto di difesa, con riferimento, ad esempio, alla scelta del contribuente di non conservare documentazione riguardante periodi ante 2009. Tale scelta, compiuta in maniera legittima prima dell’introduzione della presunzione in esame, limiterebbe irragionevolmente la prova contraria in caso di accertamento “attivato” dopo l’entrata in vigore della norma.

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La condivisione dell’immobile non fa stabile organizzazione

9 April 2019

Il Sole 24 Ore 07 MARZO 2019 di Enrico Holzmiller

GRUPPI INTERNAZIONALI

La condivisione dell’immobile non fa stabile organizzazione

L’esistenza di una sede nello stesso palazzo non può essere l’unico elemento

La casa madre deve dare direttive stringenti alla controllata italiana

Uno degli aspetti più delicati nei gruppi internazionali è il livello di ingerenza della casa madre, o dei soggetti apicali, nell’attività della società figlia straniera. Il tema, infatti, è fonte di accertamenti fiscali che riqualificano, in tutto o in parte, l’attività della società residente, quale stabile organizzazione della “madre” localizzata in altro Stato. A seconda della profondità con cui detta ingerenza viene attuata, le presunzioni di esistenza di una “stabile” possono indurre a ritenere valido l’assunto dell’amministrazione finanziaria, attraendo nuova base imponibile in Italia, altrimenti tassata solo all’estero. Non vi sono più dubbi circa la possibilità che una società italiana possa al contempo fungere da stabile organizzazione di un soggetto straniero: da tempo, la Cassazione ha confermato questo possibile approccio, in quanto «l’autonoma piena soggettività giuridica non interferisce, invero, con l’imputazione, quale massa separata, dei rapporti fiscali riferibili a soggetto non residente, restando i due profili evidentemente autonomi e distinti, seppur in capo alla medesima entità» (Cassazione 16106/2011).
Il concetto è stato esplicitato con il nuovo comma 5 dell’articolo 162 del Tuir che ha introdotto la anti-fragmentation rule, disposizione antielusiva secondo la quale, ai fini di identificare l’esistenza di una “stabile”, bisogna fare riferimento «all’attività complessiva risultante dalla combinazione delle attività svolte dalle due imprese nello stesso luogo, o dalla stessa impresa o da imprese strettamente correlate nei due luoghi». La ratio della disposizione è quella di poter valutare unitariamente attività volutamente frammentate in più luoghi e/o tra più soggetti tra loro vicini.
La ricostruzione che il Fisco può fare deve tenere sempre conto di un limite invalicabile: il carattere preparatorio e ausiliario dell’attività. Laddove l’attività in Italia, effettuata dalla casa madre anche attraverso la società italiana, abbia le suddette caratteristiche, l’amministrazione finanziaria non potrà identificare alcuna stabile organizzazione sul territorio. Tale assunto è evidenziato ai commi 4 e 5 dell’articolo 162. Tuttavia, laddove l’attività non abbia il carattere di “accessorietà”, quando la presenza sul territorio italiano può definire o meno una stabile organizzazione? Quali elementi, quali presunzioni risultano efficaci a tale riguardo?
Su tali aspetti si è espressa la Ctr Lombardia con la sentenza 4915/18, depositata il 14 novembre (presidente e relatore Punzo). La Ctr ha considerato insufficiente, di per sé, l’esistenza in Italia di una sede fissa della società straniera situata nel medesimo immobile nel quale insiste la sede della società italiana “correlata”. Nel caso di specie, infatti, tale indizio era l’unico evidenziato dall’ufficio, mentre sussistevano una serie di presunzioni contrarie, e in particolare:
la Srl italiana non era partecipata dalla società straniera. Al contrario, era quest’ultima a essere posseduta (con quota di minoranza) dalla prima;
non emergevano ingerenze e/o condizionamenti della società straniera.
Interessante è il raffronto con la sentenza 4869/2017, depositata un anno prima, della medesima Ctr Lombardia. Anche in questo caso, la società straniera risultava avere l’uso di locali e strutture in cui operava la società italiana. Tuttavia, tale situazione veniva accompagnata da altri indizi:
esistenza di controllo della società straniera nella società italiana;
direttive stringenti della casa madre sui processi di vendita della controllata italiana;
proprietà della lista clienti utilizzata dalla società italiana in capo alla casa madre straniera; costi, per struttura e dipendenti, interamente gravanti sulla casa madre.
Nel caso di specie, i giudici hanno reputato le presunzioni come sufficientemente forti da poter considerare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia di società straniera.

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