Made in Italy, scontro sui 20mila marchi clonati da imprese cinesi
9 Novembre 2020
Il Sole 24 Ore 3 Novembre 2020 di Michele Romano
IMPRESE SOTTO TIRO DISTRETTO CALZATURIERO
Made in Italy, scontro sui 20mila marchi clonati da imprese cinesi
Tosi: «Gli imprenditori calzaturieri hanno bisogno d’interventi del governo»
La denuncia dei produttori marchigiani di scarpe riguarda molti settori
Alta gamma. Lo show room di un calzaturificio
«La Cina non può essere il nuovo Eldorado. Per lo meno non lo è alle condizioni attuali, perché è un paese che non rispetta il copyright, i loghi, la manifattura italiana». Parlano i calzaturieri del fermano-maceratese, ma i problemi sono identici a quelli denunciati da altri produttori italiani del comparto e comuni anche a diversi settori del made in Italy: la Cina è un mercato dove le Pmi non riescono ad accedere, una sorta di labirinto per gli imprenditori alle prese con quella che è diventata una prassi diffusa: chi entra in quel mercato rischia di affrontare costose azioni legali che cancellano la maggior parte dei marchi tranne quelli cinesi. Dalle testimonianze di molti imprenditori risulta chiarissima la prassi di soggetti cinesi che depositano in malafede nel loro paese registrazioni di marchi (sono oltre 20 mila quelli certificati) e segni distintivi delle aziende italiane per il proprio business. «Per noi – spiega Dino Corvari, titolare del calzaturificio con sede a Montegranaro – è stato impossibile registrare il marchio perché secondo i cinesi assonante con un altro già registrato, ovvero “cor vari” (in due parole, ndr.). Inutile ogni trattativa». La verifica di anteriorità diventa così impossibile.
Il settore calzaturiero italiano fattura oltre 14,2 miliardi di euro e occupa 75 mila addetti (quello marchigiano pesava nel 2019 per circa il 32%) e l’85% della produzione è destinata all’estero, ma solo l’1,2% è diretto in Cina e riguarda principalmente i grandi gruppi della moda e chi produce per loro. Eppure, quella cinese è la più numerosa comunità high-spending a livello globale, numeri che avrebbero la forza di assorbire il crollo che il settore della moda, e in particolare la calzatura, hanno avuto in Russia e nei paesi Csi dopo vent’anni d’oro. «Se togliamo le grandi griffe, la Cina vale oggi per le Marche meno di quanto esportiamo in Austria, che ha solo otto milioni di abitanti», chiarisce Graziano Mazza, ceo di Premiata, fondata cento anni fa dal nonno, a Montegranaro nel Fermano, ed oggi brand mondiale delle sneaker. Ha più di un sassolino nelle sue scarpe e riguarda proprio la Cina: «Noi apriamo la Via della Seta e loro alzano barriere protettive». Lo ha sperimentato in prima persona.
Il marchio Premiata lo ha registrato in Cina per tutte le classi merceologiche, ad esclusione del prodotto scarpe, perché lo aveva già fatto un imprenditore di quel paese, portando una prova di utilizzo di 100 dollari. Una volta scoperta l’anomalia, l’azienda di Montegranaro ha iniziato la sua battaglia legale per difendere la proprietà del marchio. Un’odissea legale iniziata oltre 12 anni fa, costata finora 400 mila euro e segnata solo da verdetti contrari, in attesa dell’ultima sentenza, quella della Suprema Corte di Pechino. «Usurpano il marchio per poi copiare prodotti (scarpe, fondi, modelli e quant’altro, ndr.), immagine, modello di business», dice Mazza. Praticamente tutto, comprese le immagini del quartier generale di Montegranaro. La stima del volume di affari è di circa 300 mila paia scarpe per stagione (un business che vale 30 milioni di dollari) «tutte copiate dalle collezioni originali e poi vendute nei negozi monobrand Premiata, ovviamente abusivi, aperti dal gruppo cinese». Prove evidenti, ma non sufficienti per il sistema legale di quel Paese, che sta addirittura cancellando e invalidando anche i marchi già registrati e certificati dall’ufficio marchi-brevetti cinesi: oggi è tutto nelle mani del copiatore.
Non è un caso isolato. Giorgio Fabiani, titolare del calzaturificio omonimo Fabiani di Fermo, aveva un partner in Cina che acquistava le sue scarpe, per poi smettere per copiare i modelli e il suo marchio: «L’ho scoperto, ho dato mandato a uno studio legale italiano. Tempo e risorse per nulla: ho solo individuato dove si trovava la fabbrica. Ma la legislazione locale tutela solo gli autoctoni». In alcuni casi viene data la possibilità alle aziende italiane di reimpossessarsi del marchio, ma solo tramite transazione commerciale e pagando ingenti somme di denaro. «Esportavamo da tempo in Cina, quando ci hanno fatto notare che il nostro marchio era già stato registrato – racconta Mary Gestroemi, titolare del calzaturificio Mary di Fermo -. Quando abbiamo contattato l’interlocutore voleva rivendercelo per 50 mila euro». L’imprenditore fermano ha però rinunciato a quella che definisce “estorsione legalizzata” e non ha potuto utilizzare per cinque anni il suo marchio: ne è tornato in possesso solo perché in Cina non era stato mai utilizzato.
«Gli imprenditori calzaturieri hanno bisogno di un solerte e deciso intervento del nostro governo – dice Giuseppe Tosi, direttore di Confindustria Centro Adriatico -. Questa è l’unica strada per invertire questa situazione». L’esperienza americana insegna. Per far sì che New Balance, uno dei più grandi produttori al mondo di calzature sportive, si riappropriasse del proprio marchio in Cina, dopo lunghe e dispendiose battaglie legali perse, è intervenuto il governo americano e nel 2018 la situazione si è risolta. «Vogliamo più stato e non sentirci solo quando siamo all’estero», è l’appello finale di Mazza. C’è un’altra grana che rende debole il rapporto commerciale tra Italia e Cina e che vede in prima linea i calzaturieri marchigiani nel sollecitare una soluzione: la reciprocità dei dazi. Le imprese cinesi che possono importare i prodotti devono essere munite della licenza di commercio estero (Foreign Trade Rights), rilasciata dal ministero del Commercio estero (Moftec) per monitorare il flusso di merci in entrata e in uscita dal paese. In questo campo c’è una simbolica reciprocità: l’export italiano e l’import cinese hanno una tassa del 17%. «Ma c’è l’inghippo – spiega Valentino Fenni, presidente dei calzaturieri di Confindustria Centro Adriatico -: le imprese italiane che esportano le proprie calzature in Cina devono transitare attraverso gli importatori cinesi autorizzati con una maggiorazione sul costo effettivo del prodotto che fa lievitare la tassa al 30%: significa appesantire il nostro rapporto commerciale con Pechino, che è già al limite per via del costo della manodopera, della tasse e del prezzo dell’energia, dando un colpo definitivo all’export dell’intera fascia media della nostra produzione».